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venerdì, Settembre 20, 2024
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Una fiera austera

ELENA SCOLARI|  Artefiera – Art first 2012, la trentaseiesima edizione della fiera dell’arte di Bologna ha da poco chiuso i battenti e ha lasciato la precisa sensazione di una kermesse indissolubilmente legata alla crisi che tutti conosciamo.

Silvia Evangelisti, direttrice della fiera dell’arte di Bologna, ha fatto il meglio che poteva fare in questa edizione 2012? Proviamo a dire che cosa ci ha convinto e cosa ci ha lasciato perplessi all’uscita di questa visita nella contemporaneità dell’arte.

La prima consistente caratteristica di Artefiera 2012 è l’estensione: molto ridotta rispetto ai faraonici ultimi anni, quaranta gallerie in meno, un quarto degli espositori ha rinunciato alla fiera per via della quota obbligatoria di partecipazione, quest’anno giudicata non sostenibile. Già, perché forse non tutti sanno che le gallerie devono pagare il loro accesso alla manifestazione, in una proporzione economica legata alla grandezza dello stand, e quest’anno più che mai, in molti hanno giudicato che la spesa non valesse la resa, anche alcune tra le più note gallerie milanesi come Giò Marconi, Raffella Cortese, Amedeo Porro.

Questo ha reso la visita decisamente più a misura d’uomo, non troppo sfiancante, una mezza giornata piena è stata più che sufficiente per vedere tutto senza correre. L’esposizione occupava un solo piano del quartiere fieristico, da visitatori abituali abbiamo apprezzato la quasi assoluta mancanza di video (finalmente!), la scarsa presenza di installazioni “spiritose” ma effimere e quasi solo decorative, nel migliore dei casi.

Buona la qualità media degli artisti presenti, un ruolo sostanziale, nel mood rigoroso generale, hanno giocato gli artisti più che consolidati, soprattutto del Novecento e quindi del cosiddetto Moderno: Fontana, Alighiero Boetti, Giorgio Morandi, Castellani, Pistoletto, Bonalumi. Opere di questi artisti sono veri e propri beni rifugio che i collezionisti possono ritenere intramontabili e non suscettibili di discese nel mercato dell’arte. Accanto ai grandi presenti citati non si è potuto non notare l’assenza di altri big tanto discussi come Hirst e Cattelan. La scelta della direttrice Silvia Evangelisti ha premiato gallerie senza fronzoli, le cui scuderie artistiche sono spesso inappuntabili anche se non molto coraggiose. L’austerità e la sobrietà giuste, dovute in un periodo come questo potevano però essere l’occasione per dare maggior risalto alle gallerie giovani, con proposte nuove e ancora da rodare, con il vantaggio di essere economicamente affrontabili anche da collezionisti non troppo facoltosi e che cominciano ad affacciarsi su questo mercato.

Alcuni passi in questa direzione sono stati fatto: è stata eliminata la divisione spaziale tra le gallerie considerate affermate e quelle giovani, anche le metrature degli stand erano molto più equilibrate, ma una scelta ancora più decisa, in favore della novità, avrebbe forse potuto sopperire ad un certo eccesso di prevedibilità.

Non ci siamo stupiti, ahinoi, non ci sono state sorprese, abbiamo ratificato opinioni che già avevamo su molti degli artisti presenti, i nomi del contemporaneo “forte” che circolano sono ancora gli stessi: Peter Halley, Serrano, Shirin Neshat…

Menzioniamo però, ancora con sincera approvazione, l’impegno a rendere la città di Bologna davvero aperta, artisticamente parlando, durante i giorni della fiera. È stato possibile visitare gratuitamente, fino a mezzanotte, il Museo Morandi, il Mambo (che ospita ancora un’interessante mostra del belga Marcel Broodthaers), una bella biblioteca allestita in una chiesa sconsacrata, piccoli luoghi-gioiello da fiaba come il Museo degli strumenti musicali, sconosciuti anche ai bolognesi.

Ce ne andiamo da Bologna con un paio di consigli: impariamo ad apprezzare gli artisti che non appassiscono e convinciamoci che alla vitalità artistica deve essere dato respiro, senza paura.

W. Benjamin: le costellazioni del pensiero

walter-benjaminMARIA CRISTINA SERRA | Walter Benjamin (1892-1940) amava le piccole cose che, dentro la concentrazione minuscola delle forme, racchiudevano come uno scrigno segreto la complessità e l’autenticità del pensiero. Gli piaceva collezionare (attività “rivoluzionaria”, perché liberava gli oggetti dalla loro utilità) giocattoli, cartoline, libri illustrati per l’infanzia, fotografie, con la passione dell’intenditore che coglieva l’unicità di ciò che ai più appariva banale, per attribuirne il valore nascosto e il loro senso di “redenzione”.

Era solito archiviare la sua corrispondenza e i temi dei futuri saggi; conservava decine di quaderni e piccoli taccuini, fitti di scrittura in miniatura, ritagli di giornali sui quali annotava minuziose osservazioni. Adorava incastonare le parole, tracciate su foglietti occasionali, con disegni e schemi grafici, per visualizzare i suoi acrobatici passaggi della mente e i frammenti degli eclettici pensieri; li scomponeva e ricomponeva in ordine sparso come un incastro dalle sequenze variabili, interrotte da “citazioni” senza gerarchie di valori, ma funzionali ad introdurre dubbi, interrompere certezze, riformulare ipotesi e interpretazioni. Giocava a scacchi e leggeva romanzi polizieschi; lo intrigava Simenon. Benjamin era un uomo gentile, dai modi signorili, credeva nel valore dell’amicizia e nella capacità di amare. Le tre donne della sua vita lo “trasformarono” in tre uomini diversi fra loro, scrisse all’amico Sholem.

Aveva un profondo legame con Parigi, che definiva “Capitale del XX° Secolo”, città privilegiata per analizzare le trasformazioni della tecnica, ammantate da finalità artistiche, il mescolarsi dell’attività estetica con la produzione industriale, luogo di svelamento della fantasmagoria, mentre indisturbata la dialettica della poesia percorreva i suoi sentieri con i versi sotterranei di Baudelaire, i silenzi “formicolanti” di Hugo, il tempo perduto di Proust.

Una mostra al Musée d’Art et d’Histoire du Judaisme (fino al 15 febbraio) e un prezioso catalogo (“Walter Benjamin, Archives”, edito da Klincksieck) ricostruiscono con passione le sue “visioni” cariche di rimandi, tutti quei Passages di luoghi e di saperi, che completano la sua Filosofia critica e una lettura dello svolgersi “omogeneo e vuoto del tempo” della Storia che deve cogliere “la chance rivoluzionaria per farsi profilo di sensatezza”. Perché “anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”: testamento morale, alla vigilia del suicidio per sfuggire alla Gestapo (a Portbou il 26 settembre del ‘40 ad un passo dalla libertà) e illuminazione per il nostro presente.

E poi le foto della sua infanzia, la giovinezza, gli amori, gli amici che accompagneranno le tappe della sua vita (dalla Germania alla Francia, passando per Ibiza, Berna e Mosca): G. Scholem, Gretel e Theodor Adorno, H. Arendt, B. Brecht, Giséle Freund, Asja Lacis; le immagini della normalità, quando ancora non era “condannato a leggere i giornali come una sentenza e cogliere in ogni trasmissione radiofonica un messaggio di sventura”. Le feste di Natale, i carnevali, il figlio Stefan e la moglie Dora.
Un pannello blu riproduce la pianta di Parigi e i riferimenti di Benjamin: una fitta rete di indirizzi e di luoghi, di percorsi reali e interiori, di vita e di lavoro, di emozioni dell’anima, tracciate con parole sobrie, dense e leggere su quaderni esposti in bacheche di legno grezzo. “Per qualcuno i cui scritti sono dispersi come i miei e a cui le circostanze storiche non consentono più l’illusione di vederli un giorno riuniti, è una vera soddisfazione sapere che un lettore si sia sentito a casa sua in mezzo a questi miei scarabocchi”, scrive Benjamin con parole profetiche. Le sue recensioni ridonano verità al testo, “tonalità affettiva alle parole” e autenticità alla traduzione, come se si trattasse di ricomporre i cocci di un vaso in dettagli non somiglianti, “frammenti di una lingua più grande”.

Le pagine su Kafka esprimono la profondità del suo metodo, volutamente sospeso in una soglia fra opposti, nella penombra fra buio e luce. “Ebreo errante”, estraneo al mondo dei professionisti della filosofia nella Berlino degli anni ’20, esule fra gli esuli nella Parigi degli anni ’30, in perenne lotta per il sostentamento economico, Benjamin vive come il suo “angelo malato” la solitudine e lo sradicamento degli ebrei tedeschi della sua epoca. Le riflessioni su Kafka lo conducono “ad un crocevia” senza fine. Lo descrive bambino, triste, imbalsamato in un abito di trine e velluto, tra tendaggi e rami di palme. Estraneo a se stesso, fragile e predestinato alla sconfitta; grande nell’enigmaticità di una scrittura piena di dettagli, che rendono “ogni gesto un evento. Si potrebbe quasi dire: un dramma in sé”.
Su un foglio con la pubblicità in rosso dell’acqua San Pellegrino accenna alla scomparsa dell’Aura, come alone esclusivo, irripetibile dell’opera d’arte, che deve uscire dalle cattedrali “per essere accolta nello studio di un amatore d’arte”. Cos’è Aura? “Una trama singolare di spazio e di tempo: l’unica apparizione di un lontano, così vicino”. Arte e letteratura si alternano ai rendez-vous nei bar di Saint Germain e a passeggiate in cerca di libri d’occasione lungo la Senna, “il grande specchio” in cui si riflettono Parigi e i suoi quais. Proust è il grande poeta delle metafore, capace di donare uno spessore magnifico a ciò che sembra futile, trasformando il giorno in notte “per non lasciarsi sfuggire nessuno degli intricati arabeschi” strappati alla provvisorietà dell’istante. Il passato è il suo rifugio. Invece, per il Benjamin di “Infanzia berlinese” è il passaggio verso il futuro, attraverso delicati affreschi di oggetti, strade, persone. Le istantanee del bambino vissuto nel bozzolo protettivo della ricca borghesia ebraica già si fermavano su presagi di sventure. L’antologia di “Uomini tedeschi” pubblicata nel ‘36 sotto lo pseudonimo di Detlef Holz è la parabola del declino della borghesia tedesca: bellissime pagine che anticipano la consapevolezza storica che il progresso è entrato nella tempesta.

Una foto di Giséle Freund lo ritrae nel ’39 a Pontigny, sull’argine della Senna, assorto, curvo, con un fiore in mano. E’ il tempo in cui il “marxista sui generis”, come affettuosamente lo definiva la Arendt, “che si tuffava come un pescatore di perle negli abissi” per riportare in superficie ciò che di prezioso vi giaceva cristallizzato, si dedicava alla stesura definitiva delle “Tesi di Filosofia della Storia”. La catastrofe incombe, la socialdemocrazia tedesca e francese hanno fallito: il progresso un inganno che ha corrotto la classe operaia. L’Angelo della storia, come l’Angelus Novus, l’acquarello di Klee da cui Benjamin non si separò mai, “ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese”, volge le spalle, contemplando le macerie, mentre la tempesta lo spinge verso un futuro incerto.

Conferenza di Florent Perrier, Consigliere del Musée d’art et d’histoire du Judaïsme per la mostra Walter Benjamin Archives
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Il Giappone visto dall'Europa, secondo Cherkaoui

TeZukA-107-800x600-1BRUNA MONACO | Anche quest’anno è Sidi Larbi Cherkaoui ad aprire la rassegna “Equilibrio, Festival della nuova danza” che da otto anni si tiene al Parco della Musica di Roma. Il suo ultimo spettacolo, “TeZukA”, è un omaggio all’inventore dei manga e un po’ a tutto il Giappone.
Se Osamu Tezuka non fosse esistito, forse i manga non avrebbero conosciuto la fama internazionale di cui godono oggi. “Dio dei manga” lo ribattezzarono i suoi connazionali.
Classe 1928, da giovanissimo Tezuka si appassionò a Charlie Chaplin, a Walt Disney e agli insetti. Metterà a profitto queste grandi passioni studiando medicina da una parte, e diventando dall’altra il padre dei manga moderni. E in qualche modo anche degli anime: con il suo “Tetsuwan Atom” (da noi noto come “Astro Boy”) è nata l’industria moderna dell’animazione giapponese. Si potrebbe quasi dire che senza Osamu Tezuka non ci sarebbero stati Holly e Benji, Candy Candy e Lady Oscar. Niente occhioni che luccicano, sequenze immobili su pensieri infiniti in voce off. Generazioni intere di bambini e genitori del mondo civilizzato, sarebbero state private di quelle balie sottocosto che sono i cartoni animati, nel bene e nel male.
Con il suo ultimo spettacolo Sidi Larbi Cherkaoui, vuole colmare il debito che i bambini occidentali delle ultime quattro generazioni hanno contratto con il grande artista nipponico. Omaggio e pubblicità al contempo perché, se è vero che i cartoni animati giapponesi li abbiamo visti e amati tutti, è vero anche che in pochissimi sanno chi sia Osamu Tezuka.
Peccato che, come spesso accade agli omaggi, “TeZukA” di Cherkaoui non sia uno spettacolo pienamente riuscito. E non è l’eccesso di retorica a depotenziarlo, come spesso accade agli omaggi, ma l’eccesso tout court. Uno spettacolo di danza in cui la danza si perde nell’esuberanza degli elementi che lo compongono. Il palcoscenico brulica di performer: tredici danzatori, quattro musicisti, un calligrafo a cui si aggiunge una scenografia che dovrebbe essere leggera: è un telo bianco, che cala sulla scena e si fa schermo. Ma è pesantissima perché le immagini proiettate saturano lo spazio. Sono strisce tratte dai manga di Osamu Tezuka, o riquadri vuoti che un video artista disegna e muove in diretta, linea dopo linea, come bordi di una vignetta che i danzatori inseguono, occupano. Oppure sono ideogrammi giapponesi che sembrano nascere dal movimento di un danzatore sul telo-schermo, ma sono sempre opera del video artista in regia. La dialettica tra l’immagine disegnata bidimensionale e i corpi tridimensionali e veri dei danzatori sembra essere una sottotraccia dello spettacolo, che di suo ha già più tracce dichiarate che si intrecciano e si sovrappongono di continuo contribuendo alla ridondanza di questo spettacolo. Parlando di Osamu Tezuka, Cherkaoui vuole parlare di tutto il Giappone. Il padre dei manga moderni è così testo e pretesto di uno spettacolo in cui non si parla solo di manga, insetti e medicina (lunghe sequenze di “TeZukA” sono monologhi in inglese, francese e giapponese, a una o più voci, sui batteri e le loro forme di comunicazione…), ma anche di Fukushima, del contesto giapponese post-atomico. Cherkaoui parla di tutto ciò utilizzando linguaggi il più possibile giapponesi. “TeZukA” trasuda “giapponesità”, quindi non è in nulla autentico. Non c’è spazio per culture schock. Il pubblico è proprio agio davanti a una messa in mostra del Giappone in tutto aderente alle attese: manga, ideogrammi, musica tradizionale (la parte migliore dello spettacolo). Disastri atomici. Qualche combattimento fra samurai, qualche rimando al bunraku. Pretendere di parlare di un paese intero e di una nazione nel brevissimo spazio di uno spettacolo, è quanto meno un’ambizione troppo alta, se non proprio un brutto vizio post coloniale.
D’altronde questo procedere per accumulazione è un modus operandi non estraneo al coreografo belga di origini marocchine. La sua sete di melange culturali e contaminazioni artistiche spesso non trovano equilibrio e sintesi nei suoi spettacoli e restano una sequenza di elementi o parti giustapposte. Lo stesso difetto lo aveva “Play”, con cui si è aperta l’edizione passata del festival Equilibrio. In quell’occasione Cherkaoui era, oltre che coreografo, danzatore in duetto con la bravissima Shantala Shivalingappa. Eppure, altri spettacoli di Cherkaoui brillano per semplicità ed eleganza. È come se la sua estetica oscillasse tra due estremi che non riescono a sintetizzarsi.
Comunque, a dover stabilire quale sia la forma artistica protagonista di questo “TeZukA”, si dovrebbe escludere la danza e votare per la calligrafia. Le lettere giapponesi sono onnipresenti nello spettacolo e anche i movimenti di danza non sono altro che la messa in forma corporea di ideogrammi. Significanti senza significato, decorazioni. Parti principali di uno spettacolo folkloristico, decorativo.

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Morganti e La Ruina: i grandi al CRT

RENZO FRANCABANDERA | II CRT resiste. Nelle difficoltà di una Milano che stringe la cinghia e si copre dal freddo, lo storico teatro continua ad ospitare interessanti realtà della scena nazionale con un programma, che pur sotto la scure dei tagli di bilancio, continua a proporre grandi spettacoli. Nelle ultime settimane è stato il caso di Claudio Morganti e Saverio La Ruina, con le loro più recenti produzioni.

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Al centro del palcoscenico una struttura cubica ricoperta su tre lati da carta bianca. Oltre questo, null’altro. Ombre Wozzeck è una scatola e il suo esterno, la casa e la strada, l’intimo della storia e il volgare della piazza, l’esclusivo del tragico e lo sguaiato del comico, ma anche il leggero dissolversi dell’uno nell’altro.
Per sfuggire ad alcunché di preordinato e meccanicistico, l’artista decide di contrapporre due areeconcettuali della pièce: quella delle ombre che avviene all’interno della magic box e quella all’esterno in cui l’attore/mattatore racconta la storia e fa da mediatore con lo spettatore rispetto a quello che guarda. La sezione dello spettacolo basata sulla narrazione per mezzo delle ombre all’interno della struttura, con l’uso di poche ma ben congegnate fonti di luce, fra le quali una lavagna luminosa che aiuta a creare effetti cromatici mai invasivi e interessanti è calibrata al millimetro; tanto è registrata e precisa la parte “interna”, tanto è apparentemente improvvisata e basata sull’estro di uno stand up comedian la seconda, affidata a Morganti stesso che, come un cantastorie d’altri tempi, con bastone e scimmietta, irretisce un pubblico che deve vivere continuamente questo dentro e fuori crudele, non potendosi mai appassionare a nessuna delle due metà della mela, dovendo ondeggiare, come una barca in marea, fra un’onda e quella seguente.
Gli attori li conosciamo per tutto il tempo attraverso le loro silhouette, e raccontano di un soldato umile e onesto, di un capo stolido e volgare, di una moglie inconsapevole e troppo fragile al condizionamento. Si stagliano con criminale nettezza in controluce i due orecchini che il graduato le regala come pegno, e che il povero marito Woyzeck non comprende: cerca di spiegarli prima di tutto a se stesso, al suo essere strumento curvo, inconsapevole, affaticato sotto il peso della semplicità. Tutto avviene in modo assai preciso, con una resa scenica che, pur nella semplice alternanza di ombre e luci, riesce ad essere espressionista grazie ad ambientazioni proiettate di sapore futurista all’interno delle quali si muovono gli esseri umani con le loro fragilità.
Solo Morganti supera questa bidimensione, come un moderno Orfeo che riesce ad entrare nel regno delle ombre; in realtà ci riescono lui e la sua scimmia nel finale dello spettacolo, uomo animale, fragile, che rompe il giocattolo lacerando la carta. Un’epifania forse inutile ai fini del bilancio emotivo di un lavoro che non deve spiegare il dentro e il fuori meglio di come già faccia con più eleganza il fantastico passaggio di luce in cui Morganti, seduto ad una sedia e illuminato, si fa radere dall’ombra di Woyzeck; poi pian piano la luce che lo illumina in primo piano dirada e l’attore diventa ombra, passa nell’al di là del racconto, trasale la dimensione del reale, se mai il teatro reale è.
Dopo aver declinato la sua vocalità in ogni direzione possibile, Morganti sceglie ancora il Woyzeck per continuare la sua indagine sul teatro, tanto da lasciar pensare che ormai l’opera sia un pretesto, e che più di tutto prevalga l’operazione artistico-concettuale, il suo contenuto poetico, la leggenda del palcoscenico.
Da vedere.

Un video di Ombre Wozzeck realizzato da CRT
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Saverio la Ruina e una sedia. Ormai siamo abituati a vederlo così, lui e i suoi personaggi dall’incedere impedito. Chi fermo, inchiodato al suo stato, chi azzoppato nella sua condizione umana dal destino, chi dalla vita. Italianesi è una storia che come tutte le altre nasce al sud, trova ispirazione in quei numerosi paesi di cultura arbresh, albanese, che popolano l’entroterra calabrese, che secoli fa, durante le avanzate delle armate ottomane nella penisola balcanica, ospitarono gli esuli della terra delle aquile. Ma come sempre accade esistono anche i casi contrari, le storie degli italiani che, dopo che sull’Europa calò la cortina di ferro, rimasero prigionieri dall’altro lato dell’Adriatico, e che ritrovarono la libertà solo con la caduta del regime comunista. Il paradosso per loro fu che da quel momento in poi rimasero italiani per gli albanesi e albanesi per gli italiani: sono gli Italianesi di cui l’artista ci parla.
Quella che La Ruina racconta è la storia di una famiglia di italiani in Albania che al sopravvenire del regime comunista viene divisa, con il padre rimandato forzatamente in Italia e moglie e figlio che restano in Albania, finendo in un campo di concentramento. Vittima delle ritorsioni e delle violenze del regime, il ragazzo sopravvive con l’ingenua fantasia del bambino che costruisce un microcosmo salvifico che nell’età adulta si trasforma in capacità di abbinare e scegliere i colori, dote che profonderà in una delle più tradizionali e semplici forme artigianali, il mestiere del sarto. Azzoppato dalle percosse delle guardie, con la caduta dei muri che separavano l’Europa, l’uomo cerca ad inizio anni Novanta di ritrovare il genitore che rintraccia in uno sperduto paesino del nuorese. Il viaggio verso il padre Leone, insieme al primogenito dell’uomo che porta il nome del nonno mai conosciuto, è in realtà il viaggio verso la sua terra tanto amata, verso l’idea, il pensiero che lo aveva tenuto in vita nei momenti più duri.
Ma le cose non andranno come l’uomo spera, l’incontro con questo padre strappato nell’infanzia e ritrovato dopo quarant’anni sarà una cesura definitiva con l’universo del sogno salvifico, in un racconto che fra flashback, storie d’amore, viaggi e migrazioni, scandaglia con profondissimo senso del dolore e amore per la patria lontana il rapporto fra genitori e figli.
La Ruina è, anche in questo personaggio, grandioso interprete dell’epopea degli ultimi, dimostra come narrare significhi dover ricercare, costruire drammaturgia con pazienza e sapienza, non fermarsi alle approssimazioni ma andare a svitare i bulloni che inchiodano il senso del pudore per raccontare le tragedie con la leggerezza delle favole e le favole con l’epica drammaticità delle tragedie.
Ecco perché non serve null’altro che una sedia a questo teatro, e la cognizione del dolore e il senso di appartenenza che l’interprete restituisce ancor più si fanno grandiosi pensando ai giorni in cui questo lavoro è andato per la prima volta in scena, nelle settimane che hanno preceduto la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, in cui il postribolo del potere infangava con il suo puzzo il senso della memoria di quei molti che, anche se analfabeti, nullatenenti e sparsi per il mondo, da Ellis Island ai campi di concentramento albanesi, hanno continuato, ovunque fossero, a sentirsi “taliani”.

L’inizio di Italianesi di Saverio La Ruina
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Pro patria: se grazie al terrorismo succede un quarantotto

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BRUNA MONACO | L’ultimo spettacolo di Ascanio Celestini “Pro patria, senza prigioni, senza processi” vede la Repubblica Romana, la resistenza e la lotta armata a confronto. Ed è in scena al Teatro Palladium di Roma, dal 31 gennaio al 12 febbraio.
Ascanio Celestini è solo in scena, come sempre. Uno sgabello rosso al centro di una pedana di pochi metri quadrati, dei cartelloni chiudono lo spazio dietro di lui. Ma questa volta non interpreta se stesso (come in “Scemo di guerra”) né presta la propria voce a personaggi reali di cui narra la storia (come in “Fabbrica”). Questa volta sul palco c’è un autentico personaggio teatrale o almeno la proiezione di un autentico personaggio teatrale: Celestini è un terrorista, e i pochi metri in cui si muove non sono solo il luogo fisico deputato alla narrazione, ma un luogo teatrale: la cella di un carcere italiano dei nostri giorni.
Da teatro di narrazione a monologo teatrale, eppure l’approccio è pressoché immutato. Un monologo solo nella forma, poi, perché nella realtà scenica il carcerato Celestini dialoga con un fantasma, Giuseppe Mazzini, per mantenere la promessa fatta al padre anni addietro: non cominciare mai a parlare da solo.
Rivolgendosi a Mazzini, Celestini ripercorre la storia della Repubblica Romana dal suo particolare punto di vista, quello di un delinquentello che, a furia di leggere Pisacane, ha aderito alla lotta armata degli anni di piombo. Il filo conduttore di “pro patria, senza prigioni, senza processi”, è la messa a punto di un discorso che il carcerato Celestini vuole tenere ai giudici ma che ascolterà solo un secondino. Un discorso in cui espone la propria teoria sui tre risorgimenti italiani. Il primo è quello che conosciamo tutti, quello del 1848 che troverà nella Repubblica Romana il suo momento di maggiore forza. Dopo quasi un secolo il secondo, la resistenza partigiana al fascismo durante la seconda guerra mondiale. L’ultimo risorgimento italiano, per Celestini, l’hanno fatto i ragazzi degli anni di piombo. Tre risorgimenti, altrettante sconfitte.
Le digressioni sono tante e, come ricami, danno alla tessitura drammaturgica l’aspetto di una trina raffinatissima. Celestini parla di controvertigine, di matti-negri-africani, di Pio XI, Garibaldi, ex rivoluzionari che o muoiono o diventano parlamentari. Della galera come sequestro legalizzato e simbolo nefasto del potere. Dei ladri di mele e della lingua dei carcerati. A un ritmo come sempre incalzante, da mille informazioni al minuto.
Alla realtà storica certificata da nomi e date, si mischiano situazioni e personaggi inventati. Gli interlocutori immaginari aumentano: Wittgenstein, Mameli, il padre morto. E il racconto si adagia in una zona liminare, in cui la realtà si trasfigura in poesia. Il “realismo magico” di Celestini ricorda l’Elsa Morante de “Il mondo salvato dai ragazzini”. Come pure il suo romano poetico e popolare, paragonabile forse solo a quello di Antigone ne “La serata a Colono” il testo teatrale che la Morante ha inserito appunto ne “Il mondo salvato dai ragazzini”. Ma, debiti a parte, la lingua di Celestini è ormai un marchio di fabbrica, che subisce variazioni minime a ogni spettacolo.
Il pubblico invece, quello è cambiato, rinnovato, eterogeneo come di rado a teatro. Onore al merito: il pubblico di Celestini è sempre stato popolare, composto cioè da cittadini normali e non solo da teatrofili e addetti ai lavori. Prima (e forse ancora oggi) quella fetta di pubblico altrimenti estranea al teatro la rubava alle piazze, a suon di spettacoli gratuiti. Il pubblico di queste sere al Palladium è, invece, in gran parte rubato alla tv. E anche questo è un merito non da poco. Se poi gli si parla di abolizioni delle carceri, di bombe contro Napoleone III e di brigatisti come eroi risorgimentali, il merito aumenta. La provocazione è forte, l’operazione interessante: con “pro patria” Celestini inserisce un argomento imprevisto nell’agenda degli spettatori, di norma definita dalla tv.
E proprio in quest’ottica la provocazione diviene leggibile. Perché è chiaro che il paragone tra le bombe contro Luigi Napoleone e l’omicidio di Biagi, è quanto meno discutibile. Ed è vero anche che delle terrorismo rosso si può dire tutto il male del mondo. Però è anche vero che nel grande gioco teatrale che è la repubblica, con le sue dinamiche di rappresentazione-rappresentanza e anonimato, noi cittadini siamo il pubblico: invisibili stiamo a guardare e possiamo solo scegliere da chi farci rappresentare. Con chi immedesimarci. È sulla base di questo principio primordiale del teatro, che Berlusconi ha governato per vent’anni l’Italia. E allora se per giocare a questo gioco, con qualcuno che sta al potere o al contro-potere, bisogna immedesimarsi, ci sarà chi, mettendo da parte tutte le contraddizioni, sceglierà i terroristi. Quantomeno per difetto di personaggi sovversivi. Perché gli altri, quelli al potere, ci rappresentano davvero troppo poco, ci somigliano troppo poco. Hanno il potere, e tutti i giorni ci schiacciano, umiliano. Dicono che con la cultura non si mangia, o che il posto fisso è noioso. Forti dei loro venticinquemila euro al mese.
Insomma, se si eccettuano le elezioni, tutto il resto del tempo, per i cittadini, la repubblica è solo un gioco teatrale. E per gioco tutto è concesso, perfino immedesimarsi con i terroristi. E anche nel teatro, quello vero, tutto è concesso. Non è un saggio di storia “Pro patria”, e Celestini può paragonare il risorgimento alla resistenza e al terrorismo rosso, se riesce a scuoterci dal torpore a cui il potere vorrebbe costringerci.

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Diane Arbus. La dignità della diversità

MARIA CRISTINA SERRA | Le interminabili file dei visitatori al Jeu de Paume, lungo il limitare dei giardini delle Tuileries, hanno spinto la direzione del Museo ad estendere l’orario notturno a tutti i giorni della settimana (fino al 5 Febbraio e poi a Winterthur, Berlino e Amsterdam). Con una punta di imbarazzo e il necessario distacco s’inizia il percorso attraverso 200 foto (dagli anni 50 al ‘71, anno del suicidio), che tracciano un’insolita percezione della realtà, così come Diane Arbus l’ha rappresentata, andando oltre i confini del rituale e del condivisibile, per scovare il mostruoso ben nascosto fra le ombre inafferrabili della rimozione e dei traumi impliciti nell’esistenza stessa: “io guardo le divinità dentro le cose ordinarie”.

“La macchina fotografica riportava alla luce l’ignoto, mi dava la licenza di andare dove volevo e di fare quel che volevo”, diceva, “Una cosa non si vede perché è visibile, ma al contrario è visibile perché si vede”. E allora è necessaria la crudeltà, “non altro che una forma estrema di confidenza”. Si penetra senza preamboli nel cuore della mostra. Da subito si percepisce il forte legame d’intimità, mai sentimentale però, che lei instaurava sempre da “esterna” con i soggetti prescelti. Il loro sguardo è quasi spesso rivolto diritto alla camera, senza pudore né inibizioni, inconsapevolmente fiducioso di affidare i propri segreti e tabù all’occhio indiscreto della Arbus, decisa ad oltrepassare la linea scura della “rigidità emotiva e no, che condiziona tutti i rapporti umani”.

I volti dell’inquietante normalità si alternano a quelli in cui la deformità o la devianza sono palesi; le sfumature di neri e grigi sottolineano i particolari più scabrosi e disturbanti, ma sostanzialmente le differenze nell’umanità da lei ritratta sono inferiori alle assonanze. Bambini, nudisti, travestiti, spogliarbus_coppia_mini1arelliste, donne e uomini sorpresi nel privato; coppie suburbane, malati mentali, freak, anziani sulle panchine del parco, ermafroditi e avventori solitari ai tavolini dei caffè comunicano “uno stralunato realismo, un abisso glaciale e terribile”, in grado di annullare ogni differenza, ma allo stesso tempo anche ogni senso di speranza, di certezza o di ironia. Un mondo in cui tutti appaiono stranieri, abitanti di universi separati dalla nebbia sottile dell’angoscia, immobilizzati in una solitudine dal sapore amaro. Il travestimento dell’eccentricità diventa allora consuetudine; il grottesco emerge nelle mille pieghe della quotidianità, riportato alla luce da un obiettivo capace di vedere oltre l’apparenza del bello, per sdoganare la verità del brutto.

E’ surreale la “Giovane famiglia a passeggio per Brooklyn” con i vestiti della domenica, nel’66: il flash illumina lei e la bambina, spostando in secondo piano lui e il figlio, creando così un effetto tridimensionale. “La coppia di adolescenti” in Hudson Street, stretta nei goffi cappottini e chiusa in un rigido abbraccio, tradisce una tenerezza asessuata.

Le “gemelline identiche” nel New Jersey del ’67, i grandi occhi trasparenti, dai sorrisi opposti, ricordano un inquieto racconto di Henry James. Il “giovane uomo dal cappello di paglia” che manifesta per la guerra in Vietnam, a New York nel ’67, con il distintivo “bombardare Hanoi”, mostra il lato scomodo del sogno americano. La rigidità, il ghigno e la mano contratta del “Bambino con una granata di plastica a Central Park”, così anomalo, sfata il mito dell’innocenza infantile. E’ sfacciata, falsamente disinvolta, la “Donna con veletta sulla V Avenue” a New York. Sono tristi le spogliarelliste nei loro squallidi camerini dai muri scrostati e sommersi di avanzi e bottiglie vuote. Sono la parodia di se stesse le anziane, sfatte coppie di nudisti, così come i ballerini durante le pause delle competizioni: rigidi eroi senza sorrisi. Adagiata sui cuscini, immersa nell’abito di tulle bianco, gli occhi languidi sotto il rimmel, “La reginetta delle debuttanti anni ‘38”, a Boston nel ’66, è una malinconica bambola chiusa nei ricordi. Vive la sua maternità seduta su uno sgangherato divano “Una donna con il suo bebè scimmietta”, completa di coprifasce e cuffietta.

La lunga serie di travestiti, omosessuali, ermafroditi, è introdotta dal bellissimo e ambiguo ritratto di “Giovane uomo in bigodini”, che stringe fra le dita con le unghie laccate una sigaretta. L’America Underground delle notti proibite, dei locali malfamati, degli squallidi alloggi scenari di vite maledette, si scontra con quella conformista, ma “fuori fuoco”, de “L’albero di Natale dentro un salotto a Levittown”, Long Island, schiacciato dal soffitto troppo basso.

I contrasti, le contraddizioni, l’amore per le differenze sono il filo conduttore della vita artistica e privata di Diane Arbus, nata Nemerov (14 Marzo 1923) da una famiglia dell’alta borghesia ebraica e segnata da una rivolta radicale contro tutto ciò che è “dolorosamente rassicurante, un privilegio di nascita vissuto da prigioniera di un senso di irrealtà”. Il mondo patinato di Vogue, Harper’s Bazar, Glamour, il matrimonio à la page con Allen Arbus diventano troppo angusti. Lisette Model, fotografa energica, carnale, audace, dissacrante di “mondi in continua mutazione” le aprì nuove strade da esplorare.

“Amo le differenziazioni, il carattere unico di tutte le cose, che conferiscono importanza alla vita”, scriveva la Arbus, “ogni Differenza è in sé una Somiglianza da osservare, comprendere”. E dopo le immagini sconvolgenti, magnifiche della serie Untitled del 1970, scattate in istituti per malati mentali e handicappati, attraversate da acrobazie sul prato, scoppi di gioia improvvisi, travestimenti carnevaleschi, che rievocano le maschere sbeffeggianti di Ensor, in cui è la Arbus a seguire i movimenti dei suoi protagonisti, abbandonando la rituale fissità, ecco le due ultime stanze consacrate alle foto della sua storia privata. Quaderni, taccuini, lettere, progetti, amicizie, affetti tentano di raccontarcela attraverso il diario intimo della vita. Lei, dura e fragile, sensibile e cinica, bella e ricca di personalità nell’autoscatto del ’45, seminuda, incinta della prima figlia, ma inquieta e assorta negli ultimi scatti. Calligrafia fitta, annotazioni precise: “La fotografia è un segreto su un altro segreto. Più essa racconta, meno puoi sapere su di lei”. Forse comprese la terribile vertigine dell’ignoto e vi sprofondò senza filtri, quel 26 luglio del 1971, quando si tagliò le vene nella vasca da bagno, dopo aver ingoiato una manciata di barbiturici.

Il reportage di Purekids della mostra con intervista a Charlotte Tanguy
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Alcesti mon amour: farsa o tragedia?

0126121218alcesti-okBRUNA MONACO | Admeto, re di Fere, deve morire, ma qualcuno di molto potente gli è affezionato: Apollo, che convince le Moire a risparmiare l’amico. A patto che qualcuno si sacrifichi per lui. Si rifiuta Ferete, il vecchio padre. E la madre. Solo la moglie, Alcesti, accetta. Poi Tanathos fa il suo. Eracle, ignaro della tragedia, proprio quel giorno chiede asilo al re di Fere, e lui non sa rifiutarlo: l’ospitalità non solo è sacra, ma anche conveniente se si rivolge a dei e semidei. Infatti scoprendo d’aver banchettato in una casa in lutto, Eracle, per scusarsi, vince Tanathos e riporta Alcesti all’amico Admeto.
Questa la trama, per un’ora e cinquanta di spettacolo: giusto il tempo che serve agli attori per portare i 1163 versi dell’Alcesti euripidea alle orecchie del pubblico. Non un verso di più, appena qualche parola in meno. La linea registica di Walter Pagliaro è chiara: il testo va rispettato, nessun adattamento. E va rispettata, a grandi linee, anche la consuetudine scenica dell’epoca: a due soli attori in maschera il compito di interpretare i ruoli dei protagonisti.
Micaela Esdra e Luigi Ottoni sono poliedrici, supportati dai costumi appariscenti, ai limiti del kitsch, e appunto dalle maschere di Giuseppe Andolfo. Maschere sgargianti, dai tratti deformati, inumani: se simboleggiano le anime dei personaggi, allora accusano tutti di essere marci, nessuno si salva. Neppure Alcesti. Neppure il coro degli abitanti di Fere, che in questa versione di Pagliaro è ridimensionato, ridotto a due sole voci.
In “Alcesti mon amour” il coro è sempre in tiro, sempre pieno di pathos, si fatica a seguirlo nonostante la bellezza del testo. Peccato: il coro dovrebbe essere il doppio del pubblico, amplificarne le emozioni, parteggiare per uno o l’altro personaggio, farsi delle idee su cosa sia giusto e cosa no. È un coro vestito con costumi sobri, color sabbia. All’opposto i protagonisti: per Micaela Esdra e Luigi Ottoni non solo le maschere e i costumi sono eccessivi, saturi di colore. Satura è anche la recitazione. Esasperata fino a essere fastidiosa. La tragedia di Alcesti prende le sembianze di una farsa. Del resto non è una scelta causale, mandare la tragedia alla deriva: c’è chi ritiene che l’Alcesti di Euripide sia in realtà un dramma satiresco. Occupava infatti la quarta posizione nella tetralogia che valse a Euripide il secondo premio nel 438 a.C., la posizione dei drammi satireschi. Protosatiresca, così tendono a definirla i critici contemporanei.
La versione di Pagliaro, però, puntando tutto sul grottesco schiaccia i personaggi, li rende bidimensionali. Operazione non convincente con un drammaturgo come Euripide in grado di creare personaggi carichi di contraddizioni, sfaccettature, desideri contrastanti. Nessuno dei tanti temi sollevati da Euripide spicca in modo netto in questo “Alcesti mon amour”, il regista sceglie di non esaltarne nessuno. Certo, così si preserva l’ampiezza tematica del testo, ma tutto finisce un po’ col confondersi. Non emerge la diatriba tra i rapporti elettivi e di sangue. Non la questione sul potere, su cos’era essere donne, schiavi, o uomini liberi. Lo spettacolo sconta insomma la mancanza di una lettura critica, una posizione forte.
Al di là delle maschere e dei costumi contemporanei, Pagliaro, che pure è stato assistente di quel maestro della regia critica che era Strelher, ripropone Alcesti senza interventi forti, come se fosse ovvio mettere in scena oggi un testo di duemila e cinquecento anni fa. Come se tra il pubblico della Grecia del IV secolo a.C. e il pubblico italiano di oggi non ci fossero poi enormi differenze. Come se anche noi andassimo a teatro con in testa un chiassoso universo mitologico, durante il tempo della festa, a spese di un nostro illustre concittadino, disposti a sedere sulla pietra e all’aria aperta per ore dopo un anno intero passato senza quel miracolo che ancora non sappiamo spiegarci bene: vedere gente che si innamora, combatte e muore, e dopo si leva la maschera e torna alla vita di sempre.

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Nora alla prova

nora_alla_provaRENZO FRANCABANDERA | La rilettura che Luca Ronconi ha fornito l’anno scorso del classico di Ibsen “Casa di bambola” ha proprio in questi giorni ripreso la sua tournèe che porterà lo spettacolo a metà febbraio a tornare al Piccolo Teatro di Milano, mentre la settimana passata ha fatto registrare praticamente il tutto esaurito al Donizetti di Bergamo, programmata all’interno di una stagione ricca, che proprio oggi ospita “La belle joyeuse” con Anna Bonaiuto.
Prodotta dallo Stabile di Genova e poi in scena al Teatro Strehler dal 14 al 26 febbraio 2012, la pièce si poggia sull’idea di far vivere allo spettatore la sensazione delle prove di uno spettacolo, dove la drammaturgia non ha sempre un esito lineare ma viene interrotta, ripresa, alterata, in un frammentato gioco di sequenze. La seconda idea portante è l’affidare all’interprete principale, Mariangela Melato, la possibilità di “incarnare” il femminile ibseniano a tutto tondo: nel ritorno dell’attrice alla collaborazione con Luca Ronconi alla stessa è attribuito il compito assai teatrale di
sdoppiarsi e dar corpo ai personaggi femminili di Nora e di Kristine Linde, l’amica di Nora. In una logica scenica che potremmo definire con un termine moderno, speriamo icastico, di “avatar” scenico, alle altre attrici Barbara Moselli (Nora) e Orietta Notari (Kristine) viene chiesto di dare materia ai due personaggi, che poi di volta in volta verranno, con uno sdoppiamento di identità soggettiva fra persona e personaggio, ripresi su di sé da Mariangela Melato, che dopo alcune battute pronunciate dall’alter ego, ne prosegue l’interpretazione.
Un gioco in cui l’attrice, vestita in abiti moderni, prende il posto del proprio avatar ottocentesco, in un tentativo chiaro di riportare l’azione scenica e il suo epistemologico doppio binario fra significante e significato in avanti con le lancette, per approfondire la modernità di questo dramma che comunque, a distanza di oltre un secolo, continua ad essere tagliente e vivo. Quale morale è quella più vera, più alta? Quella delle necessità familiari e del tutto è bene quel che si mette a tacere, o quella della moglie del direttore di banca Thorvald Helmer (Luciano Roman, che ha preso il posto di Paolo Pierobon), che quasi la reclude in un universo immutabile di borghesissime dolcezze familiari, finchè un dipendente del marito (Riccardo Bini), che aveva prestato alla donna una somma anni prima all’insaputa ma proprio a beneficio del marito, non mette sotto scacco queste certezze, ricattando la donna pur di non essere licenziato da Thorvald? Come è noto, infatti, l’esito tragico non è infatti nel conflitto principale del plot, quello fra il marito e il dipendente senza scrupoli, ma quello che, proprio in subordine alle scelte del marito, si aprirà fra lui e la moglie, portando la donna alla scelta non convenzionale per quel tempo ma in realtà anche per il nostro di abbandonare di punto in bianco marito e figli, non potendo più reggere il peso dell’ipocrisia.
Ronconi nella deframmentazione drammaturgica che viene studiata per questo spettacolo, ripropone non solo questo finale (del 1879), ma anche quello che dovette pensare per le repliche in Germania, dove la contestazione e la polemica furono così forti (e anche da questo punto di vista duole rilevare che gli anni, anzi i secoli passano senza che il rapporto fra arte e morale si modifichino…) da costringere Ibsen ad un esito più tranquillizzante per la morale pubblica, in cui Nora non abbandona la sua casetta di bambole. La scena, studiata da Margherita Palli, estranea totalmente la pièce dall’ambiente teatro, portando le prove in una sorta di freddo garage illuminato da lampade alogene. Pochi oggetti di scena, semoventi, ed una pedana girevole che sembra voler alludere a come i punti di vista possano cambiare, a seconda di come si guardano i fatti. E’ comunque, almeno nella prima mezz’ora, davvero una prova teatrale, con gli attori che si suggeriscono battute, che le porgono in forma anonima e distaccata, in molti casi senza enfasi, in fretta, entrando e uscendo dal palcoscenico con la stessa facilità con cui entrano ed escono dai personaggi.
Forse non c’è Brecht (su cui pure Ronconi è in procinto di tornare con S. Giovanna dei Macelli), ma di certo l’intento è creare una sorta di separè emotivo fra pubblico e scena, ricorrendo appunto ad un recitato non recitato, ad una frammentazione drammaturgica e al continuo ricorso all’avatar del personaggio. Queste scelte connotano in particolare la prima parte dello spettacolo, si diceva, mentre nel seguito questa scelta viene poi nella sostanza accantonata per mantenere alto il respiro e la tensione dell’opera di Ibsen. Così se la prima parte risulta straniante e fredda, la seconda è capace di recuperare tutta la tensione e il pathos, come un giocatore che sonnecchia per tutto l’incontro e poi, quando arriva il momento chiave, sfodera le giocate necessarie alla vittoria. Inutile dunque chiedersi il profondissimo perché di questa scelta registica che con l’andare dello spettacolo risulta poi quasi staccata e supplementare al seguito, perché alla fine l’esito è vincente, e riesce a restituirci un universo di emozioni, in buona parte affidato alla cifra recitativa di Mariangela Melato, che non a caso ha fruttato all’attrice l’Ubu 2011.

Un video promo dello spettacolo
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"La casa dello spettatore" l'altra faccia del teatro

imagesBRUNA MONACO | Nasce a Roma, sulle spoglie del CTE (Centro Teatro Educazione), la “Casa dello Spettatore”, grazie all’appoggio di “Agita” e forte del lavoro di un’équipe che da anni si occupa di formazione del pubblico. Ne parliamo con Giorgio Testa.

E’ un progetto che mira ad aiutare gli spettatori a fruire degli spettacoli dal vivo. Ma che aspetto avrà questa “Casa dello Spettatore”? Sarà un luogo fisico o metaforico? Ce lo ha spiegato Giorgio Testa, promotore del progetto, pedagogo, spettatore professionista e formatore di spettatori.
Partiamo dal principio, che cos’è la Casa dello Spettatore?

“L’idea è di creare un’organizzazione di spettatori, fare in modo che gli spettatori possano incontrarsi, andare a teatro insieme, magari in gruppi coordinati da un mediatore teatrale, così da migliorare il proprio rapporto con il teatro, capirne le poetiche e le logiche, e quindi appropriarsi fino in fondo del proprio ruolo, quello di spettatori, ruolo senza il quale il teatro non è possibile. Il teatro senza pubblico non c’è e questo pubblico troppo spesso è visto più come cliente che come destinatario della comunicazione. Noi della Casa dello Spettatore pensiamo che il pubblico possa essere una comunità che si struttura come tale intorno all’andare a teatro.”

Ma anche i teatranti vedono il pubblico come un cliente?

“Per i teatranti il discorso è diverso, spesso danno l’impressione di interessarsi più all’applauso e al numero di spettatori che alle loro reazioni profonde. E inoltre vorrebbero uno spettatore militante, per
così dire. Ma lo spettatore non è come l’artista che ha scelto la sua poetica. In uno spettatore sono compresenti più desideri, più gusti, più modalità di essere spettatore. Io penso che se i teatranti
avessero come interlocutori non il critico, che ovviamente è sempre legato a delle sottili relazioni di potere e di vicinanza, ma il loro vero destinatario, cioè il pubblico nella sua varietà, e avessero con
lui un dialogo continuo, ne avrebbero molto da guadagnare. Si parla di necessità del teatro, se ne parla tanto, e non c’è dubbio che non si dà arte teatrale senza una necessità espressiva. Ma questa necessità deve incontrarsi anche con quella delle persone che il teatro lo vanno a vedere, che si spostano da casa perché evidentemente hanno bisogno di vedere rappresentato qualcosa che gli sta a cuore”.

Cosa farà, nel concreto, la Casa dello Spettatore?

“Farà più azioni diversificate, a seconda dei destinatari, organizzeremo gruppi di visione con dei percorsi comprendenti più spettacoli, oppure focus su spettacoli con un tema forte, focus su spettacoli dedicati alla cultura classica, alla nuova drammaturgia, attraverso una didattica della visione affinata in anni di esperienza. Raduneremo gruppi formati da spettatori eterogenei, o gruppi di spettatori che hanno in comune un background culturale o sociale. E poi ci saranno i gruppi di lavoro nelle scuole, con gli insegnanti e con i ragazzi. Oltre agli spettatori, i nostri interlocutori saranno i teatri stessi, quelli che vorranno iniziare un lavoro meditato sul pubblico”.

Dove si trova, questa Casa dello Spettatore?

“Al momento è una struttura volante, a causa della vacanza, speriamo non eterna, delle istituzioni. Ma certo avere uno spazio di incontro reale, una sede per la Casa dello Spettatore, sarebbe fondamentale, gli spettatori vi potrebbero incontrare tutti i mediatori, anche critici e studiosi. E naturalmente sarebbe un luogo in cui anche l’artista potrebbe incontrare il proprio destinatario…”

Ma cos’è uno spettatore?

“Il problema è appunto questo. In realtà noi siamo spettatori di tantissime cose. Da quando c’è la televisione noi siamo spettatori specializzati di quello schermo video. Nella Casa dello Spettatore ci
si interroga anche su analogie e differenze fra le varie postazioni di spettatore. Le differenze e analogie tra uno che vede una fiction, una diretta, un talk show, un reality show, un concerto, uno
spettacolo di prosa… Ogni persona vede più cose, e allora che cos’è che le unifica? E quindi che cos’è un “vedere”, oggi? Cos’è il “vedere dal vivo” rispetto all’altro “vedere”? Tutto questo non può essere solo oggetto di studio, nel senso in cui se lo pone uno specialista, ma deve essere un confronto. L’artista, a suo modo, quando fa uno spettacolo ha sempre in mente uno spettatore ideale, però sarebbe bello se uno spettatore reale potesse essergli vicino anche nel momento in cui si sta formando nell’artista l’idea di uno spettacolo”.

Dunque, si tratta anche di studiare l’altra faccia del teatro, capire le dinamiche degli spettatori…

“Già dai tempi del CTE abbiamo messo a punto una metodologia di osservazione dello spettatore dall’esterno che abbiamo chiamato “Veder vedere”. L’abbiamo sperimentata varie volte, con risultati importanti. Gli artisti vedono soltanto il finale, gli applausi, ma cosa succede durante tutto lo spettacolo nello spettatore? Un grande attore, lo sa per istinto. Alla Casa dello Spettatore, vogliamo saperlo in modo un po’ più dettagliato, ecco. Faccio un esempio: si cita e si ricita la storia di Averroè che leggendo la Poetica di Aristotele guarda i bambini che giocano fuori dalla finestra, e non si accorge che da quel gioco potrebbe capire ciò che Aristotele dice del teatro. Mi chiedo: teatranti e amanti del teatro sanno ora come giocano i bambini? Certo anche per loro sarebbe istruttivo occuparsi davvero della cosa. Dei bambini che giocano e, aggiungo, degli insegnanti che se ne occupano, che fanno tanto teatro con loro e che tanto contribuiscono a educare al teatro proprio per questo. I teatranti, ma non solo loro, onestamente, tendono invece a considerare gli insegnanti degli intellettuali di serie b, e non si rendono conto che sono la colonna portante della formazione del cittadino e quindi interlocutori ineludibili di chiunque operi nella cultura. La Casa dello Spettatore sarà, per questa ragione, anche un luogo di mediazione tra scuola e teatro, un punto di osservazione sull’infanzia, non solo per interessare i ragazzi al teatro, ma anche per offrire ai teatranti l’occasione di seguire come nasce lo spettatore”.

P.S. La Casa dello Spettatore ha già iniziato la sua attività, mettendo a fuoco cinque percorsi spettacolari. Ogni percorso coinvolgerà cinque spettacoli (più uno jolly a sorpresa) individuati
nella programmazione di alcuni teatri romani e verrà accompagnato da momenti formativi e materiali appositamente predisposti. Chi voglia approfondire l’argomento e conoscere i percorsi può farlo contattando: nipia.br@gmail.com

Padri forti, scacchi assurdi e brigatisti rossi

ELENA SCOLARI | I volti della povertà, ultima produzione del Teatro dell’Officina su Padre Turoldo in scena il 5/6 febbraio 2012, l’antologica di Teatrino Giullare appena conclusa e Aldomorto, il nuovo lavoro di Daniele Timpano al Teatro i confermano la validità delle programmazioni dei piccoli teatri milanesi.

Abbiamo assistito nelle ultime settimane ad alcuni spettacoli in due piccoli teatri milanesi: Teatro dell’Officina e Teatro i, e ne parliamo per ribadire la vivacità del contesto teatrale meno noto ma ricco di proposte interessanti.

I volti della povertà è l’ultima produzione del Teatro dell’Officina, creata in occasione del ventennale della morte di Padre David Maria Turoldo, figura unica nella storia dei preti scomodi e anticonvenzionali. Massimo De Vita e Daniela Airoldi Bianchi firmano la regia di uno spettacolo forte e coraggioso per i contenuti, rispettoso e delicato per la forma. De Vita è in scena ad interpretare un Padre Turoldo poeta e attento ai poveri, agli ultimi, il vero volto di Dio. Una scenografia spoglia e un’accurata scelta di testi di Turoldo stesso, insieme alle parole di altri autori come Alex Zanotelli e Virginio Colmegna contribuiscono a rendere un tono “solenne” alla semplicità  profonda di ciò che Padre David diceva: non rifiutare il dolore, affrontarlo e condidere anche quello degli altri. Punti forti dello spettacolo sono il prorompente talento di Stefano Grignani che insieme a Irene Quartana e Eleonora Sacchi rappresenta l’energia giovane che alimenta l’umana speranza di miglioramento e il toccante monologo di Mavis Castellanos: una cronaca commovente e insieme raccapricciante di un cosiddetto viaggio della speranza su un barcone di emigranti, costretti a situazioni umilianti e davvero oltre limite di ciò che possiamo immaginare. Il punto debole è invece l’assenza del carattere combattivo di Padre Turoldo, un guerriero friulano nato da famiglia poverissima, osteggiato, a volte, dalla Chiesa proprio perché non assoggettato e sempre libero nel suo pensiero e nelle sue azioni. La scelta registica privilegia forse l’atteggiamento degli ultimi anni di quest’uomo, affaticato dalla malattia, e sembra voler suggerire una certa rassegnazione, che non crediamo però sia un tratto caratterizzante del religioso.

Il Teatro Officina compie 40 anni nel 2012, vogliamo ricordare l’importanza della sua presenza nell’ambito milanese: narrazioni sociali, storie di stranieri, storie di anziani e di operai che hanno accompagnato e raccontato la comunità. Il ruolo di un teatro come questo non deve essere dimenticato dalle amministrazioni nemmeno in tempi di guai economici. Turoldo sarebbe d’accordo.

Teatrino Giullare di Bologna è stato ospitato dal Teatro i con un’antologica dei suoi spettacoli: Lotta di negro e cani di Koltès, Alla meta di T. Bernhard, La stanza di Pinter, e Finale di partita di Beckett. Ci dedichiamo qui a quest’ultimo: due attori con un berretto e una maschera di cuoio, seduti, muovono Hamm e Clov su un piccolo tavolo-scacchiera. I personaggi sono statuine di legno, i due pezzi rimasti per questo finale di partita, mossi da mani umane che notiamo sempre meno nel fluire dello spettacolo come se pian piano si animassero di vita propria, le voci dei due attori diventano le voci dei protagonisti, l’uno costretto su una sedia a rotelle e l’altro, il servo, condannato a non sedersi mai. Ci sono anche i due vecchi genitori di Hamm, chiusi in due bidoncini della spazzatura, a margine della scacchiera, ne escono in forma di scheletri per dire le loro folli battute, le loro richieste di confetti e biscottini. L’effetto inquietante della scena è pienamente riuscito e la cura ironica dei particolari ci fa sorridere con la giusta amarezza. Nonostante i tagli, il testo di Beckett arriva al pubblico con la forza della sua sgradevolezza, con il cinismo dell’inutilità e lo humour irresistibile del non-sense. La piccolezza dei personaggi è sia nelle dimensioni fisiche sia nell’impotenza di movimento proprio, una bella chiave di lettura di un teatro assurdo perché incredibile.

Aldomorto – tragedia. Daniele Timpano firma il suo spettacolo più maturo dopo Ecce robot, Dux in scatola, Risorgimento pop. Aldomorto è un lavoro denso di riflessioni e di domande, vestite con la consueta e straniante leggerezza, un bel testo graffiante per parlare di un avvenimento che chi è nato, come l’autore, negli anni ’70, non ricorda con consapevolezza ma con la memoria esterna costruita da ciò che se ne è sentito dire nei decenni successivi. Timpano rispetta, con distacco, il dramma dell’assassinio ma ne irride tutti gli aspetti retorici e “bassi”: la prosopopea roboante e velleitaria dei terroristi, le teorie confuse sul significato della stella a 5 punte, la deriva letteraria opportunistica dei leader estremisti. Una Faranda in parrucca e occhialoni seventies è una travolgente parodia della mitologia dei brigatisti, un giornalista impacciato si aggira tra i cadaveri di via Fani come in un Cluedo  stile C.S.I. de’ noantri. Timpano non è indulgente, sorrisi e serietà sono gli uni funzionali all’altra, le citazioni di Claudio Lolli e le canzoni dell’orgoglio proletario ci mostrano l’incredulità dei quasi quarantenni di oggi che, come anche chi scrive, rimangono perplessi di fronte alla forza distruttiva che teorie folli hanno raggiunto negli anni di piombo.

La piccola Renault telecomandata che scorrazza in scena è perfetto simbolo del ricordo collettivo della tragedia e figurina sfuggente di un fatto storico che ancora si cerca di spiegare.