fbpx
venerdì, Novembre 15, 2024
Home Blog Page 459

4:48 Psychosis

RENZO FRANCABANDERA | 4:48 Psychosis è la cronaca di una caustica, a tratti persino ironica, e disperante via crucis verso il suicidio. La protagonista di questo testo di Sarah Kane è forse la stessa Sarah Kane, alle prove generali di quello che sarà poi il suo destino, il presupposto concettuale della scelta finale della giovane drammaturga britannica, snocciolato come un rosario dell’intimità incomunicabile, dove lucidamente lo scarto fra l’individuo e il mondo esterno diventa indagine precisa sulle ragioni di un abbandono cosmico, leopardiano; stessa incisiva indagine, ma lucidità e linguaggio tutti contemporanei.
Come si fa a descrivere un testo così? Si immagini il flusso di coscienza di quelle notti in cui ci si sveglia nel cuore degli incubi senza riuscire più a dormire e si inizia a mettere insieme quelle che definire paranoie sarebbe troppo semplice. In realtà è rassegnata evidenza di essere una vita fuori tempo massimo, il cui senso è nella lenta e progressiva constatazione di non poter più sovvertire l’inerzia della fatale partita a carte con l’esistenza, quando fra i tarocchi viene fuori il segno della fine.
Cosa serve per portare in scena un testo del genere? Apparentemente pochissimo. Sicuramente nulla dal punto di vista scenico. Per l’interprete, invece, c’è bisogno di una compenetrata capacità di narrare l’assedio alle proprie sicurezze da parte del loro nemico più atroce: la propria spietata intelligenza armata dall’implacabile sventatezza dell’età giovane, più incline a gesti estremi.
Sarah Kane racconta meglio di tutto lo scacco matto del cervello sul corpo. Un’esistenza così, se non spenta per volontà, si sarebbe forse estinta per una di quelle malattie hameriane che solo la simbolica volontà autodistruttiva è capace di generare.
La buona traduzione di Barbara Nativi porge all’interprete genovese Elena Arvigo, attrice poco più che trentenne con qualche esperienza televisiva nelle fiction e una formazione ibrida fra danza e teatro, un testo di spilli e vetri taglienti da indossare con la gelida eleganza di una modella, abitante di una contemporaneità metropolitana e distratta.
Fondatrice nel 2011 della compagnia “SantaRita Teatro” insieme a Valentina Calvani, la Arvigo si affida alla Calvani che la dirige in un ambiente scenico forse inutilmente pretenzioso, dove la parete del fondo è di lettere mai lette, o mai scritte, una carta da parati di occasioni mancate. Alle estremità anteriori della scena due lampadari d’ottone che tiepidamente illuminano i movimenti nel proscenio. Il pavimento è terra e pavimento dissestato. Alla sinistra una serie di bussolotti sferici da estrazioni del lotto, adagiata sui quali la Arvigo inizia lo spettacolo cercando forse l’ultimo numero della sorte: ahimè, l’utilità scenica di questo oggetto, come di altri simboli di sapore didascalico (gli specchi rotti che pendono dal soffitto, per esempio) e lasciati un po’ qui e lì, è praticamente nulla.
Per il ritorno su questo allestimento che ha segnato la nascita della compagnia, l’interprete del monologo regala un’interpretazione particolarmente focalizzata sull’interpretazione vocale: questo aspetto della messa in scena è di particolare pregio, perché è la componente del travaso fra parola e teatro di maggior intensità. La Arvigo pone la sua eterea presenza al servizio di uno sforzo di concentrazione robusto, in cui la parola riesce ad essere donata al pubblico con una serie di variazioni che fanno si che non vi sia mai un adagiarsi sui toni della noia. Minore è l’esito sulla parte fisica, dove l’immersione emotiva nel personaggio non arriva a grandi profondità, un po’ come le tonalità vocali più basse, che restano le più interessanti ma le meno indagate.
E’ evidente che il timore tanto dell’attrice quanto della regista sia quello di evitare di tratteggiare un personaggio dal portato isterico e macchiettistico, e questo riesce.
Riesce invece meno il racconto fisico di un’esistenza che ha superato il bilico, che ha già deciso di tifare per l’ineluttabilità della sconfitta. Il motivo di ciò risiede nella ricerca del corpo e nei movimenti di scena di un’interlocuzione con il pubblico che è in realtà profondamente in antitesi con quel progressivo tagliare i ponti che la drammaturgia racconta.
E’ così troppo aggraziata, in quella elegante canotta rossa, la Arvigo, forse più nella parte di una morte borghese e matura à-la- Flaubert, mentre questa è una morte anche di gioventù intellettuale, algida e calcolatrice ma anche di incosciente acerbità. E’ proprio l’antitesi fra analisi matura e animalità giovane il cuore della drammaturgia. La prima è ben indagata, la seconda meno, se non in una parte recitativo-vocale che però alla fine suona un po’ virtuosistica, a discapito della ricerca delle tonalità sonore più gravi, le più interessanti della Arvigo, cui la regia (che peccato!) rinuncia. Non è l’unica pecca dell’occhio esterno, che forse manca di un’idea forte, lasciando tutto sulle spalle dell’interprete. A volte, è innegabile, l’aspetto un po’ aiuta. In questo caso no: la Arvigo ha il peccato originale di avere una dolcissima bellezza senza sfregi, un candore senza cicatrici, almeno apparenti.
E’ così che l’obiettivo di rendere il testo della Kane è centrato solo in parte, non riuscendo fino in profondità a rendere l’idea di una morte sì annunciata, ma non di un’esistenza rassegnata, ancorché segnata, profondamente segnata. Come anche quella della stessa Sarah Kane, la cui disperata passione per il non-essere non riusciamo a cogliere fino in fondo.
Di seguito il trailer video dello spettacolo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Y9TsVh8YazA]

Riapre il teatro Rossi di Pisa

VideoLogo_3

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=nXwJSn-qBUI&w=560&h=315]
Videopodcast a cura di Andrea Ciommiento

Collinarea: roccaforte del contemporaneo

ANDREA CIOMMIENTO | La misurata roccaforte di Lari si manifesta come luogo da preservare non soltanto per le sue pietre antiche. Nelle curve in salita i poeti troverebbero un tempo che non urge su di loro, poiché la fortezza del contemporaneo completa il borgo senza alcuna frenesia integrativa e urbana. La sua identità si colora di cultura grazie a Collinarea, un inventario di voci poetiche, filosofiche, musicali e teatrali curate da un ensemble artistico che depone i nomi di Loris Seghizzi, Massimo Paganelli, Marco Menini, Roberto Bacci e Luca Dini come garanti di qualità della proposta. Abbiamo seguito alcuni giorni del festival toscano in un susseguirsi di esperienze formative e performative programmate nel piccolo teatro, in piazza e nel castello dalle prime luci del mattino fino a sera inoltrata. Siamo stati gli spettatori della prova aperta di Teatro Forum e Tecniche di Teatro dell’Oppresso, il laboratorio curato da Barbara Aimone, Silvan Verdier e Leonardo Coppo in collaborazione con il Centro Studi Sagara e la Compagnie du Théâtre de l’Intention volti alla pratica di risoluzione dei conflitti umani attraverso lo strumento teatrale e il coinvolgimento attivo dello spettatore, un lavoro che ricerca nuove procedure di linguaggio scenico ma che rischia di ingolfare il motore poetico che sta alla radice dell’esperienza teatrale cedendo solamente al suo senso più politico; in concomitanza temporale un gruppo di apprendisti illustratori intuiva gli spazi di Lari guidati da Eva Montanari all’interno del laboratorio esperienziale d’illustrazione, tracciando immagini inclini alla narrazione e alla relazione con gli oggetti e i personaggi del mondo dell’infanzia.

Tra i formatori da laboratorio era presente anche Michele Santeramo (Teatro Minimo), da poco vincitore del Premio Riccione 2012 per la drammaturgia; il suo percorso ha modellato le ramificazioni della scrittura poetica, una dilatazione armonica per la costruzione di storie in dialogo fra loro. Ogni sera il programma comprendeva molteplici incontri e spettacoli (un peccato sovrapporli obbligando lo spettatore alla scelta di uno o dell’altro evento): abbiamo seguito Scene da un matrimonio di Roberto Castello, definita dal foglio stampa una performance per contesti urbanianche se quel che si palesa più chiaramente sono i quadri sciolti e sbavati di origine balcanica tra stereofonia e azioni abbozzate. Di tutt’altra pasta -“e Lari ne conosce di eccelse” direbbe la famiglia Martelli- è stato lo spettacolo Fìco. Fantasmi in carne e ossa di Loris Seghizzi per Scenica Frammenti: un gioco profano dedito al non-dialogo tra generazioni e alle considerazioni sacrileghe sulle morti di Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro fino alj’accuse contro una generazione italiana, quella passata, impegnata a chiedersi ideologicamente tutto sulla verginità della Madonna mentre gli inglesi continuavano a chiedersi tutto su cosa fosse la democrazia, lasciando le nuove generazioni con una domanda e una chiara consapevolezza: chi ha buttato le chiavi del nostro futuro nel nostro Paese Italia? A seguire, Gengè da Uno, Nessuno e Centomila di Roberto Bacci (Compagnia Laboratorio di Pontedera), un lavoro che entra a gamba tesa nell’opera pirandelliana ponendo domande di senso sulla condizione dell’uomo e sulle sue possibili fughe per il cambiamento. Non sono mancati gli attori/autori con il loro sguardo teatrale sul mondo: Michele Santeramo (Teatro Minimo) con Storie d’amore e di calcio, un racconto da leggere a voce alta e occhi puri nel quale il calcio diviene linguaggio universale e metafora dell’incapacità di costruire integrazione nei confronti di quei clandestini che anche nel calcio sono condannati alla clandestinità; e Ascanio Celestini con Discorso alla nazione. Studio per uno spettacolo presidenziale, la nuova narrazione politica sulla tirannia e la sudditanza democratica; vi consigliamo la lettura delle nostre conversazioni sull’oralità insieme a Celestini pubblicate su queste pagine (http://www.paneacqua.info/2012/09/registrando-storie-da-portare-in-vita/).

Chiamiamo Collinarea ancora una volta “roccaforte del contemporaneo” per un’ulteriore evoluzione cognitiva: Loris Seghizzi ci svela il futuro di Lari. La creazione di un centro residenziale di produzione artistica che faccia diventare l’intero borgo un teatro a cielo aperto. Nei prossimi mesi si avvieranno le procedure di cablaggio supervisionate da Mirko Mencacci, montatore del suono discografico e cinematografico per Ferzan Ozpetek (Le fate ignoranti, La finestra di fronte), Marco Tullio Giordana (La Meglio Gioventù) e Fausto Brizzi (Notte prima degli esami). La Regione Toscana ha già approvato il cablaggio in fibra ottica di tutto il borgo medievale con l’idea di ricreare uno studio professionale per registrazioni di spettacoli musicali e teatrali.

All’interno della sezione video Arte&Culture Live abbiamo realizzato alcune microinterviste con Roberto Bacci (direttore artistico di Pontedera Teatro), Luca Dini (co-direttore Pontedera Teatro), Michele Santeramo (autore e attore del Teatro Minimo) e Loris Seghizzi (regista di Scenica Frammenti).

Michele Santeramo

http://www.youtube.com/watch?v=-GtSDugtLDQ&feature=plcp

Luca Dini

http://www.youtube.com/watch?v=BVyr00TSQYw&feature=plcp

Loris Seghizzi

http://www.youtube.com/watch?v=ztxu-O-U0Pg&feature=plcp

Roberto Bacci

http://www.youtube.com/watch?v=_jS0NhRibW8&feature=plcp

Il-richiamo-del-sangueFRANCESCO MEDICI | A partire dalla primavera del 1915, tutti gli armeni che risiedevano nelle province orientali della Turchia furono espropriati di ogni bene e costretti a trasferirsi in presunti campi speciali appositamente costruiti per loro. In realtà, una volta prelevati dalle loro abitazioni, gli uomini vennero separati con la forza dalle loro famiglie e trucidati, mentre le donne e i bambini dovettero affrontare lunghissime “marce della morte” attraverso le montagne e l’infuocato deserto siriano. Arresti, deportazioni e massacri furono eseguiti dai Giovani Turchi (sotto la supervisione di ufficiali provenienti dalla Germania, fedele alleata dell’Impero ottomano), principali colpevoli di quello che, secondo la storiografia odierna, è da ritenersi, con oltre un milione e mezzo di vittime, il primo genocidio del XX secolo.

Prima che vengano emessi gli ordini di deportazione contro gli armeni, i Boghosian vivono in una casa di proprietà ad Adapazari, città della Turchia nord-occidentale. Il capofamiglia, un bottegaio rimasto vedovo, si prende cura delle due figlie, Aghavni e Shakeh, rispettivamente di otto e sei anni, coadiuvato dalla nonna delle bambine, che abita con loro. La quiete della loro routine familiare viene bruscamente interrotta in un’«alba di sangue», quando, «dalla sera alla mattina, tutti gli abitanti del quartiere, grandi e piccoli, si prepararono alla partenza». È questo l’inizio della tragedia, per i Boghosian e per i loro compagni di sventura, che, ridotti a «mendicanti», scortati e vessati dagli spietati gendarmi turchi (molti dei quali erano ex galeotti, delinquenti comuni e stupratori), vengono radunati in convogli e obbligati a compiere a piedi un viaggio sfibrante verso Deir ez-Zor (attuale Siria nord-orientale), «la fossa comune degli armeni». Alla fatica si aggiungono gli assalti dei banditi lungo la strada, i lavori forzati, le reiterate violenze su donne e bambine, le esecuzioni sommarie. Ogni tentativo di fuga si rivela vano e in tanti, tra indicibili sofferenze, si lasciano morire durante il cammino.
Dopo aver seppellito con le proprie mani l’amatissima nonna e aver dovuto abbandonare il corpo esanime del padre in strada, le due sorelline sono ormai sole, ma non perdono il coraggio. Tuttavia, quando giungono nella città siriana di al-Bab, presso Aleppo, Shakeh scompare, rapita da alcune zingare. La stessa sorte tocca ad Aghavni che, dopo essere stata marchiata sul viso («portavo in fronte quel tatuaggio che incideva nel mio volto il segno dell’infelicità e della spoliazione di un intero popolo»), viene venduta a un ricco arabo di Aleppo, Hamid Bey, i cui familiari la tengono al sicuro nella loro casa fino al 1918. La giovane cristiana resterà sempre grata ai suoi ospiti musulmani: «È vero che parlavano una lingua diversa dalla mia, ma mi avevano trattato come una figlia. La differenza tra il popolo arabo e il popolo turco era notevole. La famiglia di Hamid Bey apparteneva ad un popolo nobile a cui il [nostro] popolo tributerà ogni onore negli anni venturi».
Aghavni, ormai dodicenne, viene iscritta alla Scuola Secondaria di Istanbul, dove nasce la sua passione per la medicina, ma le disgrazie per la sua gente non sono ancora finite. Sotto il governo di Kemal Atatürk, fondatore e primo presidente della Repubblica Turca (1923-1938), «a causa della guerra tra greci e turchi, noi armeni fummo immolati come nuovi martiri […] vittime di una nuova carneficina». Aghavni, che aveva studiato per tre anni presso il Dipartimento di Infermieristica dell’Istituto Americano di Arnavutköy, a seguito dei decreti governativi che ordinano la chiusura del Dipartimento, deve proseguire il corso di specializzazione in medicina nell’ex ospedale tedesco di Saraysilva, sempre a Istanbul, dove lavora fino al 1929. Viene poi chiamata a rivestire incarichi prestigiosi presso diversi ospedali della Siria e del Libano, fino alla nomina, nel 1944, di direttrice della Facoltà di Infermieristica dell’Università di Damasco (per due mesi è perfino designata come infermiera personale dell’allora presidente siriano Shukri al-Quwatli). Ed è proprio una sua studentessa, Layla, a riconoscerla, grazie a un istintivo «richiamo del sangue», come sua zia e a condurla ad Aleppo, dove Aghavni può riabbracciare la sorella Shakeh, ormai felicemente sposata con un arabo musulmano e madre di sette figli.
Quando, nel maggio 1945, a Damasco, scoppia l’insurrezione contro il mandato francese, ad Aghavni è affidato il compito di allestire l’ospedale per le emergenze e il suo operato viene elogiato dal presidente al-Quwatli, alla presenza di tutti i ministri: «Ecco una figlia del popolo armeno che ha rischiato la vita tra le esplosioni per venire a salvare la vita a quattrocento uomini» (i pazienti ricoverati erano rimasti infatti senza cibo né medicine). Ma per la donna si tratta di un debito di gratitudine: «In Siria […] abbiamo trovato una terra e una Patria, e abbiamo convissuto con il popolo arabo al quale siamo sempre riconoscenti per averci permesso il riscatto di una vita nuova».
Eppure, come noto, la Turchia si rifiuta tuttora di attribuire a quei massacri lo status di genocidio (la sua posizione negazionista resta una delle principali cause di tensione tra l’Unione Europea e il governo di Ankara). Quello degli Armeni è stato perciò definito da alcuni studiosi un “lutto incompleto”, non potendo i primi porre fine al proprio cordoglio finché la tragedia e le ferite subite non saranno riconosciute dai discendenti delle persone che ne sono state artefici. E ciò pare trovare conferma nelle parole della Boghosian: «Al popolo che ha perso l’onore conviene non vivere. Una simile sofferenza e tale offesa non potranno lasciare in pace il nostro animo se non dopo che si sarà compiuta giustizia piena».
“Il richiamo del sangue” – pubblicato per la prima volta nel 1998 dalla Casa Editrice Cilicia di Aleppo, nella versione originale araba dal titolo “Nida’ ad-Damm” – esce ora in Italia in un’edizione curata da Kegham Jamil Boloyan (Aleppo, 1960), arabista armeno naturalizzato siriano, attualmente docente di Lingua e Traduzione Araba presso l’Università degli Studi del Salento (Lecce). L’agile volumetto inaugura una nuova collana dell’editore barese F.A.L. Vision, “I volti e le tracce”, diretta dallo stesso Boloyan, che ospiterà opere utili a promuovere la conoscenza del Vicino Oriente nei suoi molteplici aspetti: storia, società, lingua, letteratura, arte, fede e tradizioni.
E c’è da augurarsi che una così encomiabile operazione culturale, intrapresa in tempi così bui, possa realmente servire a capovolgere i tanti luoghi comuni e le mistificazioni e a favorire un dialogo costruttivo tra Occidente e Oriente, se è vero che, come recita il passo biblico scelto come epigrafe a fronte del libro, «il giusto sarà sempre ricordato» (Sal 112,6).

Il richiamo del sangue. Ricordi… dal Genocidio armeno 1915, introduzione e cura di Kegham J. Boloyan, traduzione dall’arabo di Sabrina Coletta e Kegham J. Boloyan, revisione del testo italiano di Francesca Piccoli, F.A.L. Vision Editore, Bari 2012, pp. 96, € 10,00.

Teatrocanzone al piccolo festival di Carloforte

Il piccolo festival di Carloforte, che si è concluso la settimana scorsa è un po’ l’ultima folata d’estate, e il segno di una stagione che sta iniziando. E’ per questo che da un paio d’anni ci piace testimoniarlo, anche perché incorpora un sentimento di medietà, di dialogo pacifico e concreto fra le arti.
La scelta della direzione artistica di Susanna Mannelli è da sempre infatti quella di cercare una sorta di linguaggio cross over, “ammischiato”, di cui sono da anni incarnazione gli ospiti fissi, i Camillocromo, una compagnia di musicisti, divertenti e divertiti jazzisti, che ha deciso di vivere la sua passione in maniera non convenzionale, creando una serie di performances di strada, condite di sketches, sequenze ironiche, taglienti ragionamenti sull’illogicità del vivere che trovano poi risoluzione in alcune gag che sono i loro cavalli di battaglia, e in un repertorio che ogni anno si arricchisce di qualcosa.
Alla fine dopo un anno li rivedi, rivedi la sequenza dell’uovo che prima si palleggiano fra loro, poi buttano nel pubblico che miracolosamente lo salva, per ributtarlo sul palco dove uno di loro miserabilmente fallisce la presa, per poi giocare sul senso di colpa. O la fuga in la minore, quando al tocco di bacchetta del maestro i musicanti iniziano a correre di qua e di là. Ovviamente dietro c’è il jazz, flessibile ed estroverso veicolo di interazione, capace di ammorbidire un pezzo classico, di accompagnare serenate notturne e divertimenti al chiaro di luna. Ma è proprio la medietà, la capacità di farsi interpretazione che è quanto chiaramente interessa Botti du Schoggiu, la direzione artistica del festival. Interpretazione, decodificazione, veicolo.
Fra le performance che questa volta ci hanno più interessato, senz’altro segnaliamo quella di teatro-canzone dell’Armeria dei Briganti, di Renzo Cugis & Co.
Ci ha interessato perché dopo il sasso lanciato nello stagno da Dario De Luca a Castiglioncello, riteniamo utile riprendere a segnalare quell’incontro fra canzone, ottima musica e capacità di interpretare. Onestamente siamo sicuri che quella cui l’Armeria dà luogo non voglia in alcun modo definirsi teatralità. Eppure gli ottimi musicisti che compongono la band, che esegue jazz figlio di Reinhardt e Grappelli, è al servizio di un progetto che trova innegabilmente forza nella presenza scenica di Renzo Cugis. La band, (Renzo Cugis: Voce e Chitarra Samuele Dessì: Chitarra e Voce, Andrea Murru: Chitarra,Mandolino e Voce Stefano Piras: Chitarra, Ukulele e Voce, Andrea Lai: Contrabbasso e Voce, Diego Deiana: Violino e Fisarmonica, Mario Marino: Batteria) le cui sonorità si fanno rotonda e amalgamata capacità di auto centrarsi, è un po’ come l’auriga di Ben Hur, in quella storica sequenza in cui il condottiero visita di notte i suoi cavalli e ne sussurra le caratteristiche vincenti uno per uno.
Così la travolgente irruenza della sezione elettro-zigana, di cui si fanno interpretazione lo straordinario violino di Diego Deiana e la chitarra elettrica di Samuele Dessì, si contrappone una ritmica ed operaia solidità nella sezione ritmico-acustica. Fin qui un’ottima band.
Poi arrivano i testi di Cugis, che un po’ come quelli di Gaber, sanno raccontare in forma ironica e dissacrante di un’auto-infermità al limite dell’immaginario. Ma a differenza del malato, nel caso di Cugis, a quanto pare sono stati gli altri a “battezzarlo” gracile e a considerarlo destinato ad un futuro di mille precauzioni. Di qui l’inno al desiderio malsano, quel “Fumerò!” che dopo un po’ ti entra nella testa e ci rimane anche dopo qualche giorno, perché imprecazione a ritmo di jazz manouche.
E le mille altre disavventure, come il cane indipendente, le storie d’amore implausibili, il lavoro precario, la lettera all’avvocato per un’ingiunzione di pagamento. In questo concerto-spettacolo tutto gira.
Certo il pelo nell’uovo va trovato, proprio in onore alla malsana voglia di sentirsi malati e imperfetti, come l’acerbità del cantante sugli armonici più bassi, o una certa modularità compositiva che pure potrebbe essere infranta con più frequenza a tutto vantaggio di un terreno sperimentale cui i musicisti sono ciascuno per sua via inclini.
Ma l’esito spettacolare ha una ragguardevole capacità di attrazione, e non solo per il talento assolutamente involontario ma innegabile di Cugis, quanto per quel senso di fragilità che da sempre ha accompagnato questo genere.
In fondo da Gaber a Capossela, incrociando Sergio Caputo, tutti coloro che si sono fatti interpreti di questa modalità di comunicazione con il pubblico hanno raccontato non storie di supereroi, ma eroici atti di basica e tragicomica umanità. E quindi persino l’atto del pestare la merda, per l’Armeria dei Briganti diventa emblematica metafora di quanto si vuol dire: perché tutti hanno una loro camminata, ciascuno cammina a suo modo, ma dopo che hai pestato una merda camminano tutti uguale. E’ quel minimo comun denominatore dell’umanità che Cugis canta. I suoi testi partono dall’autobiografia per diventare aut’ognuno_biografia, scrittura della sfida titanica alla sfiga, al destino, al trovarsi proprio malgrado a cantarsela e a suonarsela. L’Armeria dei Briganti propone uno spettacolo da vedere. Che può essere ospitato in un locale jazz dalle frequentazioni sofisticate ma anche in un teatro metropolitano. In una stagione cross over, come quella che propone Botti a Carloforte da quasi vent’anni. Senza pentimenti.
Di seguito il video di un brano de L’Armeria dei Briganti

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=hN3BVGd56c0]

Roberto Bacci (Pontedera Teatro)

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=_jS0NhRibW8&w=560&h=315]
VideoLogoVideointervista a cura di Andrea Ciommiento

Loris Seghizzi (Scenica Frammenti)

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ztxu-O-U0Pg&w=560&h=315]
Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Michele Santeramo (Teatro Minimo)

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=-GtSDugtLDQ&w=560&h=315]
Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Luconi: la mia Radicondoli “senza complotti”

Un programma ambizioso, che spaziando fra generi musicali è riuscito ad estendersi per due fine settimana fra fine luglio e inizio agosto a Radicondoli. Quella che per anni è stata “la casa” di Nico Garrone, dopo alcuni anni in cui tenacemente la fedelissima Anna Giannelli ha tenuto accesa la fiamma della presenza di senso, è ora affidata alla direzione artistica di Massimo Luconi, regista e direttore dell’organizzazione e della progettazione al Metastasio di Prato. Lo abbiamo intervistato in un confronto sincero e senza peli sulla lingua, come è d’uso in Toscana.
Massimo, partiamo dall’ultima domanda che in questo tipo di interviste tipicamente si fa: ma chi te lo ha fatto fare? Qualche agiografo dice che in fondo tu sei sempre stato vicino a questo festival… Ma da questo a caricartelo sulle spalle ce ne passava!
A volte ci sono dei progetti che ti chiamano in maniera non razionale. Non succede spesso, ma qualche volta le cose si svolgono, in modo naturale, investendo gli aspetti e i legami profondi delle amicizie e dei ricordi. Gli africani credono nel potere dei geni del luogo e penso che non abbiano torto, del resto il mio rapporto con l’Africa è molto frequente… Oggettivamente il ruolo di direzione era vacante e il festival  aveva  soprattutto urgenza di un riassetto della distribuzione delle risorse e della struttura tecnico/organizzativa. Mi sembrava poco corretto  non impegnare la mia esperienza, anche se ci ho pensato molto perchè mi ha scombinato non poco i programmi estivi. Sapevo che sarebbe stato faticoso.
Cosa ha ispirato la direzione artistica di quest’anno, per un festival che è stato comunque ambizioso, pur nella poca disponibilità finanziaria, immaginiamo?
Credo  che il teatro debba ritrovare la focalità nella poesia e nell’emozione del lavoro dell’attore,  in rapporto intimo e coinvolgente con il pubblico.  Senza schematismi o particolari ideologie, volevo portare  altri sguardi, nel modo di fare teatro utilizzando, come spesso è successo anche per le mie regie,  il fascino dei  luoghi naturali come set scenografici, con progetti speciali pensati o  ripensati per il festival. Il budget era veramente esiguo, ma ho trovato la disponibilità e la collaborazione di tutti a stabilire un rapporto diverso e meno incentrato sulla circuitazione e sul  peso del cachet. La buona immagine del festival, oltre alla mia storia personale,  hanno  sicuramente aiutato.

Adesso una domanda un po’ scivolosetta, come sempre si deve in un’intervista seria: quest’anno alcune grandi direzioni di stabili in Toscana si sono avvicinate a festival storicamente indipendenti, entrando direttamente nella direzione artistica. E’ il caso di Pontedera con Lari, il tuo con Radicondoli. Non pensi sia una cosa che per certi versi può impoverire gli spazi per così dire più liberi e fuori dai circuiti guidati dai centri di raccordo maggiori, riportandoli troppo all’interno di percorsi “addomesticati”? C’è pericolo di qualche “combine” di troppo fra produzione – circuitazione – promozione?
In generale penso che i rapporti di collaborazione e di partenariato non debbano essere sempre intesi in senso negativo come soffocamento delle  autonomie. Il Metastasio non ha nessuna mira espansionistica su possibili luoghi satelliti ma, come teatro Stabile  regionale, ( uno dei pochi che non ha teatri collegati) dovrebbe avere una visione allargata stabilendo rapporti dentro un  concetto di rete, in un equilibrio armonico con il territorio.  Attualmente non ha comunque rapporti con il festival di Radicondoli.
La domanda non è scivolosa ma è un pò da giornalista mestierante che cerca ombre e complotti dietro l’angolo e dietro ogni cambiamento (te lo dico con simpatia e un pò con l’ironia di 35 anni di lavoro alle spalle). Se analizzi il programma puoi  ben vedere che non c’è nessun rapporto con Il Metastasio, se non il prestito  di quattro pedane.

Oltre ad un megaparcheggio da 600 posti, di cosa pensi abbia bisogno il festival di Radicondoli per le prossime edizioni? Che sfide pensi di voler e dover affrontare e chi vuoi a fianco?
Il parcheggio lo stanno facendo, non da 600 posti, ma fortunatamente con attenzione al senso estetico. E’ un po’ presto per pensare al futuro devo ancora riprendermi dalla fatica. Sicuramente Radicondoli deve conservare una forte attenzione ai fermenti del contemporaneo, sottolineando un ruolo di officina creativa aperta anche all’incontro dei generi e alla commistione dei linguaggi.  L’impegno  è di superare il concetto e la struttura della rassegna effimera, per affermare un uso diverso dell’avvenimento culturale e ripensare alla cultura come un culto,  una pratica che non si riduce al puro uso, lavorando all’idea  di incontro/festival,  come a un mezzo, unico  ed eccezionale, che permette, di far crescere una comunità.

Il momento di questa edizione in cui hai detto: “Cavolo, che maledetta magia il teatro!” è stato quando…

Ci sono stati molti momenti di forte coinvolgimento, dove mi è arrivato il piacere e l’emozione del pubblico. L’ultima sera per il racconto di Elisabetta Salvatori su Campana con un vento fortissimo e con inizio alle 23, pensavo che non sarebbe venuto nessuno, invece i posti erano esauriti. Ecco, ho pensato,  il festival è nel cuore di Radicondoli.

Luca Ronconi: il maestro del tavolino

Ronconi_2ANDREA CIOMMIENTO | Ai profani del linguaggio scenico Luca Ronconi non rappresenta il maggior esponente del “teatro di regia” bensì il maestro delle “prove a tavolino” dal momento che tutti, ma proprio tutti i suoi allievi vicini e lontani, racconterebbero ad ogni improvvido passante le indimenticabili ed eroiche gesta delle lezioni esegetiche dagli intenti filologici e storici in corollario alla recitazione risolutiva interpretata dallo stesso artista, anch’essa rigorosamente deposta sul pancone novecentesco. Quel che rimane allo spettatore orfano sarebbe solo una parte del tutto ovvero la rappresentazione serale, unica e parziale consolazione di viaggio ai confini dell’umana interiorità presente in prova (a detta degli allievi). Saranno gli occhi esordienti -volutamente schietti e certamente ingannevoli- a voler comprendere un po’ di più un teatro che affascina e fa stupire il blasfemo e non solo il discepolo, proprio perché allo straniero della scena (quello vero) poco importa dei tavolini e delle cassepanche dietro le quinte. Abbiamo così pensato di interpellare direttamente Lui, il direttore del Piccolo Teatro, da poco vincitore del Leone d’Oro alla Carriera 2012, convocato dalla Biennale Teatro di Venezia come uno dei cinque maestri del Laboratorio Internazionale (dal 4 al 13 agosto). Dileggio della nostra sorte, incontriamo il Maestro proprio accanto a un tavolino per poi allontanarci dal borbogliare dei presenti e riflettere insieme sulla questione pedagogica e artistica, riportando al centro del confronto la trasmissione di un sapere tanto antico quanto contemporaneo.

In questo Suo laboratorio gli allievi attori hanno avuto la possibilità di confrontarsi con quattro giovani registi che stanno muovendo i primi passi nel mondo del teatro. Da cosa nasce il desiderio di supervisionare in penombra questi giorni? Per prima cosa sono curioso di vedere come lavorano dei registi che non conosco. Quindi da una parte la curiosità e dall’altra mi pare che sia giusto. Anche perché ovviamente quando lavoro con gli attori devo trasmettere la mia esperienza di regista ma mi interessa anche vedere come dei miei colleghi più giovani si rapportano agli attori.

In riferimento alle nuove generazioni, come potrebbe definire un teatro mortale e un teatro vitale? Questo bisogna chiederlo al pubblico e non alle persone di teatro perché il teatro vitale è quello che fanno loro mentre quello mortale è quello che fanno gli altri (sorride).

I Suoi ultimi spettacoli portano la firma drammaturgica di Rafael Spregelburd, un amico teatrale che abbiamo avuto modo di conoscere a Buenos Aires ancora prima del suo debutto italiano al Piccolo Teatro e alle premiazioni Ubu. È innegabile il Suo interesse alla nuova drammaturgia, in che modo si è avvicinato alla scrittura dell’autore argentino? Non dico che Spregelburd sia il più importante autore contemporaneo ma sicuramente è il più contemporaneo degli autori che scrivono per il teatro. Parlo degli autori che scrivono per il teatro ossia immagino che, essendo lui stesso regista e attore, scriva un teatro tuttora fondato sul testo, sugli attori e su una drammaturgia solida al contrario di un teatro attuale, diciamo, in cui è presente solamente l’effervescenza dell’emozione immediata; una forma estremamente interessante ma non totalmente contemporanea.

Cosa intende con “drammaturgia solida”? Se c’è un autore tipo Spregelburd che ha un seguito in cui il pubblico si riconosce, allora vuol dire che è un autore in cui il pubblico si riconosce.

A proposito di pubblico, in un tempo di abusato linguaggio a base di spending review e rinnovamento del mondo, la sobrietà economica nella produzione di spettacoli crede sia un aspetto che interessi lo spettatore-cittadino? Non saprei cosa rispondere a questa domanda… (Sorridiamo entrambi) La sobrietà… (Ronconi riflette) Generalmente essere sobri significa non essere ubriachi.

Certamente, quindi a livello economico… A livello economico è qualche cosa che si può fare e che non si può fare. Mi capita di fare spettacoli… (Il regista riflette nuovamente) Diciamo, se sobrietà è la solita questione fra chi è ricco e chi è povero, si possono fare degli spettacoli interessanti ricchi e degli spettacoli orribili ricchi. Allo stesso tempo degli spettacoli importanti poveri e degli spettacoli orribili poveri. Quindi per comprenderci meglio: la sobrietà non è un carattere artistico.