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domenica, Settembre 8, 2024
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Se a scuola il teatro greco non è solo sulla carta

BRUNA MONACO | Si è da poco concluso a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il XVIII Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani che, insieme alla stagione del teatro greco di Siracusa, è un asse portante dell’attività della fondazione Inda. Novantadue le scuole che quest’anno sono state coinvolte nel progetto, per lo più secondarie superiori, ma anche qualche classe elementare. E ben quattordici venivano dall’estero: Francia, Belgio, Russia, Lituania, Grecia e altre.
Gli attesissimi Inni bacchici e danze tribali dei ragazzi della Tanzania non hanno purtroppo lasciato l’Africa per problemi burocratici, ma per l’anno prossimo sono previste scuole e spettacoli da oltre oceano. Una festa di portata internazionale in espansione, quindi, e non solo geografica: dai sei giorni della prima edizione nel 1991, si è passati oggi a quasi un mese di festival: dal 9 maggio al 4 giugno. E il ritmo è sostenuto: tre, quattro, a volte cinque spettacoli al giorno, in un teatro antico, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, che non ha nulla da invidiare a quello di Siracusa.

Una grande esperienza per questi giovanissimi appassionati di classicità e teatro che, dopo un anno di laboratorio e ore di prove rubate non alla scuola ma al proprio tempo libero, possono infine mostrare le proprie creazioni davanti a un pubblico di quasi professionisti: coetanei e “colleghi” con cui condividono ansie e, soprattutto, passione. Qui non si tratta del saggio finale davanti a parenti e amici, si tratta di misurarsi con estranei – studenti, turisti, operatori – e con la monumentalità del teatro classico. Per scoprire che, dietro la patina di noia e distanza che ricopre tragedie e commedie, c’è il gioco dei giochi: il teatro. E che quel gioco aggrega e accresce come nient’altro, è scuola nel senso più alto del termine: un luogo di crescita e condivisione.
Nei vari spettacoli, gli approcci pedagogici e artistici si intrecciano secondo le più diverse combinazioni e con risultati a volte sorprendenti. La qualità media è infatti molto alta e in alcuni casi, addirittura, le proposte non sfigurerebbero sulle scene di norma calcate dai professionisti. Peccato che il passaggio dall’essere attori a spettatori è senza mediazione, e sia mancato un momento, uno spazio in cui i giovani si potessero riunire e riflettere insieme sull’intercambiabilità del ruoli del teatro: dalla scena alla platea, in ogni caso parte essenziale dell’opera teatrale. Al gioco, insomma, è mancata la sua controparte fondamentale: la riflessione sul gioco stesso, i modi di attuarlo e di assistervi.
Resta però che il Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani e le iniziative analoghe meriterebbero più attenzione da parte degli addetti ai lavori, di studiosi e ricercatori. Da una realtà teatrale considerata marginale, come appunto è quella del teatro nelle scuole, c’è tanto da imparare. Per esempio, che l’arte non è detto che nasca sempre dove la si aspetta, ovvero dove si afferma di produrla. E che l’innovazione è impossibile senza vitalità e desiderio di rivolta, qualità facili da perdere nella vischiosità del sistema, eppure ancora intatte in quei ragazzini che per la Morante avrebbero salvato il mondo. Sarebbe salutare uscire un po’ dall’asfissia, dal gioco di specchi artisti-produttori-critici, e tornare alla fonte: al rapporto col pubblico. E quale pubblico migliore degli studenti che, se anche ci ostiniamo a non considerare come attori sulla scena del presente, lo saranno di sicuro su quella di domani?

Luca Dini (Pontedera Teatro)

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

L’Hamlet di Lenz Rifrazioni

ofelia lenz hamletRENZO FRANCABANDERA | La ripresa dell’Hamlet di Lenz Rifrazioni è a suo modo un evento. Dopo gli allestimenti alla Rocca dei Rossi di San Secondo (2010) e alla Reggia di Colorno (2011), Lenz ha riproposto la sua rilettura del classico di Shakespeare diretta da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, nell’ultima settimana di maggio all’interno della stupenda cornice del Teatro Farnese di Parma. Con cadenza annuale, dunque, questo itinerario esperienziale porta gli spettatori all’interno di un percorso-confronto con l’altro da sé e con il sé fragile che con più difficoltà accettiamo. Il cuore di questo lavoro, persino della stesura drammaturgica e della più profonda intimità che l’allestimento emana, è dovuto alla partecipazione, in qualità di attori, di alcuni degli ospiti della Comunità Terapeutico Riabilitativa, per un’esperienza iniziata oltre dieci anni fa in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Parma.
Gli attori “sensibili” sono Liliana Bertè, Franck Berzieri, Giovanni Carnevale, Guglielmo Gazzelli, Paolo Maccini, Luigi Moia, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Varoli, Barbara Voghera.
Fin dalla scalinata d’ingresso lo spettatore viene condotto fra video installazioni e momenti recitati attraverso una sorta di amletica via crucis, dove perfino la crocifissione trova esplicita menzione. Il Teatro Farnese, i suoi anfratti, le bellissime sale del palazzo che lo ospita, sono un luogo all’interno del quale il recitato riesce a sospendersi in epifanie dell’irrisolto, dove mai quello cui si assiste chiude o completa alcun concetto, lasciando un sentimento di sospensione onirica, tanto che l’essere o non essere arriva alla fine, quasi a confermare lo stadio intermedio, il dormiveglia dell’anima cui tutto si ispira, quel momento ipnotico capace, a volte, di regalare intuizioni, premonizioni, a farsi deposito di saggezza ancor più assoluta, proprio in quanto non decodificata con il sistema di valori del consesso sociale, ma al bordo del sensibile umano, in quel limitare che a volte si avvicina a ciascuno di noi in forma pericolosamente chiara e leggibile.
Il confronto dialettico fra Amleto e Ofelia, prima del suicidio di quest’ultima, è perfetto da questopunto di vista: i due personaggi non sono più emanazione shakespeariana ma per il tramite dei personaggi portano in scena il loro vissuto, le loro solitudini, con lui che, nel condannarla a una vita senza amore con parole “da matti”, risolve il dialogo in una delle vette comiche dello spettacolo, una comicità che nasce proprio dalla constatazione dello stato di emarginazione in cui chi troppo ama, chi troppo sente, finisce per trovarsi, con una beckettiana e comica rassegnazione. L’Hamlet, proprio perché affidato a sensibilità ulteriori, vive la sua forza nei momenti in cui questo concetto diventa cristallino, distillato, in cui la spontaneità non viene incanalata in una volontà d’ordine troppo sovrastrutturato.
Cerchiamo di snodare questo punto in modo il più dettagliato possibile, perché in questo si risolve il nostro giudizio di merito sull’operazione artistica. Concettualmente la stessa è intrinsecamente legata ad una lettura quasi platonica, che prende solo a pretesto il testo shakespeariano. Supponiamo che l’obiettivo dell’operazione sia proprio quello di indagare forza e fragilità del vivere per il tramite dell’opera teatrale, capace di farsi incarnato nel corpo di una persona con sensibilità psichica più accentuata. Maria Federica Maestri e Francesco Pititto paiono, infatti, voler spingere chi percorre questa simbolica processione, dallo stato di coscienza all’incoscienza del sè, ricorrendo a quella sorta dottrina della reminiscenza di cui Platone parla nel Menone, per arrivare a un interrogativo più dilaniante sul senso del vivere, del morire e del transito di sentimenti che ci attraversa.
L’imperfezione con cui, fin dall’inizio dello spettacolo, siamo costretti a confrontarci, diventa quasi rovesciamento di un ideale estetico e di ragionamento, che è quello del mondo “fuori”, ma in grandissima parte anche di quel mondo all’interno del quale la rappresentazione stessa viene svolta, la Pilotta, appunto. In non poche scene, come quella ai piedi della statua antica, infatti, il tema della reminiscenza dell’assoluto e della sovversione dell’ideale estetico trovano estrinsecazione. Sono i punti in cui l’imagoturgia di Pititto risolve meglio il dilemma di Amleto che cerca l’idea di un sé oltre la pazzia, come possibile condizione di sonno, del sogno. L’assoluto pare qui essere nella coincidenza degli opposti, come quando ai piedi della statua di prassitelica ispirazione, quasi si addormenta uno degli interpreti della casa di ricovero, con il suo fisico imbelle, dilaniato dall’adagiarsi giorno dopo giorno sulle palpebre del peso del farmaco sedante.
E’ quando lo stridore, l’incrocio concettuale, viene più naturale che il percorso iniziatico dello spettatore trova i suoi momenti più alti, quando il chiasmo lega mondo reale e universo del sonno/sogno con ideale estetico e sentimento dell’imperfezione. Quando invece ricerca lo stesso risultato con mezzi più artefatti, come nell’insistito di dialogo con i video da parte degli attori (a volte con l’artificio del fuori sincrono), l’operazione, proprio perché si spinge alla ricerca di una sublimazione estetizzante del termine imperfetto del chiasmo, sbilancia il delicatissimo equilibrio della struttura ad X, dove ogni polo dell’incrocio concettuale deve essere puro, assoluto, incontaminato.
Capita così di avvertire il peso di una certa lunghezza, di una costrizione ad alcuni momenti fruitivi che potevano essere risolti in maniera più sintetica. Invece la sosta, la stasi, la stazione della via crucis, trasformano in alcuni momenti l’Hamlet da operazione di risveglio platonico in ricerca di un liturgico teatrale neo-pitagorico e accessibile a pochi, di cui non sono più incarnazione gli interpreti e la loro imperfetta e al contempo assoluta elementare saggezza, ma i registi, con la loro costruzione sovrastrutturale.
E se è normale che questo in fondo un po’ avvenga in ogni creazione d’arte, è pur vero che, nel meno, questo lavoro potrebbe trovare ancor di più, con qualche accortezza maggiore dal punto di vista tecnico sull’impianto di amplificazione sonora non sempre all’altezza nella regolazione dei volumi e delle distorsioni, e dal punto di vista concettuale attraverso l’eliminazione di barocchismi artistici, laddove il livello base è già capace, ha già la potenza di impatto per risvegliare.
Esemplifichiamo, anche in questo caso, con un episodio estrapolato dallo spettacolo, che è proprio quello della morte di Ofelia. L’evento segue l’irresistibile dialogo cui si faceva menzione prima, dialogo di naturalissima e al contempo antinaturalistica semplicità, giocato al bivio fra vero e falso, sulla condizione del disagiato psichico, talmente capace di amare, da rimanere vittima di questo sentimento così distillato. La scena si svolge sul palco del teatro Farnese. Il pubblico è anch’esso sul palco, spalle alla sala. Poi Ofelia, questa anziana attrice, recitando una sorta di straziante Miserere popolato di incubi e creature bestiali, inizia a percorrere la sua lentissima camminata verso il destino, procedendo a piccoli e incerti passi sulla lunga passerella che dal palco la porta in una platea vuota, sgombera di sedie, fin verso l’uscita di scena, che avviene proprio dalla porta di ingresso in platea. Provate a immaginare questa piccolissima figura, sovrastata dal barocco del teatro, con il pubblico che la segue con lo sguardo allontanarsi, mentre la sua voce amplificata continua a portarci nelle orecchie la paura del buio, dei coccodrilli. Ecco, in questo, già di suo, ricchissimo e potente insieme di simboli, lo spettatore deve distogliere il suo visus dalla vicenda, richiamato da proiezioni che in fondo nulla tolgono e nulla aggiungono a quanto già di suo, fortemente sta avendo luogo.
L’Hamlet può trovare un più fecondo terreno di approfondimento per i prossimi allestimenti, ove, a nostro avviso la regia fosse capace di riequilibrare il chiasma, lasciando all’imperfetto di mostrare la sua immensa potenza nell’incerta camminata, senza costringere a vederla e rivederla ripresa da altri obiettivi e proiettata con dispositivi tecnologici finanche alle nostre spalle. In questo horror vacui risiede una debolezza ancora irrisolta dell’impianto artistico nella sua attuale versione. Di fronte alla potenza dell’imperfetto, che deve introdurci al sogno e innescare il percorso della reminiscenza, per trovare l’assoluto attraverso la perdita di coscienza del sé istituzionale, guidata dal passo malfermo di un essere fragile e spaesato, è ovvio che distogliere in quello stesso momento l’attenzione dal processo di abbandono del nostro inconscio con il ricorso a mezzi sofisticati e tecnologici può finire per essere un’infrazione grave di quell’ideale prassitelico di misura che trovava nel motto «nulla di troppo» (medén ágan) la sua sintesi perfetta.

Disegno Renzo Francabandera

Claude Debussy, in mostra a Parigi fra suoni e visioni

manifesto-mostra DebussyMARIA CRISTINA SERRA | La musicalità infinita delle iridescenti Ninfee di Monet, pregne di luce riflessa nella superficie a specchio degli stagni, è lo sfondo sublime nel quale immergersi, accompagnati dalla fluidità delle note di Claude Debussy. Un viaggio attraverso una rassegna che ci svela l’intreccio fra percezione visiva e uditiva, in un’unica trama, senza confini di luoghi e di tempi, allestita al Musée de L’Orangerie (fino al 16 Giugno).

Per il 150° anniversario della nascita del “più francese” dei compositori, la mostra “Debussy, la musica e le arti”, curata in maniera strutturalista da Guy Cogeval, Jean-Michel Nectoux e Xavier Rey, restituisce il complesso itinerario artistico del grande musicista, legandolo a quello dei numerosi esponenti dell’arte con cui venne in contatto. Si è, inoltre, ricreata l’atmosfera estetica di un’epoca nella quale si respirava l’aria di transizione fra lo stato d’animo impressionista e quello simbolista, la fascinazione dell’Art Nouveau e l’amore per l’Oriente e il Giapponesismo: scenario sfaccettato in cui si libera l‘immaginario del musicista innovatore del ‘900.

Una rassegna di grande seduzione che accosta (in un ambiente tinteggiato di blu profondo e illuminato da luci sapienti e soffuse, in contrasto con la luminosità del Museo) affinità e discordanze, arte e letteratura, accompagnate dal sottofondo melodico di un “sogno a cui sono stati tolti i veli”, inseguito per tutta la vita da Debussy, pervaso dal desiderio di catturare un presente inafferrabile.

Il percorso, attraverso un andamento ad arabesque, è segnato dalle opere di Monet, Manet, Degas, Renoir, Turner, Denis, Bonnard, Redon , Rossetti, Moreau, Klimt, Munch, Gauguin, Hokusai, Whistler, Kandisky; dalle sculture di Camille Claudel che riusciva a trasformare in materia l’anima; dai contributi letterari di Mallarmé, Villon, Valéry,
E. A. Poe e Baudelaire; dalle coreografie del ballerino Nijinsky, che aveva rubato agli uccelli il segreto della leggerezza. Il tutto intervallato con un’alchimia perfetta fra immagini e suoni, con documenti, oggetti, suppellettili, carteggi, spartiti e foto d’epoca, preziosi per ricreare lo scenario storico della Bell’Epoque.

E’un rapporto empatico quello che Debussy stringe con la natura, liberandola dalla staticità delle forme, innalzandola a principio ispiratore, intuendo “la possibilità di una musica costruita appositamente per l’aria aperta, fatta tutta di grandi linee, di audacia vocale e strumentale, che gioca nell’aria libera e plana gioiosamente sulle cime degli alberi”.

Il linguaggio del vento e dell’acqua è colto nelle sue misteriose analogie con le asimmetrie della struttura musicale, rivelando e nascondendo assonanze e dissonanze armoniche, cariche di ovattate sonorità senza regole prestabilite. “Gli accordi devono essere incompleti, fluttuanti, in modo che, sfumando, il tono possa sempre finire dove si vuole, uscire e rientrare dalla parte che si percepisce”, diceva il musicista. E’ nella libertà che la disciplina deve costruire le sue fondamenta, ”sforzandosi”, spiegava Debussy, “di conservare ad ogni timbro la sua purezza, di metterlo al suo vero posto”.

“Dialogue du vent et de la mer”, “Le jet d’eau, “Refletts dans l’eau”, “La mer”, “L’après-midi d’un faune”, suggestivi titoli di alcune sue composizioni, sono la chiave di lettura per penetrare nei tanti mondi sommersi, o in quelli luminosi, al pari delle vetrate delle cattedrali gotiche, e che fanno da eco alle suggestioni evocate dai dipinti in mostra. L’intensità e le molteplici sensazioni, evocate dal mare, sono raffigurate dalle leggere pennellate di Monet, intonate sulle sfumature di bianchi velati di grigio-azzurri e rosa, sotto le cui trasparenze emergono gli spezzoni brunastri delle rocce.
La ”Marina” quieta di Degas scopre un infinito mare immobile: solo un filo netto di azzurro separa il cielo punteggiato di nuvole. La “Baia nascosta tra le dune”, dipinta da Turner nel 1845, avvolta dall’abbagliante luce solare che mischia le forme con dorate evanescenze, scopre grovigli di arbusti che si allungano indistinti, fondendosi con la luce dell’orizzonte.

I colori impastati di luminosità sollecitano Debussy ad allontanarsi dalla scrittura musicale classica, per modellare un nuovo linguaggio secondo un ordine cromatico. L’esotismo e l’audacia di Hokusai gli suggeriscono turbamenti improvvisi come “L’Onda” che si innalza brutale verso il cielo calmo: l’eterna contrapposizione fra lo Yin e lo Yang. Il fragore è riassorbito dal silenzio, dalle pause, dagli accordi slegati, sussurrati. Il “non detto” è cercato da Debussy come “mezzo di espressione per far volare l’emozione di una frase “.
L’impalpabile indefinito che si fa finito nella zona di mezzo fra notte e giorno di Redon, mentre intinge il suo pennello nei colori del silenzio, è speculare ai preludi per pianoforte. La “Notte stellare” di Munch dalle forme incerte, dinamiche, visionarie, si specchia nella scomposizione stilistica di alcuni suoi brani. La “Sala della musica” di Vuillard, satura di colori e di elementi sovrapposti, è una metafora della fluidità melodica nel tessuto orchestrale. Il notturno danzante di H. Winslow della “Notte d’estate” ci lascia una sensazione di vertigine, come se onde sonore riempissero la notte. La bellissima “Marina con vacca” di Gauguin, priva di valori spaziali e ricca di
tinte forti, evoca interruzioni improvvise di armonie, ricomposte in una stesura musicale dalle infinite variazioni. E’ una sinfonia in verde e rosa quella evocata dai “Roseti sotto gli alberi”di Klimt. “Il più ricco insegnamento viene dalla musica”, scriveva Kandisky nel suo saggio “Lo spirituale nell’arte”: “nasce da qui l’attuale ricerca di un ritmo pittorico, di una costruzione matematica astratta; il valore che si da alla ripetizione della tonalità cromatica, al dinamismo dei colori”, che nel “Parco di Saint-Cloud” si diffondono con idilliaca grazia, contrastati ma fluidamente legati tra loro. “Le spiagge dorate” di H. E. Cross, che penetrano in un crescendo di riflessi rosati nel mare di un sereno azzurro, si dischiudono alle sensazioni oniriche, come trasportate dalle note de “La mer”. Al centro di una parete divisoria, fra due ali di capolavori, l’enigmatica “Fanciulla eletta” di G. Rossetti, dallo ieratico erotismo, giocato sui cromatismi degli ocra e dei neri, irradiati di bianco, rimanda al poema lirico che alla fine dell’Ottocento rivelò il temperamento di Debussy. Come l’intermittenza del cuore, di una “Sérénade interrompue”, che lascia sospesi i sentimenti, per decrescere improvvisamente, “La Valse” di Camille Claudel, che nel bronzo insieme ai corpi avviluppati fondeva il suo genio artistico, il vortice della passione disperata per Rodin, il dolore per una “pazzia indotta”, ci appaiono come l’allegoria di un’epoca dorata sotto la quale covavano le contraddizioni di una società, che si stava avviando inesorabilmente verso la catastrofe della Prima guerra mondiale.

Un contributo in francese sulla mostra

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La musica di Debussy
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Il teatro classico oggi a Siracusa

BRUNA MONACO | La fondazione Inda (Istituto Nazionale del Dramma Antico), a un passo dal compiere un secolo di d’età, offre ancora all’accanito e fedele pubblico siracusano, ai turisti e agli amatori, due mesi di teatro classico. Lo scenario è quello splendido del Teatro Greco di Siracusa in cui due tragedie, il Prometeo Incatenato e le Baccanti si alternano tutti i giorni dall’11 maggio al 30 giugno. Tranne i lunedì, in cui è Uccelli, la commedia di Aristofane, ad andare in scena.
Anche la scenografia quest’anno è suggestiva: semplice e imponente, ideata dal vincitore del Pritzker Architecture Prize del 2000, l’inglese Rem Koolhaas. Un enorme disco di legno, a gradinate, uguale per forma e dimensioni all’orchestra, la lambisce obliquamente: i due dischi si guardano come i gusci di una conchiglia aperta che al suo interno, anziché una perla, custodisce lo spettacolo.

Per le Baccanti la scenografia è drammaturgicamente significativa: come in un gioco di specchi, i gradini antichi su cui siede il pubblico del teatro greco di Siracusa si riflettono in questi lignei e moderni pensati da Koolhaas. E fanno eco alle parole famose che Dioniso, fingendo di non essere un dio, pronuncerà nel dialogo con Penteo “io lo vedevo e lui vedeva me”, il momento più meta-teatrale del testo di Euripide, in cui l’autore evoca la relazione fra attore e spettatore, omaggiando il Dioniso cantato dalle baccanti, inventore dell’arte del teatro. Poi la gradinata si apre al centro e un carro carnevalesco che trasporta Dioniso e le sue seguaci esce su un tappeto musicale orientaleggiante che suggerisce il cammino fin qui compiuto dal dio: la Lidia, la Persia e l’Arabia Felice hanno conosciuto le danze e i misteri di Bacco giunto a Tebe, terra natia, per rivelarsi dio agli uomini. La Martha Graham Dance Company è il coro di baccanti. Sono vestite di nero, velate, a lutto un coro muto di prefiche. Dioniso (Maurizio Donadoni), pure coperto di nero da un velo, dà le spalle al pubblico, una maschera sulla nuca, e con voce profonda declama il prologo di Euripide e si presenta. E quando Dioniso (proprio come il dio cristiano) si fa uomo per diffondere il suo culto a Tebe che gli è ostile, Donadoni toglie maschera e velo e ne fa una marionetta che, come un fantasma, aleggia sulla testa del Dioniso-uomo e sulle sue baccanti. Interessante gioco dei contrari: l’uomo manipola il dio e di nuovo richiama simbolicamente al teatro. Calenda tiene fede al testo eppure non lo fa esplodere. La carica omo-erotica e l’effeminatezza che con potenza emergono nell’ultimo dialogo fra Penteo e il dio è qui schiacciata. Lo spettacolo è rispettoso, ma meno viscerale del testo.
Anche l’inizio del Prometeo diretto da Claudio Longhi è molto potente: in abiti irreali, militari oltre il tempo e lo spazio (i costumi sono di Gianluca Sbicca), avanzano Efesto, Kratos e Bia. Due sodati trascinano Prometeo. Gli attori sono bravi, il dialogo è serrato e le musiche, suonate dal vivo, danno un’andatura inquietante, sospesa: una campana scandisce il ritmo, lento, e preannuncia il suono del martello che si abbatterà sulle catene del dio amico degli uomini e odiato dagli dei. Massimo Popolizio, nelle vesti del protagonista, è all’altezza dell’impresa: nel testo eschileo (ma l’attribuzione è dibattuta) la narrazione del mito è preponderante rispetto al conflitto drammatico. Non c’è sangue, né la fanghiglia morale che, nelle altre opere eschilee, raccontano la violenza e la carnalità dell’epoca precedente alla civiltà greca più di questo Prometeo statico, simile a un Cristo che i fedeli vanno a adorare. Rispetto al Prometeo Incatenato è difficile posizionarsi perché è la seconda parte di una trilogia di cui ci mancano l’inizio e la fine. E poi perché è il manifesto di una società nascente, un mito di fondazione. E per questo, forse più di ogni altra opera antica, contestuale al periodo che lo ha generato e difficile da rendere oggi. Che con Prometeo nasca la civiltà anche Longhi lo sostiene, e si serve un’immagine che fa da prologo allo spettacolo: mentre il pubblico cerca posto sul palco c’è un vecchio tornio a pedali e un uomo sporco di terra, dai vestiti stracciati, modella un tocco d’argilla.
Uccelli di Roberta Torre con Mauro Avogadro e Sergio Mancinelli nei ruoli di Pisetero ed Evelpide, è un parziale adattamento della commedia composta nel 414 a.C. da Aristofane che da un lato critica la corruzione della democrazia ateniese, dall’altro mette in ridicolo (e in parte esalta) la volontà di potenza dell’uomo (maschio) che non teme di sfidare neppure il potere degli dei. Come spesso accade alle messe in scena contemporanee di commedie classiche, per attualizzare l’opera o sottolineare come nulla da allora sia cambiato, tanti i riferimenti espliciti alla politica di oggi. E questo, in genere, il pubblico lo gradisce, si sente coinvolto nella vita scenica. Ride, applaude. E, serenamente, dimentica.

La pedagogia del Théâtre du Soleil di Parigi

Soleil_OcchielloANDREA CIOMMIENTO | Superato il confine francese tornano le immagini di un’Italia imbrattata e compressa artificialmente in un incubatore di falsate idee culturali arrese da tempo alla luce mediatica del main-stream. Un buffo bagliore abbacinante ed effimero agli occhi di un artista come Duccio Bellugi Vannuccini, da oltre trent’anni alla ricerca di una verità scenica personale fatta di incontri autentici ed esperienze formative importanti (Pina Bausch,  Marcel Marceau, Étienne Decroux) fino alla convivenza professionale nella casa di Arianne Mnouchkine al Théâtre du Soleil di Parigi. Una comunità teatrale composta da decine di attori e tecnici provenienti da tutto il mondo, dediti alla cura dei propri spettatori e degli spazi della Cartoucherie. Il nostro confronto inizia nel primo pomeriggio, in una pausa del laboratorio sull’uso pedagogico della maschera all’interno del progetto Teatro Comunità di Torino (un percorso ambizioso che avremo modo di approfondire sulle nostre pagine in tempi opportuni). Questo senso di degrado pubblico nel vivere contemporaneo stringe ogni sentimento sul nostro Paese; all’arrivo italiano dell’attore quel che rimane impressa è una panoramica apparentemente distante dal fatto teatrale: la constatazione di una spiazzante “differenza tra una toilette francese e una italiana, pubblica o privata che sia. Qui in Italia già nel primo posto che vai, trovi uno schifo”…

In Francia anche i bagni sono l’eccezione? (Ride) Sappiamo che i francesi tengono molto all’exception, alimentano la cultura nonostante i tagli generali ma il sistema continua ad esserci con solidità. Pensi solamente al sistema d’intermittenza, vale a dire il sussidio di disoccupazione per gli artisti. Questo permette alle compagnie di avere il tempo per fare delle prove, per fare ricerca. In Italia percepisco altro: qui si pensa “facciamo lo spettacolo che venda il più possibile così il Comune ha il suo grande fascio di luce e ci finanzia”, senza ricerca artistica, magari con l’attore o il gruppo più famoso. Così non si alimenta la cultura, non c’è il tempo per rimetterla in questione, non ci si pone delle domande…

Di chi è la colpa? Non credo che la colpa sia dei grandi o piccoli enti di politiche culturali. La colpa è in buona parte degli artisti stessi che non si pongono più domande.

In che modo si è avvicinato al Soleil di Parigi? Ero molto giovane, studiavo nella scuola di Pina Bausch. Avevo un problema al ginocchio e per un periodo non potevo più danzare. Ho saputo che Arianne Mnouchkine dava uno stage, avevo da poco visto lo spettacolo Sihanouk, roi du Cambodge. Lo stage diventò audizione e lì entrai in compagnia.

Arianne Mnouchkine ha inciso molto nella sua ricerca? Il lavoro che Arianne fa al Soleil è in gran parte un lavoro pedagogico di formazione con i giovani attori. Avevo avuto esperienze di formazione artistica con Marcel Marceau, Étienne Decroux, oltre a Pina Baush, esperienze del corpo. Cercavo qualcosa di più teatrale. Il Soleil era ed è una grande scuola di pensiero e di azione nella quale creare un rapporto con il pubblico, un’attenzione al pubblico essenziale per fare teatro. Il lavoro che da anni cerchiamo di fare è quello di riflettere coinvolgendo tutti gli spettatori, senza per questo abbassare il livello a una dimensione televisiva.

La Cartoucherie è la casa del Soleil e di altri sette teatri parigini. Il vostro è un luogo di convivenza comunitaria che si riversa anche nel confronto poetico? In verità il confronto poetico non c’è con gli altri teatri, siamo uniti per far fronte alla città di Parigi che è il “proprietario” del luogo. Noi del Soleil siamo una settantina di persone (circa trenta attori), ci occupiamo di diverse mansioni per tenere in piedi questa grande struttura.

Una struttura enorme… Effettivamente enorme, sì. Non appaltiamo le pulizie a una società. È tutto nostro: noi attori facciamo da mangiare per il pubblico, facciamo le pulizie… È una vera casa per la nostra poetica.

Vi prendete cura in prima persona degli spazi che vivete, questo è chiaro anche nel laboratorio condotto in questi giorni. Si respira una sacralità dello spazio… È un dare valore alle cose e alle persone che vivono il laboratorio. Se uno spazio si lascia trasandato, anche le persone saranno trasandate.

Questa sacralità è alla base della pedagogia che da anni ricercate. Un metodo che segue la stessa profondità di altre esperienze: Bausch, Brook,GrotowskiQueste sono famiglie teatrali: Mnouchkine, Bausch, Brook… Cercano le stesse verità, cercano la stessa poesia in maniera differente e con forme diverse. Con Arianne ho fatto un percorso formativo molto profondo. Questo traspare nel mio modo di condurre un laboratorio: saper ascoltare, avere gli “occhi puliti”, non attraversare la scena senza un senso di sacralità fuori e dentro lo spazio stesso. Certo è più faticoso: ricercare la verità è uno sforzo più grande confrontato alla ricerca di una forma artificiosa. Una voce impostata la troviamo dopo il secondo corso teatrale che facciamo. La ricerca della verità no.

In questa ricerca l’uso della maschera sembra fondamentale… La maschera è come una lente d’ingrandimento. Senza maschera, alla fine di un esercizio puoi dire: “io sentivo questo, sentivo quell’altro”. Invece la maschera o vive o non vive. Tutti quelli che hanno un occhio benevolo lo capiscono subito. Gli altri no.

Come mai? Perché è difficile ammettere che forse “mi hanno detto delle cavolate fino ad ora o forse mi sono sbagliato”. Tutti quelli che hanno l’occhio benevolo, invece, vedono quando esiste o non esiste qualcosa in scena, quando c’è una verità o non c’è. È difficile per tutti, anche per noi. È una fatica quotidiana: dobbiamo trovare la verità per fare arrivare l’altro. Un certo tipo di teatro pensa soltanto alla bella presenza dell’attore. Mi fa piacere ma in scena non voglio vedere questo: voglio vedere Amleto, Agamennone, Tartufo, Pantalone.

La maschera affina l’ascolto e la propria presenza scenica… Ti avvicina al saper ricevere e ascoltare non soltanto un blablabla ma con quale emozione questoblablabla viene detto. È una cosa difficile, solitamente non si fa. Basta andare in un dibattito politico per vedere come ognuno mette la sua pedina senza ricevere e ascoltare. Innanzitutto serve comprendere quale sia il cammino che ognuno può intraprendere. In questo ci aiuta il divertimento: abbiamo la fortuna di lavorare con maschere di commedia. Già solo questo: se metà delle persone lo capisse sarebbe una grande cosa.

Ebrei matti e Pinocchio a pezzi

ELENA SCOLARI |  Idee nuove venite a noi! Abbiamo recentemente visto due spettacoli originali e di cui vale la pena di raccontare: Gli ebrei sono matti del romano Teatro Forsennato (vincitore ex aequo con “La Protesta” di La Ballata di Lenna, del premio Festival Anteprima89 Edizione 2012 ANTIDOTI”) visto allo Spazio Teatro 89 di Milano e Pinocchio readymade di Delleali Teatro visto a Casatenovo (Lecco) in occasione della rassegna Librinscena.

“Gli ebrei sono matti” vede in scena Dario Aggioli e Angelo Tantillo, il primo interpreta Enrico, malato di mente vero che durante il ventennio fascista viene ricoverato in un manicomio, lontano dai suoi cari e dai tanto amati discorsi del duce, il secondo è invece Ferruccio, un ebreo romano che si finge matto per sfuggire alla cattura. Un matto vero, gentile, e un ebreo vero ma matto finto che si incontrano e si confrontano nell’assurdità dell’istituto psichiatrico. La storia si ispira ad un episodio reale. Enrico è autistico e Aggioli lo interpreta con realismo toccante, l’attore ha effettivamente lavorato con persone autistiche ed è in grado di rappresentarne i tic e le ossessioni in maniera senz’altro credibile e ricca di ironia, Tantillo è continuamente in bilico tra l’imbarazzo di doversi fingere quello che non è per salvarsi e l’affetto sincero che sviluppa verso Enrico. Lo spettacolo non ha un testo definito (soltanto i buffissimi discorsi del duce interpretati da Aggioli sono quelli originali), i due interpreti improvvisano ogni sera, rispondendo alle reazioni del pubblico e calibrando l’interazione tra i personaggi secondo l’estro. Questo aspetto deve ancora essere padroneggiato meglio, essendo al debutto il lavoro manca di rodaggio e il solo canovaccio rischia di mostrare un ingranaggio ancora non ben oliato, ne soffre un po’ la fluidità narrativa dello spettacolo che non appare ancora drammaturgicamente solido. Siamo però di fronte ad un esperimento forte, che merita di essere visto per la capacità di mostrare la crudeltà delle leggi razziali in un modo nuovo, anche comico; inoltre l’utilizzo di maschere di cuoio molto belle, (realizzate da Julie Taymor, regista cinematografica di Titus e Frida) rende articolato il racconto e sottolinea con arte la doppiezza di ognuno di noi, il contrasto tra almeno due anime racchiuse in ogni uomo e in ogni personaggio.

Lello Cassinotti, attore e regista di Delleali Teatro, residenza lombarda, ha ideato una versione di Pinocchio che è un omaggio dichiarato al maestro Carmelo Bene, faro di pochi attori del nostro tempo, purtroppo. Cassinotti ha ridotto ognuno dei 34 capitoli del libro di Collodi, lavorando soltanto in levare, le parole che sentiamo sono tutte dell’autore. Ma una lettura integrale, benché ridotta, del testo, risulterebbe comunque troppo lunga, così è il pubblico a scegliere quali capitoli l’attore leggerà, le regole del gioco sono chiare: il primo e l’ultimo capitolo sono obbligatori, in mezzo si può fare ciò che si vuole, anche andare in ordine sparso senza rispettare la cronologia della storia. Si confida che il pubblico conosca almeno a grandi linee l’intero intreccio, perché non si perda in questo percorso libero. La rappresentazione prevede sul palco l’attore insieme a un musicista (Alberto Forino) che accompagna la lettura con una tastiera, apparentemente con una certa libertà di scelta musicale. Cassinotti è molto bravo, riesce, benianamente, a dare voce a tutti i personaggi, voci diverse che si attagliano perfettamente alle creature che popolano Pinocchio. Il risultato di questo ready-made teatrale, è godibile, surreale quanto basta, ma suggeriamo all’ideatore di creare una selezione guidata dei capitoli, che lasci intatta l’unicità di ogni serata, limitando però con sapienza le scelte del pubblico in modo che l’oggetto finale risulti comunque sempre compiuto, anche se ogni volta diverso. La casualità completa, infatti, rischia di far saltare capitoli affascinanti e di insistere su quelli meno significativi, accentuando il fuoco sulla bravura tecnica a discapito però dello straordinario ingegno visionario di Collodi.

Apprezziamo particolarmente l’atteggiamento sincero di questi due spettacoli, entrambi fanno sentire chiaramente una passione attenta verso il teatro, verso modi nuovi di costruirlo, entrambe le strutture abbisognano ancora di consolidamento ma rivelano una freschezza professionale che ci mette di buonumore. Ebrei matti e Pinocchi fatti a pezzi.

L'Orlando androgino di Isabella Ragonese

BRUNA MONACO | Emanuela Giordano, regista e autrice del piccolo e del grande schermo, oltre che drammaturga e regista teatrale, porta al Teatro Argentina La commedia di Orlando, adattamento teatrale del romanzo di Virginia Woolf Orlando. Un romanzo ironico, divertito e fantasioso, pubblicato nel 1928, che la stessa autrice non prende troppo sul serio e lo definisce un “libricino”. La messa in scena è abbastanza fedele alla trama del libro: Orlando è un nobile inglese un po’ annoiato dalla vita ma con una forte ambizione: raccontarla, la vita, in forma di romanzo. Questa aspirazione, che si lega al desiderio di diventare uno scrittore, è il filo rosso di una storia che attraversa i secoli e i continenti e durante la quale Orlando si innamora e viene abbandonato, è vittima di lunghi sonni simili a coma, parte per l’Asia e, colpo di scena, diventa una donna. Da donna vive con gli zingari, poi torna a Londra, si sposa e realizza il suo sogno pubblicando il romanzo scritto nel corso della lunghissima stramba e visionaria vita, e diventa una scrittrice affermata.

La regia di Emanuela Giordano è pulita ma non incisiva. Sul palcoscenico enorme del teatro Argentina gli attori (Erika Blanc, 
Guglielmo Favilla, Andrea Gambuzza, Claudia Gusmano, 
Fabrizio Odetto e Laura Rovetti) corrono per riempire uno spazio che resta sempre vuoto: la scenografia è semplice, e gli attori non riescono a tenere viva l’attenzione del pubblico. Isabella Ragonese, ottima attrice cinematografica, si muove come danzando e con la sua agilità e leggerezza incarna un certo modello di androginia, ma il risultato è calligrafico. I microfoni che diffondono senza profondità le voci (che arrivano all’orecchio dello spettatore sempre uguali, che l’attore sia in proscenio e gli si rivolga direttamente o gli dia spalle sul fondo scena) non aiutano a rendere vitale la scena. Le musiche originali sono della
Bubbez Orchestra,
eseguite dal vivo da
Giovanna Famulari al violoncello e
Massimo De Lorenzi alla chitarra, in prima balconata ai lati del palco. Fanno da cornice, ma non da contrappunto alla scena scialba.
Neppure l’adattamento convince. È chiaro dal titolo che, della vita di Orlando, a Emanuela Giordano interessa la commedia. Ed è pur vero che nel testo di Virginia Woolf non mancano ironia e leggerezza, ma la La commedia di Orlando trascura la psicologia dei personaggi. E la questione sessuale – la trasformazione di Orlando da uomo in donna – qui è ridotta a elemento della trama, uno fra tanti, invece di farne il grimaldello per una riflessione, magari ironica, sulle differenze di genere, biologiche e sociali.

Rosso

rosso_lucapiva_19RENZO FRANCABANDERA | Nelle primissime pagine dei più celebri e divulgati manuali su come si costruiscono le drammaturgie, il primo elemento cui si fa cenno è la costruzione di un conflitto. “Red”, Rosso, di John Logan portato in scena per la prima volta in Italia è una drammaturgia costruita attorno al conflitto fra il pittore Mark Rothko, in questo caso disegnato con una personalità egocentrica e misantropa ai limiti dello psicotico, e un giovane apprendista, che in realtà fa esplodere con la sua paziente vicinanza al maestro, i suoi conflitti interiori, frutto del rancore verso una società, quella americana di fine anni 50 e inizio 60, che ancora non ne apprezza appieno il valore artistico, preferendo alle sue tele di natura informale più orientate al cromatismo la forza del gesto di Pollock, che aveva sfidato e trovato la morte nel 1956.

Logan è drammaturgo esperto e che ama ricavare le sue storie in un passato di cui indaga le sfumature ambientali, un’attitudine che gli ha decretato negli anni un successo planetario, il cui più recente ed eclatante caso cinematografico è stato l’Hugo Cabret di Scorsese, regista per cui ha sceneggiato anche The Aviator, ma lo ricordiamo anche con Spielberg, per il quale ha scritto Lincoln con Tony Kushner.
Nel caso di Red l’ambientazione è facile da ricostruire: siamo già nella maturità artistica di Rothko, quella in cui era arrivato ad uno stile riconoscibile, fatto di rettangoli monocromi, spesso adagiati su altre monocromie, su tele di importanti dimensioni. Più precisamente siamo nel 1958, quando Philip Johnson gli commissiona una importante serie di lavori per il ristorante Four Seasons nel Seagram Building di New York, progetto cui l’artista lavorò per più di un anno, per poi, dopo aver completato l’opera, richiedere che i grandi lavori murali gli fossero ritornati, perché inadatti a convivere con un ambiente così poco attento all’arte stessa.
Nove di quei quadri finirono quasi dieci anni dopo alla Modern Tate di Londra, il cui direttore dell’epoca Norman Reid li commentò entusiasta per “a princely gesture”, anche se la negoziazione con l’artista non fu di poco conto, visto che lo stesso pretese che i quadri fossero esposti in modo permanente in una sala, senza avere vicini altri esempi che fossero per quel tempo più accessibili al grande pubblico per descrivere la sua arte.
Poco tempo dopo, il 25 febbraio del 1970, il pittore fu trovato morto nel suo studio, con le vene dei polsi recise, in un lago di sangue che macchiava di rosso il pavimento che misurava 8 piedi per 6.
Questa scena viene citata da Ferdinando Bruni in maniera brigante nella versione in scena all’Elfo Puccini dell’opera di Logan, che lo vede impegnato in questi giorni insieme ad Alejandro Bruni Ocaña, sotto la direzione di Francesco Frongia.
Siamo nello studio dell’artista, in un processo di iniziazione all’arte che come in molti casi attestati nella letteratura dello spettacolo, diventa un’alimentazione inversa, un soffio di vita dalla parte giovane a quella matura e spesso incancrenita, dura alla vita.
Questa è ad esempio la chiave di lettura che del testo di Logan aveva voluto dare Michael Grandage, che a fine 2009 lo aveva portato ad uno straordinario successo, prima a Londra e l’anno dopo a Broadway, dove a metà 2010 ha ricevuto sei Tony Awards, più di quanti ne abbia mai ricevuti ogni altra messa in scena, fra i quali miglior drammaturgia, miglior regia e miglior attore per Eddie Redmayne, che interpretava il giovane assistente di Alfred Molina. A questo link alcune sequenze di questo allestimento .
L’intonazione cromatica che le luci di Nando Frigerio conferiscono allo studio di Rothko in questa versione di Rosso targata Elfo, richiama per certi versi quella del celebre allestimento londinese/newyorkese. Come pure alcune dinamiche di scena appaiono vicine a quelle pluripremiate, forse anche per evidente necessità di impostare lo spazio in modo semplice, orientato alla fruizione del pubblico.
La grandissima passione di Ferdinando Bruni per l’arte è quindi stata senza dubbio il motore della scelta di lavorare su questo testo, e su un personaggio dal tratto scontroso ma appassionato.
Lo spettacolo ha spunti di interesse, che non sviluppa in toto. L’ “attor giovane” pur preciso nell’interpretazione, non arriva a dare al suo personaggio quella crescita di personalità che fa sviluppare anche la crescita del conflitto con l’artista e la sua psicosi. Questo porta Bruni un po’a “titaneggiare” con il suo personaggio dal fare tiranno, il cui gesto suicida, che viene mimato, non trova una vera corrispondenza in uno stato disperato sufficientemente sviluppato, se non in una progressiva tensione alla dipendenza alcoolica.
E’ paradossalmente tutto troppo misurato, c’è un’ortoepia assoluta, per cui l’istante in cui la passione diventa travolgente è quello in cui i due protagonisti, con fare violento, dipingono in pochi secondi una grande tela di rosso indiano, pronta per essere la base di uno dei celebri quadri di Rothko. Solo qui l’arte prevale su tutto, soprattutto sulla parola, una parola che alla fine dello spettacolo rimane fredda e un po’ distante, senza lasciare quella profonda scalfitura informale nell’animo di chi assiste.

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Quaderni ritrovati, Cristiani e baleniere

BRUNA MONACO | L’ammirevole progetto ZTL-pro da cinque anni permette a compagnie indipendenti di realizzare spettacoli a volte di gran qualità. È il caso di Lev dei Muta Imago, presentato nel 2008, o de L’origine del mondo di Lucia Calamaro, uscito dalla scorsa edizione e che ha raccolto grandi successi di pubblico e critica. La direzione artistica di questa rassegna è prismatica (Angelo Mai, Rialto Santambrogio, Santasangre / Kollatino Underground, Teatro Furio Camillo e Triangolo Scaleno Teatro) come anche la tipologia di spettacoli selezionati. Il focus è sulla varietà dei linguaggi artistici, ma grande attenzione anche al teatro di ricerca.

Quest’anno gli spettacoli finanziati da Ztl-pro sono tre, molto diversi tra loro, appunto. Il più interessante, Reality, nasce dall’incontro frala brava Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Il punto di partenza è il reportage di Mariusz Szczygiel sulla casalinga polacca Janina Turek, che in seguito alla deportazione del marito a Auschwitz per elaborare il lutto ha sviluppato una psicosi tutta particolare, ovvero un filtro affettivo che, anziché deformare la realtà, la mette a fuoco con una precisione maniacale. Una realtà oggettiva, scevra di emozioni: i fatti, soltanto. Quelli meno significanti, quelli di tutti i giorni. Fatti ridotti a elenco di fatti, ridotto a numeri. È così che scrive 748 quaderni, annotando 38.196 telefonate, 1.922 appuntamenti fissati, 70.042 programmi televisivi visti. Eccetera, eccetera. Per tutta la vita, ad insaputa dei familiari. Di tutti.
L’inizio di Reality è acutissimo, ed esilarante. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini partono dalla fine, dalla morte della protagonista, un infarto, mentre rientrava a casa dopo la spesa. Subito la domanda: come si mette in scena la morte? Traslitterazione scenica della questione atavica (come si elabora la morte?) a cui Janina Turek ha risposto compilando quaderni. Deflorian e Tagliarini osservano l’uno le proposte di morte dell’altra. Si correggono, si aiutano. Hanno pudore. Sono impacciati e umani.
Poi, a dispetto del titolo, Reality inizia a somigliare a una docu-fiction sulle difficili prove di trasposizione scenica di qualcosa che, a stringere, è una serie di liste. Come fare uno spettacolo dalla lista della spesa. Reality diventa così la messa in scena di un tentativo di spettacolo che ha forse la debolezza di alludere a tratti più a uno studio preparatorio (molto interessante) che a uno spettacolo compiuto.

Anche Or, sulla frase nominale, ideato e diretto da Silvia Rampelli per la compagnia Habillé d’eau, è a suo modo uno spettacolo incompiuto. O forse, solo non riuscito. La scena completamente nuda è quella grigia ma per nulla anonima del teatro Palladium, nessun lavoro è stato fatto sullo spazio. Sul fondo scena due gambe d’uomo, distese, il resto del corpo nascosto dalla quinta. Rumori di fondo registrati e poi una voce che chiama “Cristiani” e che sarà il tormentone dello spettacolo. Le performer in scena non faranno che reiterare gesti poco comprensibili. La ricerca dichiarata nel foglio di sala sulla “dialettica tra temporalità e identità della forma” sulla scena è ancora più criptica che sulla carta. Dal bisogno di un senso, lo spettatore può anche liberarsi, se l’elemento visivo è più che attraente, penetrante. Ma né corpi delle due pur brave performer (Alessandra Cristiani e Eleonora Chiocchini), né la qualità dei loro movimenti colpisce in profondità, impossibile che riesca ad affondare da qualche parte nella percezione dello spettatore.

Chiude in leggerezza la rassegna il Teatro delle Apparizioni di Fabrizio Pallara con Moby Dick di Rockwell Kent, uno spettacolo per adulti e bambini. I novanta spettatori invitati a salire sul palcoscenico del Palladium siedono su delle panche disposte in forma ovale. Corde dai nodi scorsoi scendono dal soffitto e si legano a delle balaustre. Siamo su una nave, e non una qualunque: il Pequod, la più famosa baleniera di tutti i tempi. Dario Garofalo (unico, bravo attore in scena) in quaranta minuti ripercorre il monumentale romanzo di Melville. Proiettate sul pavimento della nave, le illustrazioni di Rockwell Kent accompagnano e scandiscano la sua narrazione. Anche in questo caso, si avverte una cerca incompiutezza. Lo spettacolo è ben costruito, ma da risolvere il rapporto con gli spettatori, seduti su panche scomode come quelle di una nave, ma trattati non da mozzi e marinai, bensì da spettatori ordinari, in nessun modo coinvolti nell’azione, malgrado la prossimità. Il progetto è ambizioso, ma l’adattamento scenico di un romanzo, specie di un libro universo come quello di Melville, è sempre un’operazione complessa, e si corre il rischio di rimanere intrappolati nella trama dimenticando i passaggi che dalla trama straboccano e in cui, spesso, si annida il senso.