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Autunno Danza 2012 con Deflorian/Tagliarini (Cagliari)

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Videointervista di Renzo Francabandera

Raccontiamo e commentiamo con questo servizio e i protagonisti della rassegna Autunno Danza, appuntamento di arte coreutica che si tiene da diciotto anni in Sardegna e che quest’anno si è tenuto dal 07.11.2012 al 02.12.2012.
Ideato e realizzato dall’associazione SpazioDanza di Cagliari con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Regione Autonoma della Sardegna e del Comune di Cagliari, il festival ha ospitato dieci spettacoli di artisti nazionali e internazionali, di cui cinque presso il Teatro La  Vetreria di Pirri, e altri cinque presentati all’interno di Signal Festival presso lo Spazio Search di Cagliari in collaborazione con TiConZero e Riverrun.
Le video interviste che presentiamo oggi (a Momi Falchi e Tore Muroni – Antonio Tagliarini e Daria Deflorian) sono state registrate il 16 novembre, in occasione della data di Antonio Tagliarini e Daria Deflorian per il loro spettacolo “Rewind”, delicato omaggio alla figura di Pina Bausch e all’arte della danza.
Poco meno di un mese dopo, Daria Deflorian avrebbe ricevuto il premio UBU.

Parenti terribili a Bologna

ELENA SCOLARI | Un’incursione bolognese di Paneacqua ci permette di parlare di un drammaturgo francese quarantenne, che ci è parso brillante e che ci piacerebbe fosse meglio conosciuto anche ad altre latitudini italiane: Pierre Notte. Nato ad Amiens nel 1969 comincia la sua carriera scrivendo due romanzi e si dedica poi al teatro, esplorando in particolare l’ambito familiare.
Abbiamo assisitito all’apertura della stagione Sguardi 2013, al Teatro Biagi D’Antona di Casalmaggiore, (tutto esaurito e doppia replica organizzata lì per lì), per l’occasione strutturato a pianta centrale, il pubblico sui quattro lati. Lo spettacolo è La mia cara famiglia (non per niente mi sono sparato).
Quello che vediamo è un vero e proprio ring, ai quattro angoli altrettanti personaggi, con il proprio sgabello da boxeur, la sequenza dei brani che compongono lo spettacolo è scandita da un gong. Nessuno di loro getta la spugna ma tutti mettono all’angolo l’altro, a turno.
Il quartetto d’attori (che ci ha infatti ricordato Quartet di Heiner Muller, nella messinscena di Bob Wilson con una magnetica Isabelle Huppert) è formato da Angela Malfitano, Francesca Mazza, Maurizio Cardillo e Pietro Piva, tutti bravi, (Piva ancora un po’ acerbo ma comunque convincente) tutti vittime e carnefici di legami parentali insopportabili.
Sulla scena si alternano varie coppie, in abiti comuni e contemporanei: marito e moglie, marito e amante, madre e figlio, sorella minore e sorella maggiore, moglie e amante, padre e figlio, un uomo vecchio e uno giovane, di tanto in tanto riuniti in ironico quartetto danzante.
La drammaturgia è composta di quarantacinque brevi quadri, scontri verbali diretti e feroci tra i personaggi, che si accusano delle più diverse nefandezze, dall’infanzia al presente. Un testo iperrealista, cinico per crudezza, a volte esilarante, con la fredda capacità di farci ritrovare nelle meschinità dei rapporti umani di tutti i giorni. È impossibile non identificarsi in alcuni scambi di battute:
LUI: “Ma tu mi amavi così com’ero”…
LEI: “No! Io ti ho amato nonostante le tue camicie con le maniche corte”!
Oppure:
LEI: “Cosa??? Il notro rapporto è uno sfacelo???”
LUI: “MA no, ho detto una grazia del cielo”…
LEI: “Lo vedi che non si capisce mai quando parli?”
O ancora l’irresistibile ricordo della sorellina che confessa di aver messo in lavastoviglie l’amato criceto della sorella maggiore…
La regia è il risultato di un lavoro corale dei quattro interpreti, tutta basata su un chirurgico uso dei tempi, serrati ma non forsennati, i movimenti degli attori sono metafore di lotte, mai eccessivi, luci semplici, la recitazione asciutta e credibile. Possiamo sollevare qualche perplessità sull’utilizzo delle voci fuori campo, idea non chiarita e che crea uno scarto svantaggioso rispetto alla limpidezza della scena in diretta.
Questo lavoro ci ha suscitato anche altri rimandi, forse immaginati anche dall’autore: il film Carnage di Polanski (dal magnifico testo di Yasmina Reza) e un altro drammaturgo francese: Jean Luc Lagarce, scomparso molto giovane, di cui Luca Ronconi ha messo in scena “Juste la fin du monde”. Questi esempi sono forse ancora più crudeli, senza speranza.
Nella scrittura di Pierre Notte c’è una frequente presenza di humour, non sempre nero, che ci lascia credere ad una possibilità di riscatto, nonostante le bassezze di cui tutti si macchiano.
I dialoghi tra i pugili parenti sono fulminanti, vogliono colpire per mettere ko, non ci si accontenta di una vittoria ai punti, sconfitta e vittoria devono essere inequivocabili, qui porta il rancore domestico.
La famiglia è un inferno, ci dice Notte. L’invidia, la frustrazione, il senso del sacrificio non riconosciuto, le incomprensioni producono una rabbia forte, che si cova per anni e che prima o poi esplode. Negli spari finali.

Se l’arte all’anima preferisce le connessioni neurali

Esiste una risposta biologica alle bellezza e alla bruttezza nell’arte? Quali sono i meccanismi neurali che caratterizzano una mente creativa? Arte e scienza possono dialogare e contribuire alla conoscenza del modo con cui elaboriamo le rappresentazioni di realtà? Sono questi alcuni interrogativi cui tenta di rispondere L’Età dell’inconscio di Erik Kandel – pubblicato per i tipi di Raffaello Cortina Editore –, importante tomo che restituisce un mondo, il mondo della Vienna primo novecentesca dove nascono i presupposti delle neuroscienze, in un connubio unico fra scienza medica e suggestioni dell’arte e della creatività. L’Età dell’Inconscio. Arte, mente cervello dalla grande Vienna ai giorni nostri è una sorta di invito a ripercorrere le inquietudini del nostro essere al mondo e al tempo stesso disegna lo scenario storico in cui è destinata a compiersi «la sfida centrale della scienza del XXI secolo è capire la mente umana in termini biologici. La possibilità di vincere questa sfida si dischiuse alla fine del Novecento, quando la psicologia cognitiva, la scienza della mente, si fuse con la neuroscienza, la scienza del cervello. Il risultato fu una nuova scienza della mente che ci ha consentito di sollevare una serie di domande a proposito di noi stessi: come percepiamo, impariamo e ricordiamo? Qual è la natura dell’emozione, dell’empatia, del pensiero e della coscienza? Quali sono i limiti del libero arbitrio?», scrive l’autore.
A queste domande Erik Kandel risponde prendendo in esame la storia intellettuale di Vienna fra il 1890 e il 1918, quella felix Austria che pose le basi non sono dell’inquietudine dell’Uomo del Novecento, non solo fu terreno fertile delle avanguardie artistiche che avrebbero condizionato buona parte del secolo breve, ma fu anche culla della moderna scienza medica, culla della psichiatria, ma anche dell’attenzione alla mente come straordinario strumento di lettura, interpretazione della realtà. Nei salotti viennesi dell’epoca si discutevano idee che avrebbero segnato una svolta nella psicologia, nella neurobiologia, nella letteratura e nell’arte. «L’ambiente intellettuale e artistico della Vienna degli inizi del Novecento segnò un primo scambio tra le due prospettive e produsse un enorme nello sviluppo nel modo di pensare la mente umana». L’autore si concentra su tre artisti: Gustav Klimt, Oscar Kokoschka ed Egon Schiele. «Essi posero l’accento sul fatto che il compito dell’artista moderno non era comunicare bellezza, ma le nuove verità – si legge nella prefazione – inoltre, la Scuola di storia dell’arte, influenzata in parte dal lavoro sulla psiche di Sigmund Freud, cominciò a sviluppare una psicologia dell’arte su basi scientifiche inizialmente concentrata su chi guardava l’opera. Oggi, la nuova scienza della mente è maturata al punto di poter contribuire al dialogo, di nuovo incentrato sullo spettatore, tra arte e scienza, e rafforzarlo».
Erik Kandel prende in esame i modernisti viennesi e Klimt, Kokoschka e Schiele perché più di altri «cercarono di rappresentare nei loro dipinti e disegni le lotte interne, inconsce e istintive delle persone; tuttavia ciascun artista sviluppò un proprio modo di utilizzare le espressioni del volto e i gesti delle mani per comunicare ciò che aveva intuito. Nel farlo, ciascuno di loro diede all’arte moderna contributi concettuali e tecnici indipendenti». In 32 capitoli corredati di 222 immagini di quadri e sculture, grafici, tavole e rappresentazioni, L’Età dell’inconscio ripercorre le origini e gli sviluppi della scienza della mente, del cervello e della psicologia dinamica, per arrivare al cuore del problema, il significato e la rappresentazione.
Indaga i meccanismi della percezione, dell’osservazione, dell’invenzione. Enuclea le leggi della decostruzione dell’immagine, dell’emozione, e della ricostruzione attraverso la creatività e l’espressione corporea. Viola con eleganza i sentimenti dello spettatore per entrare nel «teatro privato di un’altra mente». Kandel illustra il funzionamento biologico dell’osservazione e dei meccanismi di regolazione, e di come l’uomo abbia imparato a crearsi «un modello della mente degli altri», e abbia sviluppato empatia e da questa l’amore per la bellezza, e la creatività. Scritto con incredibile semplicità e con un linguaggio abbordabile ai più, L’Età dell’inconscio è un contributo interessante e imprescindibile non solo per chi si occupa di neuroscienza e di capire come il cervello elabora le rappresentazioni di realtà, elabora la nostra consapevolezza di essere nel e del mondo, ma rappresenta anche un contributo a quella complessità del sapere che non conosce barriere fra sapere scientifico e umanistico e pur nella consapevolezza di identità e finalità differenti «si possa iniziare a concentrare le prospettive della scienza della mente e degli studi umanistici su determiate questioni intellettuali comuni per portare avanti nei decenni il dialogo iniziato nella Vienna dei primi del Novecento quale tentativo di collegare arte, mente e cervello.
Di seguito trovate un intervento del Nobel Kandel sul pensiero nell’età dell’inconscio
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La tradizione tutta un’invenzione

NICOLA ARRIGONI | E’ un piccolo libro prezioso, che dovrebbe essere letto soprattutto da quanti si riempiono la bocca di identità, tradizioni, memoria. Si tratta i Contro le radici di Maurizio Bettini, pubblicato nella collana Voci della casa editrice Il Mulino (110 pagine, 10 euro). Maurizio Bettini, classicista apprezzato e di fama, si interroga sul senso della parola radici, sulla metafora che sottostà al termine radice come fondamento di un’appartenenza, ma anche all’altra metafora dell’albero genealogico come percorso che dà storicità ad una stirpe.
Ciò che fa Maurizio Bettini è smontare con intelligenza e con un linguaggio più che accessibile ma mai banale i luoghi comuni di un senso di appartenenza ad escludendum che si gioca su invenzioni più o meno recenti, su luoghi comuni trasformati in verità indiscutibili ma assai confutabili. La tradizione può diventare un confine invalicabile, può essere motivo di esclusione, di impoverimento invece che di ricchezza. L’identità non è data per sempre, è una costruzione che solo la miopia culturale e un senso di ignoranza nei confronti dell’alterità si ostina a definire unica e soprattutto immutabile. Maurizio Bettini mette a punto una lucida e stringente requisitoria contro i miti dell’identità che nell’Italia dell’ultimo scorcio del XX secolo ha visto proliferare nello sviluppo politico e sociale della Lega Nord un esempio preclaro di invenzione della tradizione per difesa da ciò che è altro, un movimento che ha fatto delle parole tradizione e identità i vessili di un benessere e un senso di appartenenza territoriale: il ricco e laborioso Nord italiano contrapposto al corrotto, mafioso Centro Sud del Paese con Roma come babilonia e origine di tutti i mali.
E allora ecco che dietro ad ogni identità, dietro ad ogni tradizione non c’è nulla di dato per definito, ma c’è un’abile costruzione di senso che permette di definire la nostra posizione nel mondo, il rapporto con l’altro, il nostro essere in rapporto o in contrapposizione con l’altro. Le tradizioni servono per distinguere, tracciare confini, definire un’appartenenza costruita a tavolino, inventata a volte di sana pianta. Ma per capire come la tradizione sia – in realtà – portatrice di movimento e come richiamarsi ad un sapere tradizionale come immutabile sia una contraddizione in termine basta rifarsi al significato etimologico della parola tradizione. In tradizione c’è l’idea di condurre attraverso da qui la consegna di un sapere ad un’altra generazione, un passare attraverso, un consegnare per oltrepassare i tempi biologici dell’esistere con la consapevolezza che nell’atto stesso del consegnare c’è l’invito a far proprio un sapere e a mutarlo. Questa è la tradizione: un passaggio di consegne, la possibilità di eternarsi nel tramandare all’altro, a chi verrà dopo di noi ciò che siamo e siamo stati per aiutare a essere pienamente, malgrado ciò che ci ha preceduto o forse proprio grazie a ciò.
Non è un caso che Maurizio Bettini si rifaccia nella sua requisitoria contro la banalizzazione che oggi si fa dei termini tradizione, memoria e identità all’invenzione della tradizione elaborata da Hobsbawn e Ranger, che hanno messo in evidenza come fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo i nuovi stati nazionali elaborarono ritualità e tradizioni culturali che a fronte di un’origine antichissima erano in realtà rituali sincretici per dare senso di appartenenza alle nuove compagini nazionali, ai nuovi gruppi sociali. Ecco allora che Bettini nel suo Contro le radici invita a vedere in maniera diversa l’idea di appartenenza: non più in verticale ma in orizzontale. Scrive infatti il saggista: «Un’immagine orizzontale e parallela della tradizione potrebbe dunque educarci all’idea che essa non costituisce un viluppo verticale di radici – o una discesa da presunte sommità – quanto un insieme relativo e alternativo di modi di vita. La tradizione, infatti, non è qualcosa che viene dalla terra, che si mangia o si respira, e neppure qualcosa che discende verso di noi da determinate alture: essa è prima di tutto qualcosa che si costruisce e che si apprende. Senza un continuo lavoro di apprendimento qualsiasi tradizione si spegne in breve tempo».
In questo senso tradizione è allora un passare attraverso, un consegnare all’altro, un perpetuare nel tempo un sapere e degli apprendimenti che mutano con il mutare dei destinatari, un sapere mai dato per definito ma che nel suo tramandarsi sa essere nuovo e antico al tempo stesso e quindi aperto all’alterità, al mutamento, alla reinvenzione della tradizione.
Maurizio Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna, 2012, pagine 110, euro 10.
Qui la presentazione del libro di Bettini ad agosto scorso in un video Arci
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Materiali per Medea

RENZO FRANCABANDERA | Dieci anni fa o poco più, commentando un Médée Matériau memorabile, quello per la regia di Anatoli Vassiliev, ospitato a Fabbrica Europa a Firenze e ad Avignone nel 2002, Franco Cordelli faceva due semplici ma illuminanti riflessioni sulla scrittura del tedesco Heiner Müller: “A leggerlo non sembra affatto uno dei maggiori drammaturghi del nostro tempo. Non si capisce; è ellittico come nessun altro mai è stato; si compiace del proprio spasmodicamente contrarre i testi altrui. (…)Müller riscrive in poesia contemporanea ciò che fu scritto in poesia o in prosa secoli e secoli fa. Soprattutto, si farebbe prima a dire che questi suoi irritanti testi, alla prova della scena, risultano tra i più drammatici e sconvolgenti degli ultimi decenni”.  Cordelli testimoniava anche di come Vassiliev avesse confessato di essersi irritato a leggere Müller per le «costruzioni ermetiche tedesche» e per gli «sproloqui post-filosofici».

Materiali per Medea è un corpus drammaturgico composito, nato in tre episodi letterari frammentati e originatisi separatamente. Per un verso è, per dirla ancora con Cordelli, “un estratto della tragedia di Euripide in cinque pagine”. D’ altra parte continua ad essere una riflessione contemporanea, acida e violenta su come la storia dell’umanità declini i suoi personaggi in forma perpetua, cui la letteratura porge il tappeto per continuare a renderne eterni i caratteri. La trilogia è composta da Riva abbandonata – Materiale per Medea e Paesaggio con Argonauti (Verkommenes Ufer; Medeamaterial; Landschaft mit Argonauten).
La nuova regia di Carmelo Rifici debutta nel teatro che lo coproduce insieme a Proxima Res, ovvero Spazio Tertulliano di Milano. Scindere la riflessione di Rifici sul testo dal luogo materiale e immateriale in cui il Mariangela Granelli dà corpo alle sue tre Medee è pressoché impossibile. Determinanti nell’impianto narrativo dello spettacolo risultano le scene e i costumi di Margherita Baldoni, e l’intersezione con i video di Lisa Cerri e il complesso disegno luci di Matteo Crespi, pur in uno spazio assai ridotto. Un’ampia piscina di diversi metri quadri occupa il centro della scena. Sul lato sinistro una parete diagonale di plastica semitrasparente taglia il rettangolo del palcoscenico, creando uno spazio anteriore più ampio di quello posteriore.
Lo spettacolo si apre con “Riva abbandonata” in cui una donna esteuropea si ritrova, derelitta e spaesata, in un occidente che non le offre cittadinanza. Qui dovrebbe scorrere il tema della protagonista che rigetta il suo vissuto per sfidare il destino. La sua scelta d’amore non la nobiliterà, anzi la porterà alla tossicodipendenza e alla prostituzione. Le sue parole sono frammenti, taglienti scansioni verbali, che incidono come lame il corpo nudo dell’attrice, segnandola a fuoco. La sfida di questo primo testo è renderlo in una qualche forma comprensibile. Rifici sceglie di affidarne la lettura al corpo e a una scansione verbale quasi da contro-canto, con le cadenze e gli accenti sincopati. L’impresa finisce per risultare troppo alta, lo spettatore resta spaesato, forse più del personaggio protagonista i cui contorni caratteriali si arrivano a leggere con difficoltà oltre quanto è di più immediata leggibilità.
Il passaggio al secondo frammento, “Materiale per Medea”, porta la donna straniera, obbligata a vivere da reietta, ad inserirsi in un paesaggio multimediale, dove alla sua presenza fisica concreta si contrappone, sullo sfondo, un paesaggio anomalo: una sala teatrale che la ascolta silenzioso, in attesa di un finale di cui però non aspetta il risvolto drammatico e inatteso.
“Paesaggio con Argonauti” è l’atto della trilogia in cui il personaggio appare, nella parola proferita e nel corpo offerto al pubblico, più chiaro e leggibile nel farsi pentagramma della sinfonia tragica con cui Müller disintegra la figura di Medea nell’ambiente in cui aveva scelto di vivere, in quella terra, in quell’humus di sentimenti che le si rivolta contro, per marchiarla, macchiarla, in modo indelebile.
Riesce la regia a legare i tre frammenti in modo inscindibile, in quell’operazione che Müller aveva inteso favorire con l’unione di tre brevi testi? Non fino in fondo, perché il paradosso che vediamo è che il cemento unificante di questo spettacolo, più che il lavoro sul personaggio, è la scena, il locus, la grande piscina attorno e dentro la quale le tre vicende prendono anima.
La storia dei tre caratteri, a differenza del corpo d’attore, resta al bordo di questo elemento, ci gira attorno, ci entra dentro, ma non fonde in maniera liquida i tre episodi, li lascia scissi, affidando allo spettatore un compito non semplice di composizione che in maggior misura sarebbe stato compito della regia. L’interprete cresce con i tre personaggi, appare un po’ più a disagio nella tossicità del primo, e più a proprio agio nella fragile negazione di sé dell’ultima. Ma la scelta registica di mantenere l’indole frammentata non aiuta certamente l’attrice a creare una possibile Medea, nella pluralità psicologica che Müller legge del carattere della donna.
Se uno spettacolo fosse uno spazio metrico e le ragioni, le idee del regista su un testo fossero una successione di punti, in matematica varrebbe una regola, ovvero quella dell’unicità del limite verso cui questi punti convergono. In buona sostanza, l’argomentazione di uno spettacolo dovrebbe indirizzarsi verso un asintoto logico che ad un certo punto non può essere modificato senza che questo nuoccia all’impianto generale, alla tenuta stessa dell’universo di pensieri che in quel microcosmo trova le sue regole. Nello spettacolo di Rifici questa direzione profonda e univoca forse c’è, ma non arriva ad emergere, e così la parola di Müller assume il suo connotato più crudele e autodistruttivo, sovrastando tutto, e diventando quasi incomprensibile, pur in modo assordante, e la sensazione è che più che a una trilogia si assista a tre segmenti incomunicabili, cui manca un unico piano euclideo su cui poggiare, se non appunto quello scenico, tolto il quale se ne rivelerebbe forse l’intima fragilità, con riferimento alla lettura profonda del e sul testo.
Di seguito un video promo dello spettacolo

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Il discorso del re

NICOLA ARRIGONI | Una riflessione sul linguaggio, la forza della parola teatrale che trasforma la realtà e in controluce la parola che salva dall’abisso del nazismo la civilissima Inghilterra: questo il sottotesto de Il Discorso del Re di David Seidler, portato all’onore sul grande schermo da Tom Hooper con cast stellare e in teatro da Luca Barbareschi. Il Discorso del Re è la storia di Albert, futuro Giorgio VI (Filippo Dini), che salì al trono dopo aver sconfitto la balbuzie grazie al logopedista Lionel (Luca Barbareschi), in realtà un attore australiano fallito. Il Discorso del Re è una storia di amicizia fra un attore e il futuro re d’Inghilterra, è la storia del fallimento attoriale di Lionel e della debolezza di Albert il Duca di York, sullo sfondo l’orrore della dittatura nazifascista e della guerra. Luca Barbareschi — regista, traduttore e produttore — risolve tutto ciò con uno spettacolo che grazie alle scene trasparenti e mobili di Massimiliano Nocente cerca un movimento che sfrutta il fascino dei cambi scena a vista e che si lega a tre parallelepipedi mobili alternati a video d’epoca che delineano gli spazi e il tempo, ovvero lo scenario storico dell’Europa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. I disegno luci di Iuraj Saleri, così come i costumi di Andrea Viotti sono didascalici, forniscono i confini visivi di una scena che è racconto e memoria, un racconto emotivamente sottolineato dalle musiche di Marco Zurzolo. L’effetto è gradevole — all’inizio — ma anche un po’ prevedibile. Contribuisce a dare eleganza visiva ad un narrare che si sostanzia nell’intimità del rapporto d’amicizia fra un attore che non sa fare l’attore e un Re che non sa di poter essere sovrano di Inghilterra. In tutto ciò Filippo Dini è un Bertie prima impacciato e poi sempre più spigliato, grazie alla cura del suo logopedista e un po’ psicologo Lionel, una sorta di brutto anatroccolo destinato a diventare cigno. E tutto ciò si verifica per la sfrontata sicumera di quell’attore australiano fallito ma che non si rassegna alla passionaccia per il palcoscenico, nei panni del quale Luca Barbareschi sta bene, sguazza, eccede, ammicca, si prende il gusto del bel dire e della macchietta.
Il pubblico apprezza, ride, sorride, applaude i due protagonisti: Dini più dimesso, contenuto e Barbareschi capocomico affamato di ribalta ed eccessivo. Intorno ci sono i comprimari: Astrid Meloni, Chiara Claudi, Roberto Mantovani, Ruggero Cara, Mauro Santopietro, Giancarlo Previati che altro non sono che funzioni caratterizzate di un rapporto a due fra l’attor mancato e il re svelato…. Ovviamente tutto ne Il Discorso del Re è chiaro, detto, spiegato con la recitazione, con i video, con i costumi, nessuna fatica per uno spettacolo che si svela in tutte le sue parti che sottoutilizza le sue potenzialità drammaturgiche, le fa galleggiare nell’aria in nome di un intrattenere con garbo e compiacenza. E allora anche il pensare al film di Tom Hooper è esiziale, non serve e non solo perché non c’è confronto possibile fra due linguaggi diversi, ma anche perché la stessa parentela testuale è lontana, ininfluente.
Il discorso del re di David Seidler, traduzione e regia di Luca Barbareschi, con Luca Barbareschi, Filippo Dini, Astrid Meloni, Chiara Claudi, Roberto Mantovani, Ruggero Cara, Mauro Santopietro, Giancarlo Previati, scena Massimiliano Nocente, costumista Andrea Viotti, light designer Iuraj Saleri, musiche Marco Zurzolo, produzione Casanova Multimedia, al teatro Ponchielli di Cremona, 20 dicembre 2012.
Un video promo dello spettacolo
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Raud Al Atir, ovvero l'arte araba d’amare

FRANCESCO MEDICI | In tutta la storia della cristianità, fin dalle sue origini, si coglie una certa diffidenza verso la sfera della sessualità e del piacere sessuale. Alcuni padri fondatori della Chiesa fanno, anzi, una convinta apologia dell’astinenza dai piaceri dell’amore e a tutt’oggi, per i cristiani più integralisti, l’amplesso (tra i coniugi) è solo tollerabile in quanto finalizzato alla procreazione. Se la posizione ufficiale della Chiesa cristiana odierna è generalmente più aperta, permane tuttavia, per esempio, l’obbligo del celibato per il clero cattolico.
Desta d’altronde un certo stupore – in primis tra i musulmani di oggi – sfogliare alcuni testi giuridici islamici del XIII e XIV secolo i cui autori affrontano senza censure la questione della sessualità, al fine di determinare ciò che, al riguardo, è lecito oppure no alla luce degli insegnamenti della religione di Maometto. Ponendosi, ovviamente, all’interno del quadro del matrimonio (l’Islam, come noto, vieta i rapporti extraconiugali e l’omosessualità), questi antichi testi parlano in modo esplicito di desiderio, preliminari e posizioni dell’amore, attribuendo primaria importanza alle aspettative e al piacere dell’uomo e della donna. In un detto riportato (hadith), il Profeta associa l’atto sessuale tra marito e moglie a un’elemosina, in quanto atto di adorazione dinanzi al Creatore.
La sessualità è dunque, per un musulmano, espressione del credente che accoglie, senza riserve né pregiudizi, ogni dono dispensato da Allah, nello spirito come nel corpo. Perciò approfondire le proprie cognizioni nell’arte di amare non è un’azione perversa o peccaminosa ma, al contrario, un dovere per tutti i fedeli. In altre parole, per l’Islam, che intende porsi come religione dell’equilibrio, un essere umano senza sessualità non è equilibrato, come non lo è chi pratica una sessualità illecita e sfrenata. Recita un altro hadith: «Colui che è in età di matrimonio è bene che si sposi; il matrimonio è il mezzo migliore per spegnere gli sguardi lascivi e domare i desideri carnali. Colui che non può sposarsi, digiuni: sarà per lui un calmante» (al-Bukhari, XXX, 10).
È dunque in quest’ottica che va letto “al-Raud al-Atir fi nuzhat al-Khatir” (“Il giardino profumato per la ricreazione dell’anima” o anche “Il giardino profumato delle delizie sensuali”), vero e proprio manuale di erotologia araba appena ripubblicato dalle Edizioni Mediterranee nella collana “Sapere d’Oriente”. Il curioso volumetto (scoperto, si dice, nel 1850 da un ufficiale di Napoleone III di stanza in Algeria e noto in Occidente a partire dal 1884 grazie allo scrittore francese Guy de Maupassant), commissionato dal sultano di Tunisi Abdul Aziz Hafsid, fu composto presumibilmente tra il 1410 e il 1434 da Abu Abdullah Mohammed Ibn Uma An-Nefzaui, insigne giurista, letterato e medico originario di Nefzawa (nell’attuale Tunisia). L’opera, evidentemente ispirata al “Kama Sutra”, ricorda a tratti gli “Amores” e l’“Ars Amatoria” di Ovidio, e mostra numerose affinità con il nostro “Decamerone” per la presenza al suo interno di diverse novelle argute e salaci.
Il testo, articolato in una ventina di brevi capitoli, descrive nel dettaglio le innumerevoli modalità del coito; presenta opinioni relative alle qualità che uomini e donne dovrebbero possedere per essere attraenti; fornisce suggerimenti sulle tecniche sessuali e sulle precauzioni relative all’igiene; prescrive rimedi per curare le malattie veneree, l’impotenza e la sterilità; riporta un gustoso elenco di appellativi per indicare l’organo sessuale maschile e quello femminile; offre consigli alimentari per favorire l’amplesso e accurati ragguagli sul concepimento e la gravidanza; vi è inoltre una sezione dedicata all’interpretazione dei sogni e al sesso nel mondo animale.
L’autore, a dispetto dei contenuti licenziosi dell’opera (famosa come “Le mille e una notte” e assai diffusa in molti Paesi arabi, ad eccezione dell’Arabia Saudita), tiene tuttavia a presentarsi al suo pubblico come un individuo molto pio, e di ciò fanno fede le ripetute invocazioni all’Altissimo di cui è costellato il suo piccolo capolavoro, come si evince dall’introduzione, straordinario inno di lode alla bellezza femminile: «Sia lodato Allah, che ha posto la più grande gioia dell’uomo nel grembo della donna e la più grande gioia della donna nelle parti corrispondenti dell’uomo. […] Sia lodato Dio per aver creato la donna con le sue bellezze, la sua carne evocatrice di delizie, per averla provvista di lunghi capelli, di una graziosa figura […] e di gesti d’amore che accendono la passione. Il Signore del Creato ha concesso alla donna il potere della seduzione; tutti gli uomini, deboli o vigorosi, sono stati assoggettati dal Signore all’amore per la donna. La donna è l’origine dell’ordine o dell’anarchia, del sostare o del vagabondare. […] Io, servo di Dio, Gli rendo grazie; che nessuno possa salvarsi dall’amore per una donna bella e nessuno possa sfuggire al desiderio di possederla».
A questa edizione italiana, sebbene poco accurata nella traslitterazione delle voci arabe e alquanto carente negli apparati critici (cfr. “Il giardino profumato: per la divagazione della mente”, a cura di Younis Tawfik e Roberto Rossi Testa, ES, Milano 2009), va comunque riconosciuto il merito di rendere perfettamente il sapore genuino dell’originale nel raccontare di un erotismo naturale e spontaneo, scevro di qualsivoglia malizia o spirito libertino.
Per quanto concerne i capitoli dedicati alle prescrizioni per accrescere le dimensioni del pene e ai rimedi astringenti della vagina, corre infine l’obbligo al recensore di rammentare ai lettori e alle lettrici che i consigli forniti dal buon sceicco Nefzaui non rivestono alcuna attendibilità scientifica e devono pertanto essere considerati come mere curiosità di carattere storico-letterario…
Mohammed An-Nefzaui, Raud Al Atir. Arte d’amare araba, Edizioni Mediterranee, Roma 2012, pp. 179, € 12,50.

Il teatro nel teatro di Giorgio Strehler

BRUNA MONACO | Un piccolo rialzo al centro del grosso palcoscenico del Teatro Argentina. Un palco sul palco, è così che Strehler cita Pirandello e mette il teatro al centro del suo spettacolo, fa meta-teatro. Senza elucubrazioni da filosofo, ma alla maniera pratica, visiva, da vero regista. Dal 1947, anno del debutto dello spettacolo, a oggi, si sono susseguite più di dieci versioni. Ognuna è l’evoluzione della precedente. Sono cambiate le scenografie, i registri recitativi, le maschere, gli attori, le atmosfere. Per Strehler l’Arlecchino servitore di due padroni è stato terreno d’elezione di una ricerca sull’attore e sul teatro. Un terreno fertile che ha dato negli anni frutti gustosi per palati raffinati, e non. Parlando di meta-teatro è sicuramente la versione del 1963 la prima a venire alla mente, quella denominata “edizione dei carri” (che vide per la prima volta in scena Ferruccio Soleri nel ruolo ufficiale di Arlecchino), rappresentata all’aperto nella Villa Litta ad Affori, vicino Milano. Ai margini della scena, defilati eppure protagonisti, campeggiavano due carrozzoni da compagnia di giro, di quelle in cui vivevano e con cui si spostavano i teatranti fra ‘400 e ‘700. Da quei carrozzoni uscivano gli attori che interpretavano il ruolo d’attori con una recitazione naturalistica, e una volta sul palchetto sopraelevato, la loro ribalta, si trasformavano negli esuberanti Arlecchino, Brighella, Florindo, Beatrice.
In quest’ultima versione vista al teatro Argentina la scenografia è modesta, stilizzata, vicina alle primissime edizioni: su un fondale che chiude sul retro il palchetto, scorrono come davanti a una finestra drappi dipinti: la casa di Pantalone de’ Bisognosi, la strada che dà sulla porta della locanda di Brighella, l’interno della locanda. Ma anche qui ciò che più balza agli occhi e pare interessante è quel che circonda lo spettacolo, la dimensione meta-teatrale: seduto ai bordi della piccola ribalta un suggeritore dialoga con gli interpreti della commedia goldoniana che per far vivere le maschere costringono anche il corpo e la voce a posture innaturali, nettamente extra-ordinarie. E questa differenza di registro interpretativo lo notiamo quando i “commedianti dell’arte” dal lavoro passano alla pausa: a scena finita, saltano giù dal palchetto, rilassano i muscoli, discorrono, si siedono, si insultano con fare naturalistico.
Gli attori sono eccellenti, perfetta la composizione dei quadri e sostenuto il ritmo generale dello spettacolo. Ma le voci arrivano flebili ai palchi di platea, alcune parti di dialogo sono incomprensibili e il piacere che viene dalla precisione e accuratezza di ogni dettaglio (dai costumi, ai movimenti alle luci) è in parte offuscato dalla sensazione che questo ennesimo Arlecchino servitore di due padroni sia un po’ sottotono. D’altronde sarebbe inevitabile il contrario: fra i tanti cambiamenti che hanno interessato lo spettacolo nel corso delle repliche e delle edizioni, c’è un’unica costante, Arlecchino, ovvero Ferruccio Soleri. Prima di lui solo Mario Moretti, l’Arlecchino melanconico e riverente che, morendo giovane, lasciò ereditare in fretta il proprio ruolo ad un allora giovanissimo Soleri che oggi, invece, a ottantatre anni, non si risolve a lasciare la scena e il ruolo di Arlecchino. È chiaro che negli anni e a furia di replicare in ogni parte del mondo uno spettacolo così fortunato e applaudito, il legame tra attore e personaggio si sia fatto indissolubile. Ed è vero che, nonostante la veneranda età, Ferruccio Soleri ha ancora una controllo del corpo e un’agilità invidiabili. È anche vero, però, che l’Arlecchino con cui Soleri ha conquistato e avvinto il pubblico internazionale era un acrobata dalla fisicità prorompente ed è forse questo il punto in cui si crea una crepa nell’identità attore-personaggio: può Arlecchino smettere d’essere un acrobata? Può Arlecchino smettere d’avere vent’anni e averne di colpo ottanta?
Il problema è che anche la drammaturgia si regge sul personaggio e che tutti gli altri attori, giovani e bravi, devono intonarsi al mattatore e tutto, così, si opacizza. Il problema è anche che in un paese come l’Italia in cui gli ottuagenari sono radicati ai posti di comando e non vogliono privarsene a nessun costo, lasciare gli eredi liberi di vivere ed esprimersi è anche un atto politico.

L’arlecchino servitore di due padroni nell’edizione del 1994:
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Ex Lavanderia, Torino – M. Levraggi

RENZO FRANCABANDERA | Dance Mania è il titolo scelto per la Stagione di danza 2012/13, quarta alla Lavanderia a Vapore – Centro di eccellenza per la danza di Collegno, un’efficace sintesi della passione del BTT per la danza e della volontà di proporre quest’arte ad un pubblico sempre più ampio. Dodici appuntamenti con compagnie e artisti nazionali e internazionali, astri nascenti del panorama coreutico e punte di diamante della scena mondiale.
Ne abbiamo chiesto a Matteo Levaggi, responsabile artistico di questo luogo magico, dopo il concerto del 6 dicembre di Michael Nyman, il Balletto Teatro di Torino, l’Ensemble Sentieri Selvaggi e l’Elise Hall Saxophone Quartet in un unico, straordinario spettacolo pensato e firmato per la coreografia, da Matteo Levaggi e prima dell’esibizione, prevista per il 20 pv di Megakles Ballet/Petranura Danza, compagnia catanese che porta in scena Ma-Shalai (20 dicembre), la dolce e selvaggia poesia siciliana con un tocco di ironia e di piacere.
In questi anni l’ex Lavanderia si è proposta come un centro di proposta culturale per la danza e le arti performative di calibro internazionale. Gli eventi di questi giorni ne sono testimonianza. Cosa ha permesso questo mix di sensibilità glocal? Quali sensibilità governano e indirizzano la vostra attività culturale?
L’interesse principale nella scelta delle compagnie presenti in stagione, è indirizzato verso quei coreografi che fanno della danza, della coreografia la loro prima materia di espressione. Dunque coreografi interessati al movimento, alla dinamica del corpo nello spazio, allo scorrere del tempo. Insomma, capaci di raccontare anche senza narrare una storia, ma creando una poetica coreografica personale e incisiva.
Come si è evoluto in questi anni il vostro lavoro? Qual è il ruolo avuto delle sponsorship private in questo? Può farci qualche nome?
Negli anni a partire dall’acqua LAURETANA, gli sponsor privati si sono accorti che qualcosa di interessante accadeva, che avevamo un pubblico e che avvicinandosi a noi potevano garantire con il loro contributo la buona riuscita degli spettacoli. Non ultima la sponsorizzazione di  Habitare&Karimedica per la serata Nyman.
E che rapporto avete con pubblico e territorio?
Direi che il pubblico è ancora in fase di formazione, quindi un rapporto in costruzione. La danza, a meno che non si tratti di balletto classico fatto in teatri di tradizione, di fenomeni commerciali o molto visibili a livello dei media è ancora indietro rispetto al teatro . La cosa interessante però è vedere che quando il pubblico va via da teatro, ha il sorriso e la voglia di tornare.
Quali sono gli eventi che ritiene interessante segnalare nel prossimo futuro che coinvolgeranno la struttura?
Sicuramente la prossima produzione del BTT firmata da me come coreografo,Sexxx, che vuole essere un’istantanea cosa è la danza oggi e che direzione deve prendere per continuare a vivere come forma d’arte. Sarà una coreografia potente e molto danzata (ci saranno le punte sia per donne che per uomini). Inoltre a maggio avremo Louise Lecavalier, star, negli anni 80, dei canadesi La La Human Steps e ancora oggi grande coreografa e danzatrice (uno degli ultimi lavoro che Nigel Charnock  ha creato è stato proprio per Lecavalier) Riuscite ad avere un orizzonte di programmazione pluriennale? State già guardando avanti?
Assolutamente! Con idee ambiziose e non solo per la danza.

La lingua contesa del Friuli

ANDREA CIOMMIENTO | “La Repubblica contesa” si fa punto di vista locale e universale grazie a un registro di comprensione accessibile e vicino al linguaggio della Commedia dell’Arte, foglio pregiato di tornasole della Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. È la scena a consigliarci una prima predisposizione del sentimento: palchetto in legno, quinte denudate e attori onesti nel loro fare fin dalle prime azioni. Gli allievi diretti da Claudio De Maglio raccontano a mo’ di canovaccio la storia rielaborata attorno al periodo “1617: dalla Guerra di Gradisca ai complotti d’Europa in Venezia” inserendo al suo interno stralci di getto contemporaneo in un canonico intreccio di repertorio da comici dell’arte: veleni e zizzanie a insaputa dei padroni, innamoramenti da ceto sociale affine, corpi attratti dall’istinto bilanciato nel proprio perineo. Gli attori masticano i luoghi prossimi alla visceralità di un popolo, o meglio, dei popoli incarnati da ogni maschera presente, che sia uno zanni, una servetta sarda o una balia friulana. Lo fanno rimescolando in taluni casi le carte proponendo anime geografiche differenti e ben riconoscibili (da esempio il Pantalone siculo e il suo vendere dolci e salati appetibili in tutta Venezia). È l’uso della maschera che trasfigura e si riappropria dei corpi, delle espressioni modellate e della voce emessa da ogni attore. Tra tutti gli allievi rendono lieta la nostra attenzione il primo Arlecchino che manifesta il suo essere padrone del movimento e dell’animo (agile e posato) e la balia friulana con il suo fare mai scimmiottante, presente al pragmatismo friulano con ingenua furbizia per niente sciatta, capace a nostra percezione di garantire la stessa qualità in ruoli ben più delicati e femminili.

La metamorfosi riesce didatticamente nella sua struttura da perfetto “manuale dell’attore comico” nel suo senso più canonico. Le uniche sbavature presenti riguardano la durata: quasi due ore per uno spettacolo dal retrogusto minimo di saggio sono azzardo, se non altro per la presenza di attori ancora in formazione accademica. Una simile scelta rischia di rivelare le toppe fallando il ritmo da tenere alto soprattutto in spettacoli di commedia. Anche l’uso del canto, nobile sia all’inizio che a conclusione, appare come un cassetto aperto e richiuso, poi nuovamente riaperto alla fine come spettacolo a sé in modalità stereo on/off. L’ultima esitazione riguarda il termine dell’allestimento liquidato in formula riduzionista, senza relazione con la profondità; per intenderci: l’idea di creare una comune di contadini in Friuli, con annessa battuta “mai dire mais” e una pannocchia come ultimo tesoro, tende a ridurre e non a impreziosire. “La Repubblica contesa” propone momenti brillanti che tirati nel tempo stridono, altri interessanti da rielaborare nella direzione della profondità.

Certamente encomiabile la scelta gestionale: inserire lo spettacolo in diversi cartelloni del circuito regionale è segno riconoscibile e pregiato della Nico Pepe di questi ultimi anni, garante di una formazione accademica aperta al mondo esterno grazie alla circuitazione di saggi/spettacoli nei teatri della regione, in festival come Avignone OFF e Mittelfest e alla collaborazione con altre scuole del panorama italiano come la Paolo Grassi di Milano. Una possibilità di crescita spedita al di fuori delle mura didattiche propria dell’agire teatrale senza deposito in sordina negli anni di studio. Certo è che una verità si fa segno irripetibile e costante in Friuli: la contesa vincente della lingua friulana. In questa occasione conclusa drammaturgicamente ad arancini, polenta e vino.