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giovedì, Settembre 19, 2024
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L’amore schifo dei Maniaci d’amore

RENZO FRANCABANDERA | L’incontro con la giovane compagnia Maniaci – d’Amore ( e volutamente scrivo con il trattino per rompere il gioco fin da subito, dichiarando l’intenzione) avviene a Teatro Libero di Milano, dove sono in corso le repliche del fresco e divertente Il nostro amore schifo.
I due giovanissimi sono Luciana Maniaci (23 anni, nata a Messina) e Francesco d’Amore (25, Bari). Lei è dottoressa in Psicologia Criminale, lui in Letteratura Moderna e Contemporanea. E’ da sei anni che lavorano insieme, e dopo un corto teatrale, Serenasi (2006), sono passati a strutture via via più complesse: Le cose (progetto di teatro in casa ‘Gas Mostarda’ 2007), Pillole (2008) e Il Nostro Amore Schifo (tratto da Goethe, Musil e Salinger 2009).
Il nostro amore schifo è la seconda tappa del progetto “Pillole”, con cui i due stanno indagando l’amore nell’età giovane.
Come immaginarsi questo lavoro: al centro della scena un tavolo, che all’occorrenza diventa cubo da discoteca, poi lettino un po’ stretto per i primi approcci fra i due, e via via il tavolo intorno al quale si riunisce la famiglia di lei per la presentazione ufficiale di lui, il tavolo della casa dei due ormai sposati, quando la coppia avanza negli anni. Un centro di gravità spazio temporale, arricchito solo da alcune sedie pieghevoli  di legnaccio di quelle da bar estivo, dipinte nere, che sono l’unico ulteriore elemento scenico.
Werther,smilzo imberbe delicato come un elefantino filosofeggiante e poetastro,  cerca di convincere lei ad un amore fugace. Lei, insicura, categoria belle imperfette, è desiderosa di continuità affettive, vuole stabilità. Lo presenta, in un’imbarazzante riunione di famiglia, ai suoi (ovviamente del dialogo sentiamo solo le risposte che i due danno a parenti assenti in scena). Lui chiude la presentazione con una non meno imbarazzante poesiola in rima sciolta di tenore dilettantistico. Sogno o realtà,l’incontro finisce in una carneficina stile Natural born killer.
Ma il sogno di lei ha più concretezza o forse la non rassegnata prosecuzione/persecuzione va a segno. I capelli imbiancano, lui migliora nel suo poetare, resta animale, ma lei riesce nel proposito di rendere di fatto continuata la serie di “per adesso”. In un registro sempre leggero ma non consumato, lo spettacolo corre nella vita dei due fino alla fine.
Cosa resta della visione?
Le scene più ricche di emotività sono per paradosso quelle in cui il verbale viene messo da parte: la strage di famiglia, l’imbiancare dei capelli (bellissimo) e alcune altre sequenze figlie forse dell’esperienza registica di Tarasco. Ll’intreccio logico del testo, pur ingegnoso, resta a tratti un po’ allungato, in più d’un punto sgonfiato di contenuto poetico vero, ulteriore.
Pur nella gradevolezza complessiva, nel testo manca l’elemento sorprendente. Una volta definito il quadro emotivo in cui tutto avviene, subentra una sorta di aspettativa mancata. Lo spettatore riesce a prevedere il seguirsi delle battute, e perfino il finale, tipicamente in questi spettacoli imprevedibile, si intuisce con qualche secondo di anticipo.
Quello che né a Tarasco né ai due autori/attori riesce, è andare oltre loro stessi (oltre andare oltre i Maniaci, per tornare al materiale umano di Maniàci e d’Amore, per utilizzarlo più profondamente, in modo più tagliente).
Stiamo parlando sicuramente di una coppia di talento, con una qualità di scrittura e costruzione drammaturgica e attorale da rodare. Oltretutto, proprio il talento dei due lascia giustamente un’aspettativa che lo spettacolo di per sé non esaurisce e che non vorremmo mai si concretizzasse in un sequel, tipo Sandra-Raimondo.
Forse dovrebbero/potrebbero confrontarsi anche con qualche testo altrui, un classico o un contemporaneo, proprio per andare oltre le indoli individuali, lo scriversi o scrivere quello che è più facile/congeniale, per sfidarsi e sfidare il teatro, oltre che il letterario da cui entrambi provengono (scuola Holden e ambiente teatrale torinese). Altrimenti, così com’è, dà la sensazione del tema libero, un po’ adagiato, dei due bravi della classe, su quello in cui meglio riescono.
Ma, (e questa riflessione vale in prospettiva: siamo consapevoli di come tutti partano da ciò che riesce meglio) quando il bravo tuffatore sceglie di eseguire dalla pedana un tuffo, sa anche quale livello di difficoltà sta proponendo. Il punteggio finale è in ragione sia dell’esecuzione sia della difficoltà intrinseca dell’esercizio.
Per paradosso, l’esito finale può premiare con un voto più alto un esercizio difficilissimo non eseguito perfettamente piuttosto che un esercizio più agevole, eseguito alla perfezione. Premettendo che la perfezione non è di questo mondo, “Il nostro amore schifo” è un’occorrenza della seconda fattispecie.  Siccome intuiamo la bravura dei tuffatori, li aspettiamo dal trampolino più alto con un esercizio più difficile. Sapremo allora dirvi con minor margine d’errore se si tratta o meno di fenomeni. Ci siamo comunque divertiti.

La danza periferica di Virgilio Sieni

BRUNA MONACO | Inizia senza danzatori De Anima, l’ultimo spettacolo di Virgilio Sieni ispirato all’opera filosofica di Aristotele. Inizia con un enorme uovo grigio appeso al soffitto che oscilla avanti e indietro. Il suo è un movimento meccanico, manovrato. Preciso e prevedibile. Nei tre libri che compongono il De Anima lo Stagirita indaga sull’anima, appunto, tenta di comprenderne l’essenza, di definirla scientificamente e arriva a dire che “pare che l’essere animato si distingua dall’inanimato soprattutto per due proprietà: movimento e percezione”. E da qui parte Virgilio Sieni: anche il ciondolare di un uovo grigio è movimento. Anche un uovo grigio ha l’anima? No, ma chi lo manipola, anche se non si vede, sì. Fine del primo quadro. Nei quadri successivi non ci sarà più spazio per oggetti patentemente inanimati: arrivano i danzatori, in corsa, da dietro il tendaggio pesante che copre il fondale. “Rosa Tiepolo” è la tonalità di quel sipario. Un rosa che nel corso dello spettacolo si trasforma, incontra le luci di Davide Cavandoli e scolorisce, si accende. Sfuma in altri colori, si fa azzurro. I danzatori cambiano tenuta a ogni quadro: i colori sono pastello, come sempre negli spettacoli di Sieni. Indossano slip e canottiere, poi costumi che ricalcano quelli dipinti da Picasso per i suoi clown, arlecchini e saltimbanchi. Ramona Caia, Giulia Mureddu, Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Andrea Rampazzo e Davide Valrosso sono portatori e marionette, si sorreggono l’un l’altro, si lasciano cadere. I loro corpi sono esili, come la qualità dei movimenti. Gesti rapidi, frenetici, delle braccia e delle gambe soprattutto. Movimenti che non partono mai dal centro, sono periferici, vuoti.

A chi abbia anche una vaga idea di cosa si dica nel De Anima aristotelico, lo spettacolo di Sieni appare chiaro, fin troppo, didascalico e ripetuto, noioso. Probabilmente, al contrario, chi è arrivato in teatro senza idee pregresse, senza immaginare in cosa si sarebbe imbattuto, non avrà visto molto in quei movimenti frettolosi. Ci sarà stato poi chi, prima di entrare, avrà letto le note di regia e nel vedere lo spettacolo si sarà affidato alle parole di cui Sieni si serve per comunicare ciò che immagini e coreografie, da sole, non sono in grado di veicolare.
D’altronde i riferimenti e le citazioni sono troppe e troppo appariscenti per non essere colti dal dubbio che Sieni pretenda di proporre uno spettacolo intellettuale. Ma l’ostentazione palese delle ispirazioni, l’ansia di mostrare congiunta a quella che ciò che è mostrato sia subito riconosciuto, fanno del De Anima un’opera di troppo poco spessore.

Primo focus day con Gabriele Vacis al Rossi di Pisa

REDAZIONE | A un mese dall’apertura, l’ensemble del Rossi di Pisa presenta Una città invisibile tra pedagogia e teatro, focus day a cura di Gabriele Vacis, Antonia Spaliviero e Andrea Ciommiento. Dalle 15.30, una giornata d’approfondimento e confronto sulla costruzione di un teatro a vocazione pedagogica partendo dall’esperienza di “Schiera/Skiera” sviluppata negli anni alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi (Milano), al Palestinian National Theatre (Gerusalemme) e all’interno di cinque edizioni sperimentali presso il Teatro Regionale Alessandrino (Alessandria), il Centro Inteatro (Polverigi) e il Teatro Valle Bene Comune (Roma). Il focus sarà dedicato inoltre all’attuale condizione del Teatro Rossi Aperto e alla condivisione sul teatro e le città, sulla composizione del suo spazio architettonico e sulle relazioni che il teatro dovrebbe sempre generare. Alle 21 la presentazione del docu-film La Paura siCura (regia di aGabriele Vacis), promosso dal Forum Italiano per la Sicurezza Urbana in coproduzione con il Centro Inteatro, la narrazione audiovisiva di un viaggio in Italia attraverso sei laboratori teatrali in altrettante città del Paese: Catania, Genova, Montegranaro, Ravenna, Schio, Settimo Torinese verificando le paure nei diversi contesti, per le diverse età dei soggetti coinvolti, in riferimento alle diverse criticità che venivano affrontate: da quelle più intime, esistenziali e adolescenziali di tanti ragazzi; a quelle derivanti dai mutamenti che le nostre città grandi, medie e piccole hanno affrontato in questi anni; a quelle, drammatiche, del degrado e della criminalità diffusa e organizzata.

PROGRAMMA

Ore 15.30 Schiera/Skiera: una città invisibile tra pedagogia e teatro

Appunti per la costruzione di un teatro a vocazione pedagogica

“Ho iniziato a lavorare sulla schiera molto tempo fa. In “Elementi di struttura del sentimento”, uno spettacolo che ho fatto nel 1985, c’era una scena da cui è nato l’esercizio. Sei attrici camminavano dal fondo del palcoscenico al proscenio, facevano una piccola azione e poi tornavano indietro. Il ritmo cresceva su una musica che durava più di sei minuti, e il movimento diventava parossistico. Quella scena conteneva gli elementi necessari a creare azione. Era un luogo. Nel tempo è diventato un esercizio (…) Ormai facciamo qualcosa che chiamiamo teatro per convenzione, ma dovremmo cominciare seriamente a pensare di dargli un altro nome, o altri nomi. Perchè il teatro è qualcosa che sta alla radice di quello che facciamo, ma ormai è un pezzo che dentro al teatro non riusciamo più a starci. Schiera/Skiera vuole essere il luogo e il tempo per cercare i nomi di quello che facciamo.” Gabriele Vacis

Ore 18 Il Rossi Aperto: costruendo affinità

Un confronto pratico sul teatro e le città, sulla composizione del suo spazio architettonico e sulle relazioni che il teatro dovrebbe sempre generare. Una condivisione che partirà dall’ascolto di chi si sta prendendo cura quotidianamente del Teatro Rossi fin dai primi giorni di riapertura.

Nel nostro presente i mezzi di comunicazione di massa non sostituiscono il teatro. Se più gente usa telefoni cellulari ed internet non smette di andare a teatro, anzi, magari trova più facilmente le informazioni per andarci. La nostra vita è fatta di opportunità molteplici, di coesistenza delle differenze. La modernizzazione degli strumenti che usiamo quotidianamente non provoca l’abbandono degli strumenti più antichi: usiamo indifferentemente aereo e bicicletta, computer e libro, televisione e narrazione orale. Moderno e antico sono sempre più presenti, simultaneamente, nella nostra vita. Come il passato e il futuro. Il teatro, come la città, è antico, non è moderno ma contemporaneo perché avviene nell’unità di spazio e di tempo. Il cinema, la televisione, internet, non sono contemporanei, sono inevitabilmente in un altro tempo e in un  altro spazio. Sono strumenti istantanei, vanno contro il tempo, il teatro e le città vanno con il tempo. La TV tende a consumare il tempo, a darti la notizia prima che accada, questo è il carattere dell’informazione. Il teatro e le città tendono a produrre tempo: non avendo la necessità di informare possono permettersi di raccontare. Ed è il racconto che produce tempo. Non è meglio l’uno o meglio l’altro: raccontare non è meglio o peggio che informare, sono soltanto cose diverse, e l’una nutre l’altra. Così il teatro non è meglio o peggio della televisione. Il caffè istantaneo è utilissimo, l’espresso è la nostra quotidianità, ci serve ed è buono. Ma la napoletana fatta come dice Eduardo De Filippo, quella col cappuccio sul becco e tutto quanto, è un’altra cosa, non è cosa da consumare come l’espresso. Un’altra cosa, tutto qui. Abbiamo bisogno di comprendere la complessità delle relazioni tra consumare e produrre tempo, per questo è bene avere a disposizione tutti gli strumenti: la televisione e il teatro, il cyberspazio e le città.

Ore 21 La Paura siCura (docufilm) | regia di Gabriele Vacis

“La paura è il sentimento dominante del nostro tempo. Perché possediamo tanto. Per lo più cose. Quindi abbiamo paura che gli altri, il resto del mondo a cui abbiamo rubato il tanto che abbiamo, ci presenti il conto. Abbiamo paura che ce lo portino via. Chiedo di raccontare storie: quella volta che hai avuto veramente paura. Quella volta che ti sei trovato di fronte la bellezza. Quella volta che sei riuscito a dire veramente a tuo padre che… Non chiedo opinioni. Così vengono fuori testimonianze diverse: se uno ha vissuto al sud ed è emigrato dal suo paese ha paure e desideri diversi da uno che è non si è mai mosso dal luogo di nascita… In questo modo si individuano temi, che poi vengono unificati in una drammaturgia. Si tratta di ascoltare: gli altri ma anche sé stessi. Si tratta di guardare: il mondo ma anche il proprio corpo. Perché è con il corpo che si fa drammaturgia. Intrecciando frammenti di storie. Perché adesso sappiamo che l’arabesco che formano le nostre storie frammentarie non ci fa perdere il senso. L’accostamento di racconti genera scintille di senso imprevedibili. Genera immagini, danze, musiche, storie che frullano identità impossibili, mobili, fluide.” (Gabriele Vacis)

Raccontare e interpretare le paure del presente attraverso la raccolta di storie personali capaci di agganciare sentimenti collettivi e generali. Volti, persone, storie di paura e di coraggio. Un dialogo intimo con bambini, giovani, adulti, anziani che si fa universale perché riguarda ognuno di noi. Il progetto La paura siCura, promosso dal Forum Italiano per la Sicurezza Urbana in coproduzione con il Centro Inteatro, ha costruito idealmente e materialmente un viaggio in Italia attraverso sei laboratori teatrali in altrettante città del Paese: Catania, Genova, Montegranaro, Ravenna, Schio, Settimo Torinese. Ciò ha permesso di verificare le paure nei diversi contesti, per le diverse età dei soggetti coinvolti, in riferimento alle diverse criticità che venivano affrontate: da quelle più intime, esistenziali e adolescenziali di tanti ragazzi; a quelle derivanti dai mutamenti che le nostre città grandi, medie e piccole hanno affrontato in questi anni; a quelle, drammatiche, del degrado e della criminalità diffusa e organizzata.

APPROFONDIMENTI

Link Web di approfondimento per “Una città invisibile tra pedagogia e teatro” al Teatro Rossi Aperto di Pisa:

Schiera/Skiera 3, summer school a Cittadella di Alessandria:

http://www.youtube.com/watch?v=P2v9Ipk_g44

Schiera/Skiera 5, decima permanenza al Teatro Valle Bene Comune (Roma):

http://www.youtube.com/watch?v=fNRr3kh8Das

Il trailer del film “la Paura siCura” (versione 1)

http://www.youtube.com/watch?v=mLAHQYKMv54&feature=related

Il trailer del film “la Paura siCura” (versione 2)

http://www.youtube.com/watch?v=8d8306T_TaU&feature=endscreen&NR=1

Intervista a Gabriele Vacis sul film “la Paura siCura” (Andrea Ciommiento, PaneAcqua)

http://www.youtube.com/watch?v=sYshysELMaQ

Teatro Rossi Aperto (Pisa):

http://teatrorossiaperto.blogspot.it/

l Jihad, i cortei e le manifestazioni

Innocence-of-MuslimsFRANCESCO MEDICI | Nel marzo del 2004, la Francia ha bandito dalle scuole statali tutti i simboli religiosi, incluso il velo islamico (hijab). Nell’aprile del 2011, ha introdotto una legge che vieta di coprirsi il volto in pubblico, stabilendo, ad esempio, di sanzionare con una multa di 150 euro le donne musulmane che indossano per strada il niqab (velo che lascia intravedere, nella maggior parte dei casi, solo gli occhi). Il mese scorso, il governo francese ha vietato di manifestare a Parigi contro il film anti-islamico “The Innocence of Muslims” (presumibilmente girato negli Stati Uniti e diffuso in forma di trailer su internet) e le caricature del Profeta Maometto pubblicate dal settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Secondo il premier Jean-Marc Ayrault, non c’era «ragione di lasciar entrare nel nostro Paese conflitti che nulla hanno a che vedere con la Francia». Il ministro dell’Istruzione, Vincent Peillon, in difesa di “Charlie Hebdo”, ha aggiunto che «la libertà d’espressione è molto importante per la civiltà occidentale e, come la democrazia, va preservata».

Nella dottrina islamica, il diritto-dovere di manifestare pertiene a quello che, secondo alcuni gruppi musulmani (come gli sciiti), sarebbe, in aggiunta ai cinque canonici – ovvero la testimonianza di fede (shahada), la preghiera (salat), l’elemosina (zakat), il digiuno (sawm) nel mese di ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca (hajj), fino alla Ka‘bah, la casa di Dio –, il sesto pilastro della religione: il cosiddetto “jihad”, comunemente ritenuto un obbligo per tutta la comunità islamica (Umma).

Tradotto impropriamente come «guerra santa», quello del jihad (nome maschile in arabo) – è probabilmente uno dei concetti più fraintesi in Occidente e che, negli insegnamenti dell’Islam, viene citato, secondo alcuni sapienti, con almeno un’ottantina di accezioni differenti. Jihad significa letteralmente «sforzo» per far trionfare la causa di Dio (cioè l’Islam), e può quindi indicare diverse forme di attività. L’ambito più importante è tuttavia quello riguardante la sfera interiore dell’individuo, quello della spiritualità di ogni musulmano. Si parla più propriamente, in questo caso, di «sforzo dell’essere» (jihad al-nafs), così spiegato, ad esempio, da Tariq Ramadan: «Ogni essere umano sente in sé delle forze che si potrebbero definire negative, come la violenza, la collera, la cupidigia ecc. Lo sforzo che si compie per lottare contro dette forze si chiama jihad […] perché rappresenta lo sforzo continuo che ciascuno deve compiere per dominare il proprio essere, per donargli accesso alla sfera superiore dell’umano che cerca Dio con la costante preoccupazione della dignità e dell’equilibrio».

Il jihad è insomma – e soprattutto – la lotta dell’anima contro le tendenze materialistiche dell’io, una rivoluzione del sé per vincere le passionalità terrene. Nel Corano si fa una netta distinzione tra il “jihad maggiore” (al-jihad al-akbar, “grande sforzo”), esercitato da ciascuno all’interno di sé per evolvere ed educare la propria psiche, dal “jihad minore” (al-jihad al-asghar, “piccolo sforzo”), assimilabile al concetto di “guerra difensiva”. Per quanto concerne in particolare il “jihad armato”, il Libro sacro dei musulmani stabilisce chiaramente quanto segue: è un dovere combattere per la causa di Dio, ma solo per legittima difesa, poiché Dio non ama chi aggredisce; occorre combattere contro chi viola i giuramenti; contro ebrei e cristiani abitanti in terre assoggettate all’Islam, ma solo quando non pagano il tributo convenuto; contro chi è ostile al culto di Dio; è proibito muovere guerra per mero desiderio di bottino; in guerra, bisogna rispettare regole precise, limitanti e umanitarie.

Secondo la definizione classica, il musulmano può intraprendere il jihad «con il cuore, con la lingua o con la spada». Il jihad «con la lingua o con la spada» è dunque il “jihad minore”, per così dire, esteriore, comportamentale, cui pertengono attività come scrivere un articolo o un libro, pronunciarsi in un’assemblea o in un programma televisivo, o anche, semplicemente, diffondere la parola di Dio nel proprio quotidiano (ma senza mai obbligare il prossimo a convertirsi, perché, recita il Corano, «non vi è costrizione nella conversione»).

Nel suo saggio “Il Gihàd” (Quaderni Islamici, n. 59, Edizioni del Càlamo, Milano 2009, pp. 15-17), lo Shàikh ‘Abdu-r-Rahmàn (alias Rosario Pasquini), imam della moschea di Segrate (Milano), si sofferma in particolare su quella che, nell’Islam, dovrebbe essere la corretta modalità di prendere parte a un corteo o a una manifestazione. Vale la pena citare il passo quasi per intero: «Partecipare, in modo ordinato e civile, come richiede un’autentica consapevolezza islamica, a manifestazioni di protesta (cortei) contro le aggressioni alla Comunità musulmana, e all’immagine del Profeta Muhàmmad […] è gihàd. La correttezza della parola e la compostezza del comportamento, che sono aspetti formali della personalità islamica, escludono che, durante i cortei di protesta, i manifestanti musulmani urlino insulti, brucino bandiere, si lascino andare ad atteggiamenti sguaiati e si comportino in modo oggettivamente disdicevole. Il comportarsi in modo scomposto, tale da suscitare disprezzo e riprovazione da parte del pubblico che assiste alla manifestazione, non è, certamente, gihàd! È, invece, oggettivamente, un tradimento della causa islamica. […] I cortei di protesta, che sono manifestazioni di massa, devono avere l’obiettivo di richiamare, sulle ragioni della protesta, l’attenzione di coloro che al corteo assistono e di promuoverne la solidarietà».

I fatti di sangue verificatesi lo scorso 11 settembre a Bengasi, con l’uccisione di quattro persone, incluso l’ambasciatore Chris Steven, durante l’aggressione all’ambasciata statunitense in Libia, non sarebbero, dunque, a rigore, jihad, ma meri atti criminosi da leggere in chiave esclusivamente politica e non religiosa. Come affermò il Profeta stesso, infatti, «il più forte non è colui che riduce all’impotenza il suo nemico nella lotta, ma colui che è capace di dominare la sua collera».

Ne deriva che, all’interno di una società democratica, negare ai mujahidin (cioè a coloro che esercitano doverosamente il jihad) di manifestare pacificamente non è, dunque, solo una negazione della libertà d’espressione, ma è anche una grave negazione della libertà religiosa.s Steven, durante l’aggressione all’ambasciata statunitense in Libia, non sarebbero, dunque, a rigore, jihad, ma meri atti criminosi da leggere in chiave esclusivamente politica e non religiosa. Come affermò il Profeta stesso, infatti, «il più forte non è colui che riduce all’impotenza il suo nemico nella lotta, ma colui che è capace di dominare la sua collera».

Ne deriva che, all’interno di una società democratica, negare ai mujahidin (cioè a coloro che esercitano doverosamente il jihad) di manifestare pacificamente non è, dunque, solo una negazione della libertà d’espressione, ma è anche una grave negazione della libertà religiosa.

Civica e la tragicommedia familiare

BRUNA MONACO | Una scenografia essenziale da interno di appartamento sul palco aggettante dell’Argentina, un palco per l’occasione più lungo che largo, che viene incontro allo spettatore prendendo il posto delle prime file di platea. Poltrona, poggiapiedi, lampada e tavolinetto. Diego Sepe entra in scena dal fondo, indossa una comoda tenuta stile giapponese, pantofole ai piedi. Accende un incenso, si siede, si aggiusta. Il suo personaggio è subito chiaro, quasi uno stereotipo: l’uomo che ha raggiunto l’equilibrio, il “tipo zen”. Si sente bussare. Dall’altra parte di una porta immaginata c’è Luca Zacchini. Se Diego Sepe è rasato, ha capelli corti, veste comodo ed è “zen”, Luca Zacchini è tutto l’opposto. L’opposizione si radicalizza in un dialogo impossibile: la fiumana di parole dell’ultimo arrivato sbatte contro l’ostinato silenzio del padrone di casa. Diego Sepe è il fratello minore, Luca Zacchini il maggiore. L’incomunicabilità familiare prende subito forma scenica.

“Soprattutto l’anguria” ha un inizio dirompente, sopra le righe. Armando Pirozzi, firma la drammaturgia e riesce a farci credere e affezionare a una famiglia che dire disunita è poco. È ridotta in pezzi, scaraventati, come a seguito di un’esplosione, ai quattro angoli della terra. In Africa la madre, una suora laica. In qualche remoto deserto ghiacciato la sorella. In una foresta questo fratello minore – che rimarrà muto per tutti gli ottanta minuti dello spettacolo. In India il padre. È quest’ultimo il motore della storia. Tutto pare iniziare dalla notizia della sua presunta caduta in una trance metapsichica, una sorta di morte-non morte che il fratello maggiore viene a comunicare al minore. Ma mentre a parole Luca dipinge questa famiglia in fondo come tutte, ma così vivida nei suoi contrasti da apparire diversa, dai fatti ci si accorge che qualcosa non torna. Forse la storia è diversa da come ce la racconta. Luca riesce a convincere Diego a uscire in macchina: mette il poggiapiedi accanto alla poltrona, ed ecco i due posti davanti, mentre la lampada spostata all’altezza del conducente fa da volante. È il Luca attore o personaggio a rifunzionalizzare gli oggetti? Stiamo davvero attraversando una stradicciola sterrata nella giungla in direzione di un aeroporto? O siamo ancora nel salone di Diego che, inflessibile, tace e asseconda la follia del fratello?
Il dubbio che tutto ciò in cui abbiamo creduto finora sia falso inizia a farsi largo: nessuna mamma-suora, nessuna sorella nell’igloo, nessuna famiglia esplosa. Pirozzi ha scherzato, Luca è impazzito, il testo indietreggia. Da surreale pretende di farsi realista. Luca e Diego sanno qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che è successo anni addietro e ha portato Luca alla follia, Diego alla mania. Tracce di questo “qualcosa” sparse nel testo, nel monologo: la costruzione drammaturgica è ben congegnata nel dosaggio delle informazioni, tiene alta la tensione, ma quando tutti i tasselli compongono infine il mosaico ci si accorge che qualche incastro è forzato. Avremmo creduto così spontaneamente al silenzio immacolato di Diego se avessimo saputo di trovarci davanti a uno spaccato di realtà? Se avessimo saputo che quel “qualcosa” che i due nascondevano era un fatto tragico come il parricidio commesso da Luca bambino sotto gli occhi del fratello minore? Avremmo riso del mondo assurdo propostoci da Luca, se non lo avessimo immaginato vero? Avremmo riso se avessimo saputo Luca pazzo?
Far ricadere la follia su un trauma infantile. Nulla di più verosimile. Ed efficace. Eppure il testo di Pirozzi sembrava voler prendere altre strade, non concedersi al determinismo psicologico, alla macchina causa-effetto del positivismo. Malgrado il cambiamento di prospettiva in corsa, resta l’impressione che Pirozzi abbia una grande padronanza della materia-testo. Un mestiere solido, elemento rarissimo nei nostri drammaturghi. Il che, insieme alla bravura degli attori e alla sobrietà e precisione della messa in scena di Civica rende comunque “Soprattutto l’anguria” uno spettacolo di alto livello.

Costruendo catastrofi con Rafael Spregelburd

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[youtube http://www.youtube.com/watch?v=UIlpLTSYDSo&w=560&h=315]
Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Le dolci estati di Claude Nori

Nori amanti-sul-PoMARIA CRISTINA SERRA | I “mitici” Anni ’60, dopo aver rimosso il Ventennio fascista, segnarono il passaggio da un’epoca tragica a quella inebriante del “miracolo economico” con le sue ventate di novità creative. Arte, letteratura, cinema divennero gli spazi mentali e reali di elaborazione e confronto di una società in rapida trasformazione sociale e culturale. Il cinema, soprattutto, sospeso in una dimensione poetica e di narrazione, appariva agli occhi del giovane Claude Nori (figlio di ristoratori italiani emigrati a Toulouse) un linguaggio complesso e immediato, ideale per rintracciare il filo della propria memoria. “Mi avvicinai alla fotografia, desiderando inizialmente di diventare cineasta”, racconta: “Guardando l’Avventura di Antonioni, rimasi stordito, stupefatto davanti ai primi piani di Monica Vitti. Cinque o dieci secondi che mi parvero interminabili, tanto da desiderare che potessero durare tutta una vita”. Un fermo-immagine che determinerà una scelta di vita, un modo di rapportarsi alla realtà. Una ricerca dell’istante in cui tutto può modificarsi restando sulla porta, a giusta distanza. “La fotografia mi obbliga ad un atto nello stesso tempo psichico e sentimentale”, spiega, “una sorta di nomadismo romantico che mi spinge ad addentrarmi in territori sconosciuti, dove spero di ritrovarmi innamorato”.

La mostra alla MEP, “Claude Nori – editore e fotografo” (fino al 4 novembre) ripercorre le tappe della vita e della carriera di questo maestro dell’immagine, scrittore ed editore sempre controvento, che ha contribuito in modo sostanziale a far conoscere artisti estranei ai circuiti commerciali e a mantenere viva l’attenzione sui grandi come Robert Doisneau, Willy Ronis, Sabine Weiss. Si ha subito la sensazione di inoltrarsi in un viaggio sentimentale attraverso strade incontaminate dall’incertezza del nostro presente, che raccontano di estati infinite, flirt bruciati in leggerezza, paesaggi urbani mutevoli e indefiniti, giardini segreti dove incrociare fuggevoli sguardi in solitari silenzi.

Rincorrendo un’idea di felicità malinconica, Nori negli anni’70 (in una stagione di vivace sperimentazione) inizia a ritagliarsi una nicchia originale, “situata fra il romanticismo alla francese, sullo stile di Truffaut, e un lirismo tipicamente italiano”. Non mancano i riferimenti alla fotografia americana, a Gary Winogrand, che afferra la realtà urbana e la rivisita con dissacrante ironia, e a Lee Friedlander, che la copre di inedite sovrapposizioni. Ma i tratti di Nori sono più sfumati, le ombre notturne si schiudono sempre in racconti, i suoi dettagli si incastonano nella composizione senza discordanze. Determinante fu nel ’74 l’incontro con Edourard Boubat, poeta del “niente che possiede la fecondità dell’infinito”, geniale nel far filtrare l’imprevisto mentre elimina il superfluo. In sintonia con lui, anche per Nori fondamentale è avvertire il “coup de foudre” e lasciarlo entrare senza mediazioni nell’obiettivo per ritrasmettere così le emozioni ricevute.

Con questa sensazione ci lasciamo condurre in sorprendenti “Etés italiens”, ricche di incantesimi, prive di retoriche celebrazioni, distanti dalle delusioni del nostro scontento. E’ l’estate il fil rouge che lega i ritratti, i paesaggi e i sogni fra di loro. Sono le spiagge le grandi protagoniste, dalla Liguria all’Emilia Romagna fino alla Campania e alla Sicilia. Ricordi di vita, profumi di vacanze a bordo di una vecchia SIMCA 1000 di famiglia, di pizze, di falò sulla sabbia, di pigre soste ai caffè, di pensioncine. Con la colonna sonora di “Sapore di sale” e “Gocce di mare” in sottofondo, scorrono le immagini dei filmini in Super8, come pagine vissute di un diario intimo, una “foto-biografia” traslata, che esce dai confini per raccontare le tante contraddizioni di un paese che viveva di speranze. Alle pareti soprattutto foto di giovani donne, attimi e sorrisi di felicità colti al volo, sullo sfondo di fatiscenti cementificazioni a spezzare il paesaggio e l’idillio; a volte la muraglia di stabilimenti balneari a far da scenografia o i “muretti” dei lungomari a contenere la sete di libertà, raffigurata da una ragazza in Vespa, con la gonna sollevata. Compongono strani grovigli di nuvole le reti da pesca sulle barche a Stromboli. Nella notte nebbiosa, fra la boscaglia di un promontorio vicino Ancona, i fari di una macchina illuminano un sentiero che può portare in ogni luogo. “Les amants du Po” si stagliano, ombre fra le ombre sull’argine del fiume, nella luce irreale e nel silenzio ovattato di infinita dolcezza.

Sono tangibili le suggestioni e le reminiscenze col “Novecento” di Bertolucci, affresco grandioso della nostra Storia. Anche la foto del “Bacio a Portofino”, dal contrasto e dal taglio deciso, sembra sottintendere una sceneggiatura dall’imprevedibile svolgimento. Il linguaggio fotografico di Nori si sviluppa simile ad una pellicola in cui il fantastico e il reale si rincorrono incessantemente. Si avverte il suo amore per la vita e il suo impegno costante contro la banalizzazione e l’omologazione di un mestiere, che rischia ormai di confondere le ragioni dell’arte con quelle del mercato.

La seconda parte dell’expo è una testimonianza del suo lavoro da editore coraggioso e preveggente, con la rivista “Contrejour” e poi con “Cinéma International”, con le monografie dei “Grandi”, l’ideazione di mostre e festival come “Terre d’images à Biarriz”.

Accanto agli “umanisti” tanto amati, il mosaico della sua storia della fotografia si completa con i tasselli degli artisti che hanno stretto con lui un intenso rapporto. C’è l’immaginario potente e tragico di Sebastiao Salgado, la grazia raffinata e il rigoroso equilibrio formale di Martine Franck, le prospettive infinite e gli enigmi del cuore di Luigi Ghirri (quando ancora nessuno si accorgeva di lui), gli schizzi estrosi di Pierre et Gilles, l’ironia di Enzo Sellerio, il “non tempo” melodioso di Bernard Plossu, lo sguardo neorealista di Ferdinando Scianna.

E’ un navigare per mari lontani, un dialogo serrato tra foto, letteratura, cinema e architettura, che si arresta solo davanti alla preziosa proiezione della prima puntata (1979) di “Apostrophes” (storico programma di cultura condotto da Bernard Pivot). Protagonisti del dibattito sui tanti significati del fotografare erano R. Doisneau, M. Riboud, H. Newton, H. Silvester, oltre a Nori e ad una meravigliosa Susan Sontag, intenta a spiegare i facili inganni dell’occhio e della mente, di come “una certa consuetudine con l’atrocità possa rendere normale l’orribile o la miseria, rendendola familiare, remota, inevitabile”. Di come sia sempre “fragile il contenuto etico della fotografia” e appaiano “vicine, immediate le cose esotiche; e piccole, astratte, remote, le cose familiari”. Tutto è sempre speculare al suo opposto e allora è chiaro il messaggio di Nori: “Fotografare la felicità è davvero difficile, più complicato che fotografare la miseria o la tragedia. E’ qualcosa di impalpabile, perché è una bolla di sapone, che scivola fra le mani, difficile da acchiappare”.

Collegamento ad Apostrophes con Nori e Sontag
http://www.ina.fr/art-et-culture/litterature/video/CPB79052982/le-monde-de-la-photographie.fr.html

Un video sulla mostra curato da HLGfilms

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=fbV5X0FErs0]

Radio Argo di Igor Esposito

RENZO FRANCABANDERA | Quasi un cimitero. Lucine rosse e fiori finti addobbano il palco in forma sepolcrale, lasciando l’idea che si stia per entrare in un oltremondo, che le vicende cui assisteremo appartengono al regno dei morti (le scene sono di Angelo Gallo).
Radio Argo di Igor Esposito, proposto in questi giorni al Franco Parenti di Milano, diretto e interpretato da Peppino Mazzotta è stato presentato per la prima volta al Festival Primavera dei Teatri nel maggio 2011, suscitando fin dal suo debutto una grande attenzione e un riconoscimento per il recitativo intenso, per poi raccogliere nell’anno passato il Premio Nazionale della Critica, e quest’anno il Premio Annibale Ruccello.
La drammaturgia propone , per grandi salti temporali, la saga degli Atridi attraverso il ventennio che va dalla partenza per la guerra di Troia, con il sacrificio di Ifigenia per propiziare la vittoria, fino, dieci anni dopo, al ritorno in patria di Agamennone, il conquistatore che torna in patria accompagnato dalla triste figura di Cassandra, divenuta sua schiava e che predirà il loro comune destino di morte, per mano della ex moglie di Agamennone, Clitemnestra, e di colui che nei dieci anni di lontananza del re ne era diventato amante, Egisto.
Ancora alcuni anni, sette per l’esattezza, e anche il destino di costoro si compie, con l’uccisione per mano del figlio di Agamennone, Oreste, che uccide i due usurpatori.
Fin qui la storia di cui la leggenda plurimillenaria conserva traccia, e che Esposito rilegge in modo drammaturgicamente fedele, narrando le vicende attraverso i panni dei protagonisti. Sulle spalle di Mazzotta la resa dei monologhi attraverso in quali la storia si dipana, partendo da Ifigenia, che rende testimonianza praticamente in tempo reale del suo sacrificio, per passare poi ad un duetto fra Egisto e Clitemnestra che si confrontano concitati all’arrivo di Agamennone in patria, per passare poi allo stesso re vincitore, che arringa la sua folla al ritorno, e alla sua schiava Cassandra, che predice il futuro di morte. Chiude la rassegna di figure epico-mitologiche il figlio Oreste, che compie il destino di vendetta.
Si tratta di monologhi intensissimi, cementati dall’espediente drammaturgico di incastonarli in una sorta di trasmissione radiofonica, il cui presentatore spiega di fatto il corso degli eventi al pubblico, agli “amici della notte” di Radio Argo, appunto. Anche il presentatore, come tutte le altre figure sono affidate all’istrionica e totale presenza di Mazzotta, che aggiunge ad una capacità recitativa innegabile, l’espediente di recitare per quasi tutto lo spettacolo in sedia a rotelle o assistito da mezzi di ausilio alla deambulazione, fino a lasciar ragionevolmente intendere al pubblico si tratti di una reale disabilità dell’interprete e non un fingimento scenico.
Come questo leghi le figure, il loro stare in piedi o essere costrette alla sedia (Ifigenia, Agamennone e Oreste sono in piedi, tutti gli altri, dj compreso sono sedute), è forse più una scelta legata alle esigenze sceniche che ad un tema drammaturgico esplicitato, anche perché non è il discrimine della consapevolezza, ad esempio a determinare la cosa. D’altronde immaginare un Agamennone che arringa la folla seduto in posizione inabile sarebbe stato un ovvio controsenso.
I monologhi che si seguono a ritmo incalzante, e per una durata complessiva coerente e ben calibrata, hanno fin da subito una temperatura scenica assai alta, quasi come un fornello mandato a mille per far bollire l’acqua in pochi minuti. Ed effettivamente lo spettatore è subito travolto. Non fa in tempo a capire di chi si sta parlando che già deve fronteggiare l’espediente drammaturgico della Radio, cerca di capire se l’attore è disabile e si trova gettato in un monologo a due fra Egisto e Clitemnestra che dire serrato è poco. Di lì a qualche minuto ecco arrivare Agamennone, che si leva in piedi per arringare la folla. E infine le figure, molto belle e forti, di Cassandra e Oreste, vittime e carnefici nell’incarnare il compiersi del destino.
Lo spettacolo è bello. Molto bello. Forte. Intenso. Se proprio dal punto di vista scenico dovessimo approfondire un tema, porteremmo al centro dello sviluppo del recitato fatto di ripetizione in rapida sequenza di brevi monologhi la questione di una sorta di variatio emotiva, ovvero dell’opportunità di maneggiare la manopola della fiamma in modo che l’acqua possa, per continuare con la metafora, ora bollire a pieno gorgoglio, ora in forma leggera e impercettibile, ora quasi per nulla. Questa modalità, di cui solo gli intermezzi del dj di Radio Argo sono incarnata testimonianza, permetterebbe forse un effetto ulteriore di straniamento del pubblico costretto ancor più alle montagne russe dell’emozione.
Ma è una cosa su cui è chiaro che governa la sensibilità individuale, e per discutere la quale non resta che invitare, come assolutamente facciamo, alla fruizione. Al Franco Parenti fino al 21 pv.
Di seguito un video promo dello spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=rJ4GZx6-1Hk]

Bohumil, il piccolo servo

ELENA SCOLARI |  Al Teatro Arsenale di Milano Jacob Olesen mette in scena “Ho servito il re d’Inghilterra”, il delicato testo del ceco Bohumil Hrabal.

Un cameriere piccolo e molto sveglio riesce ad essere assunto all’Hotel Parìz di Praga l’11 ottobre 1936. Bohumil è il suo nome, ha il complesso della bassa statura e tiene la testa alta nella speranza che il collo gli si allunghi. E’ buffo, umile, svelto e molto poetico. Jacob Olesen, attore svedese e per niente basso, in livrea, è un ottimo interprete di questo personaggio creato dallo scrittore ceco Hrabal. La leggerezza e la maestria di movimento imparate in anni di scuola clownesca sono l’abito giusto per il piccolo Bohumil, ma anche per tutti gli altri ruoli che Olesen interpreta in questa pièce: il cameriere ha a che fare con il suo maître di sala, con il padrone e vari clienti dell’albergo, con il re d’Etiopia, con una prostituta, e infine con i nazisti.

Numerosi esilaranti episodi sono raccontati e “mimati” dal protagonista, in un allegro stile demodé che ricorda i film muti e le comiche di una volta. Citiamo tra tutti l’irresisitibile vendita di wurstel ai passeggeri di un treno in partenza che non riescono ad ottenere il loro resto e la descrizione della pantagruelica cena organizzata presso l’Hotel Parìz per il monarca etiope: vengono serviti cammelli farciti di antilopi farcite di tacchini farciti di pesce farciti di uova in un susseguirsi incalzante di ripieni e inciampi ridicoli.

L’autore ha messo un po’ di sé in Bohumil (Jan Dite nell’originale), soprattutto l’essere persona anticonvenzionale e l’aver fatto molti mestieri diversi, tra cui proprio il cameriere e perfino l’imballatore di carta da macero ricavata dai libri censurati dal regime comunista.

Il libro di Hrabal è ambientato negli anni che precedono l’invasione di Praga da parte dei nazisti fino all’arrivo del comunismo negli anni ’50. Il nostro cameriere non sembra preoccuparsi troppo del contesto storico e dei fatti di cronaca, finché la tragedia non copisce anche lui e la sua amata moglie.

Lo spettacolo vede in scena il solo Olesen che ci porta, linguisticamente parlando, in un’atmosfera altra grazie al frequente utilizzo di lingue per noi straniere e pressoché incomprensibili, danese e svedese, i brani così recitati focalizzano l’attenzione dello spettatore sul movimento, sulla gestualità e capiamo comunque bene cosa sta succedendo grazie alla mimica.

Il lavoro è senz’altro una buona trasposizione del romanzo, possiamo forse esprimere qualche perplessità per la scelta registica di Giovanna Mori e Giovanni Calò che segna l’inevitabile differenza d’effetto tra la straripante prosa di Hrabal e questa traduzione teatrale, più asciutta e meno travolgente.

“Il mio nome è Bohumil” è un’ora di teatro piacevole, il tono rimane forse eccessivamente naif ma troviamo comunque che ci sia bisogno di storie che raccontino anche anni drammatici della Storia attraverso la lente dell’arte, non dai soli documentari è alimentata la memoria.

Trifirò ricorda Pinter

RENZO FRANCABANDERA | Sono diversi anni che cedo alla dolce malattia che mi prende nel seguire gli spettacoli diretti (e praticamente sempre anche interpretati) da Roberto Trifirò. Un po’ perché so a cosa vado incontro, quasi me l’aspetto. Eppure non ho dubbi.
So che non sarà mai qualcosa di “divertente” nel senso banale del termine. So che quasi sempre si tratta di operazioni sofisticate, di teatro che cerca se stesso negli anfratti meno battuti, nelle drammaturgie meno banali, in un seguirsi di monologhi la cui testualità non lascia dubbi circa la volontà di Trifirò di indagare, anche in solitario se serve, nell’ostinazione di non cedere alla miseria culturale delle sale, sul rapporto fra l’umano e la parola scenica.
E così se gli autori indagati non sono mai sconosciuti, Shakespeare, Adamov, Pinter, sono spesso i testi a sorprendere, come il notevole e purtroppo poco circuitato Riccardo II, un monologo assai bello di due anni fa ma che di fatto ha fermato le sue repliche all’Out Off dove ha debuttato.
Al di là dello spazio che anche al Franco Parenti l’attore ottiene, è di fatto l’Out Off la casa delle sue sperimentalità (l’anno scorso in via eccezionale il Sala Fontana per un Dostoevskji, non riuscitissimo però).
E’ quindi con queste consapevolezze, con la certezza di un approccio che in un’ideale tavola degli elementi teatrale non si posiziona mai ai primi posti, fra i gas leggeri, che entriamo in sala per il Vecchi Tempi di Pinter (1971).
Accompagnano Trifirò due attrici di buona esperienza, come Maria Ariis e Paola Giacometti. Il testo è noto, è forse solo a prima vista un dialogo a tre, rivelandosi ben presto un duetto con un’ospite persistente, come la memoria del suo vissuto. Ma quello che a tratti Trifirò pare suggerire, e la cosa è di un certo interesse, ancorché non sorprendente viste le sue predilezioni, è che si tratti di un molologhe con due figure femminili di cui sovviene il ricordo. Nulla infatti, nella drammaturgia, concorre mai a ricostruire l’unità spazio tempo, e anzi, ogni qual volta pare  due figure si consolidino nel loro dialogo, ecco che una battuta pare dissolverne una, rivelarne la sua ectoplasmatica consistenza. Insomma tutto quello che si vede forse non c’è, mentre quello che sicuramente c’è è ciò che non ha presenza, ovvero la memoria.
E’ infatti la memoria la protagonista del testo, il ricordo di un amore, di una vita trascorsa, di relazioni di coppia, immerse in una luce di abbacinante solitudine presente e di consistenza passata.
Trifirò racconta Pinter con le luci e le pose di Hopper, è vero. Numerose sono le citazioni di pose dei quadri del maestro americano delle solitudini da bar, con un bicchiere di whiskey a tenere compagnia al sovvenire dei ricordi, fissando la potente familiarità dell’attesa in pose cristallizzate.
Non ci sono exploit scenici, le risoluzioni dello spazio si risolvono in un arredamento di due lettini e una poltrona fatti di cartone compresso, mentre per terra altri brandelli ne rivelano la caduca essenza, come foglie autunnali. Due interruzioni luce buio, per passaggi drammaturgici. Il resto è testo.
A separare il pubblico dalla scena un telo di grana trasparente, che ci permette di vedere questo mondo, seguendo Trifirò come Orfeo. Forse è questa una possibile lettura di quello cui assistiamo, un concretizzarsi di un universo onirico che assume le fattezze del reale. Il finale infatti si chiude in un’immobile e immobilizzante cristallizzazione della scena, quasi fossero davvero pictures from an exhibition, illuminati da una luce irreale, come quella delle scene caravaggesche, o hopperiane. Le une fermate nell’istante preciso di qualcosa che accade, le altre fermate nell’istante preciso in cui qualcosa non accade.
Trifirò sceglie dolcemente, caparbiamente, di raccontarci da sempre il secondo universo, le sue ombre. E’ questo ha un crudelissimo fascino.
L’allestimento è riuscito, anche se le due interpreti femminili pagano dazio ad una modalità estetica sicuramente più familiare al regista, che se ne fa interprete da anni. E questo un po’ si vede. Faticano infatti a trovare quel sottilissimo tratto di cinico umorismo cui solo Trifirò riesce a dar corpo, a volte anche solo con un inarcare delle sopracciglia o una curva delle labbra. Ma d’altronde, nel fanatismo per questa estrema forma di supplizio cui abbiamo fin dall’inizio dichiarato di abbandonarci con naufragante sicumera, i codici di questa estetica ci sono familiari e, quando ricorre in qualche interprete, ne annotiamo la mancanza con un po’ di disappunto. Ma capiteci, è quasi roba di famiglia.