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domenica, Settembre 8, 2024
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Baxiu e Contra LIVE

RENZO FRANCABANDERA | Baxiu e Contra è il festival che l’associazione Archifonia e Alberto Balìa musicista, concertista, straordinario esperto di trascrizioni della musica per launeddas sulla chitarra, ha voluto e realizzato in questi anni, in una ricerca di dialogo fra musica e poesia, improvvisazione, produzione originale e tradizione. A caratterizzare la settima edizione che si terrà a Santadi, sarà l’incontro tra Sardegna del Sulcis e  Puglia del Salento grazie alla partecipazione delTrio Taras. I salentini Aldo Nichil, Angelo Litti e Umberto Panico incroceranno la loro musica con quella di Alberto Balia il primo dicembre alle 22.30.
L’apertura sarà affidata ai suonatori di launeddas  Bruno Loi e Giovanni Tronci, giovane promessa della musica. entrambi provenienti dalla scuola del Maestro Dionigi Burranca. Il Gazebo della Musica, laboratorio di improvvisazione musicale, animerà la giornata di domenica 2 dicembre, con i musicisti partecipanti alla manifestazione che si alterneranno tra launeddas, tamburi, chitarre, fisarmoniche, canto, organetti  creando un continuum musicale di improvvisazioni.
Abbiamo incontrato Alberto Balìa per un’intervista.
Quali sono le determinanti di un festival centrato sulla tradizione popolare che cerca contatti e collegamenti con altre esperienze del territorio nazionale?
Le motivazioni  profonde di “Baxiu e Contra” nascono dall’esigenza di dare visibilità a un ambito musicale poco conosciuto e sottostimato: quello della musica tradizionale e della sua rivalutazione in chiave contemporanea. Per  “contemporaneo” intendo un modo di interpretare queste musiche che  tenga del proprio vissuto musicale, benchè esse siano nate in un altro contesto, quello della civiltà contadina e preindustriale.Tali esperienze che credo siano avvenute in ogni tempo ed epoca, si collegano e si avvicendano con altre nazionali ma anche internazionali.
Come è nata, per l’edizione di quest’anno, la scelta del confronto con la musica salentina?
L’incontro con Aldo Nichil è di vecchia data: risale alla metà degli anni ’70 quando mi ritrovai con lui (e Francesco Giannattasio), in un progetto di spettacolo ideato da Caterina Bueno, dal nome “Ed ora il ballo”, dove ognuno dei quattro musicisti che ne facevano parte rappresentavano la propria regione.
Lo scambio di esperienze fece in modo che io diventassi un po’ salentino e Aldo un po’ sardo, elaborando tematiche che avevano a che fare con l’argia sarda e la taranta pugliese. Poi ognuno andò per la propria strada con la speranza di riuscire prima o poi ad riallacciare nuovamente le esperienze. Baxiu e Contra 2012 spero ci dia questa opportunità
Sia la tradizione musicale dell’area dell’ex magna Grecia sia quella sarda fanno uso di strumenti musicali della tradizione di cui ugualmente occorre preservare la conoscenza. Da questo punto di vista come guardate alle esperienze delle scuole civiche di musica che in Sardegna sono assai diffuse?
Le scuole di musica, pur dove sono presenti insegnamenti di strumenti popolari, tendono all’insegnamento della musica utilizzando i metodi della musica colta, ossia la lettura e la scrittura.
Credo che gli strumenti con cui viene eseguita la musica popolare siano importanti ma a mio parere, più importante ancora è il modo di “pensare” tali musiche che debba essere trasmesso e questo, per il momento, non mi sembra che avvenga.
Il codice musicale rimane uno dei legami più forti con la tradizione del territorio, e il Salento da questo punto di vista pare essere riuscito forse più della Sardegna a far fare un salto nella modernità a questo linguaggio (l’esperienza della notte della taranta, ecc). Quale è il suo pensiero a proposito?
Ogni tanto si parla tra noi musicisti delle speranze che abbiamo nutrito, nei confronti della musica popolare sia sarda che pugliese, calabrese, ecc.
Questo accadeva in tempi non sospetti e cioè quando si era lungi dal pensare che queste musiche sarebbe diventate un business.  Oggi assistiamo impotenti a uno sfacelo. L’industrializzazione della musica non solo non ha trascinato con sè coloro da cui è stata per tanti anni gelosamente custodita, ma addirittura ne soffoca i connotati di base. Questo è un altro importante motivo della presenza di Aldo Nichil, Umberto Panico e Angelo Litti a Baxiu e Contra: gelosi custodi della tradizione e contemporaneamente modernizzatori.
Come la Sardegna può cercare l’incrocio con la modernità attraverso queste occasioni di conoscenza e divulgazione? Come ritiene che il vostro festival si inserisca in questo ragionamento?
Il lavoro di modernizzazione e attualizzazione di una musica popolare non è cosa da farsi in breve tempo.
Ricordiamoci che la musica e musicisti custodiscono il tempo Baxiu e Contra ambiziosamente e senza porsi scadenze temporali, vuole essere uno dei luoghi dove questo possa avvenire.

Gelabert/Azzopardi, da non perdere

RENZO FRANCABANDERA | E’ una coppia artistica e di vita ancora affiatatissima, quella di Cesc e Livia, lui ancora elegantissimo nelle movenze in scena, lei intimamente diva e identicamente popolare.
E questo mix di divismo e tradizione è proprio il codice che ancora oggi, a distanza di quasi 25 anni, rende ancora lo spettacolo dedicato dal duo alla storia e al personaggio del torero Belmonte, un must see dell’arte coreutica europea.
Lo spettacolo si compone di due assoli e una grande scena corale, quasi come una vera e propria opera lirica. Nell’ideale Overture, Cesc, sulle note delle bellissime musiche originali scritte da Carles Santos, ispirate alla tradizione musicale spagnola ed eseguite da una banda di paese di 170 elementi (Banda La Lira Ampostina – direttore banda Octavi Ruiz), dà corpo ad un assolo di perfezione ed eleganza, in cui quelli che saranno i movimenti della corrida, diventano plastica rappresentazione dell’assoluto del corpo. Tensioni, avanzate, colpi si tramutano in un elegantissimo composto scenico.
Pare non avere età Cesc Gelabert, mentre dai due lati del palco viene illuminato da grandi fari che fendono il buio del palcoscenico, in un disegno luci realizzato dal ballerino/coreografo e Jordi Llongueras.
Pian piano dal fondo, al termine di questo pregevolissimo assolo,  compare la scena, quello che appare come un enorme cuscino di velluto con bottoncini, di cui durante lo spettacolo si fruirà un lato rosso e poi uno nero. Capiremo nella bella conferenza seguita allo spettacolo come i due colori non siano casuali ma proprio ricordo del drappo che i toreri usano durante la corrida.
Benchè la tauromachia sia un’arte oramai in dismissione rispetto al patrimonio di riti antropologici dell’umanità degli ultimi millenni, l’interesse della compagnia era proprio nella figura del torero e del suo folle approccio ad un’arte in cui a differenza di quanto possa apparire a prima vista, il movimento geometrico, la corporeità, il sistema di segni del corpo nella sua assoluta esaltazione si fondono in un rituale che ha molto a che vedere con la danza e i suoi codici.
Come tutte le vicende artistiche, anche quella di questo spettacolo si tinge di eventi e aneddoti, come quello che vuole il debutto dello spettacolo a Barcellona proprio durante i giorni in cui si votava per la definitiva cessazione delle tauromachie in Catalogna.
Torniamo allo spettacolo: dopo il primo assolo, agito in un rettangolo color sabbia che deve ricordare la terra sabbiosa dell’arena, una donna esegue il suo assolo. Non è più Lidia Azzopardi, che l’ha eseguito per anni con la sua leggerezza carnale. E’ ora Virginia Gimeno a dare corpo appassionato a un assolo dai ritmi incalzantissimi e di gesti complessi, di cui la stessa Azzopardi ci lascia amorevole testimonianza.
Terzo tempo di questo lavoro è il corpus vero e proprio, interpretato dal grande ballerino e dai giovani della compagnia Dani Corrales, Samuel Delvaux, Jonatan de Luis Mazagatos, Salvador Masclans, Oscar Pérez, Alberto Pineda. La sequenza più emozionante, dopo una parte potremmo dire quasi epica, fisica, che racconta lo scontro fra l’uomo e l’animale, è quella che i ballerini, per un minuto circa, agiscono in contemporanea per terra, con movimenti a rimbalzo coordinati e sincronici. Se ne deriva un sentimento di potenza, passione unici, che preludono al finale dello spettacolo in cui una serie di piccole video sequenze riportano, su grande cuscino che fa da scenografia, alcune immagini dell’eroe popolare, morto poi suicida. E’ proprio il suo vissuto così atipico, attento alle arti e alla filosofia, le sue origini modeste, la gloria nazionale a rendere la sua vicenda e questa rilettura danzata così peculiari.
Il festival MilanOltre, all’interno della cui programmazione lo spettacolo è stato ospitato, prosegue presso il teatro Elfo Puccini con gli ultimi appuntamenti: in sala Bausch l’1/2 dicembre il giovane Giulio d’Anna è in scena con in Parkin’son (1 e 2 dicembre), un toccante confronto tra generazioni, mentre sempre la compagnia catalana Gelabert/Azzopardi è in scena con un doppio programma Sense Fi e Conquassabit su musiche rispettivamente di Pascal Comelade e di G. F. Haendel (30 novembre, 1 e 2 dicembre).
Il 2 dicembre alla DanceHaus, Compagnia Susanna Beltrami un temporary show intitolato La psicoanalisi dell’acqua dove il pubblico potrà entrare in contatto con alcuni frammenti della drammaturgia in divenire per il nuovo spettacolo di Susanna Beltrami Estrad’eau, ultimo della trilogia che la coreografa dedica al filosofo Gaston Bachelard, che debutterà in prima nazionale a febbraio 2013.

Noir-Clair. Meditazioni sull’arte contemporanea.

copertina-Noir-Clair-a-coloriMARIA CRISTINA SERRA | E’ raro, nel grande susseguirsi di eventi, imbattersi in una mostra che dall’idea iniziale, al titolo, ai contenuti e fino al suo svolgimento, riesce a mantenere tutte le promesse, ponendo su una stesa linea di orizzonte le ragioni del cuore, della mente e dell’occhio. Obiettivi centrati nell’expo collettiva “Noir-Clair”, presentata alla Galleria Vanessa Quang, una meditata riflessione sul tema del Nero, analizzato come colore e materializzazione di stati d’animo; come necessità interiore di essere parola chiave, filtro, passaggio nascosto fra le tenebre per arrivare alla comprensione della luce. Uno sguardo da un’angolazione particolare sull’Arte e sulla Vita, nato da una conversazione, l’inverno scorso, fra Barbara Polla e Victor de Bonnecaze, che strada facendo si è sempre più riempita di contenuti etici. Sfuggendo da tracciati lineari, “l’elogio del Nero” si è manifestato in tutta la sua complessità: sintesi di tutti i colori, punto d’incontro degli estremi, simbolo ambivalente di lutto come di eleganza, passando per le strettoie del Grigio, il dubbio e l’incertezza, prima di approdare al Chiaro, attraverso un processo che ha il valore di una poetica e consapevole presa di coscienza sulla perenne dualità e fragilità delle cose.

“Perché il nero non è mai esclusivamente nero. Perché il chiarore permette di vedere, percepire, distinguere, dentro il cuore del nero: è ciò che ci fa uscire dal buio “, ci dice la scrittrice e gallerista Barbara Polla. Le intenzioni teoriche che hanno guidato i curatori sono preannunciate dalle parole di Shakespeare, “L’uomo che non medita, vive nella cecità, l’uomo che medita vive nell’oscurità. Noi non abbiamo che la scelta del Nero”; e anche con quelle di Victor Hugo: “L’inchiostro questo scuro da cui nasce la luce”.

Suggestioni che, dopo aver alimentato il complesso progetto, ora ci accompagnano, mentre ci aggiriamo nell’elegante spazio di un ex-manufatto industriale, collocato in fondo ad una stradina nel quartiere del Carreau du Temple, nel Terzo Arrondissement.

E’ Mounir Fatmi a iniziare il filo del racconto, gettando un ponte ideale per unire due culture, l’orientale delle sue origini e l’occidentale dei suoi vissuti, e due religioni: la musulmana e la cristiana. S’impone immediata la forza espressiva del suo “Angelo nero”, ispirato alla “Guarigione del diacono Giustiniano” del Beato Angelico. Il miracolo di Cosma e Damiano, che sostituiscono la gamba malata di Giustiniano con quella sana di un etiope deceduto, nella rivisitazione di Fatmi diventa paradigma di una grammatica artistica capace di narrare in modo sublime le strutture profonde dell’esistenza. “Io non ho bisogno di radici”, spiega l’artista, “la memoria è sufficiente” tramandata anche dalla scrittura, vergata con inchiostro scuro, che fissa le parole del presente per mantenere vive quelle del passato. A queste si affiancano vecchie immagini di un Tempo da non disperdere e da ritrovare, impresse in pellicole ormai obsolete. In un moto dell’anima, privo di barriere temporali o stilistiche, la frase pronunciata da Goethe in fin di vita, “Mehr Licht” (“Più Luce”), gli ispira l’installazione “Ein Grab für die Farbe Schwarz”, un lungo sarcofago trasparente, ricolmo di matasse nere lucide, aggrovigliate fra loro in modo indissolubile, nastri di vecchie registrazioni ormai fuori uso, frammenti di un passaggio epocale fra realtà analogica e digitale, che l’artista raccoglie come un archeologo della contemporaneità, per depositarli in uno speciale archivio della conoscenza.

 
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un’intervista ai curatori su ArteMediaChannel

La sottile velatura d’ombra che separa la luce dal buio è simbolicamente e liricamente rappresentata dalla poetica sequenza del “Ciclo delle lune” di Martin Lord, che scandisce il tempo senza misurarlo. Le frasi lapidarie sulla follia della guerra, che tutto distrugge e paralizza, sono lanciate come dardi per smuovere le coscienze dall’artista “Post-Situazionista” britannico Robert Montgomery, messe nero su bianco, in sequenze scioccanti, come trasposizioni plastiche di anime ferite. “Poesie sulla pace, sulla guarigione, sulla rigenerazione, come se le idee fossero scritte in un regno spirituale piuttosto che intellettuale”. Delle finestre spalancate sul caos del mondo, per far entrare la chiarezza di una visione utopica, ma anche realistica, di un nuovo Umanesimo privo di violazioni. Senza sovrapposizioni e con codici diversi, sfiorando le stesse tematiche pacifiste, le “Immagini per la pace che disegnano la guerra”, splendidamente disegnate da Tonino Cragnolini, fondono insieme il rigore dell’intelligenza con la lievità dell’immaginazione. Le sue architetture visionarie tracciano voli acrobatici sulle tele, eseguendo combinazioni di trame attinte dalle antiche leggende della sua terra, il Friuli, in un gioco incrociato di destini che dal Medio Evo viaggiano nel Tempo per svelarci la loro attualità; le tenui luci lontane rischiarano le tenebre, sottraendo peso al dolore per farlo specchiare in frammenti di evanescenti consolazioni.

In sedimentazioni ripetitive e illuminanti, “Una giornata perfetta” di Julien Serve racconta il mondo nell’arco temporale di 24 ore, frazionato in lanci continui di agenzie stampa, che ogni giorno si perpetuano con ossessività sempre uguale. “Certe realtà che disegno”, spiega l’ideatore della installazione, “come la violenza, la morbosità, io non posso né viverle né ammetterle, ma le disegno in modo da poter occupare così il mio posto in un mondo inconcepibile”. Il gran senso di accoglienza che si avverte all’interno dello spazio espositivo a misura d’opera, grazie agli arredi sparsi e al senso di comunicabilità in verticale del piano terra con quello sotterraneo e con il ballatoio, favorisce una connessione intima fra spettatore e opere. Lo sguardo riesce a districarsi senza fatica tra una prospettiva e l’altra. Anche le pause, i vuoti, i cambiamenti repentini, sono sollecitazioni vibranti di energie liberate, che si muovono fra le astrazioni di Andrea Mastrovito, le equazioni fra sogno e realtà di Jean-Michel Pancin, le inquietudini di Mat Collishaw. Come un’isola da esplorare irrompe sulla scena il Rosso, il colore della passione, con le sue variabili possibili: sfumato con il rosa nelle favole dai risvolti crudeli di Françoise Pétrovich; mischiato fra i colori vivaci nel mondo sanguigno di Lucien Murat, che ricorda Bosch; alternato ai delicati toni pastello di Fabrice Langlade. Senza così mai perdere la tensione per un racconto che prosegue oltre l’expo nella lettura del libro “Noir-Clair dans tout l’Univers” (Ed.La Muette): una raccolta di saggi, scritti da Barbara Polla, Victor de Bonnecaze, Régis Durand, Philippe Hurel, Jean-Pilippe Rossignol e Rémi Tomaszewski, che riunisce in un arabesco incantato letteratura, arte, musica, teatro, filosofia. Un labirinto di connessioni e riferimenti in cui perdersi per poi ritrovarsi con un “Diamante nero” fra le dita, sfaccettato e dalla brillantezza oscurata, così come è la vita.

Il padre

RENZO FRANCABANDERA | Era con una certa curiosità che ci avvicinavamo alla visione de Il Padre  di August Strindberg per  la regia di Alberto Oliva al Teatro Out Off. Il giovane, proveniente dalla Paolo Grassi attivo a Milano è in questi giorni a Milano in diversi teatri con diverse regie (“Il venditore di sigari” di Amos Kamil – Teatro Litta; “Il ventaglio” di Goldoni – la settimana scorsa al Tieffe Menotti, (Premio Sipario 2012/Associazione Nazionale Critici di Teatro); “Il Mercante di Venezia” – dal 21/11 al Teatro Libero).
Tanti lavori, ospitati in rapida successione da tanti teatri diversi… andiamo a vedere.
Lo spettacolo è interpretato da John-Alexander Petricich, Chiara Zerlini, Lorenza Pisano, Andrea Fazzari e Jacopo Zerbo e si è avvalso della consulenza storico/letteraria Andrea Bisicchia.
Il pubblico entra in sala e trova le luci già accese in scena, con una delle protagoniste intenta a dipingere un quadro. La scena è semplice, creata con due quinte che convergono a cono verso il fondo della sala, creando quindi un senso di claustrofobia, esaltato dalla presenza alle pareti di ritratti dipinti (per la gran parte con intonazione espressionista e fauve) e d’espressione inquietante.
Dopo un buio sfumato iniziale, un gioco di luci porta l’attenzione degli spettatori proprio su questi quadri, che emergono uno a uno dal buio con i puntatori. Di qui in poi la storia, incentrata sul dramma del  Capitano (John-Alexander Petricich), un uomo di scienza equilibrato e scrupoloso, quasi refrattario ai sentimenti estremi, che finirà invece per cedere al sospetto, alla gelosia e alla paura, alimentate in lui dalla moglie Laura (Chiara Zerlini), donna energica, che ingaggia una lotta con il marito per l’educazione della figlia Bertha, che non comparirà mai in scena, lasciando all’universo infantile degli adulti di narrarsi attraverso il potenziale negativo e incomunicabile.  A rendere più inquietante la composizione umana di contorno, una badante dal tratto stregonesco (Lorenza Pisano), il fratello della moglie (Jacopo Zerbo) e un medico che diventerà confidente di lei (Andrea Fazzari), alimentando le gelosie del marito.
Il braccio di ferro fra i due, infatti, degenererà e porterà il Capitano in un mondo parallelo di allucinazioni spettrali che lo alieneranno dalla realtà. Una citazione, nel delirio, delle parole di Shylock che rimanda al Mercante di Venezia, è ideale ponte fra le due messe in scena cui il regista si dedica in questi giorni.
E’ anche ponte naturale con il legame che era stato portato in scena proprio all’Out off di recente e ugualmente incentrato sui rapporti coniugali.
Oltre alle quinte nere convergenti verso il fondo del palco, sulla sinistra un tavolo dove sono poggiati quattro vasetti dei colori primari, sulla destra, progressivamente verso il fondo, un piccolo scrittoio in primo piano con a fianco dei libri (dove il capitano passa i suoi momenti di concentrazione e creatività letteraria), una scaletta che allude ad un ulteriore spazio, che è presumibilmente quello della stanza da letto del Capitano stesso, e verso il fondo un cavalletto con una tela cui, con esito incerto, si adopera Laura.
Abbiamo assistito all’anteprima di lunedì 26. L’intonazione che ben presto lo spettatore non fatica a respirare è quella dello sceneggiato tv anni Sessanta, con musiche ottocentesche per la colonna sonora che aiutano a rendere inquietante il giusto l’ambiente. In teoria ci sarebbero tutti gli elementi per letture multiple, audaci del testo, eppure, un po’ per limiti di alcuni degli interpreti un po’ per una serie di scelte che la regia opera (o forse sarebbe il caso di dire non opera) il lavoro, a nostro avviso, presto scade.
Perché? Perché il testo viene urlato, gli interpreti paiono spesso fuori tempo, fuori luogo, con un pensiero non auto centrato. In diversi recitano lunghi monologhi con i palmi rivolti verso l’attore cui rivolgono la parola in modo onestamente deludente, senza cercare né con la voce né con il corpo di dare struttura all’interpretazione, in questo forse non adeguatamente stimolati dalla regia, che anche ove si sia dedicata a qualche correttivo, evidentemente non ha raggiunto l’esito sperato.
Il lavoro sul testo risulta poco profondo, e la didascalia serpeggia nell’allestimento continuamente, come quando nel finale, dove si parla della protagonista che viene invitata a guardarsi allo specchio, di colpo una tela si rovescia e il retro è fatto di superficie specchiante. La badante, ironicamente tacciata di capacità divinatorie, diventa strega per davvero.
Ci siamo chiesti se l’ironia, presente nel testo dall’inizio fino alle battute finali (clamorosa quella delle mani che la moglie chiede al marito ormai cinto con una camicia di forza di porgerle), sia stata letta in modo proprio. Avrebbe potuto essere una lettura dissacrante e molto più ricca, estrema, di questo testo. Invece viene lasciata lì, tanto che proprio la scena finale cui si è fatta menzione viene caricata dagli interpreti di un pathos solenne, mentre il pubblico scoppia ovviamente in una fragorosa risata per l’assurda richiesta.
Delle tracce vocali audio accenniamo -sono le voci che il padre sente nella pazzia, con sequenze illuminate da un’originalissima luce rossastra – giusto per testimoniarne la scarsissima qualità, che le rendono del tutto incomprensibili, dunque inutili.
Gli interpreti non dialogano in modo credibile né fra loro né con i propri personaggi (ci prova in modo più convinto solo John-Alexander Petricich non cedendo agli eccessi, almeno per due terzi della messa in scena; ma anche lui nel finale butta gli occhi fuori dalle orbite), mentre la regia preferisce tonalità estreme (come i bui hitchcockiani mentre questo o quel personaggio brandisce ora un coltello ora un pennello in tono di minaccia) che sfociano però nella più assoluta e deludente normalità. Perché se queste trovate kitch sono volute, in realtà non raggiungono l’esito di esaltare la tragicommedia, e quindi sono come una barzelletta che non fa ridere, se invece non sono volute sono appunto solo kitch ( e il contrasto, ove la lettura fosse moderna e più audace, sarebbe anche, ad esempio, con i costumi d’epoca);  l’esito, quindi, per quello che ci riguarda, è un lavoro senza ritmo, noioso e per larghi tratti perfino brutto. Speriamo ci sia tempo, fra i tanti spettacoli contemporaneamente in scena, per apportare i necessari correttivi.

Stanze

Teatro Alkaest, Alberica Archinto, Rossella Tansini. Presenze costanti per chi conosce il teatro di Milano, operatori appassionati dell’arte della scena, da anni impegnati a cercare, produrre, realizzare.
E’ da queste sensibilità che nasce Stanze, una rassegna iniziata l’anno scorso a Milano, e che si è ricavata, in questo spicchio d’autunno mentre le stagioni teatrali si iniziano ad animare, uno spazio proprio.
Abbiamo incontrato Rossella Tansini e Alberica Archinto.
Siamo quasi in dirittura d’arrivo con questa prima stagione di Stanze. Cosa ha significato questo progetto per Milano?
In una città abitualmente un po’ pigra e abitudinaria una corrente di novità che il pubblico ha percepito. E anche l’ambizione, per una volta, di esserci misurati con la realtà europea.
Ci date qualche numero?
Abbiamo invitato cinque compagnie. Ognuno ha replicato tre volte per un totale di quindici repliche in quindici case diverse, più lo spettacolo previsto alla discoteca Sogemi per il Festival dei beni confiscati alla mafia. Il pubblico possiamo quantificarlo in circa 600 presenze, calcolando una media di 40 spettatori a sera ed escludendo quello intervenuto alla discoteca. Decine gli interventi della stampa, nei quotidiani e nelle riviste, nel web, alla radio e in televisione.
Il luogo “casa” secondo me ha due risvolti fondamentali nel proporsi come luogo teatrale: il primo riguarda proprio le possibilità sceniche e ambientali, la seconda invece la vicinanza col pubblico. Su quest’ultimo tema che riscontro avete?
E’ stato l’aspetto più sorprendente: abbiamo visto la gente piangere, ridere, restare scossa e impressionata, come è accaduto per l’ultimo spettacolo della rassegna, Prodigioso delirio con Mario Sala diretto da Lorenzo Loris, o piacevolmente coinvolta e divertita come è accaduto con i Marcido Marcidorjs. E poi, con soddisfazione, molta gente è tornata per vedere altri spettacoli.
Negli ultimi anni sono molti gli spettacoli proposti in diverse rassegne che si sono svolti in casa. Da Cuocolo Bosetti fino appunto agli spettacoli che la vostra rassegna ha ospitato. Ma non dimentichiamo neanche l’iniziativa a Como l’anno scorso. Perché secondo voi?
La casa, pur offrendo spazi raccolti, in realtà spalanca orizzonti più ampi, sia per chi, come noi organizza e che si trova a operare con maggiore libertà, sia per chi realizza lo spettacolo che “naturalmente” dispone di maggiori spazi creativi.
Quella del circuito del teatro in casa è secondo voi una via sostenibile dal punto di vista economico? Cioè, può mantenersi in piedi da solo o c’è sempre da sperare in un sostegno economico integrativo? Quanto dovrebbe essere grande un circuito “nazionale” di case per proporsi come circuito vero e proprio?
La sostenibilità economica è la grande scommessa. Noi abbiamo avuto, per l’avvio, il sostegno fondamentale di Fondazione Cariplo e per il prossimo anno si è dichiarato disponibile anche il Comune di Milano. Per la prima edizione si è deciso di fare pagare unicamente una tessera associativa e ci ha sostenuto una formidabile squadra di padroni di casa che ha servito cene deliziose per tutti. Per il prossimo ciclo prevediamo un biglietto di 5 euro oltre alla tessera associativa. Difficile ora prevedere gli sviluppi futuri. Ci consideriamo ancora in fase di studio e aspettiamo il banco di prova della prossima edizione. Stessa risposta interlocutoria per il circuito nazionale. E’ evidente che più si allarga il giro più aumentano i vantaggi, su tutti i fronti e questo ci induce a un inguaribile atteggiamento positivo. Del resto contatti con altre città italiane sono già in atto. Oggi è comunque difficile prevedere cifre precise: il momento economicamente duro magari non aiuta, ma davvero crediamo che non sia impossibile auto-sostenersi.
E ci sentiamo di chiudere con una nota di ottimismo: non c’è stata casa dove siamo entrati, attore o gruppo coinvolti, pubblico e padroni di casa che non siano stati contagiati da una ventata di entusiasmo, da un più consapevole atteggiamento di partecipazione.

Find 30

RENZO FRANCABANDERA | E’ la 30ima edizione, quella in ricordo di Paola Leoni, storica fondatrice della rassegna. Find per ricordare una delle figure più eminenti dell’arte coreutica in Sardegna, sta proponendo al suo pubblico un programma davvero speciale, con le compagnie di danza nazionali e internazionali che l’artista isolana aveva più care.
Dopo ULTIMA VEZ, diretta dal genio artistico Wim Vandekeybus, e VERA STASI di Silvana Barbarini, con lo spettacolo “Parole per Musica”, abbiamo dato testimonianza del ritorno in Sardegna di JAN FABRE, con la compagnia Troubleyn (nel 2005 presentò Angel of Death alla XXIII edizione del festival). Il lavoro ci aveva colpito per la straordinaria leggerezza e dolcezza con cui nello spettacolo “Drugs kept me alive” il performer Antony Rizzi riusciva a raccontare il suo mondo visionario e intimo allo stesso tempo.
Pensavamo di aver raggiunto il massimo dell’esito estetico ma siamo stati ancor più sorpresi nell’assistere lo scorso fine settimana al lavoro della compagnia svizzera CIE LINGA, diretta dagli ex allievi del grande Maurice Bèjart, Marco Cantalupo e Katarzyna Gdaniec.
Si è trattato di  due coreografie, proposte qui in prima nazionale, proprio come omaggio di Cantalupo alla memoria della Leoni, al Teatro Auditorium Comunale in piazza Dettori a Cagliari.
“WE ARE NOT I” e “STEP 2.1”, sono due pezzi profondamente diversi. Il primo un quasi assolo, il secondo un lavoro più composito, che si avvicina maggiormente agli stimoli che all’arte arrivano dall’implementazione delle nuove tecnologie.
Una straordinaria Ai Koyama (e Gerald Durand)  sulle musiche di Philippe Jeck, coprodotto dall’Octogone Théâtre de Pully, dà in questo lavoro corpo ad un’indagine sugli stadi di equilibrio emotivo dell’essere umano. Su cosa si adagiano le nostre certezze, i nostri dissidi, i tremiti e i fremiti del nostro io? Quale sequenza mai continua di azioni e pensieri dà senso al vivere? A quale albero possiamo davvero intrecciare i rami dell’esistenza.
La quasi mezz’ora di performance di suo è irraccontabile, perché in questo tempo la danzatrice riesce a regalare una gamma sentimentale al pubblico domando ogni singolo muscolo del suo corpo, partendo da epifanie stop and go dell’inconscio, per poi rivelare pian pianino una sorta di superiore nudità, intesa come disvelamento. La seconda parte sarà giocata con otti piccoli cilindri trasparenti, di diametro non superiore ai dieci centimetri, illuminati alla base da fioche luci led.
Su questi supporti di poca stabilità, la grandissima Ai Koyama adagiava il suo corpo come la Maya desnuda, alla ricerca di uno sguardo esterno, però diverso da quello del voyeur. Nessun ammiccamento, nessun pensiero recondito, ma proprio l’intima comunicazione del proprio stato, vissuto non come partecipazione condivisa. E d’altronde è il titolo stesso forse a chiarire l’arcano artistico, quell’idea che il noi non implichi la pienezza dell’io, una circostanza che riesce ad essere postulata tanto nel sociale quanto nell’affettivo. L’io vive come una divinità insicura, adagiata su piccole instabilità dalle quali fa bella mostra di sé, nella costante ricerca di un equilibrio forse non raggiungibile. Questo frammento sia dal punto di vista coreografico che di esecuzione è un capolavoro assoluto. Imperdibile.
“STEP 2.1” il secondo lavoro proposto – altra coproduzione con L’Octogone Théâtre, con Belenard Azizaj, Gerald Durand, Ai Koyama, Dorata Łecka, Hyekyoung Kim, Michalis Theophanous,   musiche di Christophe Calpini e sistema interattivo di Alain Crevoisier – è invece un trionfo dell’arte bionica, della techno danza.
Grazie ad apparecchiature wireless capaci di monitorare il movimento e trasformarlo in codice sonoro, i danzatori possono traducevano l’avanti e l’indietro, l’alto e il basso, la destra e la sinistra in possibilità nell’universo delle vibrazioni foniche.
I performer vestono da atleti, vogliono quasi ricordare la collaborazione fra l’Istituto delle Scienze Sportive dell’Università di Losanna, la Scuola Superiore di Musica di Ginevra, la Future Instruments, la Biopac System Inc. e con il compositore Christophe Calpini che ha dato il via all’esperimento. A vent’anni dalla sua fondazione, la Compagnia Linga mostra una maturità e una capacità creativa non solo consolidata ma anche coerente, tanto coerente da esser capace di lasciar leggere chiaramente le citazioni e i rifermenti agli artisti e alle arti con cui si pone in dialogo.
Forse più algido del primo esito, perché ancora in fase sperimentale, “STEP 2.1” è uno studio che rende evidente il linguaggio. Ora il linguaggio deve liberare la poesia, superando il codice generatore, lasciando sullo sfondo la grammatica, che in’arte è sempre e solo un pre-testo.
E’ invece dedicato alla danza italiana questo fine settimana con il BALLETTO DI SPOLETO, diretto da Caterina Genta e Marco Schiavoni, che presenterà lo spettacolo “Sette Coreografi per il Balletto di Spoleto”. Sette brevi spettacoli con sette paternità diverse, per inglobare in un’unica struttura sette modalità artistiche di raccontare una storia e la compagnia sarda ASMED-BALLETTO DI SARDEGNA padrona di casa, in scena con due spettacoli: “The Box”, in prima assoluta, sotto la direzione del coreografo Max Campagnani, e “Uomini”, di Guido Tuveri, rappresenta uno spaccato dell’universo maschile contemporaneo avvalendosi di linguaggi differenti (teatro, canto e arte circense) che si uniscono alla danza.

La satira pirandelliana di Michele Placido

ANDREA CIOMMIENTO | La satira filosofica del testo pirandelliano Così è (se vi pare), regia di Michele Placido, smaschera fin dalle prime scene gli abiti di cartapesta del perbenismo provinciale nelle famiglie borghesi d’inizio Novecento. Le incognite di una comunità -quella del paese in cui la signora Frola (Giuliana Lojodice) e il signor Ponza (Pino Micol) vivono, dopo essere fuggiti da un terremoto avvenuto nelle terre d’origine- divengono protagoniste quotidiane del rumorio di tutti i personaggi in scena attraverso il grottesco abitare di un umorismo curioso e ambiguo. Al centro di ogni pensiero una donna rifugiata tra due possibili verità sul suo presente: rinchiusa a chiave dal marito che, dopo essere stato in casa di cura, si è convinto di aver sposato per la seconda volta un’altra donna anziché la moglie che ormai crede morta (a detta della suocera) o nascosta dal marito perché tormentata dalla signora Frola che, dopo la morte della figlia, si convince che la seconda moglie sia sua figlia, cercando a tutti i costi di vederla (a detta di Ponza). Una cosa è certa: la donna è invisibile e impenetrabile, almeno per ora.

L’enigmatico avvenimento mormorato insospettisce il nuovo capo di Ponza, il consigliere Agazzi, che da lì a poco richiederà al prefetto l’avvio di un’inchiesta per dare fine a questo mistero almanaccato. L’unico a difendere il dramma famigliare sarà Lamberto Laudisi (Luciano Virgilio), cognato di Agazzi, sostenitore dell’inutilità di questa inchiesta, dal momento che ogni verità non può mai essere assoluta, tantomeno negli spiragli di risolutezza immaginata dai suoi compaesani, ansiosi di scoprire dove risiede il germe della follia.

Lo spettacolo di Placido porta a nudo la forma attraverso lo svolgersi sostanziale di tre atti ordinariamente organici. La costruzione del soggetto in questione (la figlia/moglie) è uno sfogo a intermittenza che sbilancia, ritrae e scuote in ogni istante la verità di una e dell’altra esistenza, conducendo la ricerca verso lo sguardo consapevole del difensore Laudisi o verso quello smarrito dei compaesani farfuglianti. La scenografia di Carmelo Giannello riflette la storia insieme alle sfumature tridimensionali di ogni azione scenica grazie alla presenza di numerosi specchi che dividono gli spazi del dramma tragicomico, schegge scagliate al suolo che riportano al di sotto di ogni personaggio le linee del corpo di ogni attore. Un punto di vista simultaneo e contemporaneo sui volti della verità fino alla risoluta presenza ultima della donna, gentile fiore dialogico in bocca di tutti i presenti. La moglie del signor Ponza, con viso coperto, rivelerà il mistero: “io sono colei che mi si crede”, perché così parla la verità senza togliere il velo, senza s-velare la realtà, molto più impenetrabile di quanto possa apparire ai nostri occhi. Così è, se pare, lo spettacolo di Placido: un lavoro composito che assume l’incisività drammaturgica di Luigi Pirandello e la devozione canonica e pacata della sua regia.

Visto al Teatro Gustavo Modena di Palmanova (UD). Circuito Ert FVG.

La satira pirandelliana di Michele Placido

ANDREA CIOMMIENTO | La satira filosofica del testo pirandelliano Così è (se vi pare), regia di Michele Placido, smaschera fin dalle prime scene gli abiti di cartapesta del perbenismo provinciale nelle famiglie borghesi d’inizio Novecento. Le incognite di una comunità -quella del paese in cui la signora Frola (Giuliana Lojodice) e il signor Ponza (Pino Micol) vivono, dopo essere fuggiti da un terremoto avvenuto nelle terre d’origine- divengono protagoniste quotidiane del rumorio di tutti i personaggi in scena attraverso il grottesco abitare di un umorismo curioso e ambiguo. Al centro di ogni pensiero una donna rifugiata tra due possibili verità sul suo presente: rinchiusa a chiave dal marito che, dopo essere stato in casa di cura, si è convinto di aver sposato per la seconda volta un’altra donna anziché la moglie che ormai crede morta (a detta della suocera) o nascosta dal marito perché tormentata dalla signora Frola che, dopo la morte della figlia, si convince che la seconda moglie sia sua figlia, cercando a tutti i costi di vederla (a detta di Ponza). Una cosa è certa: la donna è invisibile e impenetrabile, almeno per ora.

L’enigmatico avvenimento mormorato insospettisce il nuovo capo di Ponza, il consigliere Agazzi, che da lì a poco richiederà al prefetto l’avvio di un’inchiesta per dare fine a questo mistero almanaccato. L’unico a difendere il dramma famigliare sarà Lamberto Laudisi (Luciano Virgilio), cognato di Agazzi, sostenitore dell’inutilità di questa inchiesta, dal momento che ogni verità non può mai essere assoluta, tantomeno negli spiragli di risolutezza immaginata dai suoi compaesani, ansiosi di scoprire dove risiede il germe della follia.

Lo spettacolo di Placido porta a nudo la forma attraverso lo svolgersi sostanziale di tre atti ordinariamente organici. La costruzione del soggetto in questione (la figlia/moglie) è uno sfogo a intermittenza che sbilancia, ritrae e scuote in ogni istante la verità di una e dell’altra esistenza, conducendo la ricerca verso lo sguardo consapevole del difensore Laudisi o verso quello smarrito dei compaesani farfuglianti. La scenografia di Carmelo Giannello riflette la storia insieme alle sfumature tridimensionali di ogni azione scenica grazie alla presenza di numerosi specchi che dividono gli spazi del dramma tragicomico, schegge scagliate al suolo che riportano al di sotto di ogni personaggio le linee del corpo di ogni attore. Un punto di vista simultaneo e contemporaneo sui volti della verità fino alla risoluta presenza ultima della donna, gentile fiore dialogico in bocca di tutti i presenti. La moglie del signor Ponza, con viso coperto, rivelerà il mistero: “io sono colei che mi si crede”, perché così parla la verità senza togliere il velo, senza s-velare la realtà, molto più impenetrabile di quanto possa apparire ai nostri occhi. Così è, se pare, lo spettacolo di Placido: un lavoro composito che assume l’incisività drammaturgica di Luigi Pirandello e la devozione canonica e pacata della sua regia.

Visto al Teatro Gustavo Modena di Palmanova (UD). Circuito Ert FVG.

Senza famiglia: Animanera porta in scena il testo di Magdalena Barile

finefamiglia-2RENZO FRANCABANDERA | Sono state molto affollate le repliche della pièce che ha visto il rinsaldarsi della coppia drammaturgia-regia composta da Magdalena Barile e Aldo Cassano/Animanera.

Il teatro contemporaneo sta vivendo un’evoluzione, non saprei dire se di linguaggio ma sicuramente di auto rappresentazione. Così, come al cinema e in tv, se un’idea riesce ad incontrare il gusto del pubblico, a torto o a ragione si cerca di darle un seguito, uno sviluppo. E’ stato, giusto per rimanere in ambito lombardo fra le compagnie sostenute da Etre, il caso di Serate Bastarde, della Compagnia Dionisi, ma non solo, ovviamente. Ma non c’è niente di male, sia chiaro, e anche quello di cui stiamo parlando, in fondo, non è un esito infelice.

Tre anni e mezzo fa, infatti, la compagnia, allora in residenza presso il Pim Off di Via Tertulliano (ora non abito più là, tutto è cambiato, non abito più là), presentava un caustico testo sulle relazioni all’interno di un nucleo familiare composto dai genitori e due figli, capaci di superare la soglia della crisi psichica per internalizzarla  in una serie di nevrosi sistemiche, che ne caratterizzavano le forme di interconnessione. Facile capire come la più banale delle feste, la più banale delle torte, possa in tale ambito rappresentare occasione per quelle dinamiche caotiche il cui studio, nelle scienze matematiche, ha persino fruttato un Nobel. Lo spettacolo aveva avuto un meritato successo. Era intrigante e lasciava l’alone di bruciacchiato fumante sull’abito buono dello spettatore borghese a teatro.

Ma arriviamo ad oggi.  Era chiaro che riprendere la drammaturgia da dove l’avevamo lasciata era un’idea perdente in partenza. La Barile sceglie allora di introdurre al centro delle vicenda la figura della nonna (un notevolissimo Giovanni Franzoni).

Questo individuo dal tratto caratteriale particolarmente determinato, lascito di battaglie tardo-partigian settantottine, dialoga ad inizio spettacolo, nella sua ultima fase di vita trascorsa sulla sedia a rotelle, con i due nipoti tardo adolescenti (Matteo Barbè e Natascia Curci), anche loro muniti di pneumatici, ma per più modesti pattini. Sono loro che sfrecciando in qua e in là aprono lo spettacolo, in una visione al buio di particolare suggestione, perché illuminata da lampada fluorescente. Sullo sfondo una scala dai gradini irregolari e sghembi.

La nonna si rivolge ai nipoti, dichiarando il suo odio per loro padre  (un Nicola Stravalaci a suo agio qui come sulle battute di Copi e in generale buon interprete del grottesco), marito di sua figlia (Debora Zuin) , personaggio infingardo e completamente adagiato sull’indole remissiva della conuige, dal cui torpore l’anziana madre agogna il risveglio.

Un colpo di teatro fa prima morire la nonna, e poi risuscitarla, per catapultarla al mare insieme alla famiglia. E’ qui che la figlia, con un passaggio psicologico non molto ben definito, pressata dall’emotività che intorno a lei è ormai fuori controllo (il figlio dichiara la sua omosessualità, il marito ha mostrato senza ombra di dubbio il suo vero carattere, la figlia è una patetica velleitaria), decide di svegliarsi.

Qui, in una scena madre, la Zuin si leva in piedi sulla carrozzina della genitrice e dichiara iniziato il tempo della sua riscossa.

Diciamo pure che da questo punto in avanti lo spettacolo cambia, sia nel testo. La prima parte, infatti, ha ritmo da sit com televisiva, e tuttavia caustica e non banale, con scambi veloci, personalità delineate con ricchezza di sfumature, pur nel gioco dell’ironia.

Ma dal momento in cui inizia il risveglio della donna, il registro si fa più psicologico e composto di semi-monologhi, con i personaggi dei due figli che si eclissano, per lasciare il fuoco sugli altri tre, secondo il più tradizionale dei triangoli. Il finale non lo sveliamo, ma occorre dire che la regia di Aldo Cassano legge in forma più azzeccata la prima parte, sicuramente prossima alle corde e all’ironia della tradizione situazionista e non ordinata di Animanera (la scena dei villeggianti al mare si compone di due tre chicche di sicuro gusto).

La seconda, invece, più di introspezione, sfugge di mano prima alla drammaturga, che infatti chiude la vicenda con un finale non all’altezza della creatività della prequel (forse il suo desiderio di chiudere in via definitiva la saga, l’ha portata a cercare un esito senza appelli), e poi al regista. Cassano comprende che il registro si è modificato, ma non arriva a dare quello scarto necessario per fare il triplo salto mortale, e lascia i quasi monologhi dei tre personaggi principali in balia di recitazioni di stampo tradizionale, azzerando, paradossalmente, ogni effetto espressionista o straniante da cui avrebbe forse potuto ricavare qualcosa di più intrigante,

Questo non accade, e le ciliegine kitch, marchio di fabbrica della compagnia che si materializzano anche in commenti musicali di derivazione cinematografica, aggiungono assai poco. I personaggi minori restano totalmente fuori fuoco, e quello che era stato il combustibile dei primi quaranta minuti diventa negli ultimi venti un brodino da bere un po’ freddo. E’ mancato il coraggio, alla regia, di non guardare alla drammaturgia condizionata dalla psicosi della saga, per osare, specie nella seconda parte, scelte più di rottura. Il combinato scenico di due meno, a differenza che in algebra, non si trasforma in un più.

Sia chiaro, lo spettacolo è godibile, divertente, si ride, lo consiglierei a qualsiasi tipo di intelligenza vivace voglia confrontarsi con il tema delle relazioni interpersonali, e però, e però, il talento della Barile e quello di Animanera non arrivano all’esaltazione incrociata che era stata invece la cifra del primo spettacolo. Non ci hanno messo quella vena di pazzia visionaria necessaria.

 

SENZA FAMIGLIA

di Magdalena Barile
Regia: Aldo Cassano
Con: Matteo Barbè, Natascia Curci, Giovanni Franzoni, Nicola Stravalaci, Debora Zuin
Assistente regia e musiche: Antonio Spitaleri
Costumi: Lucia Lapolla
Scenografia: Petra Trombini
Luci: Anna Merlo
Coproduzione Animanera – CRT Centro di Ricerca per il Teatro
con il sostegno di Comune di Milano – Fondazione Cariplo Progetto Etre

Drugs kep me alive

RENZO FRANCABANDERA | Esiste una parte del bello che non può essere raccontata. E forse il bello di suo non può essere raccontato davvero, perché quello che viene trasmesso all’esterno è il sentimento che esso genera, non l’astratto in quanto tale. Pensare poi di dover raccontare di questa sensazione in una delle forme più alte e cristalline a proposito di una performance in cui il protagonista per un’ora e un quarto racconta, in un assolo fra teatro e danza, di come le droghe lo abbiano tenuto in vita, è quantomeno prospettiva balzana per chi si accinge a scrivere.
Lo è perché dovremmo raccontare di una scena il cui perimetro è segnato da un migliaio di boccette di farmaci e null’altro, se non un tavolo dove il nostro performer giocherà di tanto in tanto con un paio di ciotole trasparenti al piccolo chimico e alcuni enormi sottovasi riempiti di un po’ d’acqua saponata. Dal soffitto, in un angolo in fondo a destra della scena una macchina che ad un certo punto inizierà a produrre schiuma artificiale. Questo quello che il pubblico vede, e ciò che risulta materiale, consistente. Nulla quindi di esteticamente significativo. Una luce fioca sbalza dal buio questa ipotetica stanza.
Ma è proprio questa la grandezza della mistura che la regia è capace di trasformare in dolcissima leggerezza. Si, perché tutto il resto è struggente, dolcissima e fragilissima leggerezza.
In scena il personaggio: le sembianze di un elfo sbagliato, di un puffo scienziato che ha scarpe, cappello e guanti bianchi, che rende pubblico il suo vissuto, affidato al corpo del ballerino e performer americano Antony Rizzi, assistente di Forsythe e già interprete per Jan Fabre e Jan Lauwers. Con Fabre in realtà la collaborazione è al settimo episodio e questo era nato come monologo, ispirato proprio alla vita di Rizzi, mentre solo dopo pare sia nata una parte fisica, divenuta poi per sublimazione danza.
Il fisico di Rizzi è magro ma non scavato. I suoi tratti sono scuri, con quel tipo di carnagione che lascia intuire la peluria ispida, mediorientale. Indossa una tuta scura che ricorda, senza esserlo, quella da operaio di cantiere. In realtà un involucro, all’interno del quale introietterà di tanto in tanto flaconcini, quasi a voler ricordare l’assunzione di farmaci.
Il testo: la parola di questo spettacolo è una parola che sa trovare la poesia nella chimica. Un’enumerazione da breviario di farmaci, uniti a descrizioni medico-oniriche di reazioni sul corpo di un soggetto dalla presenza fragile ma lucidamente consapevole, e dei riflessi sul sociale del suo essere al mondo.
Nulla che spieghi o ambisca a provare come il farmaco faccia sentire diversi, o renda forti, migliori. L’assunzione di farmaci, qui, è una sorta di rimedio per riuscire ad ammantare di arte la miseria del mondo.
In realtà è il testo l’elemento cardine attorno al quale questo spettacolo ruota, dando corpo ad una potenza di immagini che via via si generano e che finalmente, dopo gli esiti scenici numericamente più affollati ma a nostro avviso non altrettanto ispirati degli ultimi 3-4 anni, riportano Fabre all’altezza della fama del genio.
Quest’omino, poi, pian pianino, nel raccontare la sua allegra follia tossica pone in ossimoro il suo universo leggerissimo e il mondo comune, raccontato attraverso  la parola drammaturgica capace di coloriture pop, con cui viene dissacrato il nostro tempo e i suoi slogan massmediatici; si contrappongono l’enumerazione clinica delle dosi e dei suoi effetti alla banalità del cosmo di non-relazioni che circonda di solitudine il vivere.
Si comporranno in scena, via via, galassie di bolle di sapone sempre più grandi. Tanto più quello cui assistiamo sembra sempre meno il delirio di un pazzo inconsapevole e sempre più la lucida voce di una parte di noi, del nostro io desideroso di occhiali tossici con cui guardare il mondo, tanto più grandi diventano queste bolle di sapone, fino ad ingoiare l’individuo Antony, che al pubblico si è presentato proprio con nome e cognome, e si racconta proprio come potremmo immaginare il racconto di un impasticcato genialoide, un po’ schizzato e poeta.
Bolle dolcissime, enormi, capaci di flutturare nell’aria, materializzazione dei pensieri tutt’altro che mortiferi dell’individuo che li porge allo spettatore. Bolle che si seguono, che si inglobano, che entrano l’una nell’altra, che si riempiono di fumo, con l’inconsistenza che si somma all’inconsistenza e che si infrange sulla materialità del reale. E lui intanto parla, tace, danza.
Più il fiume in piena di questo puffo bianco, magro, con gli occhiali neri grandi scorre, più i virus del nostro mondo (cui con idea geniale viene dato corpo dal performer con batuffoli di quella schiuma che la macchina ha nel frattempo prodotto) diventano la realtà, la sconcia personificazione delle nostre brame, delle nostre guerre, del nostro insulso vivere.
E’, quello del protagonista, un rifugiarsi dalla vita o è forse la cura per leggere in una forma alta e psicoticamente elegante un destino di morte che lo accomuna all’homunculus vulgaris vulgaris?
La risposta è nell’incredibile finale, in cui una serie di macchine, che sparano da fuori scena migliaia di bolle di sapone, pongono fine al bombardamento dell’esistenza e portano questa anima in un paradiso che non è il paradiso artificiale del tossico, ma il sogno d’arte e leggerezza di ogni umano. La bolla, emblema di fragilità, che Varrone per primo accomunò all’uomo, all’esordio del primo libro del Rerum Rusticarum Libri Tres, aforisma ripreso e reso celebre da Erasmo nei suoi Adagia, è il ritratto dell’umano, ma anche del sublime. Miserabile umanità e sublime fragilità questo spettacolo li fonde e  al termine di una colossale pioggia di bolle di sapone, che riempie l’universo scenico, le luci si affievoliscono, fino a ridursi ad un puntatore, che inquadra la testa di Antony Rizzi poggiata sul tavolo. Lui e la sua vita che ha ispirato tutto. Lui con la sua testa calva poggiata sul tavolo come un piatto, ultima parte del corpo visibile, ultimo chiarore nel buio, ultima Bolla. Poi dissolvenza. Oscuro. Capolavoro.
Di seguito un video con alcune immagini dello spettacolo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3gFT3nx7hwY]