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lunedì, Settembre 16, 2024
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Stanze

Teatro Alkaest, Alberica Archinto, Rossella Tansini. Presenze costanti per chi conosce il teatro di Milano, operatori appassionati dell’arte della scena, da anni impegnati a cercare, produrre, realizzare.
E’ da queste sensibilità che nasce Stanze, una rassegna iniziata l’anno scorso a Milano, e che si è ricavata, in questo spicchio d’autunno mentre le stagioni teatrali si iniziano ad animare, uno spazio proprio.
Abbiamo incontrato Rossella Tansini e Alberica Archinto.
Siamo quasi in dirittura d’arrivo con questa prima stagione di Stanze. Cosa ha significato questo progetto per Milano?
In una città abitualmente un po’ pigra e abitudinaria una corrente di novità che il pubblico ha percepito. E anche l’ambizione, per una volta, di esserci misurati con la realtà europea.
Ci date qualche numero?
Abbiamo invitato cinque compagnie. Ognuno ha replicato tre volte per un totale di quindici repliche in quindici case diverse, più lo spettacolo previsto alla discoteca Sogemi per il Festival dei beni confiscati alla mafia. Il pubblico possiamo quantificarlo in circa 600 presenze, calcolando una media di 40 spettatori a sera ed escludendo quello intervenuto alla discoteca. Decine gli interventi della stampa, nei quotidiani e nelle riviste, nel web, alla radio e in televisione.
Il luogo “casa” secondo me ha due risvolti fondamentali nel proporsi come luogo teatrale: il primo riguarda proprio le possibilità sceniche e ambientali, la seconda invece la vicinanza col pubblico. Su quest’ultimo tema che riscontro avete?
E’ stato l’aspetto più sorprendente: abbiamo visto la gente piangere, ridere, restare scossa e impressionata, come è accaduto per l’ultimo spettacolo della rassegna, Prodigioso delirio con Mario Sala diretto da Lorenzo Loris, o piacevolmente coinvolta e divertita come è accaduto con i Marcido Marcidorjs. E poi, con soddisfazione, molta gente è tornata per vedere altri spettacoli.
Negli ultimi anni sono molti gli spettacoli proposti in diverse rassegne che si sono svolti in casa. Da Cuocolo Bosetti fino appunto agli spettacoli che la vostra rassegna ha ospitato. Ma non dimentichiamo neanche l’iniziativa a Como l’anno scorso. Perché secondo voi?
La casa, pur offrendo spazi raccolti, in realtà spalanca orizzonti più ampi, sia per chi, come noi organizza e che si trova a operare con maggiore libertà, sia per chi realizza lo spettacolo che “naturalmente” dispone di maggiori spazi creativi.
Quella del circuito del teatro in casa è secondo voi una via sostenibile dal punto di vista economico? Cioè, può mantenersi in piedi da solo o c’è sempre da sperare in un sostegno economico integrativo? Quanto dovrebbe essere grande un circuito “nazionale” di case per proporsi come circuito vero e proprio?
La sostenibilità economica è la grande scommessa. Noi abbiamo avuto, per l’avvio, il sostegno fondamentale di Fondazione Cariplo e per il prossimo anno si è dichiarato disponibile anche il Comune di Milano. Per la prima edizione si è deciso di fare pagare unicamente una tessera associativa e ci ha sostenuto una formidabile squadra di padroni di casa che ha servito cene deliziose per tutti. Per il prossimo ciclo prevediamo un biglietto di 5 euro oltre alla tessera associativa. Difficile ora prevedere gli sviluppi futuri. Ci consideriamo ancora in fase di studio e aspettiamo il banco di prova della prossima edizione. Stessa risposta interlocutoria per il circuito nazionale. E’ evidente che più si allarga il giro più aumentano i vantaggi, su tutti i fronti e questo ci induce a un inguaribile atteggiamento positivo. Del resto contatti con altre città italiane sono già in atto. Oggi è comunque difficile prevedere cifre precise: il momento economicamente duro magari non aiuta, ma davvero crediamo che non sia impossibile auto-sostenersi.
E ci sentiamo di chiudere con una nota di ottimismo: non c’è stata casa dove siamo entrati, attore o gruppo coinvolti, pubblico e padroni di casa che non siano stati contagiati da una ventata di entusiasmo, da un più consapevole atteggiamento di partecipazione.

Find 30

RENZO FRANCABANDERA | E’ la 30ima edizione, quella in ricordo di Paola Leoni, storica fondatrice della rassegna. Find per ricordare una delle figure più eminenti dell’arte coreutica in Sardegna, sta proponendo al suo pubblico un programma davvero speciale, con le compagnie di danza nazionali e internazionali che l’artista isolana aveva più care.
Dopo ULTIMA VEZ, diretta dal genio artistico Wim Vandekeybus, e VERA STASI di Silvana Barbarini, con lo spettacolo “Parole per Musica”, abbiamo dato testimonianza del ritorno in Sardegna di JAN FABRE, con la compagnia Troubleyn (nel 2005 presentò Angel of Death alla XXIII edizione del festival). Il lavoro ci aveva colpito per la straordinaria leggerezza e dolcezza con cui nello spettacolo “Drugs kept me alive” il performer Antony Rizzi riusciva a raccontare il suo mondo visionario e intimo allo stesso tempo.
Pensavamo di aver raggiunto il massimo dell’esito estetico ma siamo stati ancor più sorpresi nell’assistere lo scorso fine settimana al lavoro della compagnia svizzera CIE LINGA, diretta dagli ex allievi del grande Maurice Bèjart, Marco Cantalupo e Katarzyna Gdaniec.
Si è trattato di  due coreografie, proposte qui in prima nazionale, proprio come omaggio di Cantalupo alla memoria della Leoni, al Teatro Auditorium Comunale in piazza Dettori a Cagliari.
“WE ARE NOT I” e “STEP 2.1”, sono due pezzi profondamente diversi. Il primo un quasi assolo, il secondo un lavoro più composito, che si avvicina maggiormente agli stimoli che all’arte arrivano dall’implementazione delle nuove tecnologie.
Una straordinaria Ai Koyama (e Gerald Durand)  sulle musiche di Philippe Jeck, coprodotto dall’Octogone Théâtre de Pully, dà in questo lavoro corpo ad un’indagine sugli stadi di equilibrio emotivo dell’essere umano. Su cosa si adagiano le nostre certezze, i nostri dissidi, i tremiti e i fremiti del nostro io? Quale sequenza mai continua di azioni e pensieri dà senso al vivere? A quale albero possiamo davvero intrecciare i rami dell’esistenza.
La quasi mezz’ora di performance di suo è irraccontabile, perché in questo tempo la danzatrice riesce a regalare una gamma sentimentale al pubblico domando ogni singolo muscolo del suo corpo, partendo da epifanie stop and go dell’inconscio, per poi rivelare pian pianino una sorta di superiore nudità, intesa come disvelamento. La seconda parte sarà giocata con otti piccoli cilindri trasparenti, di diametro non superiore ai dieci centimetri, illuminati alla base da fioche luci led.
Su questi supporti di poca stabilità, la grandissima Ai Koyama adagiava il suo corpo come la Maya desnuda, alla ricerca di uno sguardo esterno, però diverso da quello del voyeur. Nessun ammiccamento, nessun pensiero recondito, ma proprio l’intima comunicazione del proprio stato, vissuto non come partecipazione condivisa. E d’altronde è il titolo stesso forse a chiarire l’arcano artistico, quell’idea che il noi non implichi la pienezza dell’io, una circostanza che riesce ad essere postulata tanto nel sociale quanto nell’affettivo. L’io vive come una divinità insicura, adagiata su piccole instabilità dalle quali fa bella mostra di sé, nella costante ricerca di un equilibrio forse non raggiungibile. Questo frammento sia dal punto di vista coreografico che di esecuzione è un capolavoro assoluto. Imperdibile.
“STEP 2.1” il secondo lavoro proposto – altra coproduzione con L’Octogone Théâtre, con Belenard Azizaj, Gerald Durand, Ai Koyama, Dorata Łecka, Hyekyoung Kim, Michalis Theophanous,   musiche di Christophe Calpini e sistema interattivo di Alain Crevoisier – è invece un trionfo dell’arte bionica, della techno danza.
Grazie ad apparecchiature wireless capaci di monitorare il movimento e trasformarlo in codice sonoro, i danzatori possono traducevano l’avanti e l’indietro, l’alto e il basso, la destra e la sinistra in possibilità nell’universo delle vibrazioni foniche.
I performer vestono da atleti, vogliono quasi ricordare la collaborazione fra l’Istituto delle Scienze Sportive dell’Università di Losanna, la Scuola Superiore di Musica di Ginevra, la Future Instruments, la Biopac System Inc. e con il compositore Christophe Calpini che ha dato il via all’esperimento. A vent’anni dalla sua fondazione, la Compagnia Linga mostra una maturità e una capacità creativa non solo consolidata ma anche coerente, tanto coerente da esser capace di lasciar leggere chiaramente le citazioni e i rifermenti agli artisti e alle arti con cui si pone in dialogo.
Forse più algido del primo esito, perché ancora in fase sperimentale, “STEP 2.1” è uno studio che rende evidente il linguaggio. Ora il linguaggio deve liberare la poesia, superando il codice generatore, lasciando sullo sfondo la grammatica, che in’arte è sempre e solo un pre-testo.
E’ invece dedicato alla danza italiana questo fine settimana con il BALLETTO DI SPOLETO, diretto da Caterina Genta e Marco Schiavoni, che presenterà lo spettacolo “Sette Coreografi per il Balletto di Spoleto”. Sette brevi spettacoli con sette paternità diverse, per inglobare in un’unica struttura sette modalità artistiche di raccontare una storia e la compagnia sarda ASMED-BALLETTO DI SARDEGNA padrona di casa, in scena con due spettacoli: “The Box”, in prima assoluta, sotto la direzione del coreografo Max Campagnani, e “Uomini”, di Guido Tuveri, rappresenta uno spaccato dell’universo maschile contemporaneo avvalendosi di linguaggi differenti (teatro, canto e arte circense) che si uniscono alla danza.

La satira pirandelliana di Michele Placido

ANDREA CIOMMIENTO | La satira filosofica del testo pirandelliano Così è (se vi pare), regia di Michele Placido, smaschera fin dalle prime scene gli abiti di cartapesta del perbenismo provinciale nelle famiglie borghesi d’inizio Novecento. Le incognite di una comunità -quella del paese in cui la signora Frola (Giuliana Lojodice) e il signor Ponza (Pino Micol) vivono, dopo essere fuggiti da un terremoto avvenuto nelle terre d’origine- divengono protagoniste quotidiane del rumorio di tutti i personaggi in scena attraverso il grottesco abitare di un umorismo curioso e ambiguo. Al centro di ogni pensiero una donna rifugiata tra due possibili verità sul suo presente: rinchiusa a chiave dal marito che, dopo essere stato in casa di cura, si è convinto di aver sposato per la seconda volta un’altra donna anziché la moglie che ormai crede morta (a detta della suocera) o nascosta dal marito perché tormentata dalla signora Frola che, dopo la morte della figlia, si convince che la seconda moglie sia sua figlia, cercando a tutti i costi di vederla (a detta di Ponza). Una cosa è certa: la donna è invisibile e impenetrabile, almeno per ora.

L’enigmatico avvenimento mormorato insospettisce il nuovo capo di Ponza, il consigliere Agazzi, che da lì a poco richiederà al prefetto l’avvio di un’inchiesta per dare fine a questo mistero almanaccato. L’unico a difendere il dramma famigliare sarà Lamberto Laudisi (Luciano Virgilio), cognato di Agazzi, sostenitore dell’inutilità di questa inchiesta, dal momento che ogni verità non può mai essere assoluta, tantomeno negli spiragli di risolutezza immaginata dai suoi compaesani, ansiosi di scoprire dove risiede il germe della follia.

Lo spettacolo di Placido porta a nudo la forma attraverso lo svolgersi sostanziale di tre atti ordinariamente organici. La costruzione del soggetto in questione (la figlia/moglie) è uno sfogo a intermittenza che sbilancia, ritrae e scuote in ogni istante la verità di una e dell’altra esistenza, conducendo la ricerca verso lo sguardo consapevole del difensore Laudisi o verso quello smarrito dei compaesani farfuglianti. La scenografia di Carmelo Giannello riflette la storia insieme alle sfumature tridimensionali di ogni azione scenica grazie alla presenza di numerosi specchi che dividono gli spazi del dramma tragicomico, schegge scagliate al suolo che riportano al di sotto di ogni personaggio le linee del corpo di ogni attore. Un punto di vista simultaneo e contemporaneo sui volti della verità fino alla risoluta presenza ultima della donna, gentile fiore dialogico in bocca di tutti i presenti. La moglie del signor Ponza, con viso coperto, rivelerà il mistero: “io sono colei che mi si crede”, perché così parla la verità senza togliere il velo, senza s-velare la realtà, molto più impenetrabile di quanto possa apparire ai nostri occhi. Così è, se pare, lo spettacolo di Placido: un lavoro composito che assume l’incisività drammaturgica di Luigi Pirandello e la devozione canonica e pacata della sua regia.

Visto al Teatro Gustavo Modena di Palmanova (UD). Circuito Ert FVG.

La satira pirandelliana di Michele Placido

ANDREA CIOMMIENTO | La satira filosofica del testo pirandelliano Così è (se vi pare), regia di Michele Placido, smaschera fin dalle prime scene gli abiti di cartapesta del perbenismo provinciale nelle famiglie borghesi d’inizio Novecento. Le incognite di una comunità -quella del paese in cui la signora Frola (Giuliana Lojodice) e il signor Ponza (Pino Micol) vivono, dopo essere fuggiti da un terremoto avvenuto nelle terre d’origine- divengono protagoniste quotidiane del rumorio di tutti i personaggi in scena attraverso il grottesco abitare di un umorismo curioso e ambiguo. Al centro di ogni pensiero una donna rifugiata tra due possibili verità sul suo presente: rinchiusa a chiave dal marito che, dopo essere stato in casa di cura, si è convinto di aver sposato per la seconda volta un’altra donna anziché la moglie che ormai crede morta (a detta della suocera) o nascosta dal marito perché tormentata dalla signora Frola che, dopo la morte della figlia, si convince che la seconda moglie sia sua figlia, cercando a tutti i costi di vederla (a detta di Ponza). Una cosa è certa: la donna è invisibile e impenetrabile, almeno per ora.

L’enigmatico avvenimento mormorato insospettisce il nuovo capo di Ponza, il consigliere Agazzi, che da lì a poco richiederà al prefetto l’avvio di un’inchiesta per dare fine a questo mistero almanaccato. L’unico a difendere il dramma famigliare sarà Lamberto Laudisi (Luciano Virgilio), cognato di Agazzi, sostenitore dell’inutilità di questa inchiesta, dal momento che ogni verità non può mai essere assoluta, tantomeno negli spiragli di risolutezza immaginata dai suoi compaesani, ansiosi di scoprire dove risiede il germe della follia.

Lo spettacolo di Placido porta a nudo la forma attraverso lo svolgersi sostanziale di tre atti ordinariamente organici. La costruzione del soggetto in questione (la figlia/moglie) è uno sfogo a intermittenza che sbilancia, ritrae e scuote in ogni istante la verità di una e dell’altra esistenza, conducendo la ricerca verso lo sguardo consapevole del difensore Laudisi o verso quello smarrito dei compaesani farfuglianti. La scenografia di Carmelo Giannello riflette la storia insieme alle sfumature tridimensionali di ogni azione scenica grazie alla presenza di numerosi specchi che dividono gli spazi del dramma tragicomico, schegge scagliate al suolo che riportano al di sotto di ogni personaggio le linee del corpo di ogni attore. Un punto di vista simultaneo e contemporaneo sui volti della verità fino alla risoluta presenza ultima della donna, gentile fiore dialogico in bocca di tutti i presenti. La moglie del signor Ponza, con viso coperto, rivelerà il mistero: “io sono colei che mi si crede”, perché così parla la verità senza togliere il velo, senza s-velare la realtà, molto più impenetrabile di quanto possa apparire ai nostri occhi. Così è, se pare, lo spettacolo di Placido: un lavoro composito che assume l’incisività drammaturgica di Luigi Pirandello e la devozione canonica e pacata della sua regia.

Visto al Teatro Gustavo Modena di Palmanova (UD). Circuito Ert FVG.

Senza famiglia: Animanera porta in scena il testo di Magdalena Barile

finefamiglia-2RENZO FRANCABANDERA | Sono state molto affollate le repliche della pièce che ha visto il rinsaldarsi della coppia drammaturgia-regia composta da Magdalena Barile e Aldo Cassano/Animanera.

Il teatro contemporaneo sta vivendo un’evoluzione, non saprei dire se di linguaggio ma sicuramente di auto rappresentazione. Così, come al cinema e in tv, se un’idea riesce ad incontrare il gusto del pubblico, a torto o a ragione si cerca di darle un seguito, uno sviluppo. E’ stato, giusto per rimanere in ambito lombardo fra le compagnie sostenute da Etre, il caso di Serate Bastarde, della Compagnia Dionisi, ma non solo, ovviamente. Ma non c’è niente di male, sia chiaro, e anche quello di cui stiamo parlando, in fondo, non è un esito infelice.

Tre anni e mezzo fa, infatti, la compagnia, allora in residenza presso il Pim Off di Via Tertulliano (ora non abito più là, tutto è cambiato, non abito più là), presentava un caustico testo sulle relazioni all’interno di un nucleo familiare composto dai genitori e due figli, capaci di superare la soglia della crisi psichica per internalizzarla  in una serie di nevrosi sistemiche, che ne caratterizzavano le forme di interconnessione. Facile capire come la più banale delle feste, la più banale delle torte, possa in tale ambito rappresentare occasione per quelle dinamiche caotiche il cui studio, nelle scienze matematiche, ha persino fruttato un Nobel. Lo spettacolo aveva avuto un meritato successo. Era intrigante e lasciava l’alone di bruciacchiato fumante sull’abito buono dello spettatore borghese a teatro.

Ma arriviamo ad oggi.  Era chiaro che riprendere la drammaturgia da dove l’avevamo lasciata era un’idea perdente in partenza. La Barile sceglie allora di introdurre al centro delle vicenda la figura della nonna (un notevolissimo Giovanni Franzoni).

Questo individuo dal tratto caratteriale particolarmente determinato, lascito di battaglie tardo-partigian settantottine, dialoga ad inizio spettacolo, nella sua ultima fase di vita trascorsa sulla sedia a rotelle, con i due nipoti tardo adolescenti (Matteo Barbè e Natascia Curci), anche loro muniti di pneumatici, ma per più modesti pattini. Sono loro che sfrecciando in qua e in là aprono lo spettacolo, in una visione al buio di particolare suggestione, perché illuminata da lampada fluorescente. Sullo sfondo una scala dai gradini irregolari e sghembi.

La nonna si rivolge ai nipoti, dichiarando il suo odio per loro padre  (un Nicola Stravalaci a suo agio qui come sulle battute di Copi e in generale buon interprete del grottesco), marito di sua figlia (Debora Zuin) , personaggio infingardo e completamente adagiato sull’indole remissiva della conuige, dal cui torpore l’anziana madre agogna il risveglio.

Un colpo di teatro fa prima morire la nonna, e poi risuscitarla, per catapultarla al mare insieme alla famiglia. E’ qui che la figlia, con un passaggio psicologico non molto ben definito, pressata dall’emotività che intorno a lei è ormai fuori controllo (il figlio dichiara la sua omosessualità, il marito ha mostrato senza ombra di dubbio il suo vero carattere, la figlia è una patetica velleitaria), decide di svegliarsi.

Qui, in una scena madre, la Zuin si leva in piedi sulla carrozzina della genitrice e dichiara iniziato il tempo della sua riscossa.

Diciamo pure che da questo punto in avanti lo spettacolo cambia, sia nel testo. La prima parte, infatti, ha ritmo da sit com televisiva, e tuttavia caustica e non banale, con scambi veloci, personalità delineate con ricchezza di sfumature, pur nel gioco dell’ironia.

Ma dal momento in cui inizia il risveglio della donna, il registro si fa più psicologico e composto di semi-monologhi, con i personaggi dei due figli che si eclissano, per lasciare il fuoco sugli altri tre, secondo il più tradizionale dei triangoli. Il finale non lo sveliamo, ma occorre dire che la regia di Aldo Cassano legge in forma più azzeccata la prima parte, sicuramente prossima alle corde e all’ironia della tradizione situazionista e non ordinata di Animanera (la scena dei villeggianti al mare si compone di due tre chicche di sicuro gusto).

La seconda, invece, più di introspezione, sfugge di mano prima alla drammaturga, che infatti chiude la vicenda con un finale non all’altezza della creatività della prequel (forse il suo desiderio di chiudere in via definitiva la saga, l’ha portata a cercare un esito senza appelli), e poi al regista. Cassano comprende che il registro si è modificato, ma non arriva a dare quello scarto necessario per fare il triplo salto mortale, e lascia i quasi monologhi dei tre personaggi principali in balia di recitazioni di stampo tradizionale, azzerando, paradossalmente, ogni effetto espressionista o straniante da cui avrebbe forse potuto ricavare qualcosa di più intrigante,

Questo non accade, e le ciliegine kitch, marchio di fabbrica della compagnia che si materializzano anche in commenti musicali di derivazione cinematografica, aggiungono assai poco. I personaggi minori restano totalmente fuori fuoco, e quello che era stato il combustibile dei primi quaranta minuti diventa negli ultimi venti un brodino da bere un po’ freddo. E’ mancato il coraggio, alla regia, di non guardare alla drammaturgia condizionata dalla psicosi della saga, per osare, specie nella seconda parte, scelte più di rottura. Il combinato scenico di due meno, a differenza che in algebra, non si trasforma in un più.

Sia chiaro, lo spettacolo è godibile, divertente, si ride, lo consiglierei a qualsiasi tipo di intelligenza vivace voglia confrontarsi con il tema delle relazioni interpersonali, e però, e però, il talento della Barile e quello di Animanera non arrivano all’esaltazione incrociata che era stata invece la cifra del primo spettacolo. Non ci hanno messo quella vena di pazzia visionaria necessaria.

 

SENZA FAMIGLIA

di Magdalena Barile
Regia: Aldo Cassano
Con: Matteo Barbè, Natascia Curci, Giovanni Franzoni, Nicola Stravalaci, Debora Zuin
Assistente regia e musiche: Antonio Spitaleri
Costumi: Lucia Lapolla
Scenografia: Petra Trombini
Luci: Anna Merlo
Coproduzione Animanera – CRT Centro di Ricerca per il Teatro
con il sostegno di Comune di Milano – Fondazione Cariplo Progetto Etre

Drugs kep me alive

RENZO FRANCABANDERA | Esiste una parte del bello che non può essere raccontata. E forse il bello di suo non può essere raccontato davvero, perché quello che viene trasmesso all’esterno è il sentimento che esso genera, non l’astratto in quanto tale. Pensare poi di dover raccontare di questa sensazione in una delle forme più alte e cristalline a proposito di una performance in cui il protagonista per un’ora e un quarto racconta, in un assolo fra teatro e danza, di come le droghe lo abbiano tenuto in vita, è quantomeno prospettiva balzana per chi si accinge a scrivere.
Lo è perché dovremmo raccontare di una scena il cui perimetro è segnato da un migliaio di boccette di farmaci e null’altro, se non un tavolo dove il nostro performer giocherà di tanto in tanto con un paio di ciotole trasparenti al piccolo chimico e alcuni enormi sottovasi riempiti di un po’ d’acqua saponata. Dal soffitto, in un angolo in fondo a destra della scena una macchina che ad un certo punto inizierà a produrre schiuma artificiale. Questo quello che il pubblico vede, e ciò che risulta materiale, consistente. Nulla quindi di esteticamente significativo. Una luce fioca sbalza dal buio questa ipotetica stanza.
Ma è proprio questa la grandezza della mistura che la regia è capace di trasformare in dolcissima leggerezza. Si, perché tutto il resto è struggente, dolcissima e fragilissima leggerezza.
In scena il personaggio: le sembianze di un elfo sbagliato, di un puffo scienziato che ha scarpe, cappello e guanti bianchi, che rende pubblico il suo vissuto, affidato al corpo del ballerino e performer americano Antony Rizzi, assistente di Forsythe e già interprete per Jan Fabre e Jan Lauwers. Con Fabre in realtà la collaborazione è al settimo episodio e questo era nato come monologo, ispirato proprio alla vita di Rizzi, mentre solo dopo pare sia nata una parte fisica, divenuta poi per sublimazione danza.
Il fisico di Rizzi è magro ma non scavato. I suoi tratti sono scuri, con quel tipo di carnagione che lascia intuire la peluria ispida, mediorientale. Indossa una tuta scura che ricorda, senza esserlo, quella da operaio di cantiere. In realtà un involucro, all’interno del quale introietterà di tanto in tanto flaconcini, quasi a voler ricordare l’assunzione di farmaci.
Il testo: la parola di questo spettacolo è una parola che sa trovare la poesia nella chimica. Un’enumerazione da breviario di farmaci, uniti a descrizioni medico-oniriche di reazioni sul corpo di un soggetto dalla presenza fragile ma lucidamente consapevole, e dei riflessi sul sociale del suo essere al mondo.
Nulla che spieghi o ambisca a provare come il farmaco faccia sentire diversi, o renda forti, migliori. L’assunzione di farmaci, qui, è una sorta di rimedio per riuscire ad ammantare di arte la miseria del mondo.
In realtà è il testo l’elemento cardine attorno al quale questo spettacolo ruota, dando corpo ad una potenza di immagini che via via si generano e che finalmente, dopo gli esiti scenici numericamente più affollati ma a nostro avviso non altrettanto ispirati degli ultimi 3-4 anni, riportano Fabre all’altezza della fama del genio.
Quest’omino, poi, pian pianino, nel raccontare la sua allegra follia tossica pone in ossimoro il suo universo leggerissimo e il mondo comune, raccontato attraverso  la parola drammaturgica capace di coloriture pop, con cui viene dissacrato il nostro tempo e i suoi slogan massmediatici; si contrappongono l’enumerazione clinica delle dosi e dei suoi effetti alla banalità del cosmo di non-relazioni che circonda di solitudine il vivere.
Si comporranno in scena, via via, galassie di bolle di sapone sempre più grandi. Tanto più quello cui assistiamo sembra sempre meno il delirio di un pazzo inconsapevole e sempre più la lucida voce di una parte di noi, del nostro io desideroso di occhiali tossici con cui guardare il mondo, tanto più grandi diventano queste bolle di sapone, fino ad ingoiare l’individuo Antony, che al pubblico si è presentato proprio con nome e cognome, e si racconta proprio come potremmo immaginare il racconto di un impasticcato genialoide, un po’ schizzato e poeta.
Bolle dolcissime, enormi, capaci di flutturare nell’aria, materializzazione dei pensieri tutt’altro che mortiferi dell’individuo che li porge allo spettatore. Bolle che si seguono, che si inglobano, che entrano l’una nell’altra, che si riempiono di fumo, con l’inconsistenza che si somma all’inconsistenza e che si infrange sulla materialità del reale. E lui intanto parla, tace, danza.
Più il fiume in piena di questo puffo bianco, magro, con gli occhiali neri grandi scorre, più i virus del nostro mondo (cui con idea geniale viene dato corpo dal performer con batuffoli di quella schiuma che la macchina ha nel frattempo prodotto) diventano la realtà, la sconcia personificazione delle nostre brame, delle nostre guerre, del nostro insulso vivere.
E’, quello del protagonista, un rifugiarsi dalla vita o è forse la cura per leggere in una forma alta e psicoticamente elegante un destino di morte che lo accomuna all’homunculus vulgaris vulgaris?
La risposta è nell’incredibile finale, in cui una serie di macchine, che sparano da fuori scena migliaia di bolle di sapone, pongono fine al bombardamento dell’esistenza e portano questa anima in un paradiso che non è il paradiso artificiale del tossico, ma il sogno d’arte e leggerezza di ogni umano. La bolla, emblema di fragilità, che Varrone per primo accomunò all’uomo, all’esordio del primo libro del Rerum Rusticarum Libri Tres, aforisma ripreso e reso celebre da Erasmo nei suoi Adagia, è il ritratto dell’umano, ma anche del sublime. Miserabile umanità e sublime fragilità questo spettacolo li fonde e  al termine di una colossale pioggia di bolle di sapone, che riempie l’universo scenico, le luci si affievoliscono, fino a ridursi ad un puntatore, che inquadra la testa di Antony Rizzi poggiata sul tavolo. Lui e la sua vita che ha ispirato tutto. Lui con la sua testa calva poggiata sul tavolo come un piatto, ultima parte del corpo visibile, ultimo chiarore nel buio, ultima Bolla. Poi dissolvenza. Oscuro. Capolavoro.
Di seguito un video con alcune immagini dello spettacolo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3gFT3nx7hwY]

La bestia nella giungla

ELENA SCOLARI |  L’inquietante racconto di Henry James in scena al Teatro Oscar di Milano per il progetto DonneTeatroDiritti, fino al 18 novembre 2012.

Henry James è uno scrittore denso, profondo e di lettura non facile. Nella novella La bestia nella giungla avvince il lettore con una storia apparentemente fatta di niente ma piena di riflessioni originali sulla condizione dell’uomo nel mondo.

Siamo nei primi anni del ‘900 a Londra e John è un gentiluomo inglese, un borghese che fa vacanze in Italia, niente di strano, fin qui, ma l’uomo ha una caratteristica psicologica peculiare: è convinto che il suo destino sia di aspettare un evento sconvolgente che lo coinvolgerà e forse lo travolgerà. Da sempre ha questa intima consapevolezza, pur non conoscendo nulla della natura della “cosa” che gli capiterà. Confida il segreto alla dolce Catherine, conosciuta durante un soggiorno a Napoli, di rientro da una gita in barca. Dimenticatosi del fatto John reincontra la donna ad un ricevimento, molti anni dopo e da questo giorno i due non si separeranno più: la sola a conoscere la terribile unicità della vita dell’uomo, accetta di aspettare con lui l’avvento misterioso.

In questa realizzazione teatrale, per la regia di Paolo Bignamini e Annig Raimondi (quest’ultima anche interprete, insieme a Antonio Rosti), noi aspettiamo con i protagonisti, gli spettatori sono infatti sul palco, in due file di poltrone, a fondo scena, e guardano da vicino le espressioni dei due attori mutare con il passare del tempo, degli anni. Una bella soluzione, spiazzante, per sovvertire le sensazioni di tutti.

Senza raccontare per esteso la trama possiamo però dire che l’importanza di questo scritto di James sta nella maniera conturbante di trasmettere lo stordimento del protagonista davanti a qualcosa che ha dell’ineluttabile, un’incombenza inevitabile che influenza John per tutta la vita, fino al punto di coinvolgere una donna, senza la quale non avrebbe saputo sopportare il fardello. Gli anni passano e Catherine ci appare sempre più cosciente di ciò che l’uomo sta spasmodicamente attendendo, prova a dargli degli indizi, con la sua presenza, ma è destino che il gentiluomo non li colga, fino all’ultimo respiro di vita.

John vive in un continuo stato di appercezione, in filosofia è il percepire di percepire, sente di sentire qualcosa, che finirà per sovrastarlo, suo malgrado ma anche con il suo inane avallo.

Lo spettacolo si dipana in un serrato e continuo dialogo tra i due, un testo bellissimo ben recitato, soprattutto da Raimodi che ha il giusto disincanto e una delicatezza misurata nel guidare l’altro nella giungla di un’esistenza votata all’attesa insoddisfatta.

L’adattamento al testo che è stato utilizzato è di Marguerite Duras, e sottolinea il ruolo femminile, centrale anche nell’originale ma qui ancora più evidente nella sua caratteristica di genere.

Abbiamo qualche perplessità sulle scelte registiche: nella prima parte dello spettacolo abbiamo visto molti movimenti dei due attori, su e giù dal palco, secondo noi francamente poco utili e fuorvianti rispetto al nucleo essenziale. Altrettanto fuorvianti ci sono sembrati gli unici elementi scenografici: quadri confusamente astratti e pesanti (dal programma di sala non si evince l’autore) sparsi per la platea, a mo’ di galleria.

Riteniamo che i cambi d’abito e di postura di Catherine e l’allontanamento fisico dei due interpreti sulla scena dessero idea precisa del passare del tempo e della progressiva insopportabilità dell’attesa, senza altri fronzoli.

L’Evento si rivelerà consumato senza che la vittima se ne sia accorta, questa è la sua condanna.

Autunno Danza a Cagliari

RENZO FRANCABANDERA | Attenzione al fermento nazionale ma anche alla dimensione locale. E’ questo il focus che da diciotto anni persegue la direzione artistica di Autunno Danza, rassegna ospitata a Cagliari negli spazi dell’ex Vetreria e che propone quest’anno un programma di rilievo (abbiamo rivisto con grande piacere Atlante del bianco di Virgilio Sieni, e nel prossimo fine settimana saranno sul palcoscenico Tagliarini/Deflorian).

Abbiamo intervistato Momi Falchi, della direzione artistica, per un dialogo sul cosa significa promuovere il linguaggio coreutico oggi.
–          Quali sono le determinanti delle scelte artistiche nella strutturazione della rassegna? 
L’interesse verso il linguaggio della danza contemporanea nella sua accezione specifica cioè  di ricerca e sperimentazione che, pur centrando nel movimento e nel corpo la propria attenzione, si pone in relazione  con altri mezzi espressivi e linguaggi artistici. Questo ci spinge alla definizione di una programmazione non a tema e non concentrata solo su un’unica estetica o filosofia teatrale ma al contrario di toccare stili e modelli molto differenti. In ogni edizione tentiamo di seguire alcune direttive costanti: – ospitare autori consolidati in modo da seguirne il percorso creativo; – dare uno sguardo verso il panorama internazionale, cercando di cogliere alcuni elementi specifici delle diverse provenienze; – produrre  un nuovo spettacolo di autori sardi e offrire il sostegno a un progetto che coinvolga  giovani artisti.
–          Autunno danza arriva alla sua diciottesima edizione. Che tipo di dialogo ha instaurato in questi anni con la collettività cagliaritana e sarda in generale? 
Non credo di essere presuntuosa affermando che ormai Autunno Danza rappresenta un appuntamento atteso da un pubblico, certamente non numerosissimo, ma costante e attento. La nostra attività si concretizza oltre che nell’organizzazione della rassegna anche nella produzione e della formazione dei giovani, compreso un intervento nella scuola pubblica, con il fine di diffondere la conoscenza della danza contemporanea. Negli anni ci siamo rivolti anche al resto della Sardegna, e da 2 edizioni partecipiamo alla realizzazione di un festival estivo nel paese di Sadali, cercando di superare la difficoltà di introdurre il linguaggio della contemporaneità in contesti culturali estremamente differenti e più rivolti al passato o alla pseudomodernità del modello televisivo.
– Proprio la parte finale della rassegna vuole guardare alle esperienze del territorio. Perché secondo voi la Sardegna da alcuni punti di vista comunica di sé ancora una dimensione quasi oleografica e non corrispondente allo stato della ricerca artistica sull’isola? 
In realtà nella parte di AD che si interseca con il festival SIGNAL abbiamo la presenza di un solo artista sardo, Enrico Tedde, che peraltro si è formato e lavora in un contesto internazionale. Credo che la Sardegna viva le conseguenze della riaffermazione di un’identità culturale che se da un lato nasce dalla necessaria rivendicazione di una specificità e autonomia, che storicamente è sempre stata negata, dall’altra corre il rischio di cadere in stereotipi e modelli obsoleti. Sono spesso le istituzioni o le realtà esterne che chiedono agli artisti sardi di produrre “sardità” cioè oggetti artistici connotati da archetipi legati ad un immaginario proveniente soprattutto dall’area nuorese e barbaricina. E’ molto complesso il lavoro dell’artista sardo contemporaneo, il cui problema è  rivendicare la propria libertà di scavare nella propria identità individuale e collettiva e di ritrovare quella base sostanziale che comunque spesso ha tanto in comune con l’essenzialità della produzione contemporanea.
–          Quali sono i progetti per l’anno prossimo e le prospettive di Spaziodanza? 
Primum vivere deinde philosophari!!!!!! Il primo progetto è quello di sopravvivere alle difficoltà del momento e cercare di non rischiare sul piano personale oltre i limiti accettabili. Poi ci sono una serie di progetti che vanno dal probabile al possibile all’utopico…continuare a organizzare un festival possibilmente con tempistiche razionali che ci permettano di progettare e programmare con un po’ di serenità; riproporre un festival estivo di danza urbana che già avevamo organizzato anni fa ma che siamo stati costretti a tagliare; creare un centro di danza contemporanea che programmi nel corso dell’anno intero e riesca a coinvolgere il pubblico dei giovani; supportare la creatività degli artisti sardi anche con l’intervento e le residenze di artisti provenienti da contesti internazionali. Non mancano le idee e neanche l’energia!

Nekrosius all’Argentina si misura con Dante

MARIA PIA MONTEDURO | Davanti al connubio Dante/Nekrosius si è portati a pensare a un risultato straordinario: la somma di due geni, pur nella gradualità del termine “genio” e considerando le diverse situazioni e il mezzo artistico impiegato. Insomma ci si aspettava di assistere a un grande evento teatrale, scaturito dalla lettura di un testo cardine della letteratura mondiale da parte di un regista, assolutamente attento a mettere in scena capolavori dell’umanità attraverso la sua profonda sensibilità. Invece così non è stato. Chiariamo subito: Eimuntas Nekosius resta un grandissimo regista, assolutamente strepitoso nella direzione degli attori che si esibiscono, come sempre negli spettacoli del regista lituano, anche in performance canore e tersicoree. Molte trovate sono decisamente originali e coinvolgenti, spesso poetiche. Ma, e non è un ma da poco a parere della scrivente, la cifra interpretativa dello spettacolo è sbagliata. Nekrosius, lo ha detto lui stesso, si è avvicinato a Dante da poco tempo e ne è rimasto folgorato. Lo stesso, nelle note di regia, ammette con lodevole umiltà “Dante è una montagna mente noi stiamo ai piedi di una collina”. Questo per dire che è sembrato che Nekrosius abbia letto con il appassionato impeto “della prima volta” la Commedia e, travolto da tanto materiale artistico, umano, culturale, spirituale – dal tutto insomma che c’è nell’opera dell’Alighieri – non abbia saputo governare il mare magnum, realizzando uno spettacolo non omogeneo, a volte lento (in genere gli spettacoli di Nekrosius non perdono una battuta nel ritmo teatrale!), con qualche punta addirittura di noia. La cosa che più colpisce è che, in buona parte della mise en scene, Nekrosius abbia scelto un approccio comico al testo. In più situazioni si sorride, banalmente: per uno scambio di autografi tra i personaggi, per la mimica facciale del bravissimo Roladas Kazlas (un Dante abbastanza giovanotto e scanzonato), per situazioni ripetute proprio per cercare la chiave comica. Si preferisce sorvolare sul fatto che il pubblico spesso ridesse di gusto (sul pubblico teatrale di oggi, forse di sempre, si potrebbero scrivere interi trattati…), certo è che venivano sottolineati alcuni aspetti proprio per far ridere. Si è portati a pensare che la maestosità di Dante abbia in un certo qual modo intimidito Nekrosius, ma si ha soprattutto l’impressione chela Divina Commedianon sia stata digerita, metabolizzata, assimilata: si avverte una situazione di estraneità tra autore e regista, dolorosa per chi apprezza entrambi. Sicuramente ha giocato a sfavore dello spettacolo la sensazione, strana per il pubblico italiano, di sentire recitare “il sacro testo” in una lingua che non è l’italiano, né una lingua latina. Però la non appartenenza di Nekrosius alla cultura latina, italiana in particolare, ha avuto anche degli effetti positivi: la scelta degli episodi da rappresentare ha certamente risentito della libertà che il regista ha avuto di fronte a un testo, ritenuto pilastro della cultura mondiale, ma non assunto con il latte materno. Così Nekrosius ha saltato episodi che sono basilari per il pubblico italiano, tipo Ulisse, il Conte Ugolino, ad esempio; forse poteva essere evitata l’invettiva di Dante contro Maometto “seminatore di discordia”, dove l’universalità del testo dantesco è ingabbiata dal contingente della sua epoca storica. Il cast, come detto, di grandissimo livello: tutti attori giovani, tecnicamente eccezionali, molto affiatati tra loto e consci di recitare un testo di per sé non teatrale, ma ricco di un’umanità travolgente da trasferire sulle tavole del palcoscenico. Molto suggestiva la scelta delle musiche, Caikovskij in primis, suonato, ma anche cantato con una sorta di coro a bocca chiusa molto coinvolgente. Dante/Nekrosius, Nekrosius/Dante: una relazione, per ora, riuscita solo in parte…

Storie di famiglia

RENZO FRANCABANDERA | Nata all’interno degli accordi di scambio culturale italo-francesi per il programma Face-a-face, la regia di J-C Penchenat che ha aperto la stagione del Massimo di Cagliari nasce dall’idea di prendere alcuni testi brevi del drammaturgo francese J-C Grumberg, per legarli assieme in un’unica pièce.

Tradotti da Genevieve Rey-Penchenat con il supporto di Oliviero Ponte di Pino, questi piccoli frammenti, sono appuntite schegge di uno scrittore nato nel pieno della seconda guerra mondiale da famiglia ebrea e che quell’imprinting riporta nella sua scrittura, con piccole punte di cattiveria e pungente ironia contro il modo di vivere borghese, i suoi preconcetti, il suo dir male.
Lo spettacolo si articola in due atti: nel primo vengono presentati tre scritti, uniti proprio da questa logica di stampo più sociale, di sferzante critica al nostro tempo, che viviamo come tracotanti villeggianti, incapaci di comunicare con alcuno che abbia un idioma, un modo di pensare, di essere differente dal nostro. Il secondo è invece composto da due drammaturgie della durata di mezz’ora ciascuna, che hanno come tema unificatore il tema della madre, una figura tipicamente anziana, se non già morta, che in un caso parla freudianamente dall’oltretomba ad un figlio maturo, bendato, su un letto d’ospedale, incapace di aprire gli occhi al mondo e che ancora attende dolcezze che non potrà avere più. L’ultimo frammento, rappresentato in prima assoluta all’interno di questo ipotetico centone dedicato al drammaturgo, racconta invece degli ultimi giorni di una madre anziana, fra l’ospizio e una fuga da un micro mondo ormai incapace persino di tutelare un cesso privato per i suoi bisogni. La sua sarà una fuga per la morte, che lascia suo figlio solo e fermo nel suo probabile non averla mai capita davvero.
Come è stato costruito l’allestimento dal punto di vista scenico e registico:
Il palcoscenico è partito in due ambienti: uno più piccolo, nero, che lo occupa per un terzo alla sinistra, pieno di oggetti, libri, cianfrusaglie, su cui domina una disordinata scrivania, che la regia sfrutta immaginandola abitata da un personaggio che interpreta lo scrittore stesso; l’altro, che prende la maggior parte della scena, è bianco e vuoto, riempito di tanto in tanto con pochi oggetti, capaci di raccontare un’ambientazione (un lettino per l’ospedale, un drappo arabo e due cuscini per un esotico ristorante nordafricano, due piantine per un giardino pubblico). Questa idea scenica è esito di un concorso di idee bandito dal teatro e destinato ai giovani.
Un nutrito gruppo di ragazzi ha presentato un progetto per la scena nell’ambito del bando “Largo ai giovani”; quello accolto è quello di alcuni studenti dell’Università di Cagliari e, all’interno di questo, il regista ha poi ambientato il suo pensiero. Non sappiamo se i ragazzi siano stati ispirati dal regista stesso, che aveva loro già comunicato la sua idea di resa scenica, o questa sia stata precedente e abbia, per così dire, ispirato la regia. Il secondo caso sarebbe quantomeno singolare, ove avvenuto in assenza di dialogo. Ma tant’è, anche ove il dialogo sia occorso, rileva fondamentalmente il fatto che un terzo della scena, la stanzetta dello scrittore, sia ambientazione al pretesto drammaturgico che individua come collante di queste schegge narrative sganciate l’una dall’altra, la presenza di un attore che interpreta lo scrittore, che vede scorrere sotto i suoi occhi, eminentemente nella metà bianca della scena, la messa in atto delle sue opere. Ben presto si intende come ai fini della fluidità narrativa e teatrale di sequenze, che sembrano nate e ispirate a una formula interpretativa quasi da rivista, a pochissimo giova l’idea di questo scrittore, che non solo non è cemento logico di alcunché, ma finisce per essere forse visivamente d’intralcio ad un ambiente scelto come asettico, vuoto, come il mondo che vuole raccontare.
Da questo deriviamo una sensazione di particolare pigrizia registica, se ci si può passare la licenza, una regia che non fa nessuna scelta forte sul testo né sulle interpretazioni del testo, chiedendo agli interpreti un naturalismo che di tanto in tanto va sopra le righe, quasi a voler accentuare il tono satirico di quanto viene recitato. Quasi nullo il lavoro sul corpo, salvo quanto affidato all’esperienza di alcuni interpreti.
Le musiche sono ispirate per largo tratto a una melodia klezmer, anche in questo caso senza alcun particolare sforzo di fantasia.
Oltre tutte le considerazioni che precedono, lo spettacolo favorisce anche un pensiero su come a teatro, come probabilmente in ogni altro ambito della società, rottamare tout court l’esperienza bollandola come vetusta maturità sia un pensiero folle. Se qualcosa infatti di questo spettacolo riesce dal punto qualitativo a stare a galla, è perché trova appiglio nelle interpretazioni degli attori della generazione matura (Saliu, Orchis, Spiga, Careddu, Bodio), capaci di modulazione vocale, di timbri e cadenze del recitato che consentono al testo di non sviluppare un andamento piatto e superficiale. Particolarmente insufficienti risultano, per contro, le recitazioni dei due giovani (Meringolo e Zerbo). Apprezzabile il fatto che siano stati scelti e integrati nello spettacolo come esito di un laboratorio (“Questa sera si recita Grumberg”), ma le loro prove, così rigide e impostate, non profondamente attente al comunicare il senso della presenza scenica, creano una falla importante nella chiglia di una nave che già di suo è stata pensata per una navigazione non così agile, come il testo avrebbe invece meritato.
Quanto il gesto di addentare un pezzo di cioccolato (ovviamente non reale ma invisibile), è interpretato da uno di costoro all’inizio della pièce con superficiale incuria, allungando la mano e portandola alla bocca e attivando una finta masticazione, che avrebbe potuto essere uguale per qualsiasi altro immaginifico alimento, senza comunicare l’idea della consistenza di quel cibo o la sua croccantezza resistente, tanto blandamente anche la regia addenta il testo, le sue parti e l’insieme, con sciatteria.
Così dalla fruizione deriviamo un gusto totalmente insipido, il testo e la sua dinamica potenzialmente salace perdono via via forza di essere, e tutto scivola via in un mediocre progredire senza idee forti, fino al salvifico buio finale.