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giovedì, Novembre 14, 2024
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Tutto Esaurito!

RENZO FRANCABANDERA | E’ stato un mese di teatro alla radio, un mese di programmazione dedicata al teatro, con serate in diretta, spettacoli delle ultime stagioni appositamente registrati per Radio3, frammenti di archivio, repertorio, radiodrammi originali e voci – interviste e commenti – dei protagonisti del palcoscenico. Tutto nel segno della scena contemporanea italiana e straniera.

Come e se possibile ancor più dell’anno scorso quando già per tutto il mese di novembre Radio 3 aveva dato spazio ai linguaggi della scena. Tutto esaurito! è stata una vera e propria rassegna all’interno del palinsesto di Radio 3, volta sa creare attenzione a nuove forme di fruizione dei linguaggi scenici.
Radiodrammi, pezzi d’archivio, nuove creazioni, grandi interpreti. Partito il 29/10 con Una lettura del Woyzeck dal Woyzeck di Büchner di e con Claudio Morganti, il programma della rassegna è continuato riproponendo vere e proprie gemme d’archivio fra le quali L’Arialda di Giovanni Testori con la regia di Giuseppe Bertolucci, per passare ai drammaturghi contemporanei, come Lucia Calamaro, Michele Santeramo, Sergio Pierattini, Andrea Cosentino e Laura Curino, terminando ven. 30 nov con Lo stupro di Lucrezia di William Shakespeare con adattamento e regia di Valter Malosti, che sarà ospite nei prossimi giorni a Milano a Teatro .
Ne abbiamo parlato con Laura Palmieri, che ha curato la programmazione insieme ad Antonio Audino.
Laura, che bilancio possiamo trarre quest’anno di Tutto esaurito! ?
Sicuramente la programmazione teatrale over size di Tutto esaurito ha attratto, sin dalla prima edizione, sia la stampa specializzata, che la “comunità teatrale” insenso ampio, ma soprattutto è stata recepita sicuramente come una novità positiva dal pubblico di Radio3, forse più affezionato, soprattutto nella fascia serale, alla programmazione musicale. La riproposta anche quest’anno di un mese di “teatro quotidiano” ha consolidato tra gli ascoltatori questo appuntamento, suscitando in numero assai maggiore interventi, commenti, ed anche richieste specifiche di ascolti teatrali (soprattutto per quanto riguarda la programmazione delle rarità conservate nel nostro archivio teatrale), o segnalazioni di spettacoli visti dagli ascoltatori sui palcoscenici teatrali. Questo ci conferma che la consuetudine di un appuntamento e la volontà precisa di dare spazio al teatro – spesso considerato un genere elitario ai fini degli ascolti non solo televisivi, ma anche radiofonici – fanno emergere che la richiesta in questo ambito è molto più ampia e importante di quel che comunemente si crede.
In che modo gli ascoltatori hanno potuto interagire con il progetto?
In primo luogo attraverso gli sms e le e-mail, che sono sempre arrivati numerosi ogni sera durante la messa in onda, e anche nei giorni successivi. E’ possibile inoltre sintonizzarsi sul sito di Radio3 (www.radio3.rai.it) per seguire la diretta audio, alla quale, per questa edizione di Tutto esaurito, è stata aggiunta anche la possibilità della diretta video per le cinque serate che abbiamo realizzato nella Sala A, alla presenza di pubblico. Per questo esperimento i dati sono stati piuttosto incoraggianti (oltre 5000 contatti in un mese).
Alcune serate sono state lanciate anche sul nostro profilo Facebook di Radio3. Dal giorno successivo alla messa in onda è stato poi possibile riascoltare o scaricare in podcast ogni singolo evento, che rimane podcastabile per circa due settimane dall’elenco podcast del sito di Radio3, nel programma IL TEATRO DI RADIO3. Sapremo solo dopo il 10 dicembre i dati podcast del mese di novembre.
La radio in molte nazioni europee, è uno strumento potente per la divbulgazione e la conoscenza del teatro ma soprattutto delle nuove drammaturgie. Cosa avete pensato a questo proposito per Tutto esaurito?
Per quanto mi riguarda posso dar conto di questi ultimi 15 anni, da quando cioè sono arrivata dalla televisione a Radio3 per seguire, insieme ad altre colleghe, il progetto di Teatro alla Radio che Luca Ronconi realizzò negli anni tra il ‘97 e il ’98, durante la direzione di Roberta Carlotto, che coinvolse molti eccellentissimi nomi del teatro italiano nella realizzazione di 33 piéces radiofoniche, dalla Lisistrata di Aristofane all’Assoluto naturale di Goffredo Parise, solo per dar conto dell’ampio sguardo sia cronologico che autorale. A quello sono poi seguiti altri importanti progetti di produzione di teatro radiofonico, dal ciclo del 2000 Europa oggi curato da Franco Quadri, in cui spesso furono anticipate le realizzazioni sceniche di testi di autori contemporanei ancora semi sconosciuti in Italia, come Mark Ravenhill o Sergi Belbel, per fare solo due nomi significativi della nuova drammaturgia; al Terzo Orecchio di Mario Martone , che chiese alla scena sperimentale e di ricerca italiana di realizzare dei pezzi scritti apposta per la radio, fino ai cicli del Consiglio Teatrale curati da Franco Cordelli, dieci nuove produzioni per sei anni consecutivi che hanno coinvolto moltissimi attori e registi in una panoramica sulla drammaturgia del 900 europeo e americano. In questi ultimi anni, con la direzione di Marino Sinibaldi, la nostra attenzione si è decisamente concentrata sulla scena contemporanea, dando spazio a molti giovani e nuovi autori, che hanno trovato un palcoscenico qui a Radio3 per presentare i loro lavori, spesso fruibili solo da una cerchia ristretta di pubblico specializzato. Come anche numerose sono state le collaborazioni con alcuni autori e registi della nuova generazione, per la realizzazione di produzioni originali che indagassero il rapporto fra il linguaggio teatrale e quello radiofonico, come ad esempio i radiodrammi originali che abbiamo proposto nella passata e in questa edizione di Tutto esaurito, realizzati da gruppi come Fanny e Alexander, Muta Imago, Babilonia Teatri o da grandissimi artisti come Claudio Morganti. Credo di poter rispondere, a conclusione, che Radio3 sia diventato sempre più in questi anni un luogo di confronto, di accoglienza e di promozione per la scena teatrale italiana, e che abbia certamente contribuito alla sua diffusione e conoscenza verso un pubblico desideroso di scoprirla e frequentarla.

Sul filo del racconto con Laura Curino

ANDREA CIOMMIENTO | Al suo terzo anno la rassegna “civilMente”, sulla responsabilità civile e l’imprenditorialità sociale (5-13 novembre 2012), ha reso possibile il dialogo tra le piccole e grandi realtà del tessuto torinese grazie al dinamismo multidisciplinare proposto e all’ascolto attivo delle attuali necessitàgLocal. In tale occasione ogni giornata è stata una possibilità di scoperta per l’espressione teatrale, l’audiovisivo, la danza e molto altro ancora. Il focus dell’anno intitolato “abiTO” ha fatto confluire lo sguardo di luoghi in pienezza d’animo, quelli in cui ognuno dovrebbe prendersi cura dell’altro con la stessa dedizione rivolta ai cari delle proprie case. La rassegna si è rivelata una panoramica vitale su tutto ciò che riguardava l’associazionismo e la partecipazione attiva con accesso aperto a ogni spettatore interessato grazie alla formula Up yo tou, un modo alternativo di pagamento dei biglietti che da tempo gli artisti di strada chiamano offerta “a cappello”, così garantendo una condivisione della proposta culturale senza sbarre sociali o identità classiste. Tutte le associazioni coinvolte di origine no-profit hanno mostrato un volto sano e interessato alla buona riuscita di un atto di ricerca profonda, sul senso di un’economia civile promotrice di sviluppo sostenibile in piena affinità con il tema dell’anno: abitare per “sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo”, scriverebbe il filosofo Galimberti. Un’idea progettuale equilibrata, azzeccata e aderente alla realtà, sostenuta dal lavoro di Enrico Gentina, direttore artistico e responsabile di Municipale Teatro, e Pierluigi Ossola, ideatore della rassegna e coordinatore delle attività dell’Osservatorio sull’economia civile (Camera di commercio– Torino).

La conclusione della rassegna ha visto la presenza di Laura Curino e del Comitato Imprenditoria Femminile (Camera di Commercio- Torino) con “Camminando sul filo. Elementi di acrobatica quotidiana per signore”. L’interessante approfondimento ha proposto in poco meno di tre ore la costruzione organica sull’identità della donna negli ambienti famigliari e professionali di ieri e di oggi in una particolare formula d’intreccio teatrale tra spettacolo e formazione. Una narrazione di storie al femminile che in questi tempi di esacerbati consumi lascia spazio alla promozione di un bene ancor più prezioso dell’economia, quello relazionale; in questa direzione siamo stati testimoni di uno scambio di valori senza mercantilismi, nel suo senso più profondo.

La rassegna è stata promossa dall’Osservatorio sull’economia civile della Camera di commercio di Torino, Associazione Baretti, Kairòs – consorzio di cooperative sociali, Confcooperative Torino, Legacoop Piemonte e il Corso di laurea in Educazione Professionale dell’Università di Torino.

Per approfondimenti: www.civilmente.org

Natura Dèi Teatri

RENZO FRANCABANDERA | Da molti anni Lenz Rifrazioni è una delle realtà più orientate alla commistione nell’area emiliana che ha come baricentro Parma. Festival, rassegne, progetti sull’identità, l’integrazione, “l’innesto”.
Dopo i primi giorni dall’inizio dell’edizione 2012 del festival Natura dei Teatri, una rassegna ibrida sulla scena, con artisti di tutta Europa, abbiamo intervistato Maria Federica Maestri, della direzione artistica di Natura Dèi Teatri e Lenz Rifrazioni.
Un progetto triennale, il vostro (2012_2014) indica in OVULO, GLORIOSO e I DUE PIANI, per un’indagine approfondita sui linguaggi della creazione contemporanea. Ci vuole audacia a guardare così lontano di questi tempi…  Le date della diciassettesima edizione della rassegna sono quelle comprese fra l’1 e il 9 dicembre 2012 con un campo d’indagine che si orienterà sulla lettura performativa dell’identità ovulare- macrocellulare del linguaggio artistico contemporaneo. A cosa alludete nello specifico con questo concetto?
OvulO è un nome triadico liberamente tratto da “ingestioni” provenienti dal filosofo la cui scrittura ha una forte assonanza con la nostra modalità di creazione: Gilles Deleuze. A Deleuze abbiamo sottratto tre elementi stimolanti, tre suggestioni concettuali. Non è quindi meccanicamente diretta la ragione per la quale il Festival è interpretato da artiste femminili. In primo piano c’è la necessità di dare evidenza ad un linguaggio ovulare, cioè sostanziare un progetto artistico attraverso opere “nutritive”, compositivamente definite.
Se il “Glorioso” si contrappone al linguaggio organico del corpo concreto, ne “I due piani”  si incontreranno, senza contaminarsi e subordinarsi, due piani linguistici schizofrenicamente tesi verso l’unità.
Il discorso attorno all’ovulo è maturato nel tempo, allo stesso modo in cui maturano i significati che comportano la necessità dell’azione. Più che un festival “al femminile” preferirei dire un festival di artiste, perché chi come noi pratica da lungo tempo un’indagine estetica profonda, non tollera più mediazioni e medietà e spinge sempre più fino in fondo il proprio acceleratore interiore, emotivo ed intellettuale.  Non ci interessa restituire uno specchio più o meno fedele dei linguaggi performativi contemporanei ma, come dice Deleuze, usare il coltello, ossia penetrare con lama tagliente il mondo. Non è una visione ideologica e politica quella di scegliere un universo artistico femminile ma una volontà di sbilanciamento, di estremizzazione della differenza. Oggi, a distanza di un anno dal suo concepimento, questo contenuto si è fatto molto forte anche dal punto di vista della “questione sociale” peraltro andando quasi a coincidere con la giornata contro la violenza sulle donne. Penso non sia sufficiente agire sul piano politico della legislazione, ma che l’umano debba esaltare la propria debolezza attraverso il potere della lingua. Il linguaggio è potere e deve esserlo per i disabili, per le donne, per i bambini, per tutti coloro a cui è stato negato: non è sufficiente averlo per diritto – certo – ma bisogna conquistare il dovere della lingua. Fare un’esperienza intellettuale significa inanellare queste due polarità. Il nostro lavoro, sia nella progettazione del festival come nel nostro percorso artistico, è un procedere per innesti; le drammaturgie anticipano una visione in una sorta di futuro circolare in cui quello che accadrà è già accaduto. La visione rende necessaria l’azione.
Le condizioni esterne oggi sono molto difficili: tutto impedisce di proseguire un percorso come questo fatto di avvenimenti interiori e non di eventi. E quindi, sì, è audace il pensare in un esistere lungo. Magari poi lo si pensa, basta però che non ci tolgano almeno la possibilità di farlo.
Le ispirazioni tematiche che dichiarate, derivano da suggestioni filosofiche tratte dall’opera di Gilles Deleuze. Perché Deleuze? Quale contributo specifico ritenete abbia dato alla semiotica con riguardo alle arti sceniche, che ve lo fa preferire ad altri studiosi ugualmente attenti a quanto oggetto della vostra indagine (mi vengono in mente sia Deridda che, ancor più Merleau-Ponty)?
Il teatro filosofico è fisica di pensiero, visualizzazione dell’anomalia e della variazione. La scrittura di Deleuze è disorientante, labirintica, in una rotazione, spirale di sensi. Le prime letture formano e fondano la nostra identità poetica, segnano il passaggio dall’adolescenza alla maturità, diventando così parte della nostra biografia.
Il Festival Natura Dèi Teatri si svolge a Parma negli spazi post-industriali di Lenz Teatro. Ritenete importante questa caratteristica per così dire site specific?
E’ stato importante alla fine degli anni ’80 quando abbiamo cercato uno spazio che corrispondesse alla nostra identità, al nostro concetto di bellezza. Questo è il nostro museo, la nostra pinacoteca, la nostra Wunderkammer in cui si continua a riscrivere la lingua del teatro, è un vuoto e un pieno, è silenzio e rumore. La fabbrica è un luogo non anonimo, non neutro: il ‘900 ha costruito fabbriche al posto delle chiese e le fabbriche dismesse sono le nuove cattedrali del ventunesimo secolo. Dopo oltre 20 anni di attività, visto che le cose non sono mai definitive, il nostro spazio è ancora in balia di possibili mutamenti negativi, cambiamento di destinazione ad uso commerciale. E questa possibilità – drammatica – rafforza ancora di più la sua funzione di conflittuale, e la sua occupazione psico-interiore è ulteriormente mutata. Lo fabbrica è un luogo non rassicurante, non domestico, ma la sua cifra architettonica è quella stilisticamente più in sintonia con il nostro linguaggio scenico, per dimensioni, volumi, per il rapporto sospeso che si ha con lo spettatore. In questa edizione del Festival il pubblico è a metà, non ha un suo posto predefinito, abita l’intercapedine, sta poeticamente in mezzo, nel cuore dell’impulso.

Un grande attore a Elsinore

ELENA SCOLARI |  Examleto in scena al Franco Parenti di Milano fino al 6 dicembre 2012, un grande Roberto Herlitzka rende onore al capolavoro di Shakespeare.

“E non dovete trinciar l’aria con la mano, ma imprimere, bensì, dolcezza al gesto. Poiché nel torrente, nella tempesta o nel vortice della passione, proprio allora dovete acquisire e dar forma a una sorta di moderazione”. Così Amleto istruisce gli attori della compagnia che metterà in scena la tragedia dell’uccisione del padre. Parole d’amore per il teatro e regole che mai sarebbero da dimenticare…

Certo non le dimentica Roberto Herlitzka, grande attore in questa versione di Amleto prodotta da Teatro Segreto (già in tournée da qualche anno), nella quale, solo sul palco, ci regala una prova recitativa eccellente, direi stupefacente, se già non lo avessimo apprezzato come uno dei migliori in Italia, anche sul grande schermo.

La riscrittura del testo, curata da Herlitzka stesso, è intelligente, moderna, freschissima nella sua complessità. L’idea centrale dello spettacolo è che Herlitzka/Amleto non solo interpreti tutti i personaggi, ma che Amleto sia tutti loro, che li racchiuda tutti in sé: un Amleto archetipo dell’uomo che ha dentro di sé la fragilità e l’amore di Ofelia, l’ambizione dello zio, la sudditanza di Gertrude, la superficialità della corte, la saggezza del becchino, lo spirito di Yorick, la giustizia di Laerte e il senso dell’amicizia di Orazio.

Così come Herlitzka è lo spettacolo tutto, mattatore fantastico in continuo e abile equilibrio tra mille registri diversi, che attraversa con la disinvoltura dell’acrobata, saltellando agile dal tragico al lirico, dal minimal all’umoristico, dal poetico al parodistico.

Possiamo osservare che tale bravura può, qua e là, risultare un po’ esibita, mai con compiacimento ma talvolta lievemente insistita, a svantaggio del coinvolgimento emotivo, siamo comunque dell’idea che davanti a tanta capacità non si possa essere che essere grati.

Allo spettatore è richiesto uno sforzo di attenzione molto alto, non c’è sosta, mai e seguiamo l’attore su un ottovolante teatrale di rara qualità. Il passaggio da un personaggio all’altro avviene in un battito di ciglia, pur conoscendo bene l’opera non ci si può distrarre.

Roberto Herlitzka indossa un semplice abito scuro e usa solo pochi oggetti evocativi: una sedia, una spada, il flauto (Amleto a Guildenstern: “Tu mi potrai prendere per qualunque strumento che vorrai, tastarmi quanto vuoi: non puoi suonarmi”), la cornice di uno specchio e il teschio di Yorick. Si muove con gestualità sapiente ed estremamente duttile sul palco.

Il lavoro drammaturgico è improntato all’asciuttezza, con ironia si sottolineano la mancanza di onestà, attualissima, e il disprezzo per la virtù. Lo stile di recitazione è quasi sempre a togliere, a “buttare via” con finta distrazione versi splendidi dando l’impressione che possano sgorgare naturali, c’è un distacco diffuso che esalta i momenti di maggior indignazione verso le bassezze che Amleto ha scoperto essere state perpetrate contro l’amato  padre, e che saranno tragicamente vendicate.

Una nota di perplessità, marginale, va al piano luci di Examleto, che ci è parso non abbastanza curato, brusco rispetto alla svelta dinamicità dell’interprete, alcuni cambi un po’ secchi e la strana scelta di un faro a  pioggia fuxia durante l’Essere o non essere.

Amiamo particolarmente l’Amleto, ritenendolo un compendio ineguagliabile delle passioni umane, un catalogo sottile e crudele di ciò che ci muove alla vita, e alla morte.

Siamo sicuri che a Elsinore Herlitzka sarebbe il benvenuto.

Baxiu e Contra LIVE

RENZO FRANCABANDERA | Baxiu e Contra è il festival che l’associazione Archifonia e Alberto Balìa musicista, concertista, straordinario esperto di trascrizioni della musica per launeddas sulla chitarra, ha voluto e realizzato in questi anni, in una ricerca di dialogo fra musica e poesia, improvvisazione, produzione originale e tradizione. A caratterizzare la settima edizione che si terrà a Santadi, sarà l’incontro tra Sardegna del Sulcis e  Puglia del Salento grazie alla partecipazione delTrio Taras. I salentini Aldo Nichil, Angelo Litti e Umberto Panico incroceranno la loro musica con quella di Alberto Balia il primo dicembre alle 22.30.
L’apertura sarà affidata ai suonatori di launeddas  Bruno Loi e Giovanni Tronci, giovane promessa della musica. entrambi provenienti dalla scuola del Maestro Dionigi Burranca. Il Gazebo della Musica, laboratorio di improvvisazione musicale, animerà la giornata di domenica 2 dicembre, con i musicisti partecipanti alla manifestazione che si alterneranno tra launeddas, tamburi, chitarre, fisarmoniche, canto, organetti  creando un continuum musicale di improvvisazioni.
Abbiamo incontrato Alberto Balìa per un’intervista.
Quali sono le determinanti di un festival centrato sulla tradizione popolare che cerca contatti e collegamenti con altre esperienze del territorio nazionale?
Le motivazioni  profonde di “Baxiu e Contra” nascono dall’esigenza di dare visibilità a un ambito musicale poco conosciuto e sottostimato: quello della musica tradizionale e della sua rivalutazione in chiave contemporanea. Per  “contemporaneo” intendo un modo di interpretare queste musiche che  tenga del proprio vissuto musicale, benchè esse siano nate in un altro contesto, quello della civiltà contadina e preindustriale.Tali esperienze che credo siano avvenute in ogni tempo ed epoca, si collegano e si avvicendano con altre nazionali ma anche internazionali.
Come è nata, per l’edizione di quest’anno, la scelta del confronto con la musica salentina?
L’incontro con Aldo Nichil è di vecchia data: risale alla metà degli anni ’70 quando mi ritrovai con lui (e Francesco Giannattasio), in un progetto di spettacolo ideato da Caterina Bueno, dal nome “Ed ora il ballo”, dove ognuno dei quattro musicisti che ne facevano parte rappresentavano la propria regione.
Lo scambio di esperienze fece in modo che io diventassi un po’ salentino e Aldo un po’ sardo, elaborando tematiche che avevano a che fare con l’argia sarda e la taranta pugliese. Poi ognuno andò per la propria strada con la speranza di riuscire prima o poi ad riallacciare nuovamente le esperienze. Baxiu e Contra 2012 spero ci dia questa opportunità
Sia la tradizione musicale dell’area dell’ex magna Grecia sia quella sarda fanno uso di strumenti musicali della tradizione di cui ugualmente occorre preservare la conoscenza. Da questo punto di vista come guardate alle esperienze delle scuole civiche di musica che in Sardegna sono assai diffuse?
Le scuole di musica, pur dove sono presenti insegnamenti di strumenti popolari, tendono all’insegnamento della musica utilizzando i metodi della musica colta, ossia la lettura e la scrittura.
Credo che gli strumenti con cui viene eseguita la musica popolare siano importanti ma a mio parere, più importante ancora è il modo di “pensare” tali musiche che debba essere trasmesso e questo, per il momento, non mi sembra che avvenga.
Il codice musicale rimane uno dei legami più forti con la tradizione del territorio, e il Salento da questo punto di vista pare essere riuscito forse più della Sardegna a far fare un salto nella modernità a questo linguaggio (l’esperienza della notte della taranta, ecc). Quale è il suo pensiero a proposito?
Ogni tanto si parla tra noi musicisti delle speranze che abbiamo nutrito, nei confronti della musica popolare sia sarda che pugliese, calabrese, ecc.
Questo accadeva in tempi non sospetti e cioè quando si era lungi dal pensare che queste musiche sarebbe diventate un business.  Oggi assistiamo impotenti a uno sfacelo. L’industrializzazione della musica non solo non ha trascinato con sè coloro da cui è stata per tanti anni gelosamente custodita, ma addirittura ne soffoca i connotati di base. Questo è un altro importante motivo della presenza di Aldo Nichil, Umberto Panico e Angelo Litti a Baxiu e Contra: gelosi custodi della tradizione e contemporaneamente modernizzatori.
Come la Sardegna può cercare l’incrocio con la modernità attraverso queste occasioni di conoscenza e divulgazione? Come ritiene che il vostro festival si inserisca in questo ragionamento?
Il lavoro di modernizzazione e attualizzazione di una musica popolare non è cosa da farsi in breve tempo.
Ricordiamoci che la musica e musicisti custodiscono il tempo Baxiu e Contra ambiziosamente e senza porsi scadenze temporali, vuole essere uno dei luoghi dove questo possa avvenire.

Gelabert/Azzopardi, da non perdere

RENZO FRANCABANDERA | E’ una coppia artistica e di vita ancora affiatatissima, quella di Cesc e Livia, lui ancora elegantissimo nelle movenze in scena, lei intimamente diva e identicamente popolare.
E questo mix di divismo e tradizione è proprio il codice che ancora oggi, a distanza di quasi 25 anni, rende ancora lo spettacolo dedicato dal duo alla storia e al personaggio del torero Belmonte, un must see dell’arte coreutica europea.
Lo spettacolo si compone di due assoli e una grande scena corale, quasi come una vera e propria opera lirica. Nell’ideale Overture, Cesc, sulle note delle bellissime musiche originali scritte da Carles Santos, ispirate alla tradizione musicale spagnola ed eseguite da una banda di paese di 170 elementi (Banda La Lira Ampostina – direttore banda Octavi Ruiz), dà corpo ad un assolo di perfezione ed eleganza, in cui quelli che saranno i movimenti della corrida, diventano plastica rappresentazione dell’assoluto del corpo. Tensioni, avanzate, colpi si tramutano in un elegantissimo composto scenico.
Pare non avere età Cesc Gelabert, mentre dai due lati del palco viene illuminato da grandi fari che fendono il buio del palcoscenico, in un disegno luci realizzato dal ballerino/coreografo e Jordi Llongueras.
Pian piano dal fondo, al termine di questo pregevolissimo assolo,  compare la scena, quello che appare come un enorme cuscino di velluto con bottoncini, di cui durante lo spettacolo si fruirà un lato rosso e poi uno nero. Capiremo nella bella conferenza seguita allo spettacolo come i due colori non siano casuali ma proprio ricordo del drappo che i toreri usano durante la corrida.
Benchè la tauromachia sia un’arte oramai in dismissione rispetto al patrimonio di riti antropologici dell’umanità degli ultimi millenni, l’interesse della compagnia era proprio nella figura del torero e del suo folle approccio ad un’arte in cui a differenza di quanto possa apparire a prima vista, il movimento geometrico, la corporeità, il sistema di segni del corpo nella sua assoluta esaltazione si fondono in un rituale che ha molto a che vedere con la danza e i suoi codici.
Come tutte le vicende artistiche, anche quella di questo spettacolo si tinge di eventi e aneddoti, come quello che vuole il debutto dello spettacolo a Barcellona proprio durante i giorni in cui si votava per la definitiva cessazione delle tauromachie in Catalogna.
Torniamo allo spettacolo: dopo il primo assolo, agito in un rettangolo color sabbia che deve ricordare la terra sabbiosa dell’arena, una donna esegue il suo assolo. Non è più Lidia Azzopardi, che l’ha eseguito per anni con la sua leggerezza carnale. E’ ora Virginia Gimeno a dare corpo appassionato a un assolo dai ritmi incalzantissimi e di gesti complessi, di cui la stessa Azzopardi ci lascia amorevole testimonianza.
Terzo tempo di questo lavoro è il corpus vero e proprio, interpretato dal grande ballerino e dai giovani della compagnia Dani Corrales, Samuel Delvaux, Jonatan de Luis Mazagatos, Salvador Masclans, Oscar Pérez, Alberto Pineda. La sequenza più emozionante, dopo una parte potremmo dire quasi epica, fisica, che racconta lo scontro fra l’uomo e l’animale, è quella che i ballerini, per un minuto circa, agiscono in contemporanea per terra, con movimenti a rimbalzo coordinati e sincronici. Se ne deriva un sentimento di potenza, passione unici, che preludono al finale dello spettacolo in cui una serie di piccole video sequenze riportano, su grande cuscino che fa da scenografia, alcune immagini dell’eroe popolare, morto poi suicida. E’ proprio il suo vissuto così atipico, attento alle arti e alla filosofia, le sue origini modeste, la gloria nazionale a rendere la sua vicenda e questa rilettura danzata così peculiari.
Il festival MilanOltre, all’interno della cui programmazione lo spettacolo è stato ospitato, prosegue presso il teatro Elfo Puccini con gli ultimi appuntamenti: in sala Bausch l’1/2 dicembre il giovane Giulio d’Anna è in scena con in Parkin’son (1 e 2 dicembre), un toccante confronto tra generazioni, mentre sempre la compagnia catalana Gelabert/Azzopardi è in scena con un doppio programma Sense Fi e Conquassabit su musiche rispettivamente di Pascal Comelade e di G. F. Haendel (30 novembre, 1 e 2 dicembre).
Il 2 dicembre alla DanceHaus, Compagnia Susanna Beltrami un temporary show intitolato La psicoanalisi dell’acqua dove il pubblico potrà entrare in contatto con alcuni frammenti della drammaturgia in divenire per il nuovo spettacolo di Susanna Beltrami Estrad’eau, ultimo della trilogia che la coreografa dedica al filosofo Gaston Bachelard, che debutterà in prima nazionale a febbraio 2013.

Noir-Clair. Meditazioni sull’arte contemporanea.

copertina-Noir-Clair-a-coloriMARIA CRISTINA SERRA | E’ raro, nel grande susseguirsi di eventi, imbattersi in una mostra che dall’idea iniziale, al titolo, ai contenuti e fino al suo svolgimento, riesce a mantenere tutte le promesse, ponendo su una stesa linea di orizzonte le ragioni del cuore, della mente e dell’occhio. Obiettivi centrati nell’expo collettiva “Noir-Clair”, presentata alla Galleria Vanessa Quang, una meditata riflessione sul tema del Nero, analizzato come colore e materializzazione di stati d’animo; come necessità interiore di essere parola chiave, filtro, passaggio nascosto fra le tenebre per arrivare alla comprensione della luce. Uno sguardo da un’angolazione particolare sull’Arte e sulla Vita, nato da una conversazione, l’inverno scorso, fra Barbara Polla e Victor de Bonnecaze, che strada facendo si è sempre più riempita di contenuti etici. Sfuggendo da tracciati lineari, “l’elogio del Nero” si è manifestato in tutta la sua complessità: sintesi di tutti i colori, punto d’incontro degli estremi, simbolo ambivalente di lutto come di eleganza, passando per le strettoie del Grigio, il dubbio e l’incertezza, prima di approdare al Chiaro, attraverso un processo che ha il valore di una poetica e consapevole presa di coscienza sulla perenne dualità e fragilità delle cose.

“Perché il nero non è mai esclusivamente nero. Perché il chiarore permette di vedere, percepire, distinguere, dentro il cuore del nero: è ciò che ci fa uscire dal buio “, ci dice la scrittrice e gallerista Barbara Polla. Le intenzioni teoriche che hanno guidato i curatori sono preannunciate dalle parole di Shakespeare, “L’uomo che non medita, vive nella cecità, l’uomo che medita vive nell’oscurità. Noi non abbiamo che la scelta del Nero”; e anche con quelle di Victor Hugo: “L’inchiostro questo scuro da cui nasce la luce”.

Suggestioni che, dopo aver alimentato il complesso progetto, ora ci accompagnano, mentre ci aggiriamo nell’elegante spazio di un ex-manufatto industriale, collocato in fondo ad una stradina nel quartiere del Carreau du Temple, nel Terzo Arrondissement.

E’ Mounir Fatmi a iniziare il filo del racconto, gettando un ponte ideale per unire due culture, l’orientale delle sue origini e l’occidentale dei suoi vissuti, e due religioni: la musulmana e la cristiana. S’impone immediata la forza espressiva del suo “Angelo nero”, ispirato alla “Guarigione del diacono Giustiniano” del Beato Angelico. Il miracolo di Cosma e Damiano, che sostituiscono la gamba malata di Giustiniano con quella sana di un etiope deceduto, nella rivisitazione di Fatmi diventa paradigma di una grammatica artistica capace di narrare in modo sublime le strutture profonde dell’esistenza. “Io non ho bisogno di radici”, spiega l’artista, “la memoria è sufficiente” tramandata anche dalla scrittura, vergata con inchiostro scuro, che fissa le parole del presente per mantenere vive quelle del passato. A queste si affiancano vecchie immagini di un Tempo da non disperdere e da ritrovare, impresse in pellicole ormai obsolete. In un moto dell’anima, privo di barriere temporali o stilistiche, la frase pronunciata da Goethe in fin di vita, “Mehr Licht” (“Più Luce”), gli ispira l’installazione “Ein Grab für die Farbe Schwarz”, un lungo sarcofago trasparente, ricolmo di matasse nere lucide, aggrovigliate fra loro in modo indissolubile, nastri di vecchie registrazioni ormai fuori uso, frammenti di un passaggio epocale fra realtà analogica e digitale, che l’artista raccoglie come un archeologo della contemporaneità, per depositarli in uno speciale archivio della conoscenza.

 
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un’intervista ai curatori su ArteMediaChannel

La sottile velatura d’ombra che separa la luce dal buio è simbolicamente e liricamente rappresentata dalla poetica sequenza del “Ciclo delle lune” di Martin Lord, che scandisce il tempo senza misurarlo. Le frasi lapidarie sulla follia della guerra, che tutto distrugge e paralizza, sono lanciate come dardi per smuovere le coscienze dall’artista “Post-Situazionista” britannico Robert Montgomery, messe nero su bianco, in sequenze scioccanti, come trasposizioni plastiche di anime ferite. “Poesie sulla pace, sulla guarigione, sulla rigenerazione, come se le idee fossero scritte in un regno spirituale piuttosto che intellettuale”. Delle finestre spalancate sul caos del mondo, per far entrare la chiarezza di una visione utopica, ma anche realistica, di un nuovo Umanesimo privo di violazioni. Senza sovrapposizioni e con codici diversi, sfiorando le stesse tematiche pacifiste, le “Immagini per la pace che disegnano la guerra”, splendidamente disegnate da Tonino Cragnolini, fondono insieme il rigore dell’intelligenza con la lievità dell’immaginazione. Le sue architetture visionarie tracciano voli acrobatici sulle tele, eseguendo combinazioni di trame attinte dalle antiche leggende della sua terra, il Friuli, in un gioco incrociato di destini che dal Medio Evo viaggiano nel Tempo per svelarci la loro attualità; le tenui luci lontane rischiarano le tenebre, sottraendo peso al dolore per farlo specchiare in frammenti di evanescenti consolazioni.

In sedimentazioni ripetitive e illuminanti, “Una giornata perfetta” di Julien Serve racconta il mondo nell’arco temporale di 24 ore, frazionato in lanci continui di agenzie stampa, che ogni giorno si perpetuano con ossessività sempre uguale. “Certe realtà che disegno”, spiega l’ideatore della installazione, “come la violenza, la morbosità, io non posso né viverle né ammetterle, ma le disegno in modo da poter occupare così il mio posto in un mondo inconcepibile”. Il gran senso di accoglienza che si avverte all’interno dello spazio espositivo a misura d’opera, grazie agli arredi sparsi e al senso di comunicabilità in verticale del piano terra con quello sotterraneo e con il ballatoio, favorisce una connessione intima fra spettatore e opere. Lo sguardo riesce a districarsi senza fatica tra una prospettiva e l’altra. Anche le pause, i vuoti, i cambiamenti repentini, sono sollecitazioni vibranti di energie liberate, che si muovono fra le astrazioni di Andrea Mastrovito, le equazioni fra sogno e realtà di Jean-Michel Pancin, le inquietudini di Mat Collishaw. Come un’isola da esplorare irrompe sulla scena il Rosso, il colore della passione, con le sue variabili possibili: sfumato con il rosa nelle favole dai risvolti crudeli di Françoise Pétrovich; mischiato fra i colori vivaci nel mondo sanguigno di Lucien Murat, che ricorda Bosch; alternato ai delicati toni pastello di Fabrice Langlade. Senza così mai perdere la tensione per un racconto che prosegue oltre l’expo nella lettura del libro “Noir-Clair dans tout l’Univers” (Ed.La Muette): una raccolta di saggi, scritti da Barbara Polla, Victor de Bonnecaze, Régis Durand, Philippe Hurel, Jean-Pilippe Rossignol e Rémi Tomaszewski, che riunisce in un arabesco incantato letteratura, arte, musica, teatro, filosofia. Un labirinto di connessioni e riferimenti in cui perdersi per poi ritrovarsi con un “Diamante nero” fra le dita, sfaccettato e dalla brillantezza oscurata, così come è la vita.

Il padre

RENZO FRANCABANDERA | Era con una certa curiosità che ci avvicinavamo alla visione de Il Padre  di August Strindberg per  la regia di Alberto Oliva al Teatro Out Off. Il giovane, proveniente dalla Paolo Grassi attivo a Milano è in questi giorni a Milano in diversi teatri con diverse regie (“Il venditore di sigari” di Amos Kamil – Teatro Litta; “Il ventaglio” di Goldoni – la settimana scorsa al Tieffe Menotti, (Premio Sipario 2012/Associazione Nazionale Critici di Teatro); “Il Mercante di Venezia” – dal 21/11 al Teatro Libero).
Tanti lavori, ospitati in rapida successione da tanti teatri diversi… andiamo a vedere.
Lo spettacolo è interpretato da John-Alexander Petricich, Chiara Zerlini, Lorenza Pisano, Andrea Fazzari e Jacopo Zerbo e si è avvalso della consulenza storico/letteraria Andrea Bisicchia.
Il pubblico entra in sala e trova le luci già accese in scena, con una delle protagoniste intenta a dipingere un quadro. La scena è semplice, creata con due quinte che convergono a cono verso il fondo della sala, creando quindi un senso di claustrofobia, esaltato dalla presenza alle pareti di ritratti dipinti (per la gran parte con intonazione espressionista e fauve) e d’espressione inquietante.
Dopo un buio sfumato iniziale, un gioco di luci porta l’attenzione degli spettatori proprio su questi quadri, che emergono uno a uno dal buio con i puntatori. Di qui in poi la storia, incentrata sul dramma del  Capitano (John-Alexander Petricich), un uomo di scienza equilibrato e scrupoloso, quasi refrattario ai sentimenti estremi, che finirà invece per cedere al sospetto, alla gelosia e alla paura, alimentate in lui dalla moglie Laura (Chiara Zerlini), donna energica, che ingaggia una lotta con il marito per l’educazione della figlia Bertha, che non comparirà mai in scena, lasciando all’universo infantile degli adulti di narrarsi attraverso il potenziale negativo e incomunicabile.  A rendere più inquietante la composizione umana di contorno, una badante dal tratto stregonesco (Lorenza Pisano), il fratello della moglie (Jacopo Zerbo) e un medico che diventerà confidente di lei (Andrea Fazzari), alimentando le gelosie del marito.
Il braccio di ferro fra i due, infatti, degenererà e porterà il Capitano in un mondo parallelo di allucinazioni spettrali che lo alieneranno dalla realtà. Una citazione, nel delirio, delle parole di Shylock che rimanda al Mercante di Venezia, è ideale ponte fra le due messe in scena cui il regista si dedica in questi giorni.
E’ anche ponte naturale con il legame che era stato portato in scena proprio all’Out off di recente e ugualmente incentrato sui rapporti coniugali.
Oltre alle quinte nere convergenti verso il fondo del palco, sulla sinistra un tavolo dove sono poggiati quattro vasetti dei colori primari, sulla destra, progressivamente verso il fondo, un piccolo scrittoio in primo piano con a fianco dei libri (dove il capitano passa i suoi momenti di concentrazione e creatività letteraria), una scaletta che allude ad un ulteriore spazio, che è presumibilmente quello della stanza da letto del Capitano stesso, e verso il fondo un cavalletto con una tela cui, con esito incerto, si adopera Laura.
Abbiamo assistito all’anteprima di lunedì 26. L’intonazione che ben presto lo spettatore non fatica a respirare è quella dello sceneggiato tv anni Sessanta, con musiche ottocentesche per la colonna sonora che aiutano a rendere inquietante il giusto l’ambiente. In teoria ci sarebbero tutti gli elementi per letture multiple, audaci del testo, eppure, un po’ per limiti di alcuni degli interpreti un po’ per una serie di scelte che la regia opera (o forse sarebbe il caso di dire non opera) il lavoro, a nostro avviso, presto scade.
Perché? Perché il testo viene urlato, gli interpreti paiono spesso fuori tempo, fuori luogo, con un pensiero non auto centrato. In diversi recitano lunghi monologhi con i palmi rivolti verso l’attore cui rivolgono la parola in modo onestamente deludente, senza cercare né con la voce né con il corpo di dare struttura all’interpretazione, in questo forse non adeguatamente stimolati dalla regia, che anche ove si sia dedicata a qualche correttivo, evidentemente non ha raggiunto l’esito sperato.
Il lavoro sul testo risulta poco profondo, e la didascalia serpeggia nell’allestimento continuamente, come quando nel finale, dove si parla della protagonista che viene invitata a guardarsi allo specchio, di colpo una tela si rovescia e il retro è fatto di superficie specchiante. La badante, ironicamente tacciata di capacità divinatorie, diventa strega per davvero.
Ci siamo chiesti se l’ironia, presente nel testo dall’inizio fino alle battute finali (clamorosa quella delle mani che la moglie chiede al marito ormai cinto con una camicia di forza di porgerle), sia stata letta in modo proprio. Avrebbe potuto essere una lettura dissacrante e molto più ricca, estrema, di questo testo. Invece viene lasciata lì, tanto che proprio la scena finale cui si è fatta menzione viene caricata dagli interpreti di un pathos solenne, mentre il pubblico scoppia ovviamente in una fragorosa risata per l’assurda richiesta.
Delle tracce vocali audio accenniamo -sono le voci che il padre sente nella pazzia, con sequenze illuminate da un’originalissima luce rossastra – giusto per testimoniarne la scarsissima qualità, che le rendono del tutto incomprensibili, dunque inutili.
Gli interpreti non dialogano in modo credibile né fra loro né con i propri personaggi (ci prova in modo più convinto solo John-Alexander Petricich non cedendo agli eccessi, almeno per due terzi della messa in scena; ma anche lui nel finale butta gli occhi fuori dalle orbite), mentre la regia preferisce tonalità estreme (come i bui hitchcockiani mentre questo o quel personaggio brandisce ora un coltello ora un pennello in tono di minaccia) che sfociano però nella più assoluta e deludente normalità. Perché se queste trovate kitch sono volute, in realtà non raggiungono l’esito di esaltare la tragicommedia, e quindi sono come una barzelletta che non fa ridere, se invece non sono volute sono appunto solo kitch ( e il contrasto, ove la lettura fosse moderna e più audace, sarebbe anche, ad esempio, con i costumi d’epoca);  l’esito, quindi, per quello che ci riguarda, è un lavoro senza ritmo, noioso e per larghi tratti perfino brutto. Speriamo ci sia tempo, fra i tanti spettacoli contemporaneamente in scena, per apportare i necessari correttivi.

Stanze

Teatro Alkaest, Alberica Archinto, Rossella Tansini. Presenze costanti per chi conosce il teatro di Milano, operatori appassionati dell’arte della scena, da anni impegnati a cercare, produrre, realizzare.
E’ da queste sensibilità che nasce Stanze, una rassegna iniziata l’anno scorso a Milano, e che si è ricavata, in questo spicchio d’autunno mentre le stagioni teatrali si iniziano ad animare, uno spazio proprio.
Abbiamo incontrato Rossella Tansini e Alberica Archinto.
Siamo quasi in dirittura d’arrivo con questa prima stagione di Stanze. Cosa ha significato questo progetto per Milano?
In una città abitualmente un po’ pigra e abitudinaria una corrente di novità che il pubblico ha percepito. E anche l’ambizione, per una volta, di esserci misurati con la realtà europea.
Ci date qualche numero?
Abbiamo invitato cinque compagnie. Ognuno ha replicato tre volte per un totale di quindici repliche in quindici case diverse, più lo spettacolo previsto alla discoteca Sogemi per il Festival dei beni confiscati alla mafia. Il pubblico possiamo quantificarlo in circa 600 presenze, calcolando una media di 40 spettatori a sera ed escludendo quello intervenuto alla discoteca. Decine gli interventi della stampa, nei quotidiani e nelle riviste, nel web, alla radio e in televisione.
Il luogo “casa” secondo me ha due risvolti fondamentali nel proporsi come luogo teatrale: il primo riguarda proprio le possibilità sceniche e ambientali, la seconda invece la vicinanza col pubblico. Su quest’ultimo tema che riscontro avete?
E’ stato l’aspetto più sorprendente: abbiamo visto la gente piangere, ridere, restare scossa e impressionata, come è accaduto per l’ultimo spettacolo della rassegna, Prodigioso delirio con Mario Sala diretto da Lorenzo Loris, o piacevolmente coinvolta e divertita come è accaduto con i Marcido Marcidorjs. E poi, con soddisfazione, molta gente è tornata per vedere altri spettacoli.
Negli ultimi anni sono molti gli spettacoli proposti in diverse rassegne che si sono svolti in casa. Da Cuocolo Bosetti fino appunto agli spettacoli che la vostra rassegna ha ospitato. Ma non dimentichiamo neanche l’iniziativa a Como l’anno scorso. Perché secondo voi?
La casa, pur offrendo spazi raccolti, in realtà spalanca orizzonti più ampi, sia per chi, come noi organizza e che si trova a operare con maggiore libertà, sia per chi realizza lo spettacolo che “naturalmente” dispone di maggiori spazi creativi.
Quella del circuito del teatro in casa è secondo voi una via sostenibile dal punto di vista economico? Cioè, può mantenersi in piedi da solo o c’è sempre da sperare in un sostegno economico integrativo? Quanto dovrebbe essere grande un circuito “nazionale” di case per proporsi come circuito vero e proprio?
La sostenibilità economica è la grande scommessa. Noi abbiamo avuto, per l’avvio, il sostegno fondamentale di Fondazione Cariplo e per il prossimo anno si è dichiarato disponibile anche il Comune di Milano. Per la prima edizione si è deciso di fare pagare unicamente una tessera associativa e ci ha sostenuto una formidabile squadra di padroni di casa che ha servito cene deliziose per tutti. Per il prossimo ciclo prevediamo un biglietto di 5 euro oltre alla tessera associativa. Difficile ora prevedere gli sviluppi futuri. Ci consideriamo ancora in fase di studio e aspettiamo il banco di prova della prossima edizione. Stessa risposta interlocutoria per il circuito nazionale. E’ evidente che più si allarga il giro più aumentano i vantaggi, su tutti i fronti e questo ci induce a un inguaribile atteggiamento positivo. Del resto contatti con altre città italiane sono già in atto. Oggi è comunque difficile prevedere cifre precise: il momento economicamente duro magari non aiuta, ma davvero crediamo che non sia impossibile auto-sostenersi.
E ci sentiamo di chiudere con una nota di ottimismo: non c’è stata casa dove siamo entrati, attore o gruppo coinvolti, pubblico e padroni di casa che non siano stati contagiati da una ventata di entusiasmo, da un più consapevole atteggiamento di partecipazione.

Find 30

RENZO FRANCABANDERA | E’ la 30ima edizione, quella in ricordo di Paola Leoni, storica fondatrice della rassegna. Find per ricordare una delle figure più eminenti dell’arte coreutica in Sardegna, sta proponendo al suo pubblico un programma davvero speciale, con le compagnie di danza nazionali e internazionali che l’artista isolana aveva più care.
Dopo ULTIMA VEZ, diretta dal genio artistico Wim Vandekeybus, e VERA STASI di Silvana Barbarini, con lo spettacolo “Parole per Musica”, abbiamo dato testimonianza del ritorno in Sardegna di JAN FABRE, con la compagnia Troubleyn (nel 2005 presentò Angel of Death alla XXIII edizione del festival). Il lavoro ci aveva colpito per la straordinaria leggerezza e dolcezza con cui nello spettacolo “Drugs kept me alive” il performer Antony Rizzi riusciva a raccontare il suo mondo visionario e intimo allo stesso tempo.
Pensavamo di aver raggiunto il massimo dell’esito estetico ma siamo stati ancor più sorpresi nell’assistere lo scorso fine settimana al lavoro della compagnia svizzera CIE LINGA, diretta dagli ex allievi del grande Maurice Bèjart, Marco Cantalupo e Katarzyna Gdaniec.
Si è trattato di  due coreografie, proposte qui in prima nazionale, proprio come omaggio di Cantalupo alla memoria della Leoni, al Teatro Auditorium Comunale in piazza Dettori a Cagliari.
“WE ARE NOT I” e “STEP 2.1”, sono due pezzi profondamente diversi. Il primo un quasi assolo, il secondo un lavoro più composito, che si avvicina maggiormente agli stimoli che all’arte arrivano dall’implementazione delle nuove tecnologie.
Una straordinaria Ai Koyama (e Gerald Durand)  sulle musiche di Philippe Jeck, coprodotto dall’Octogone Théâtre de Pully, dà in questo lavoro corpo ad un’indagine sugli stadi di equilibrio emotivo dell’essere umano. Su cosa si adagiano le nostre certezze, i nostri dissidi, i tremiti e i fremiti del nostro io? Quale sequenza mai continua di azioni e pensieri dà senso al vivere? A quale albero possiamo davvero intrecciare i rami dell’esistenza.
La quasi mezz’ora di performance di suo è irraccontabile, perché in questo tempo la danzatrice riesce a regalare una gamma sentimentale al pubblico domando ogni singolo muscolo del suo corpo, partendo da epifanie stop and go dell’inconscio, per poi rivelare pian pianino una sorta di superiore nudità, intesa come disvelamento. La seconda parte sarà giocata con otti piccoli cilindri trasparenti, di diametro non superiore ai dieci centimetri, illuminati alla base da fioche luci led.
Su questi supporti di poca stabilità, la grandissima Ai Koyama adagiava il suo corpo come la Maya desnuda, alla ricerca di uno sguardo esterno, però diverso da quello del voyeur. Nessun ammiccamento, nessun pensiero recondito, ma proprio l’intima comunicazione del proprio stato, vissuto non come partecipazione condivisa. E d’altronde è il titolo stesso forse a chiarire l’arcano artistico, quell’idea che il noi non implichi la pienezza dell’io, una circostanza che riesce ad essere postulata tanto nel sociale quanto nell’affettivo. L’io vive come una divinità insicura, adagiata su piccole instabilità dalle quali fa bella mostra di sé, nella costante ricerca di un equilibrio forse non raggiungibile. Questo frammento sia dal punto di vista coreografico che di esecuzione è un capolavoro assoluto. Imperdibile.
“STEP 2.1” il secondo lavoro proposto – altra coproduzione con L’Octogone Théâtre, con Belenard Azizaj, Gerald Durand, Ai Koyama, Dorata Łecka, Hyekyoung Kim, Michalis Theophanous,   musiche di Christophe Calpini e sistema interattivo di Alain Crevoisier – è invece un trionfo dell’arte bionica, della techno danza.
Grazie ad apparecchiature wireless capaci di monitorare il movimento e trasformarlo in codice sonoro, i danzatori possono traducevano l’avanti e l’indietro, l’alto e il basso, la destra e la sinistra in possibilità nell’universo delle vibrazioni foniche.
I performer vestono da atleti, vogliono quasi ricordare la collaborazione fra l’Istituto delle Scienze Sportive dell’Università di Losanna, la Scuola Superiore di Musica di Ginevra, la Future Instruments, la Biopac System Inc. e con il compositore Christophe Calpini che ha dato il via all’esperimento. A vent’anni dalla sua fondazione, la Compagnia Linga mostra una maturità e una capacità creativa non solo consolidata ma anche coerente, tanto coerente da esser capace di lasciar leggere chiaramente le citazioni e i rifermenti agli artisti e alle arti con cui si pone in dialogo.
Forse più algido del primo esito, perché ancora in fase sperimentale, “STEP 2.1” è uno studio che rende evidente il linguaggio. Ora il linguaggio deve liberare la poesia, superando il codice generatore, lasciando sullo sfondo la grammatica, che in’arte è sempre e solo un pre-testo.
E’ invece dedicato alla danza italiana questo fine settimana con il BALLETTO DI SPOLETO, diretto da Caterina Genta e Marco Schiavoni, che presenterà lo spettacolo “Sette Coreografi per il Balletto di Spoleto”. Sette brevi spettacoli con sette paternità diverse, per inglobare in un’unica struttura sette modalità artistiche di raccontare una storia e la compagnia sarda ASMED-BALLETTO DI SARDEGNA padrona di casa, in scena con due spettacoli: “The Box”, in prima assoluta, sotto la direzione del coreografo Max Campagnani, e “Uomini”, di Guido Tuveri, rappresenta uno spaccato dell’universo maschile contemporaneo avvalendosi di linguaggi differenti (teatro, canto e arte circense) che si uniscono alla danza.