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venerdì, Settembre 20, 2024
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Il sogno dell’Elfo, il Romeo e Giulietta di Autelli

RENZO FRANCABANDERA | La compagnia del Teatro dell’Elfo sta riportando in scena (fino al 22 gennaio) la rilettura del Sogno di una notte di mezza estate nello storico allestimento che dieci anni fa vide in scena, tra gli altri Antonio Latella con Ferdinando Bruni a fare Puck. Gli anni passano e Bruni sceglie per sé il ruolo Oberon/Teseo, mentre nuovi attori, molti di scuola meneghina, fanno rivivere le vicende di una delle opere più celebri del Bardo: la sostanza e la forza di questo allestimento non cambiano.
Al debutto nel Festival shakespeariano di Verona del 1997 l’adattamento raccolse una calda accoglienza di pubblico e critica, dando argomenti sia a chi, come Palazzi, vi leggeva la capacità di inglobare le suggestioni dell’estetica post punk che ricordavano il Rocky Horror, sia a chi, come Oliviero Ponte di Pino, vi vedeva una capacità di parlare delle classi sociali e del cambiamento in essere, ma con sfumature tenui e briose.
La regia di Elio De Capitani rimane non solo attualissima ma anche capace di divertire senza sosta, in un sentimento di otium che il teatro spesso oggi perde a vantaggio di intellettualismi nocivi.

Le belle scene di Carlo Sala e i costumi di Ferdinando Bruni portano lo spettatore in un ambiente favolistico ma concreto, monumentale ma metropolitano, agitato da singulti di eteree presenze che si affacciano, ora indossando maliziosi occhiali da sole, ora vesti da messa in scena tradizionale.
Ma attenzione: nessuna distonia! La macchina va in un’unica direzione, sempre chiara e leggibile, quella di dare prima di tutto spazio all’intreccio, perché la parola di Shakespeare continui a rivelare tutta la sua attualità emotiva, la consistenza intrinseca del doppio. Il sogno è bellissimo per questo: è un viaggio in ciò che tutti sogniamo di essere bassamente di essere; l’umanità, si sa, è fatta per la gran parte di Bottom-cloni, gradassi so-tutto con la parlata di paese, che cercano di convincerti di esser sempre buoni per qualsiasi cosa, per qualsiasi ruolo. Quel sogno, che trova milioni di incarnazioni dalla politica alle aziende, dal pianerottolo fino alle derive più tragiche dell’incoscienza umana, un sogno pagliaccesco, trova in Elio de Capitani la tragicomica incarnazione, che lo vede progressivamente trasformarsi in un triste Charlot, ma non prima di aver goduto appunto dell’ebrezza del sogno dei mediocri: essere (rimanere) asini ma al contempo avere una straordinaria musa disposta ad appagare ogni tuo desiderio, strigliandoti per bene a forza di biada, carote ed eros.

Cosa volere di più? Tutti sul palcoscenico girano ad orologeria, i giovani interpreti sono veramente tutti sopra la linea. E’ già raro trovare uno spettacolo in cui anche solo i protagonisti recitino per bene, quando a recitare bene sono poi tutti, il miracolo è servito: con Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani sono in scena Corinna Agustoni, Luca Toracca, Sara Borsarelli, Carolina Cametti (fino al 18 dicembre), la potentissima e in gran forma Clio Cipolletta (dal 26 dicembre), reduce dalla già convincentissima prova nel Sarabanda di Luconi, che oppone la sua magra e rurale spigolosità alle morbidezze equilibristiche di Sarah Nicolucci, Giuseppe Amato è un convincente e sardonico Puck, e bene anche Vincenzo Giordano, Loris Fabiani, Andrea Germani, Marco Bonadei e Federica Sandrini.
Dire delle luci di Nando Frigerio non è superfluo: si adagiano plasticamente sia sulla scenografia classica, sia dando corpo e struttura ad ambienti più immateriali, a quelle variazioni tonali dal sentimento acidamente goticheggiante, che trasportano le certezze di noi esseri umani nel filtro distorsore della dimensione onirica. Ancora pochi giorni per gustarlo.

* * *

E’ andato in scena nell’ultimo squarcio di dicembre il Romeo e Giulietta prodotto da Fondazione Pontedera Teatro e LITTA_produzioni. Il regista, Claudio Autelli, aveva fatto un interessante allestimento di Otello alcuni anni fa, complice un Francesco Villano in grande forma e alcune idee chiare sulla direzione registica e scenica da dare al tutto: un’ambientazione irreale, vuota e al contempo piena, ma non priva di suggestioni, affidate, tra l’altro e per la gran parte, a musica e luci. Bisogna quindi pensare che questa di lasciar dire all’atmosfera sia un codice di creazione, un sistema progressivo di strutturazione e alimentazione dell’invaso scenico che Autelli ha nei suoi desideri.

Questo Romeo e Giulietta è opera che nasce intorno al lavoro con un gruppo di ragazzi molto giovani, Francesco Meola, Andrea Pinna, Camillo Rossi Barattini, Michele Schiano di Cola, Giulia Viana e forse alcuni esiti in termini attorali che riportano ai recenti studi del regista con il maestro russo Vasiliev.
Si respira il desiderio di cercare qualcosa di nuovo. E i tentativi si muovono in diverse direzioni. Innanzitutto l’ambientazione: buia, cupa, di aria immobile, di condizione sospesa. Non è la favola dell’amore impossibile ma una sorta di incubo fatto di figure che intorno a questi due giovani dal tratto adolescenziale assumono sembianze ora mostruose ora grottesche.

Il nugolo dei personaggi che fanno della celebre opera, poi, un affresco corale capace anche di raccontare un’epoca, una società se desiderato dal regista, viene qui completamente azzerato. Sopravvivono le figure minori, il frate, la balia. Restano mostruosi e sullo sfondo i genitori della ragazza, mentre gli interpreti, tranne i due protagonisti Meola e Viana, danno corpo ad un paio di personaggi ciascuno. La drammaturgia viene asciugata fino all’essenziale, fino a coincidere quasi con la trama, e lo spettacolo si risolve in molti casi nel succedersi di piani emotivi affidati all’ambiente scenico, alle luci e alla musica.
La scena è spoglia se si fa eccezione per la geniale trovata delle strutture semipiramidali e composte da assi orizzontali di legno create dalla brillante fantasia di Maria Paola Di Francesco, una scenografa che siamo sicuri dirà e darà molto al teatro italiano.

Succede però che proprio queste strutture, che di fatto creano il luogo, la dimensione, l’ambiente e in alcuni casi sono addirittura il corpo dei personaggi finiscono per essere un elemento condizionante per la regia che appiattisce la dinamica attorale nel movimento intorno a queste strutture e di queste strutture, indugiando su questo piuttosto che sull’approfondimento necessario di altre questioni non di minor rilevanza, come l’afonia della protagonista e la forza evocativa del recitato. Prova di questa tensione non costante è l’emblematico e brillante episodio in cui il frate picchia Romeo, togliendosi la barba posticcia (che è assai multi funzione nell’impianto della mutazione dei personaggi) e percuotendolo con quella. L’idea è così brillante e originale che finisce per stagliarsi come una delle poche cose veramente fuori dagli schemi di questo allestimento, e al contempo lascia la sensazione che su questo binario creativo molto molto più avrebbe potuto essere fatto, magari lasciando in qualche scena sullo sfondo piramidi e luci e concentrandosi ancor di più sul lavoro con gli attori e sul testo.

In alcune scene l’amalgama funziona, come nell’amore dei ragazzi che giocano in un vedo non vedo facilitato da queste colonne di luce led di cui si fa un uso interessante, ma restano irrisolti altri passaggi, come il finale, che se non conoscessimo per la notorietà della trama, sarebbe onestamente sfuggente e non concluso. C’è ancora da lavorare molto, riprendendo e ridando innanzitutto dignità al testo che un po’ scompare dietro giochi di luci e i troppi (e spesso inutili) inserti musicali.
La sensazione alla fine era quella dell’episodio de Il vecchio e il mare in cui dopo la grande fatica della cattura il pescatore vede divorato il suo grande pesce, legato alla barca, da altri pesci (come in questo caso lo spettacolo fagocitato dai suoi stessi espedienti scenici), e alla fine invece che portare in porto il frutto della pesca, si ritrova a riva con lo scheletro scarnificato. Il prezzo che infatti Autelli paga è nel fatto che a tradirlo sia proprio l’intonazione desiderata, il tentativo di forzare una lettura troppo decisa su un testo che è grande proprio per la sua pluralità di sfumature.

Video de Il Sogno del Teatro dell’Elfo
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Estetismo inglese e radicalità francese

Aventure SteinMARIA CRISTINA SERRA | Londra e Parigi a confronto sulla strade dell’arte. Rive Gauche e Rive Droite si specchiano nelle acque della Senna con due importanti mostre in contemporanea (fino al 18 gennaio): “Beauté morale et volupté” nell’Inghilterra di Wilde al Musée d’Orsay, e “L’aventure des Stein” al Grand Palais (da febbraio a giugno al Fine Arts Museum di San Francisco e al Met di New York). Matisse, Cezanne, Picasso, Renoir risplendono nei saloni del Palais, sullo sfondo della vita artistica e bohémienne della Parigi al debutto del XX° secolo e della saga familiare dei fratelli Leo, Gertrude e Michael Stein e di sua moglie Sarah.

Famiglia borghese cosmopolita di origine ebraica, benestante, intellettuale per vocazione, rigorosa per scelta di vita, tutta dedita all’arte, sostenuta da una sensibilità e un’intuizione speciali, per scorgere la genialità moderna nelle opere di artisti ancora sconosciuti.

Il loro salotto al numero 27 di Rue de Fleurus, vicino Saint Germain, si trasformava ogni sabato sera nel centro d’avanguardia letteraria ed artistica più stimolante della “ville lumiére”. Gli arredi modesti ospitavano le conversazioni delle maggiori intelligenze del momento, e il confronto acceso delle idee non convenzionali aveva come cornice una preziosa collezione (per lo più autori ancora poco noti) di quadri appesi senza una logica apparente, con stimolante disordine, in ogni angolo della casa. “Abbiamo cercato di rintracciare la cronologia delle acquisizioni, gli spostamenti delle opere attraverso gli anni, che vanno dal 1902, con l’arrivo di Leo a Parigi, al 1946 con la morte di Gertrude”, spiega una delle curatrici, Laurence Caillaud.

L’itinerario in otto sezioni racconta la passione per l’arte e le ambizioni culturali degli Stein, documentate dalle foto private della famiglia, che era solita registrare con meticolosa precisione ogni acquisizione e la vivace vita di relazione, con una sorta di spontaneo sguardo pieno di curiosità per i fermenti parigini. Una mostra nella mostra attraverso un laboratorio unico e irripetibile di approccio all’arte moderna, partendo dalle private stanze, in cui si sono dipanate le strade dell’arte del ’900.

I “Four Big”, come Leo chiamava Cezanne, Monet, Degas e Renoir, sono le pietre miliari della collezione e danno l’incipit al percorso. Alla morbidezza perlacea della “Bagneuse assise”, di Renoir fanno da contrappunto i colori pieni di sostanza di Cezanne. I corpi delle sue “Cinq bagneurs”, concretezze che si proiettano all’assoluto, sono “materia viva” inserita nella natura, come elementi complementari ad una costruzione in cui “il paesaggio si riflette in me”, diceva il pittore, “ed io divento la sua coscienza”. Il suo profondo realismo che trascende le apparenze, ci introduce al visibile, sempre difficile da afferrare se non si hanno occhi fatti di cuore e mente, riformulando la geometria e la distanza fra le cose.

Il ritratto di “Madame Cezanne col ventaglio”, acquistato da Leo nel 1904, sarà una rivelazione agli occhi di Gertrude: “Cezanne mi fece comprendere che in una composizione ogni cosa ha la sua fondamentale importanza ai fini dell’armonia”, scriverà nelle sue memorie, “e indirizzò tutta la mia visione di letterata”.

I girasoli sulla sedia di Gauguin brillano di calda luce propria. Il bianco-nero, vellutato di Manet nella “Scena del ballo” getta una luce inquietante e un’ombra rassicurante sulla realtà. Sui canapè rossi vellutati del “Salon” di Toulouse-Lautrec le prostitute, modelle ideali prive di artifici, attendono pazientemente composte i loro clienti. Struggente, dignitosa umanità tratteggiata con linee sinuose e sicure. I disegni di Degas catturano il faticoso lavoro delle ballerine. C’è tutta la naturalezza dell’intimità svelata nella sensuale “Siesta” di Paul Bonnard. La sua donna con il corpo carezzevole di pelle lucente, sottile, si allunga nuda, supina, sul letto sfatto, incastonato nei motivi floreali dai colori pastello della carta da parete che accentuano il calore e la profondità lirica della scena.

L’esplosione squillante di colori innaturali della “Femme au chapeau” di Matisse, ritratto “scabroso” della moglie Amelie, quasi una cancellazione di femminilità, con lei seduta obliqua, mentre un raggio verde le attraversa verticale il viso, inaugurerà la stagione “fauviste” e caratterizzerà l’avventura degli Stein, scopritori e mecenati di talenti.

Il giovanissimo, impacciato Pablo Picasso fu introdotto nel salotto buono dell’arte nella primavera del 1905. Fra la massiccia, intelligente Gertrude e il sanguigno, ambizioso Picasso fu subito colpo di fulmine, suggellato da un ritratto ieratico, severo, scolpito, anticipando così la nuova percezione “mentale” della realtà: “brutta”, rivoluzionaria, scomposta, così come appare nelle “Madamoiselle d’Avignon”, il manifesto del Cubismo, che poi spezzerà ulteriormente in schegge senza tempo e deformazioni prospettiche dello spazio. I quadri “Blu” di Picasso e i “Rosa” ci avvicinano alla sua arte “non cercata, ma trovata”. “Non mi occupo di meditazioni né di sperimentazioni”, affermava. L’essenzialità delle sue prime, malinconie monocromatiche dalle infinite sfumature, si alternano con le nubi colorate che si liberano sconfinate e colme di gioia di vivere nelle tele di Matisse. Sempre rivali i due: armonia delle forme e vitalismo senza limiti ancora oggi a confronto.

In Inghilterra, invece, la ricerca della modernità e l’antagonismo verso la tradizione e il puritanesimo vittoriano, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, assunse le sembianze di un edonismo che aspirava a fare dell’esistenza stessa un’opera d’arte. “Di fronte alla durezza della vita operaia, ben descritta da C. Dickens, la società inglese restava essenzialmente aristocratica e rigida”, spiega Yves Badetz, curatore di “Beauté, morale et volupté en Angleterre”. Il personaggio controverso di Oscar Wilde, per la sua acutezza e per la tragica vicenda umana ed artistica “illustra bene lo spirito dell’epoca. Il Movimento Estetico sottintende una forma di apertura sociale nella struttura monarchica solidificata, nella quale gli artisti rimanevano ai margini”. Recupereranno il loro ruolo, estendendo la loro visione della realtà centrata sulla bellezza verso ogni direzione. La mostra dell’Orsay racconta questo percorso, iniziando dalle opere degli artisti “preraffaelliti”, come Burne Jones, Rossetti, McNeill Whistler, Leighton, Moore, per proseguire nella descrizione della Rivoluzione tranquilla, che cambiò modi di vita, gusti, arredi, all’insegna “dell’Arte per l’arte”.

Se l’atmosfera degli interni decorati dalle esotiche tappezzerie di W. Morris rendono il gusto liberty dell’epoca, le sedie, i tavoli, le credenze, dalle leggere essenzialità di E. W. Godwin e l’oggettistica d’avanguardia di C. Dresser dall’eleganza visionaria anticipano l’estetica del Novecento e il moderno designer. La nozione di “house beautiful” diventa la norma della vita culturale, il culto e la rilettura dell’arte giapponese un nuovo codice sintetico cui ispirarsi.

Quando Wilde, negli anni Ottanta, assume il ruolo di “Esteta fra gli esteti”, portavoce del movimento, coniando con grande modernità slogan, che si impongono nell’opinione pubblica, l’Estetismo ha già percorso gran parte del suo cammino e ormai saturo di eccessi è in dirittura d’arrivo: le accuse di “condotta immorale” e i processi distruggeranno Wilde e segneranno il definitivo declino del movimento.

Il video ufficiale della mostra al Museo d’Orsay

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Il servizio sulla mostra L’aventure des Stein al Grand Palais di Galerie Musées con intervista a Cecile Debray curatrice della mostra
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Una mostra per regalo

giacometti e  gli etruschiMARIA CRISTINA SERRA | Sono molte le proposte in questo rigoroso e austero inverno e ci invitano ad attraversare i quartieri da una riva all’altra della Senna, seguendo il filo dei nostri vissuti, per tracciare un itinerario artistico a seconda delle suggestioni del momento. A Place de la Madeleine, salotto buono dei buongustai con le ricche boutique-gourmet, addobbate a festa, il magnetismo del manifesto “Alberto Giacometti e gli Etruschi” c’invita ad entrare nella Pinacothèque de Paris, dove fino al 15 gennaio si potranno ammirare le ascetiche sculture del maestro del Novecento, che idealmente si confronta con un’arte e con un popolo depositario di segreti ancora da scoprire. Una sapiente illuminazione evidenzia l’empatia fra i reperti archeologici, provenienti dal Museo Guarnacci di Volterra e le opere dello scultore che riuscì a plasmare con la materia i temi della filosofia esistenzialista. Appropriati pannelli esplicativi spiegano al pubblico tutta la complessità estetica e culturale di una mostra, che si propone con grande ambizione di tracciare una linea formale e filosofica fra due mondi disgiunti fra loro da 2.500 anni. “L’ombra della sera”, la splendida statuetta longilinea del III° secolo a. C. si confronta con la “Grande femme” del 1960 dai contorni frantumati. “L’homme qui marche” esplora con i suoi lunghi passi l’infinitezza dello spazio. Le terrecotte etrusche, finemente decorate, si confrontano con gli ascetici “Trois hommes” filiformi. E’ un continuo alternarsi di figure e forme, dai significati misteriosi che fissano un insolito punto di incontro fra mitologia e surrealismo, arte primitiva e avanguardia, tanto da far osservare a Marc Rastellini, direttore della Pinacothèque, che forse Giacometti stesso “è stato l’ultimo degli Etruschi”.

Ma a Natale si diventa tutti un po’ bambini, almeno per qualche ora, per evadere e cercare riparo dai propri affanni, tuffandosi nel mondo dei giocattoli. “Des jouets et des Hommes” è una insolita mostra sull’importanza dei giochi “prima iniziazione all’arte”, come diceva Baudelaire, o addirittura “la forma più elevata della ricerca”, come osservava Einstein. Nelle sale del Grand Palais, fino all’11 Gennaio, un migliaio di giocattoli, dall’antichità ai nostri giorni, accompagnati dalle geniali installazioni dell’artista Pierrick Sorin, ci illustrano attraverso più sezioni tematiche l’importanza degli oggetti che mettono in relazione i bambini con le loro emozioni e con l’universo degli adulti. “Simboli evocativi che ci permettono di incrociare una moltitudine di campi del Sapere: storia, antropologia, psicologia, sociologia, economia”, spiega Bruno Girveau, commissario dell’esposizione insieme a Dorothée Charles, che sottolinea come proprio attraverso i giocattoli si evidenzi che “i modelli e gli stereotipi femminili e maschili, ancora oggi, stabiliscono ruoli separati e vincolanti per i bambini”, difficili da sovvertire.

Bambole di pezza, di porcellana, di celluloide, o longilinee Barbie “vintage” degli anni Sessanta, raccontano l’evolversi dei costumi nell’immaginario infantile. Gli esemplari di “bambole meccaniche” di fabbricazione tedesca, inglese e francese dei primi del Novecento dimostrano una tecnologia d’avanguardia. La “poupée chantante” del 1893 per la Maison Jumeau è un gioiellino d’inventiva. I pelouche hanno un grande potere consolatorio, e l’orso tedesco “Steiff” del 1907 vendette in quell’anno un milione di esemplari. E’ ricchissima la sezione dedicata agli animali, così come quella dei soldatini di piombo e di plastica, di trenini, automobiline, battelli e carrozze, che segnano e delineano epoche e modi di vivere. L’aeroplano meccanico di Babbo Natale con i doni, esposto nel 1925 nelle vetrine del Bazar de l’Hotel de Ville (il grande magazzino BHV, ancora oggi il più frequentato dai parigini, con il suo incomparabile reparto di Bricolage), stupisce ancora per sue animazioni, un inno all’incanto per bambini e adulti.

La grande fotografa Giséle Freund è visibile fino al 29 Gennaio alla Fondazione Yves St. Laurent. L’artista tedesca, di origine ebraica (emigrante a Parigi durante le persecuzioni razziali) è in scena con “L’oeil frontière – Paris 19933/1940”, un percorso affascinante nella storia letteraria ed artistica del Novecento e del fotogiornalismo d’autore. “La fotografia è un linguaggio universale, comprensibile a tutti, mi ha permesso di esprimermi”, scriveva ne “Il Mondo è il mio obiettivo”, mentre traduceva per noi con la sua Leica lo spirito più intimo ed autentico dei personaggi. Il suo occhio sensibile coglie la fragilità impenetrabile di Virginia Woolf, fuggiasca dai demoni che l’assillano, ma anche “illuminata da una luce interiore, sincera, visionaria”. Così come la penna di Virginia Woolf era riuscita a registrare la fluidità del tempo in un perenne presente, cogliendo le dinamiche dell’anima e i flussi di coscienza delle sue figure attraverso folgorazioni fugaci, in grado di penetrare “in un cuore di tenebre cuneiformi, invisibili agli altri”, per ritrovare l’essenza della realtà. Il flusso della Storia, attraversata in una sintesi unitaria di esistenza privata e avventura collettiva, traspare dal viso severo, disteso, di solida “ragazza per bene” di Simone de Beauvoir. Immagini a colori netti, forti come il suo pensiero, coerente, lucido, esente da smarrimenti, radicato nelle contraddizioni concrete della vita. J. P. Sartre è il filosofo ”engagé”, “condannato ad essere libero”, impegnato nella realizzazione di una solidarietà di classe, qui circondato dagli oggetti del suo quotidiano: i libri e la pipa. E’ di sfida l’atteggiamento di A. Malraux, ripreso nel 1935 sul terrazzo della sua abitazione. “C’era vento, lui si tirava indietro i capelli con mano nervosa”, racconta la Freund, “senza accorgersi che avevo scattato più volte, mentre parlava”. Colette, autrice di successo, ha i gesti studiati “di attrice nata, non le importava essere bella in fotografia, amava l’obiettivo e ne capiva le esigenze”. Aristocratico, distaccato, formale, immerso nella realtà della sua giornata, lo scrittore irlandese J. Joyce. Racchiuso nell’atmosfera surrealista della sua casa, J. Cocteau, le dita sottili, nodose, da teatrante, che stringono la sigaretta. A. Gide è pensieroso: alle sue spalle, appesa alla boiserie, la maschera di Leopardi.

E’ come lo immaginiamo, chino fra i suoi libri, i suoi manoscritti, concentrato a ricomporre i mille frammenti illuminanti della sua mente, il filosofo e critico tedesco W. Benjamin.

“La fotografia deve leggere un viso come si legge la pagina di un libro, essere capace di decifrare anche quello che è scritto fra le righe”, è l’imperativo della Freund, “non si chiede ad un fotografo di creare le forme, ma di riprenderle, come un buon traduttore, che a sua volta deve essere capace di scrivere”.

Intervista a Dorothée Charles curatrice della mostra al Grand Palais
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Un video di BFM TV sulla mostra
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Le bugie con le gambe lunghe di De Filippo e Cinema Cielo di Manfredini

RENZO FRANCABANDERA | Scriviamo in questo articolo di due spettacoli, Le bugie con le gambe lunghe di De Filippo visto al Donizetti di Bergamo e Cinema Cielo di Manfredini visto al Franco Parenti di Milano.

Cinema Cielo è una bella signora matura con le rughe. Una signora che indossa i suoi anni con eleganza, non ha voglia di nasconderli, e racconta sé e il suo vissuto.

Nella bella stagione del Teatro Franco Parenti, fra le più interessanti a Milano quest’anno, grazie alla volontà della direzione artistica, Danio Manfredini sta riproponendo i suoi lavori storici, quelli che hanno portato al successo non solo l’attore, ma anche il drammaturgo e l’artista a tutto tondo. La coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Santarcangelo dei Teatri ritorna così a vivere e il successo di pubblico è stato eclatante. La prima ha fatto registrare praticamente il tutto esaurito: in scena va il degrado da periferia di città, le vicende del suo sottoproletariato fatto di giovani disoccupati, anziani, immigrati arrivati al check point con il mondo ricco al quale non avranno mai accesso.

Manfredini, come gli altri attori, interpreta diversi personaggi, ad iniziare dalla prostituta che passeggia in cerca di clienti davanti al vecchio cinema: una foto proiettata gigantesca su un velo che presto si squarcia per portarci proprio dentro il cinema. La visione dell’interno del cinema, quasi speculare a quella da cui gli spettatori guardano lo spettacolo, con le poltroncine rosse, non può lasciare indifferenti nel profondo.

Quanto questi due mondi che per tutta la pièce si guardano in un dialogo mai diretto sono realmente in contatto fra loro. Quanto la piccolo e medio borghese platea che assiste alla replica si confronta con quell’universo portato in scena? Quanto lo accetta? Quanto lo sente parte di sé? Sono questi gli interrogativi più profondi e drammatici dello spettacolo di Danio Manfredini, quelli che ancora oggi, a distanza di quasi 10 anni, restano vivi e potenti. Allora lo spettacolo valse all’artista il Premio Ubu per la miglior regia. La messa in scena aveva ed ha un sapore comunque corale, di cui sono parte integrante, sempre viva e presente, gli altri interpreti Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro. La platea è riempita da altre presenze che, come ne La classe morta di Kantor, sono burattini inanimati, riproduzioni a grandezza naturale di esseri viventi, a simboleggiare figure al limite, il cui stato in vita è forse più spesso sulla carta che nei fatti. Manfredini aveva già fatto ricorso a queste figure in altri suoi spettacoli, e in alcune scene, come quella della piccola orgia che avviene fra le squallide poltrone del cinema, la presenza dei manichini è viva e reale, con effetti tragicomici che non sfuggono allo spettatore.

Cinema Cielo, nel nostro profondo e anche nel decennio di distanza che ci separa dalla sua elaborazione concettuale, più di tutto, oltre all’insita bellezza in se stesso, spiega anche moltissimo della scena teatrale italiana degli ultimi quattro cinque anni. A volte si ha l’impressione che l’attenzione al periferico, a ciò che è borderline o semplicemente in posizione di volontaria o costretta incomunicabilità con la maggioranza crassa e silenziosa sia invenzione di nuovi geniali registi. Cinema Cielo ci ricorda di quanto la paternità, volontaria o involontaria, sia chiara nelle ricerche di chi quei bordi li ha vissuti e indagati per anni come certamente Manfredini ha fatto.

E’ uno spettacolo che, ove se ne avesse ulteriore possibilità, va visto. Perché ha segnato un passo, è una pietra. E’ elaborazione di quanto lo aveva preceduto, e impasto per quello che gli è succeduto. Come sempre il teatro è. Nessun genio improvviso nasce fuori dal suo tempo, senza respirare quello che lo circonda, le finte ricchezze e le vere miserie che sono l’unica, vera costante della vicenda umana. Gli spettatori del film porno nella saletta del Cinema Cielo guardano a noi, in sala. Siamo noi la vera pornografia, gli interpreti di quel “Nostra signora dei fiori” che rimane per tutto l’allestimento alterità spaziale e spettacolare esterna e quasi sempre silenziosa. Proprio come fuori dal cinema. E dal teatro. Come dieci anni fa, come oggi. Il dentro e il fuori. Noi e loro per dirla con i Pink Floyd di the dark side of the moon che Manfredini sceglie come colonna sonora.

Alcune immagini di Cinema Cielo

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Luca de Filippo grazie alla eredità familiare, che lo lega in filo diretto a tutto il teatro di prosa del Novecento napoletano da Scarpetta a suo padre Eduardo, continua con instancabile tenacia a portare in giro l’immenso patrimonio intangibile di famiglia, fatto di opere che anche allo spettatore più distratto continuano a comunicare la loro attualità ed eterno legame con la vicenda umana. Non è un caso che le commedie di Eduardo siano, nel teatro amatoriale del centro sud Italia, quelle di gran lunga più rappresentate, a significare un legame con la società sempre vivo e resistente.

Le bugie con le gambe lunghe è opera del dicembre 1946, rappresentata un anno dopo a causa del successo dello spettacolo precedente, quel Filumena Marturano che Luca ha portato in giro di recente con l’interpretazione di Lina Sastri, successo che provocò una serie continua di rinvii nel debutto della drammaturgia successiva. Gli spettacoli di quegli anni, come Filumena, Le voci di dentro e anche Le bugie con le gambe lunghe sono imperniate intorno al tema del vero, della convenzione, di ciò che è giusto mostrare al consesso sociale e ciò che invece è decoroso e borghese nascondere. Così la fame e la povertà vengono chiuse in credenza mentre i vicini fanno visita, in un’amarezza che però centra il suo fulcro sulla misera come condizione dell’animo più che su quella materiale. Eduardo mostra così una radicale attenzione alla necessità della sospensione di giudizio sul dramma della condizione disagiata, ponendo invece l’accento su come la miseria porti alla distorsione della morale intesa come insieme di norme condivise nel consesso sociale.

Questa lettura rimane tal quale, sostanzialmente, nello spettacolo che Luca de Filippo propone, e con cui si è aperta la stagione del Donizetti di Bergamo. Come nel Pirandello de Il piacere dell’onestà e di altre opere coeve, Le bugie è opera incentrata sull’ossimoro fra la figura sincera e dal tratto ingenuo ma dignitoso del protagonista Libero Incoronato, e un condominio abitato da vicini che lo coinvolgono, senza mai riuscirci, nelle loro squallide vite fatte di menzogne che la convenzione sociale richiede vengano mantenute in piedi e continuino a camminare a lungo (di qui il titolo della pièce). La scenografia di Gianmaurizio Fercioni con i fondali di Giacomo Costa è come sempre negli spettacoli di De Filippo assai sontuosa, ricca al limite del didascalico, ricordando il classico interno napoletano sommerso da palazzi l’uno sull’altro, grigi di un grigiore che non dà respiro.

E’ in una casa che non vede la luce del cielo che abitano Libero e sua sorella, in una condizione tale da suggerire alla zitella di prendere marito quale che sia, pur di aver sulla tavola qualcosa in più che un uovo e un misero brodino. La produzione è della Compagnia di Teatro di Luca De Filippo e nelle 2 ore e 40 minuti di spettacolo (con intervallo) il pubblico ha esattamente quello che si aspetta: da Luca De Filippo (nel bene e nel male) pare impossibile avere sorprese, in una costante proposta non solo di un corpus di opere ma anche di un codice che vuol mantenere un impianto tradizionale, che prevede ammiccamenti e trovate recitative d’antan, appoggiate qui e lì sulle spalle degli attori dei personaggi minori, spinti al limite del macchiettistico, in gag che sono pensate volutamente in forma esagerata, come ad esempio le crisi isteriche della vicina di pianerottolo che cerca di coinvolgere l’impassibile Libero nella copertura, a sua insaputa, di una tresca.

Lo spettacolo è godibile, sia chiaro, ma ci piacerebbe poter pensare di assistere prima o poi a qualche lettura audace di Eduardo, che lo riporti in vita, che continui a far battere il cuore: magari con minor dispendio di energie “scenografiche” e maggior ricerca degli ambienti umani interiori, che tanto furono del modo rigoroso di pensare parterno, fuor di eccessi, in un teatro che ritrovi misurata povertà e profonda adesione al reale, per testi che continuano, nonostante tutto, a respirare attualità.

Un video dello spettacolo di De Filippo
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La Cina è vicina… a Parigi

ArtisticinesiaParigi_PangXunquinMARIA CRISTINA SERRA | Il Museo Cernuschi è la cornice suggestiva per godere le opere degli “Artisti cinesi a Parigi” (fino al 31 dicembre), che fra le due guerre mondiali, come viaggiatori speciali, hanno superato le frontiere di due mondi lontani, per tracciare attraverso la pittura una sintesi artistica fra Oriente e Occidente

Il verde severo degli abeti, ancora spogli di decori, riempie i marciapiedi antistanti le botteghe dei fiorai. Le vetrine degli alimentari sono decorate da bacche cremisi, finti fiocchi di neve e Babbi Natale di cioccolata. Lungo gli Champs Elysèes si susseguono gli chalet di legno del tradizionale “mercato di Natale”. Nell’aria fredda si diffondono i profumi speziati del vino caldo e delle frittelle. La notte si accende di magia con le luminarie, per lo più le stesse dell’anno passato.

La crisi è tangibile! Qui, come ovunque le “ragioni” delle élites sono inconciliabili con quelle dei cittadini: incertezze, contraddizioni, interrogativi sospesi sul futuro formano un’ombra palpabile. Con qualche scintilla di speranza, che ci appare lontana anni luce dalle “certezze” inique e inutili dei distinti “professori nostrani”, suggellate da zuccherose lacrimucce. Quando le inquietudini prendono il sopravvento è bene prendere le distanze, gettare uno sguardo in luoghi che riescono ancora a custodire l’equilibrio cuore-mente, come il Parc Monceau nell’8° arrondissement, nei cui spazi (progettati a metà del 1.700 dall’architetto Carmontelle, per dare l’illusione di un paese senza confini né temporali né di stili) sono visibili le sculture di artisti cinesi contemporanei, riuniti intorno al tema “Secondo natura”. E’ un parco, questo, con una sua particolarità, non solo perché collocato fuori dagli itinerari più consueti, ma per il suo incanto fermo nel tempo e l’armonioso disordine architettonico, delimitato da discrete e prestigiose dimore “fin de siècle”, che rivelano inaspettate magnificenze oltre i loro portoni.

Il Musée Nissim de Camondo è uno di queste. Racconta di una saga familiare di banchieri ebrei mecenati, partita da Costantinopoli nell’Ottocento, poi sterminata ad Auschwitz, e di una preziosa collezione di arredi, dipinti e porcellane. A breve distanza, il Museo Cernuschi raccoglie una sofisticata raccolta di arte cinese e giapponese, oltre ai segreti dell’avventurosa vita di Enrico Cernuschi, finanziere dalle misteriose fortune (forse all’ombra della potente fratellanza massonica) e amante d’arte orientale.

La mostra sugli “Artisti cinesi a Parigi” ci introduce storicamente alla comprensione dell’avventura parigina di una generazione di artisti di diverso orientamento e temperamento, che fra il 1920 e il 1958 rivoluzionarono i loro tradizionali canoni di pittura, per riportarli poi, rinnovati di contaminazioni, al loro ritorno in Cina, con l’obiettivo di contribuire al rinnovamento artistico del loro paese.
Già dalla metà del XIX° Secolo, le migrazioni intellettuali verso l’Occidente di pittori avevano accompagnato le profonde modificazioni che la decadenza dell’Impero e il dominio degli interessi commerciali dell’Imperialismo europeo avevano inferto alle tradizioni millenarie. Lacerazioni che gli artisti in cerca di ispirazioni a Parigi cercarono di rimarginare, reinterpretando le avanguardie del Novecento, alla luce delle loro antichi canoni, costruendo così un originale ponte ideale e stilistico fra due civiltà e una nuova coscienza della loro identità. Più ancora della rappresentazione della natura, quella del corpo nudo femminile permettono di cogliere le differenze fra le due diverse sensibilità.

In Pan Yuliang, la figura carica di erotismo mantiene una dimensione scultorea dai tratti sensibili e modulati attraverso la tecnica tradizionale del “Baimiao” (una pittura ad inchiostro monocromo), alternanta con colori ad olio. Il “Nudo seduto”, con la testa raccolta fra braccia e gambe sembra custodire il segreto della morbidezza e della femminilità. La “Belle Dame” di Lin Fengmion (che fra il 1965 e il 1972 fu imprigionato, subì persecuzioni e interdizioni a dipingere) ha le forme sinuose e i colori a olio netti e forti assumono la leggerezza dei fiori di loto, grazie ai contorni bianchi e straordinariamente trasparenti dei veli, che ricoprono pudicamente il corpo. Le composizioni floreali e i nudi di Samyu rendono un senso grandioso dello spazio, che si esalta nella “pienezza” del vuoto. Un perfetto senso di armonia, che si equilibra sull’incompiuto. Ci appare una meraviglia “Il paesaggio con neve” di Liu Haisu dai colori bruni e chiari, pastosi, grumosi, stesi con minute pennellate, che ne esaltano i rilievi, mentre un chiarore solare penetra a tratti fra un cielo carico e minaccioso.

Il ritratto di Shana, la bambina-icona della mostra, realizzato da Chang Shuhong, offre l’esempio di una sintesi tecnica fra tradizione cinese ed europea, associando la frontalità della figura e la verticalità della scrittura ai contrasti dei colori del soggetto più propriamente occidentale. E’ una pittura naturalistica quella di Xu Beihong, che soggiornò fra gli anni Venti e Trenta a Parigi e a Berlino, più orientato versi i maestri del passato che all’avanguardia.

Tutti i confini sembrano superati e sublimati nello splendido paesaggio di montagna di Zao-Won Ki, in cui le forme sembrano confondersi con la vita e con la luminosità dei desideri. Sottili tratti di pennello nero e chiaro, indicano i rami che flessuosi tagliano montagne e orizzonti, che si confondono con inverosimili sfumature di celesti e turchesi. La presenza umana è indicata solo dai tetti inclinati delle case illuminate dall’interno, saldamente sospese, in bilico fra terra e cielo: naturalezza e irrealtà, duplicità di ogni pensiero. Una mostra che scalda i cuori e testimonia come l’arte possa anticipare gli incontri tra le culture, molto più della politica, della diplomazia e degli scambi commerciali, fornendo una lettura “consolatoria” della realtà.

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"Il giardino dei ciliegi" di Paolo Magelli e "Il Teatro dei fratelli Scomparso" di Andrea Meloni

RENZO FRANCABANDERA | Scriviamo in questo articolo di due spettacoli, “Il giardino dei ciliegi” con la regia di Magelli, coproduzione Metastasio di Prato e Stabile di Sardegna, e della riproposizione al piccolo e vivace Teatro Alkestis de “Il Teatro dei fratelli Scomparso”, di Andrea Meloni.

“Il giardino dei ciliegi” di Magelli è una coproduzione Metastasio/Stabile di Sardegna che vede coinvolto un importante numero di attori, tecnici e personale, quello che si potrebbe a giusta ragione chiamare un grande allestimento, se non fosse per la povertà assoluta della scenografia, che nasce per sottrazione, sventrando il palcoscenico di ogni struttura per mostrare le nude pareti del teatro. E’ in questa spoliazione che si ambienta il dramma della distratta decadenza, di quel sentimento di fine impero, con feste e bagordi, proprio mentre il Titanic affonda.
E’ questa la metafora di tutto il primo e dell’inizio del secondo atto del capolavoro cecoviano, che Magelli rilegge al gusto della Mitteleuropa. Gli attori infatti sono per tutto il primo atto impegnati in una corsa frenetica, alla snervante ricerca di qualcosa che ovviamente non trovano, perché è tipico delle caste consolidate non capire il cambiamento, la frana che sta per travolgerle. Entrano ed escono dal luogo teatro, attraverso le porte di accesso diretto al palcoscenico, di solito riservate alle maestranze.
Il sapore della Mitteleuropa che Magelli porta in eredità dai suoi trascorsi alla scuola della Bausch e di altri grandi nomi della grande regia continentale si assapora nella nessuna o scarsissima indulgenza sui costumi, nel ritorno di fiamma per la biomeccanica e dalle nuances espressioniste che marcano i personaggi, caratterizzati quasi come prototipi di questo o quel difetto, come nella commedia dell’arte.

E che in fondo il giardino sia scheggia neanche troppo omeopatica della Commedia della vita e i suoi personaggi, riflesso di opaca luminescenza dell’eterno gioco del contrasto fra classi di privilegio e classi di lavoro, dell’ottundente crapula senza misura contrapposta al trionfo dell’ignorante e insensibile ascesa della classe media, è un fatto che non sfugge alla regia, che affida proprio allo spasmo del movimento corporeo il compito di trasmettere questo disagio.
Qualcosa però non si irradia nella giusta direzione, e qualche scelta appare macchinosa e artefatta. Facciamo un esempio per tutti: al termine del primo atto, una prima frazione di spettacolo marcata, diremmo marchiata, dal vorticoso movimento dei protagonisti, a tratti in onestà quasi inspiegabile, gli stessi si ritrovano a comporre una sorta coreografia a forma di stella a dieci, dodici punte, un cerchio di cui gli attori sono limite della circonferenza, seduti in terra a guardarsi e ad escludersi dalle rispettive forze di comunicazione. Il fatto è che questa così accurata composizione è totalmente estranea alla logica di movimento che fino a quel momento si è avuta in scena, tanto che alcuni attori devono andare a comporre questa coreografia lasciando la posizione fino a quel momento occupata in scena, il che è ovvia riprova dell’innaturalezza di quel movimento, che diventa più omaggio ad una ricerca a sè stante che un gesto necessario, figlio e concatenazione vivente rispetto a quanto fino a quel momento visto. Questa medesima sensazione ricorre a più riprese nella fruizione della pièce, a sostanziare ulteriormente l’idea di uno sforzo intenso ma freddo, quasi preordinato e incapace di spogliarsi dei petali superflui, fiore che soffoca della sua esuberante inflorescenza, senza arrivare a godere di quella temperatura emotiva necessaria al massimo sviluppo. E’ questo che invece che far lievitare, sgonfia per buona parte lo spettacolo e l’idea del giardino di Magelli, che invece in alcuni tratti è capace di tenere alta l’attenzione e la tensione. Le scelte registiche forzano le interpretazioni di attori di consolidata esperienza a vestire maschere tanto grottesche da finire per essere irreali e distanti, accorciando il fiato di uno spettacolo che, se invece trovasse la giusta misura e sfrondasse i suoi barocchismi apriori, potrebbe dire qualcosa di utile e di nuovo.
Un bambino di nove anni che mi era seduto di fianco ha riservato grande attenzione all’allestimento per tutta la sua durata, a testimonianza che qualcosa di ingenuo e primitivo che lega tutto (oltre al testo, ovviamente) nello spettacolo c’è, ma che, come spesso accade, la sovrastruttura prova a dire con così tanta addizione di particolari, da far perdere lo stesso gusto animale agli spettatori adulti. Il bambino ha confessato poi di essere stato fulminato dall’interpretazione di Mauro Malinverno, tanto che ad inizio del secondo atto, mentre ha luogo il ballo concomitante con l’asta per la vendita del giardino, mi ha guardato preoccupato chiedendomi dove fosse finito Leonida. Ed è la stessa cosa che, per tutt’altre ragioni, che abbiamo cercato di spiegare, ci siamo chiesti anche noi.

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Presso il Teatro Alkestis di Cagliari, struttura con una tradizione di scuola e presenza sul territorio, è terminata in questi giorni una mini rassegna che ha tenuto banco per tutto il mese di Dicembre.
A chiudere la parte del 2011 della stagione teatrale di questo piccolo e grazioso teatro, il ritorno di Andrea Meloni su un testo da lui scritto e interpretato, “Il teatro dei fratelli Scomparso”, riproposto in una versione composita e rinnovata, radicalmente diversa da quella che era girata alcuni anni fa. Meloni, attivo nella pratica del teatro presso strutture di ricovero per persone con disagio psichico aveva maturato nel 2006 un testo assai pregnante e poetico che aveva portato in scena in una prima versione, con il supporto dell’Associazione Circo Calumet.

Il rapporto fra lo spettacolo fruito in questi giorni e quello originario è necessario per spiegare le scelte operate dalla regia nella revisione dello spettacolo. Il primo era una pièce che, pur con le ovvie mitigazioni necessarie per la generalità del termine, era ascrivibile al genere della narrazione. L’attore rendeva il pubblico edotto circa la vicenda di Alfredo Scomparso e della sua prossimità di disagiati, vicenda che finisce nel ventre di una balena che diventa antro della pazzia, anfratto di un’umanità dal tratto instabile e sperduto. Il tentativo era quello di un progressivo coinvolgimento degli spettatori in questo numero di sperduti, tanto che nella vecchia versione gli stessi a fine replica venivano invitati ad un banchetto povero, nel palcoscenico-ventre della balena. Ad aprire e chiudere quella recita era, con il suo megafono, Simone Dulcis, artista polivalente, attento tanto alle arti figurative quanto a quelle musicali, che era incaricato di piccoli ed essenziali puntelli ad un testo evocativo, poetico, portato in scena con plastica vivacità dal suo autore.

Alcuni anni dopo la compagnia ha avvertito la necessità di riproporre il lavoro, concentrando la ricerca sulla deframmentazione del testo, sull’incapacità del nostro tempo di proporre messaggi unitari, aggreganti. L’intento è quello di mettere a nudo un disagio ricreato tramite una polisemica che si irradia su tutte le forme del teatrale, da quella fisica, a quella vocale, fino a quella musicale. Il sapore di fondo è quello di una ballata brechtiana: non mancano le fisarmoniche e alcune interpretazioni di marcato sapore espressionista, in particolare quelle delle due interpreti femminili che si sono aggiunte al duo storico.

Il cuore della questione è che la nuova proposta, centrata sulla deframmentazione, quasi performativa in un certo senso, della testualità originaria fa perdere quasi del tutto la poesia del bel testo, che si respira solo a tratti qui e lì, a scapito di inserti ora musicali, ora di movimento, ora vocali, spesso inutilmente lunghi e non di rado incoerenti con una grammatica scenica che a fine spettacolo resta per lo più indefinita. Le fisarmoniche si alternano a sequenze elettroniche, le piccole e a suo tempo icastiche acrobazie del protagonista a mimare il beccheggiare di una vita in balia dei marosi, diventano esplorazione di un ambiente ostile che comunica sì inquietudine, ma per il suo non chiudere il cerchio. Molte tracce restano quindi irrisolte e il percorso rimane in forma troppo aperta.

Se dunque alcune fratture nella composizione scenica sono giustificabili proprio per rendere l’idea della follia che incombe sull’umanità, altre restano più solipsisitiche e autoreferenziali, in un agglomerato di arti forse più intento a parlare a se stesso. I motivi di questa implosione sono forse nella reale impossibilità del testo originario di dar corpo ad una polifonia senza che lo stesso perda la sua forza evocativa, o forse semplicemente nell’aver voluto mettere insieme troppo, aggiungendo presenze sceniche che agiscono loro malgrado da forza centrifuga invece che centripeta, rispetto al focus artistico dello spettacolo. Più d’uno spettatore che aveva fruito la prima e ora la seconda versione delle vicende di Alfredo Scomparso, non riuscivano a spiegare questo nuovo esito penalizzato “causa sui”. Insomma Alfredo in questa versione pare veramente scomparso, e lo spettatore se ne chiede a giusta ragione i motivi.

Spettacoli sotto l'albero

Iniziamo questa carrellata di opportunità “atipiche” da Bologna dove Fiorenza Menni/Teatrino Clandestino presentano “Hello Austria. Europa 2011” spettacolo che ha debuttato quest’estate con un allestimento open-air al Festival di Santarcangelo, presentato in una nuova versione nell’atelier della compagnia nelle giornate del 15, 16 e 17 dicembre nello spazio Sì di Via San Vitale, 67 a Bologna.
Costruito attorno al tema dell’identità europea, “Hello Austria. Europa 2011” è la voce di una donna che raccoglie su di sé più biografie, stralci di esperienze che trovano nel suo corpo e nella sua figura un punto di contatto. In questa nuova versione insieme a Fiorenza Menni è in scena la giovane attrice toscana Laura Dondoli, già apparsa sulle scene ne L’Avaro del Teatro delle Albe. Le due figure, in perenne dialogo con il violoncello di Francesco Guerri, plasmano una sorta di partitura musicale, un inno che compone di fronte agli occhi dello spettatore il ritratto di un’identità nomade, vivace, accesa dagli incontri intrapresi in diversi luoghi e momenti di un viaggio immaginario.
Il 16 dicembre inoltre sarà presentato anche Titolo Vero (Sì, ore 18.30) un progetto di Fiorenza Menni che prevede il coinvolgimento di attori esterni alla compagnia, e che in quest’occasione si accompagna alla presentazione della rivista Doppiozero di Marco Belpoliti (ore 19.00), mentre Sabato 17, al termine di Hello Austria, ci sarà il concerto di She Keeps Bees, band folk-rock in arrivo da New York (appuntamento alle ore 22.30 al Sì).
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Da Bologna a Lecce per segnalare il 18 dicembre l’anteprima del nuovo spettacolo della compagnia salentina Astràgali, “Divenire animale”. Prima scrittura di una commedia per Fabio Tolledi da Uccelli di Aristofane e Attar, in scena al Teatro Paisiello a Lecce. Il 20 dicembre, poi, avverrà la costituzione e presentazione ufficiale, sempre al Teatro Paisiello, del nuovo Centro Italiano dell’International Theatre Institute dell’UNESCO, che avrà sede presso Astràgali e di cui Fabio Tolledi stesso sarà presidente. Sono due eventi importanti da diversi punti di vista per una compagnia la cui attività teatrale si fa atto politico e sociale nelle sue numerose campagne per la divulgazione delle arti sceniche nei paesi più difficili dell’area mediterranea e non solo.
“Divenire animale” è un lavoro di una certa complessità e quello che verrà presentato il 18 dicembre è un primo studio, che prelude ad un’anteprima più matura a inizio primavera, il 27 marzo, in occasione della Giornata Mondiale del Teatro. Sulla scia di Lysistrata, recente successo della compagnia, presentato nell’estate 2010 a Lecce, Divenire animale si articola ancora una volta intorno a tre nessi inscindibili, potere-oscenità-riso, e, partendo da una inedita lettura di Uccelli (in relazione più segreta con Il verbo degli uccelli di Farid Ad-Din Attar), si interroga sulle categorie del politico, chiamando in causa il tema della sovranità, della crisi della forma-stato e della forma-città, dell’utopia, dell’animalità come segreto e approdo dell’umano. Si può “divenire animali” in una prospettiva non umana, scevra dall’assoggettamento e dal consumo? Questi in estrema sintesi sono alcuni dei punti di riflessione del lavoro che come sempre nelle intenzioni di Astràgali, vuole accogliere in sé spunti per l’analisi della società a cui l’individuo contribuisce a dare corpo.
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Segnaliamo da ultimo con piacere una proposta post-natalizia, in scena a Milano dal 27 al 31 dicembre presso lo Spazio Tertulliano. “Note per un collasso mentale” è una partitura per voci, corpi, chitarra, live electronics e altro liberamente ispirata all’opera del grande scrittore visionario J.G. Ballard, di cui è ricorso di recente l’anniversario dalla scomparsa. Regia, drammaturgia, luci, scena e costumi sono del giovane e audace Giuseppe Isgrò, regista appassionato della scena underground milanese, che si è concentrato da sempre su scrittori difficili come Ballard, Copi, A. Kristoff, per allestimenti dal tratto personale e lacerante.
Andrea Barettoni e Francesca Frigoli, accompagnati da Alessandra Novaga alla chitarra, danno vita ad una linea spezzata, ad un flusso interrotto e friabile ma in un certo qual modo continuabile ad libitum di immagini surreali, partorite dalla geniale mente di Ballard nel suo romanzo sperimentale “La mostra delle atrocità”- che nasce da diversi stimoli, incontri, e coincidenze. Si può definire Note il recital concitato di un testo attualissimo sui migliori e peggiori sentimenti della contemporaneità, un’ecografia al ventre gravido dell’immaginario attraverso la quale lo sguardo di Isgrò fa risuonare le capacità anticipatorie dello scrittore.
Caratteristiche di questo e altri spettacoli della compagnia sono una scena assolutamente spoglia ed essenziale, composta solo dall’hardware dello spettacolo in cui gli attori seguono traiettorie fisiche e gestuali significanti: non mere presenze narranti, dunque, ma voce, corpo, azione e relazione.

La Mandragola di Chiti e il Cabaret emotivo di Laura Pazzola

RENZO FRANCABANDERA | In tempi di sperimentazioni, ma meno estreme, con la crisi che morde e la gente in cerca di certezze, torna forte il fascino del teatro di tradizione, quello che in trent’anni è cambiato senza cambiare.
mandragola_0Devo dire di avere una personale attenzione e simpatia per le regie di Ugo Chiti e il lavoro che sempre con puntualità L’Arca Azzurra Teatro porta a compimento senza sbraitanti clamori. Eppure un po’ di spocchia potrebbero permettersela, alle soglie proprio dei trent’anni che ricorreranno nel 2013, da quel famoso laboratorio che Chiti condusse con gli allora ragazzi del gruppo. Di lì in avanti, lui ha continuato ad essere il punto di riferimento registico della compagnia, di cui ha firmato tutti gli spettacoli e loro il braccio armato di un modo di fare scena pulito, senza fronzoli, attento a quel voler far teatro in lingua toscana che era uno dei postulati di partenza, sfruttando appieno l’enorme comunicativa sonora e gestuale della lingua regionale, ma superando derive folclorico-vernacolari da casa del popolo.
E’ così che sono nati sia spettacoli attenti all’evolversi del territorio, come “Allegretto (perbene… ma non troppo)”, “La provincia di Jimmy” e “Paesaggio con figure”, sia spettacoli tratti da drammaturgie della Toscana classica e letteraria. “Ci sono appuntamenti che si possono rimandare a lungo, che si può per anni far finta di non dover onorare, ma arriva prima o poi il momento che quell’incontro diventa irrinunciabile e ti si presenta con l’urgenza che merita, come una necessità, un passo irrimandabile.” E’ con queste parole che loro stessi, Chiti e l’Arca Azzurra, raccontano di questa produzione di tre anni fa che continua tanquillamente a replicare e che abbiamo visto qualche giorno fa a Bergamo, ad inaugurare la stagione Altri Percorsi del Teatro Donizetti. Questa è la Mandragola di Niccolò Machiavelli per l’Arca Azzurra, un incontro che si sapeva di non poter eludere eppure sempre rimandato, sempre spostato più in là nel tempo, finché appena doppiata la boa dei venticinque anni di attività, ecco la compagnia alle prese con la “Commedia perfetta”.
Il piccolo intervento sulle parti più descrittive nel senso della scorrevolezza, aiuta lo spettacolo ad avere un ritmo interno ben ponderato sulle spalle degli interpreti, Giuliana Colzi (autrice anche dei costumi di scena di gran pregio), Andrea Costagli, Dimitri Frosali (impeccabile il suo Nicia tronfio e ignorante allo stesso tempo), e i puntuali Massimo Salvianti, Lucia Socci, Lorenzo Carmagnini, Giulia Rupi e Paolo Ciotti. La scena ha una pedana centrale e attraverso il ricorso ad una decina di piccoli cubi e pochi bastoni che fungono di tempo in tempo da pedane, rialzi, oggetti di altra natura, gli attori riescono a creare ambienti, case, conventi, partizioni delle dinamiche di gruppo, con un allestimento giocoso e canzonatorio che non può non ricordare il Decamerone prodotto l’anno prima.
In onestà, più di tutto restano nella mente proprio la regia e la pulizia dell’allestimento e la prova d’attore di Frosali, che pare veramente perfetto nel personaggio. Il Donizetti è andato tutto esaurito, con un pubblico che ha risposto talmente entusiasta e numeroso, che la direzione artistica forse si è mangiata un po’ le mani per non aver previsto una seconda data. Moltissimi giovani, anche studenti, a far considerare come a volte il tradizionale possa tranquillamente ancora riempire grandi teatri senza problemi, restituendo la sensazione di aver visto un buon lavoro, creativo, equilibrato, corale, che lasciava allo spettatore il giusto margine di fantasia col quale completare l’invisibile di scena.

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Cabaret emotivo, per la regia della giovane artista sarda Laura Pazzola, autrice anche della drammaturgia insieme a Luca Rastello, è un lavoro di gruppo costruito in occasione di un bando di concorso per giovani creatività, promosso dallo Stabile della Sardegna. Insieme alla Pazzola in scena c’è un energico gruppo di attori, musicisti, costumisti e tecnici, di fatto forse alla prima prova di navigazione in mare aperto con uno spettacolo pensto e realizzato “in house”, eccezion fatta per il contributo alla drammaturgia di Luca Rastello, giornalista a Repubblica, redattore e poi direttore de L’Indice dei Libri del Mese, Narcomafie e L’Indice.

Lo spettacolo è un cabaret à la Lecoq, dove i giovanissimi interpreti fanno incontrare il pubblico con un giovane guru e motivatore di dinamiche interpersonali e studioso di comportamenti e gesti, Bob (Robert Kelly). E’ questo conferenziere dal tratto sicuro e aitante che, con il supporto di quattro giovani “dottoresse” (Virginie Maillard, Hélène Morzuch, la stessa Laura Pazzola ed Elisabetta Spaggiari) ci mostra non il “perchè ma il come” delle nostre ossessioni quotidiane, delle dipendenze, e quali possono essere le determinanti per il loro superamento.
La logica narrativa è quella dello sketch, attraverso il cui ripetersi, il gruppo può raccontare un’umanità varia e fragile, dove ciascuno diventa portatore sano di ansie e logiche comportamentali che il nostro guru ci aiuterà a decifrare: dall’interpretazione dei gesti e del non verbale, fino all’analisi delle comunicazioni in contesti plurali, lo spettacolo oscilla, con sufficiente equilibrio, fra la lezione e il cabaret, fornendo spunti di interesse. Come nella miglior tradizione del Teatro del gesto del grande maestro francese della cui scuola molti fra gli attori sono allievi, lo spettacolo parte proprio da quel percepire le leggi che organizzano la vita, a partire dall’osservazione del quotidiano, di cui Lecoq fu fra i massimi fautori nella dinamica pedagogica.
Partendo dal movimento e dal gesto, il gruppo ha lavorato con un marchio di fabbrica inconfondibile attorno ad un’idea forse non pariteticamente sviluppata nella componente drammaturgica. Non c’è pretesa di spiegare motivazioni profonde dei comportamenti, c’è una divertita tassonomia di alcune forme di dipendenza, da quella dell’esercizio fisico a quella emotiva giusto per citarne alcune, eppure alla fine ci resta la sensazione che non si sia arrivati davvero da qualche parte, lasciando che a farsi spazio sia soprattutto il metodo recitativo, che a volte più che il mezzo diventa un po’ il fine, a cui la parola è asservita. Anche se nella logica della lezione sui comportamenti gli sketch sono vere e proprie sequenze a scopo didattico e didascalico, le sequenze sembrano un po’ ingenue e così l’impianto narrativo generale soffre di una mancanza di punto di fuoco, quella sorta di orizzonte del pensiero a cui lo spettacolo dovrebbe tendere, e quindi come tutto quello che veleggia senza un direzione univoca, finisce per sembrare lungo.
Come in tutti i cabaret che si rispettino non manca la musica, che è non solo ben pensata, ma finisce per diventare una delle colonne portanti dello spettacolo, quella su cui non occorre metter mani per modifiche di sorta: i tre musicisti sono jazzisti di buon livello, che sorreggono in più punti l’andamento del recitato, facendo non solo da cotrappunto ma non di rado da traino e da tappeto ironico.
Da registrare il rapporto con lo spazio e in generale l’allestimento dal punto di vista scenico, che vuole sembrare povero ma non rinuncia del tutto a qualche vezzo che alla fine risulta superfluo, come l’impalcatura che funge da macchina scenica la cui presenza è soverchia e a tratti distubante. Su questo è chiaro che le inesperienze risultano più evidenti.
Bene i costumi di Roberta Serra, adattabili e capaci di modificare destinazione d’uso nel corso della rappresentazione. Ospitato all’interno della sala Minimax del Massimo di Cagliari, lo spettacolo ha avuto nelle repliche dal 29 novembre all’11 dicembre un buon riscontro di pubblico, ad incoraggiare l’opera prima e a spingere i giovani attori a continuare a provarci e a mantenere alta la
tensione e l’impegno. Il nostro augurio è quello di conservare la conoscenza degli strumenti didattici ma di tanto in tanto di dimenticarli, di lasciarli un attimo da parte per cercare la ragione del fare in uno stimolo che tenti, con l’audacia tipica degli artisti, di dire qualcosa di nuovo.

Un video de La Mandragola
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Il video di Cabaret emotivo
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"Freddo" di Marco Plini ed "Elettra" di Nicola Russo

RENZO FRANCABANDERA | Parliamo in questo contributo di due spettacoli, visti al Teatro dell’Elfo di Milano: “Freddo” di Lars Norèn per la regia di Marco Plini e il commovente “Elettra”, di Nicola Russo – Compagnia Monstera

Freddo: ovvero quando viene difficile applaudire uno spettacolo ben fatto. In scena in questi giorni all’Elfo di Milano, il testo di Lars Norèn diretto da Marco Plini e interpretato da un gruppo di validi e giovani interpreti, non lascia molto spazio a fantasie di sorta.

Un gruppo di tre ragazzi di periferia, espressione di un sottoproletariato senza diritti e speranze, come spesso accade nelle nazioni ricche, vive la propria emarginazione affidando il disagio al credo del nazionalismo di matrice nazista, che nel Nord Europa continua a mietere vittime innocenti: una lunga serie di incidenti e violenze, l’ultima delle quali, proprio nella penisola scandinava, per mano di una persona dal tratto mitomane e squilibrato che ha però causato la morte di decine di giovanissimi attivisti, riuniti in festa su un isoletta.

La drammaturgia, dicevamo, non lascia spazio all’immaginazione: come già per il 20 Novembre portato in scena da Fausto Russo Alesi due anni fa, questo testo va a scavare proprio in quello che abbiamo sotto gli occhi e non vogliamo vedere, quel disagio violento, quella solitudine disperata, quel vuoto consumistico e di niente le cui metastasi sono proprio le forme di violenza estrema in cui la tensione sociale e la disperazione individuale trovano sfogo.

La squadra di attori si muove perfetta, ad orologeria, con uno spirito di fondo che in fermi immagine fotografici stile Hopper, finisce per fissare nella mente dello spettatore una serie di istantanee che vanno a fondo e lasciano un graffio di profondissima inquietudine.

Come nella storia del bombarolo di De Andrè, nessuno può dirsi assolto o estraneo: queste derive della società sono responsabilità della società stessa, della distanza che il mondo ricco e borghese traccia e segna. In fondo la vittima del terzetto di naziskin, incolpevole nei fatti, rimane colpevole nella sostanza di un’estraneità al tessuto sociale povero, di cui rimane vittima. Nessuno di noi si sente responsabile ad esempio del riscaldamento globale, o delle violenze e del degrado sociale, ma ognuno di noi ne è profondamente e intimamente causa, in quell’indifferenza e in quella disattenzione quotidiana, che continua a volgere lo sguardo altrove. Norèn ci sbatte in faccia questa realtà e ci costringe a farci i conti.

Plini, in questa produzione ERT, legge bene il testo, lo porta in scena con millimetrica precisione e, grazie alle notevolissime interpretazioni cui riesce a portare gli attori Angelo Di Genio, Michele Di Giacomo, Alessandro Lussiana e Federico Manfredi, non lascia scampo agli spettatori. Belle le scene e i costumi di Claudia Calvaresi e le luci surreali e davvero gelide di Robert John Resteghini.

La cosa più dura della messa in scena è veder tornare, a fine replica, semplici e sorridenti persone comuni questi ragazzi che fino a qualche istante prima erano belve narcotizzate in preda a deliri etilico-nazistoidi. Una rassicurazione che ancor di più esalta le interpretazioni, perfette e faticosissime, degli attori. Mai come in questi casi il meritatissimo applauso viene difficile da fare. Ma questo, forse, vuol dire che l’operazione artistica ha raggiunto il suo scopo.

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Elettra, biografia di una persona comune, è la prova d’autore con cui il giovane e talentuoso Nicola Russo ci porta nella storia e nella vita di Elettra Romani. Russo è in scena con Sara Borsarelli, in uno spettacolo che definire povero è un eufemismo, ma che con piccoli interessanti accorgimenti, affidati a video, scene, costumi e immagini di Giovanni De Francesco restituisce in forma di estrema tridimensionalità e palpitante partecipazione la vita di una soubrette di provincia, Elettra Romani appunto, della quale sotto i nostri (e anche i suoi stessi occhi) scorre la vicenda umana.

Lo spettacolo potrebbe appartenere, volendo dar spazio alla senescente tassonomia teatrale, alla famiglia del teatro di narrazione. Russo ha lungamente intervistato l’attrice ormai anziana, ripercorrendo con lei non solo la vita artistica, ma anche e soprattutto la durissima vicenda privata, costellata di incredibili sfortune, che parevano combinarsi con una vita passata sui palcoscenici di quel genere, la Rivista, ormai dimenticato, ma che è stato nei decenni degli anni Cinquanta e Sessanta, fino ad inizio anni Settanta, l’ossatura della forma spettacolare che davvero unificava, insieme al cinematografo, il tessuto e la cultura nazionale. Ci viene ricordato nello spettacolo che esistevano riviste specializzate, che nominavano ogni anno per sondaggio popolare l’interprete dell’anno, e la Romani aveva vinto per ben due volte il riconoscimento.

Lo spettacolo è una recita in mutande e paillette, trovata geniale della regia, che costringe i due giovani interpreti a passi minimali, da gemelle Kessler. Qui e lì le difficili vicende della Romani, altrimenti narrate in forma di monologo a due voci, vengono porte allo spettatore come episodi d’avanspettacolo in rima, con piccole coreografie studiate grazie all’intervento di Stefano Bontempi e alla direzione musicale di Gabriella Aiello.

Nelle sue tournèe Elettra Romani era stata ospite del palcoscenico del Puccini di Milano negli anni Settanta, e il suo ritorno su questo palcoscenico non poteva essere più caloroso e commovente, dopo quasi trent’anni. La produzione Monstera, che ha vinto anche l’edizione 2010 del E45 Napoli Fringe Festival, al netto di qualche marginalissima ingenuità dovuta ai pochi mezzi e alla giovinezza degli interpeti, sa portare lo spettatore ad una autentica e non artefatta commozione, di quelle rare da provare, che racconta di una storia umana dura ma anche dell’incredibile fascino della ribalta, i due lati della medaglia della vita di molti artisti, dedicata alla scena e che finisce per essere pagata al duro prezzo della solitudine e a tratti anche dell’oblio.

Edvard Munch. La ricerca infinita di un artista inquieto

MUnch pompidouMARIA CRISTINA SERRA | Un’emozionante mostra al Centre Pompidou (“Edvard Munch, l’oeil moderne”, fino al 9 Gennaio 2012) pone l’accento sugli aspetti meno conosciuti dell’artista norvegese, solitamente identificato come un solitario, ripiegato sull’universo interiore, ma che invece viveva pienamente la realtà che lo circondava

Edvard Munch nasce a Loten (Oslo, Norvegia) nel 1863, nell’anno in cui Manet dipinge L’Olympia”, tela icona della modernità, e muore ad Ekely nel 1944, appena in tempo per assistere ai primi colpi del crollo del regime nazista, che nel 1937 aveva dichiarato la sua arte “degenerata” e l’aveva bandita dai musei tedeschi. Già nel 1892, la sua storica mostra a Berlino aveva suscitato scandalo, ma allora la forza espressiva della sua pittura “intima”, a tratti indefinita, che scavava nel primordiale per far affiorare la sostanza morale dell’individualità, fu poi accettata come innovatrice visione espressionista della realtà e il suo audace linguaggio un’ anticipazione della Secessione.

La sua vita, fatta di frammentarietà e di tensioni, evoca una fragile corda lanciata in aria, che per caso si intreccia con i processi tortuosi della Storia, condividendone ombre, inganni, dissoluzioni e visioni, in un tentativo incessante di riunire i tasselli scomposti di un autobiografico mosaico interiore, lacerato fra pulsioni di amore e morte. Il bisogno di “tirare fuori le impressioni, che agitavano la mia interiorità” lo spinsero verso un’estrema condizione esistenziale, in cui ogni “impossibilità” diventa rivelazione universale, un varco tra le fessure incolori della quotidianità, per far affiorare la consapevolezza cosmica del dolore e smascherare l’inerzia e l’ipocrisia che schiacciano il “corpo sociale”.

“La mia pittura è autoconfessione”, confidava, “un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza e di aiutare gli altri a vedere chiaro”, immagini soggettive che si riempiono di oggettività.L’interesse alle trasformazioni sociali e alle difficoltà della vita quotidiana degli umili e del mondo operaio occupano un’intera sezione della mostra. Sono una rivelazione i suoi Lavoratori “fra la neve” e quelli che “tornano a casa”, plumbei cromatismi e dinamismo cinematografico, che quasi li spinge fuori dalla tela. Oltre che sulla modernità del suo peculiare Espressionismo, che evolverà nell’Informale, la mostra è una indagine attenta anche alla dimensione più sperimentale della sua arte, negli ultimi anni indirizzata verso la fotografia, il cinema, il teatro e la stampa, in perfetta armonia con le sollecitazioni e lo spirito del tempo. Le parole dell’artista “che cosa è l’arte in realtà? L’espressione di un’insoddisfazione nella vita; il segno di un desiderio vitale di creazione; l’eterno scorrere della vita; la cristallizzazione” ci accompagnano attraverso le 9 sezioni tematiche, che evidenziano gli elementi di continuità di questo alchimista di immagini, capace di coniugare il consueto con lo straordinario, l’aneddotico con il metafisico, e le evoluzioni successive, in un intenso percorso teso a realizzare la sinteticità delle forme.

Così i temi del passato e quelli del presente si raggomitolano come i fili di un’unica matassa a cui non serve incontrarsi in un centro statico, perché si riannodano e si estendono in un contrasto visionario e dinamico. “Il bacio degli amanti”, possibile punto di partenza per comprendere la sua poetica, riconferma negli anni la scelta stilistica delle linee curve, sinuose, continue, proprie dell’Art Nouveau e il senso circolare del tempo, che rifugge dalle strettoie della linearità. I colori caldi e pastosi avvolgono le figure, mentre i visi degli amanti si confondono simbolicamente in un’unica anima, tradendo la paura per la perdita dell’individualità. “Il tavolo dell’operazione” è una spietata trasposizione della nudità interiore, Il corpo spoglio e inerte nel freddo bianco del lenzuolo arrossato dal sangue, circondato dall’indifferenza dei presenti, taglia in diagonale lo spazio psicologico, creando un vortice destabilizzante in chi guarda, accentuato dalla stesura piatta e distaccata del colore.

Non serve decorazione per descrivere l’alienazione, la figura si integra nel suo sfondo annullando ogni gerarchia. “La malattia, la follia e la morte sono gli angeli neri che vegliavano sulla culla alla mia nascita”, è la pesante eredità familiare che Munch si portò dietro per tutta la vita. L’agonia della sorella Sophie può avere le tinte più intense e le forme più sintetiche degli anni della maturità o rimanere più in ombra, diluita nei contorni per lasciar correre le emozioni dipinte in gioventù, come nella tela del 1896, dai cupi grigi-marroni, “grattati”, incisi, resi drammatici dal pallore del viso diafano, perché “l’arte è il sangue del cuore umano”. L’amore per il teatro, per il quale crea manifesti e scenografie, emerge in molti quadri, nei quali ridefinisce simboli e spazi “chiusi”, come in “Gelosia” o “La camera verde”, in sintonia con le sperimentazioni del “Teatro di camera” – Kommerzspiele. L’artista collaborò intensamente con i drammaturghi Strindberg e Ibsen, che ritrasse come al centro di un palcoscenico fra drappi scuri. Da una finestra s’intravedono colorate silhouette: i paesaggi dell’anima e quelli della strada a confronto. L’interesse per la fotografia e per il cinema è travolgente per un artista della sua sensibilità, che scopre le nuove potenzialità della tecnica. Tanto che verso il 1930 un’emorragia oculare, alterando definitivamente la sua percezione visiva, lo spinse a sperimentare un nuovo linguaggio astratto per definire le coincidenze fra sé e il mondo.

Le possibilità visive erano già state ampliate dall’amore per la macchina fotografica e dall’uso del grandangolo, che era diventato il suo occhio clinico, attraverso cui catturare il tempo, rileggere la dinamica dello spazio e, soprattutto, proiettare all’esterno la sua psiche. “Non penso ciò che vedo. Penso a ciò che ho visto, le speranze che ho vissuto, quello che ho sofferto”. Gli autoscatti eseguiti durante gli otto mesi trascorsi nella clinica del Dottor Jacobsen, a Copenhagen, per curare la depressione del 1908, sono un’autobiografia lucida e commovente che. prosegue con la sezione dedicata agli autoritratti, in una dialettica vibrante fra opacità e luminosità, a scandire le tappe della sua vita: inquietudini della giovinezza, cupezza della maturità, malinconia della vecchiaia. “Abbiamo vissuto la morte fin dalla nascita. Ora non ci resta che viverre la più strana delle esperienze: la vera nascita che si chiama morte”.

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