I due giovanissimi sono Luciana Maniaci (23 anni, nata a Messina) e Francesco d’Amore (25, Bari). Lei è dottoressa in Psicologia Criminale, lui in Letteratura Moderna e Contemporanea. E’ da sei anni che lavorano insieme, e dopo un corto teatrale, Serenasi (2006), sono passati a strutture via via più complesse: Le cose (progetto di teatro in casa ‘Gas Mostarda’ 2007), Pillole (2008) e Il Nostro Amore Schifo (tratto da Goethe, Musil e Salinger 2009).
Il nostro amore schifo è la seconda tappa del progetto “Pillole”, con cui i due stanno indagando l’amore nell’età giovane.
Come immaginarsi questo lavoro: al centro della scena un tavolo, che all’occorrenza diventa cubo da discoteca, poi lettino un po’ stretto per i primi approcci fra i due, e via via il tavolo intorno al quale si riunisce la famiglia di lei per la presentazione ufficiale di lui, il tavolo della casa dei due ormai sposati, quando la coppia avanza negli anni. Un centro di gravità spazio temporale, arricchito solo da alcune sedie pieghevoli di legnaccio di quelle da bar estivo, dipinte nere, che sono l’unico ulteriore elemento scenico.
Werther,smilzo imberbe delicato come un elefantino filosofeggiante e poetastro, cerca di convincere lei ad un amore fugace. Lei, insicura, categoria belle imperfette, è desiderosa di continuità affettive, vuole stabilità. Lo presenta, in un’imbarazzante riunione di famiglia, ai suoi (ovviamente del dialogo sentiamo solo le risposte che i due danno a parenti assenti in scena). Lui chiude la presentazione con una non meno imbarazzante poesiola in rima sciolta di tenore dilettantistico. Sogno o realtà,l’incontro finisce in una carneficina stile Natural born killer.
Ma il sogno di lei ha più concretezza o forse la non rassegnata prosecuzione/persecuzione va a segno. I capelli imbiancano, lui migliora nel suo poetare, resta animale, ma lei riesce nel proposito di rendere di fatto continuata la serie di “per adesso”. In un registro sempre leggero ma non consumato, lo spettacolo corre nella vita dei due fino alla fine.
Cosa resta della visione?
Le scene più ricche di emotività sono per paradosso quelle in cui il verbale viene messo da parte: la strage di famiglia, l’imbiancare dei capelli (bellissimo) e alcune altre sequenze figlie forse dell’esperienza registica di Tarasco. Ll’intreccio logico del testo, pur ingegnoso, resta a tratti un po’ allungato, in più d’un punto sgonfiato di contenuto poetico vero, ulteriore.
Pur nella gradevolezza complessiva, nel testo manca l’elemento sorprendente. Una volta definito il quadro emotivo in cui tutto avviene, subentra una sorta di aspettativa mancata. Lo spettatore riesce a prevedere il seguirsi delle battute, e perfino il finale, tipicamente in questi spettacoli imprevedibile, si intuisce con qualche secondo di anticipo.
Quello che né a Tarasco né ai due autori/attori riesce, è andare oltre loro stessi (oltre andare oltre i Maniaci, per tornare al materiale umano di Maniàci e d’Amore, per utilizzarlo più profondamente, in modo più tagliente).
Stiamo parlando sicuramente di una coppia di talento, con una qualità di scrittura e costruzione drammaturgica e attorale da rodare. Oltretutto, proprio il talento dei due lascia giustamente un’aspettativa che lo spettacolo di per sé non esaurisce e che non vorremmo mai si concretizzasse in un sequel, tipo Sandra-Raimondo.
Forse dovrebbero/potrebbero confrontarsi anche con qualche testo altrui, un classico o un contemporaneo, proprio per andare oltre le indoli individuali, lo scriversi o scrivere quello che è più facile/congeniale, per sfidarsi e sfidare il teatro, oltre che il letterario da cui entrambi provengono (scuola Holden e ambiente teatrale torinese). Altrimenti, così com’è, dà la sensazione del tema libero, un po’ adagiato, dei due bravi della classe, su quello in cui meglio riescono.
Ma, (e questa riflessione vale in prospettiva: siamo consapevoli di come tutti partano da ciò che riesce meglio) quando il bravo tuffatore sceglie di eseguire dalla pedana un tuffo, sa anche quale livello di difficoltà sta proponendo. Il punteggio finale è in ragione sia dell’esecuzione sia della difficoltà intrinseca dell’esercizio.
Per paradosso, l’esito finale può premiare con un voto più alto un esercizio difficilissimo non eseguito perfettamente piuttosto che un esercizio più agevole, eseguito alla perfezione. Premettendo che la perfezione non è di questo mondo, “Il nostro amore schifo” è un’occorrenza della seconda fattispecie. Siccome intuiamo la bravura dei tuffatori, li aspettiamo dal trampolino più alto con un esercizio più difficile. Sapremo allora dirvi con minor margine d’errore se si tratta o meno di fenomeni. Ci siamo comunque divertiti.