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venerdì, Settembre 20, 2024
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Variabili umane in trans-formazione

ELENA SCOLARI|La Compagnia Atopos, ospite al Teatro India di Roma l’11 dicembre, nella serata conclusiva del Premio Dante Cappelletti 2011, va in scena dopo essere stata all’Atir Ringhiera di Milano, con Variabili Umane – scene di ironico strazio, d’odio e d’amore, il progetto vincitore della passata edizione, per la regia di Marcela Serli.

La regista argentina Marcela Serli ha tenuto vari laboratori sull’identità di genere per indagare l’interiorità di donne e uomini eterosessuali e non, transgender, travestiti. E ha compiuto la decisione ardita di farne uno spettacolo, con quindici persone in scena, per riflettere in maniera teatrale e “pubblica” sul tema – complicatissimo – del maschile e del femminile.

Abbiamo visto “Variabili umane” in un Teatro Ringhiera pieno e caloroso nonostante la fitta nebbia che avvolgeva l’intero Gratosoglio, pubblico attento e complice, ma noi, che siamo puntigliosi per mestiere, abbiamo avuto varie perplessità.

Abbiamo apprezzato molto la scelta di presentare in maniera piuttosto sincera e diretta un argomento così complesso e delicato come l’identità di genere con le tante sfaccettature delle situazioni di vita di persone che scelgono di cambiare sesso, che stanno cambiandolo, che affrontano con coraggio la terribile difficoltà di non corrispondere, interiormente, al proprio corpo, all’ “involucro” che la natura ha dato loro. Le quindici persone in scena, la loro varietà, sono l’aspetto più interessante del lavoro: una commistione, allegra, profonda e reale, di attori professionisti, danzatori, dilettanti, persone comuni, ex prostitute, un gruppo ricco e che non può non incuriosire. La sincerità però, sfocia troppo spesso nell’ingenuità, alcune brevi riflessioni compaiono nel testo, ancora disorganico, ma non sono abbastanza approfondite, le vite di queste persone vengono presentate per accenni, anche ironici, ma di nessuno di loro riusciamo veramente a capire la difficoltà, lo strazio, la liberazione. Li intuiamo soltanto, intravediamo che esiste un mondo affollato di emozioni e di pensieri che però sono mostrati allo spettatore in maniera molto schematica, l’effetto che si ottiene è duplice: da una parte rimane la sana curiosità di capire meglio queste vite in mutazione, l’incredibile groviglio di chi si sente così a disagio con se stesso e con gli altri da sottoporsi ad un percorso incredibilmente faticoso e difficile, dall’altra si ha la fortissima impressione che sia molto comodo applaudire questo spettacolo perché tutto sembra troppo semplice, sembra addirittura banale sentirsi vicini, solidali e privi di pregiudizi, ma quando vedremo una donna transessuale di 1 metro e 90 a fare la cassiera, la commessa o l’avvocato senza dare di gomito al nostro vicino?

Dal punto di vista teatrale Variabili umane ha alcuni momenti belli, commuove la danzatrice Noemi Bresciani che progressivamente si spoglia di abiti maschili per rivelare la sua identità di femmina, danzando intorno alla ferma affettuosità di una transgender, colpisce la scena finale in cui tutti rivelano la loro nudità di persone, annullando le differenze. Non troviamo invece indovinata l’idea di confezionare il tutto come una sorta di casting per uno show, la regista-drammaturga Marcela Serli si ritaglia un personaggio esterno, fuori dalla scena, che dovrebbe guidare l’andamento ma che non riesce ad essere davvero parte dell’insieme.

In conclusione auguriamo a questo laboratorio/spettacolo, anch’esso in transizione,  di potersi sviluppare diventando più fluido e sferzante.

I burattini con l'anima dei Burambò

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BRUNA MONACO | Chi non conosce la storia di Pinocchio scagli la prima pietra, potrebbe dire un Messia che volesse star sicuro dell’ordine delle sue pietre. Tutti hanno letto il libro di Collodi e, achi non avesse dimestichezza con la lettura, ci ha pensato Walt Disney. Il bambino di legno ha attraversato tutto il mondo.

Questo di Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli della compagnia Burambò è un Pinocchio diverso. Sicuramente non è quello di Walt Disney (come precisano loro stessi prima di cominciare), ma non è neppure una riproduzione pedissequa di Collodi. La vicenda dello scrittore fiorentino è decostruita, vediamo al contempo la storia e lo sguardo sulla storia. E lo sguardo è quello di Pinocchio. In che modo un personaggio, se potesse, racconterebbe la propria storia? Cosa ometterebbe, che ordine seguirebbe? Queste le domande a cui i Burambò, attraverso questo riuscitissimo “Secondo Pinocchio”, cercano di rispondere.

“Secondo Pinocchio” inizia, il nostro protagonista di legno è a quattro zampe (è un burattino intero, ha anche le gambe). Ha un laccio intorno al collo, abbaia al cielo, il suo verso è disperato. “Pinocchio, cosa fai?”. “Sto facendo la scena in cui il contadino mi lega al palo e mi dice di fare il cane”. “Ma Pinocchio, questa scena non c’è più, l’abbiamo tolta, avevi detto che non volevi farla…”. E via una discussione su come impostare la messa in scena, come raccontare la storia, come dare ordine alla ressa dei ricordi: se del tuo passato non fai racconto, un racconto che tu possa guardare e ascoltare come uno spettatore, è difficile trarne il senso. Ma si tratta di una discussione intima, non di una diatriba intellettuale: il Pinocchio dei Burambò sembra il figlio di una famigliola felice.

I confini del baldacchino disegnano la cornice di un grazioso quadro di famiglia, mamma (Daria Paoletta, attrice e manipolatrice) e papà (Raffaele Scarimboli, creatore degli splendidi pupazzi e burattini, oltre che attore e manipolatore) che giocano a mettere in scena la vita della loro esuberante creatura. Pinocchio decide di iniziare a raccontare la sua storia dall’inizio, per bene: allora ecco apparire un ciocco di legno, un manto di neve, Geppetto. E mentre la sua storia fa i primi passi, Pinocchio, che ha ottenuto il permesso di stare a guardare, è seduto in cima al baldacchino, ciondola le gambe e si diverte come un matto. Vede il proprio alter ego in scena. Vede la sua vita, per come lui la ricorda e la interpreta, farsi teatro grazie all’aiuto dei suoi stessi manipolatori.

Come un bambino vero Pinocchio piange e ride, vibra, come scosso da un fremito autentico. A tutti, grandi e bambini, viene voglia di consolarlo, abbracciarlo, coccolarlo. Quasi ci dimentichiamo che dietro di lui c’è la bravissima Daria Paoletta. Ce ne ricordiamo solo quando si apre la tenda, e la manipolatrice/attrice viene fuori col viso arrabbiato, a sgridarlo per qualche sua monelleria. E mentre ridiamo di cuore, capiamo che in teatro un burattino può sembrare, e quindi essere, un bambino più vero del vero.

A fine spettacolo, Pinocchio non si trova più. Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli temono che sia diventato un bambino vero, e che sia scappato. Non se ne fanno una ragione, lo cercano fra i bambini del pubblico: vogliono convincerlo a tornare burattino. Perché diventare un bambino come tanti, quando può restare Pinocchio? Nel libro di Collodi, nonostante la sua carica disturbante, alla fine emerge la morale che vede nella normalità un valore: per il suo Pinocchio diventare un bambino come tutti gli altri è una conquista. Ma oggi, davanti a tanta uniformità culturale, essere eccezionali, diversi, è meglio che essere normali, omologati. Rispettando le forme esterne della narrazione, i Burambò ribaltano il senso stesso della fiaba, cioè che essere bambini sia meglio che essere un burattino. E del resto, perché mai dei teatranti dovrebbero considerare il burattino un essere inferiore e non invece il migliore dei possibili compagni di lavoro? Non è un caso che, nella versione dei Burambò come nella vicenda collodiana, la trasformazione in bambino, e dunque l’irruzione della normalità della vita, segna la fine della storia.

“Secondo Pinocchio” è uno spettacolo intelligente e caldo. Per questo è in grado di emozionare il pubblico infantile ed appassionare gli adulti. Lo svelamento del trucco che sta tanto a cuore alle nuove realtà europee di teatro di figura, qui è alla base del rapporto fra i personaggi, è l’ossatura stessa dello spettacolo. Ed è proprio rinunciando alla magia del trucco che “Secondo Pinocchio” si apre a un pubblico adulto. Pubblico a cui i Burambò mirano già da un po’ stando ad una delle loro recenti creazioni, l'”Alcesti”, creato espressamente per adolescenti e adulti. La qualità del lavoro di Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli è indiscutibilmente alta, su tutti i piani, dalla drammaturgia, alla recitazione e manipolazione delle figure, alla regia. Ma, forse, la lezione più importante di “Secondo Pinocchio” è che per farle sembrare vere, bisogna volere bene alle proprie creature, siano esse burattini, marionette, personaggi.

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Muta Imago: quando l'immagine da sola non basta

2_2displaceBRUNA MONACO | È passato un anno da “Displace # 1 La rabbia rossa”. Era sempre il Romaeuropa Festival, sempre i Muta Imago, ma allora si trattava di uno studio, prima tappa di un progetto che si è concluso questo 25 novembre al Teatro Vascello, con la prima assoluta di “Displace”.

La voce di una cantante lirica (Ilaria Galgani) apre lo spettacolo mentre il palco è buio. Dopo un po’, le luci sapienti di Claudia Sorace (è lei i Muta Imago, insieme al drammaturgo Riccardo Fazi) svelano qualcosa della scena: un muro, sembra antico, sembra ci siano delle incisioni. Poi non sembra più un muro ma un telo. Oscilla. O è solo un gioco di luci? Sono proiettate dall’alto, dal basso, da destra, sinistra, cambiano e sono fluide. Cambiano e cambia quello che vediamo. Poi il muro si sgretola insieme all’illusione che sia un telo, in terra restano solo macerie. Su queste macerie appaiono quattro sagome umane. Si vedono a malapena, le luci sono debolissime, boicottano i loro movimenti come a volerle nascondere.

Le quattro sagome si muovono da felini, rovistano fra le macerie, le illuminano con delle torce da minatori. Subiscono gli attacchi di musiche assordanti e fari rossi, fastidiosi, che colpiscono anche il pubblico. Agitano delle fruste, rivolgono al pubblico sguardi disperati. Poi dal soffitto cascano quattro cavi, all’estremità dei ganci che le performer legano a un telo, per terra, finora invisibile. I cavi tirano su il telo che forma la prua di una nave. La nave che trasporta le schiave de Le troiane, il testo di Euripide a cui, in modo sommerso o vago, “Displace” rimanda.

È uno spettacolo tripartito. La prima parte riflette sul mondo sgretolato di cui ci affaccendiamo a raccattare pezzi. La seconda, sulla rabbia che nasce dallo stato di cattività e spaesamento in cui ci troviamo oggi. La terza intravede nella fuga l’unica e necessaria soluzione, che rischia però di assumere i contorni di una deportazione. Temi interessanti, purtroppo mal supportati dalla messa in scena, che non sembra avere approfondito in modo davvero efficace quanto di buono emergeva in quel “Displace # 1 La rabbia rossa”. Identici i punti di forza e di debolezza. Lo spettacolo si è arricchito solo in immagini, una somma quantitativa e non qualitativa, un collezionare più che un produrre senso. Il lavoro scenotecnico, seppur non impeccabile come negli altri spettacoli dei Muta Imago, è pur sempre notevole, ma le immagini non si elevano a spettacolo.

La distanza tra quello si vede e quello che i Muta Imago vogliono dire è troppa. Forse oggi, spettacoli visionari come questi hanno bisogno di un supporto intellettuale più spesso: non essendo coinvolto in un processo intellettuale stimolante, lo spettatore è in sterile attesa davanti alle immagini, le aspetta e vuole che queste lo sorprendano. Ma l’attesa non è il terreno più fertile per la sorpresa. E del resto, la sorpresa ha vita breve: bisognerebbe proporne una dopo l’altra, una più grande dell’altra.

Il punto nodale è forse legato al pensiero che presiede questo spettacolo e molti altri del nostro teatro di ricerca. I nostri artisti sono spesso bravissimi a decostruire, svelarci l’insensatezza che presiede a ogni meccanismo narrativo. Ma viene da chiedersi: e se gli spettatori sentissero l’esigenza di qualcosa di più corposo? La vita è inintelligibile, l’essere umano un’assurdità, l’unità una finzione, ogni teoria un arbitrio. Questo non lo sappiamo già? La non compattezza del reale non è l’inferno che scontiamo ogni giorno? In altre parole, è possibile che il precariato abbia spazzato via ogni dubbio sull’esistenza di un sistema ordinato e comprensibile. E allora, al teatro non chiediamo di dirci ciò che già sappiamo. Ma di immaginare la diversità.

Resistere per esistere

immagine-51BRUNA MONACO | Le compagnie invitate a Roma per inaugurare la rassegna “Corpi Resistenti” all’interno della 26° edizione del Romaeuropa Festival appartengono a scene invisibili. Non solo perché lontane, ma perché operano in contesti in cui la libertà d’espressione spesso non è garantita: Iraq, Algeria, Tunisia, Egitto. Sono corpi che per esistere sulla scena devono resistere nella vita quelli di Selma e Sofiane Ouissi, Mahmoud Rabiey (in arte Vito), Muhanad Rasheed, Fares Fettane, i cui spettacoli si sono svolti e si svolgeranno ancora tra il Palladium e l’Eliseo, tra il 7 e il 27 novembre.

La rassegna si è aperta con un artista affermato, ospite del Romaeuropa Festival per il secondo anno consecutivo: è Radhouane El-Meddeb, in scena al Teatro Palladium con “Quelqu’un va danser”. E si concluderà con un altro acclamatissimo déjà vu per il pubblico romano, e non solo: la compagnia Zimmermann & De Perrot porterà di nuovo al Teatro Eliseo “Chouf Ouchouf”, dal 23 al 27 novembre.
Fra queste due date e questi due apici di notorietà, tanti piccoli gruppi che come stelle appena nate vanno a costituire la galassia dei “Corpi Resistenti”.

Selma e Sofiane Ouissi hanno portato uno spettacolo tecnologico, in cui l’uso della tecnologia non è una scelta ma un bisogno: una è a Parigi, a Tunisi l’altro, ma vogliono lavorare insieme. Si incontrano nell’etere e danzano via skype. Una scelta obbligata, quindi, quella di skype che diventa una felice metafora della situazione generale che sta attraversando il mondo magrebino e mediorientale. Si parla di primavera araba, condotta in larga parte dai giovani, proprio grazie ai nuovi mezzi di comunicazione online.

Le altre performance sono più tradizionali, avvengono sul palco di un teatro. È il caso di “La fin ce n’est que le commencement”
 di Fares Fettane, spettacolo per due danzatori e un violino. Una coreografia semplice dai gesti reiterati, e narrativi. La sincronia è l’elemento coreografico dominante per un rapporto non dialogico né speculare. Un danzatore e una danzatrice, pronunciano le stesse frasi nello stesso momento, ma i loro due corpi sono diversi e ognuno le carica di una sfumatura distinta.

Muhanad Rasheed invece è solo sul palco, la sua performance è brevissima. “B Dream” è quasi più uno studio che uno spettacolo vero e proprio. I movimenti scoordinati delle braccia, in un agitarsi apparentemente insensato. La tunica di stoffa pesante è carica di borotalco che, non appena si muove, si disperde intorno a lui. Come una nebulosa intorno a una stella nascente, appunto.
Infine Mahmoud Rabiey ex danzatore hip hop, in scena insieme a un chitarrista e una cantante, tenta di affrontare la complessa relazione tra dio e l’uomo.

Questi tre spettacoli sono accomunati dalla scelta di temi forti, filosofici o mistici. Anche alcune immagini si riverberano di spettacolo in spettacolo. Si tratta di una simbologia a noi in parte inaccessibile, ma sottolineata, moltissimo a volte. Come i movimenti rotatori che richiamano alla mente il sufismo. Le citazioni e rimandi alla cultura di appartenenza sono presenti e importanti. La ricerca e l’urgenza comunicativa, di sicuro gli aspetti più interessanti degli spettacoli: in un modo o in un altro, tutti, sembrano aver cercato una sintesi tra l’astrazione della danza occidentale e la narratività di quella orientale. Ma la sintesi tra due concezioni così lontane della danza e della scena è difficile da raggiungere. In conclusione, gli esperimenti non sono pienamente riusciti, ma ammirevole è la scelta, chiaramente politica, di creare la rassegna “Corpi Resistenti” e dare visibilità alla primavera araba.

"Sarabanda" di Ingmar Bergman, regia Luconi e "La colonna infame" di Teatro Invito

RENZO FRANCABANDERA | Il Sarabanda di Ingmar Bergman, visto nell’ambito della bella stagione dello Stabile di Sardegna al Massimo di Cagliari, è un lavoro compatto, composto da un primo atto di calma stagnante, ed un secondo di tempesta narrativa ed emotiva. E’ l’ultima drammaturgia scritta dal regista scandinavo, in cui la maestria del narratore di vicende umane trova affilatissima summa.
Un’attempata signora (Giuliana Lojodice) torna a far visita ad un suo ex (Massimo de Francovich). Il figlio di lui (Luca Lazzareschi) ha perso la moglie e vive con la figlia (Clio Cipolletta). Dolori, addii, mancanze, condiscono un primo atto in cui gli eventi paiono scorrere privi di una struttura portante, in un fluido seguirsi di apparizioni all’interno di una scatola scenica ben congegnata, per rendere l’idea di una stagnante situazione di immobilità emotiva. Nel secondo atto tutto si stravolgerà, grazie ad una serie di colpi di scena drammaturgici costruiti con criminale abilità, a grappolo, l’uno nell’altro, per un crescendo che la regia rende con misura e sobrietà.
Proprio per l’irrespirabile calma e la compostezza recitativa esasperata del primo atto, le scelte di regia di Luconi si comprendono e si apprezzano solo a visione completata. E’ quindi il classico lavoro che richiede pazienza, come i romanzi russi, in cui bisogna superare le famose cento pagine per poi esser presi nel vortice delle vicende psicologiche e ambientali. E’ questa l’elegante forza della produzione del Metastasio Stabile della Toscana con la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato: il saper reggere alle tentazioni dello schiamazzo e della fretta e restituire l’intensità di Bergman per intero.
Le interpreti femminili sono assai ispirate, con una menzione particolare per la giovane ma già robusta Clio Cipolletta, attrice di ottimo calibro formatasi alla scuola del Piccolo Teatro che seguiamo con grande attenzione. La Lojodice, dopo il fuori pista all’interno della rassegna romana Garofano Verde con La donna dello scandalo, tratto dal romanzo di Zoe Heller su un amore lesbico fra una donna matura e una giovanissima, continua a lavorare con bravura su drammaturgie in cui si raccontano amori non convenzionali. Forse è proprio la maggior sensibilità femminile rispetto all’umanità fragile a rendere segnare la distanza con i meno ispirati Lazzareschi (a tratti svagato e fuori giri, con un paio di entrate in scena palesemente fuori tempo) e de Francovich, alle prese con un personaggio goffo e cattivo allo stesso tempo (certo l’epifania in camiciona da notte cui è costretto è obiettivamente eccessiva), in un lavoro fatto di equilibri delicatissimi che comunque la regia legge bene.
La messa in scena è ad ogni modo assai buona, lineare, coerente, capace, come una mantide, di apparire innocua per poi ghermire e non mollare più lo spettatore che nel secondo atto non si allontanerebbe dalla sua poltrona per nessun motivo.

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La colonna infame, che Teatro Invito di Lecco ha proposto nell’ambito della stagione di Cada Die Teatro alla Vetreria di Cagliari, è un allestimento ispirato al libello manzoniano, con il quale l’autore tornò sugli episodi più oscuri occorsi durante la pestilenza che nel diciassettesimo secolo flagellò Milano, sulla scorta della sinossi documentale completata in occasione della redazione de I promessi sposi.
Allora come ora, nelle difficoltà, nei tumulti di massa, la pressione giustizialista popolare costringe il potere (inteso come entità astratta), a manifestare la sua più cupa irrazionalità per sfamare la sete di sangue, di punizione, di vendetta.
Così due poveri cristi, Guglielmo Piazza (commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (barbiere), furono presi, torturati e condannati a morte sulla base di una delazione priva di prove di alcun senso.
Il processo ebbe luogo nell’estate del 1630, mandò a morte due innocenti e sulle macerie della bottega del barbiere, rasa al suolo, fu eretta la “colonna infame” a testimonianza di quanto si riteneva fosse stato commesso dai condannati. La stele, passata la peste, a distanza di un secolo divenne in realtà testimonianza dell’infamia del potere più che dei due poveretti mandati a morte, tanto che prima di Manzoni anche Pietro Verri, nel 1778, in “Osservazioni sulla tortura” si era scagliato così profondamente contro quella testimonianza di ingiustizia, da portare alla sua rimozione.
Un testo in realtà difficile da portare in scena, come testimonia anche il poco riuscito tentativo di alcuni mesi fa al CRT, nell’interpretazione Castiglioni/Villagrossi. La rilettura di Teatro Invito, patrocinata dall’Associazione Nessuno tocchi Caino, è un’opera rock in stile anni Settanta, con musiche scritte e interpretate dal vivo da Luigi Maniglia, e affidata all’interpretazione attorale di Valerio Maffioletti, che dà vivamente corpo ai condannati, e che con grande abilità attorale riesce, con un fazzoletto, ad essere di volta in volta donna, barbiere, torturato ecc.
A Luca Radaelli è affidato il compito di interpretare sia “il potere” sia il narratore, il Manzoni giudicante, che si legge fra le righe della Storia della colonna infame. Questo compito arduo di lettura dentro e fuori, dalla cui riuscita dipende anche in gran parte l’esito concettuale dello spettacolo, non scorre però privo di inciampi. Pur supportato dalla notevole partitura musicale e dalla bella prova di Maffioletti, il tentativo brechtiano di giocare al limite fra recitazione e sospensione di giudizio non riesce fino in fondo, e l’attuale finale, con i due interpreti che si portano in proscenio a dirci, con le parole di Manzoni, quanto crudele e ingiusta sappia essere la giustizia, non arriva a pungere, ma piuttosto a far atterrare (ma sempre col dito puntato) l’emotività di un lavoro che deve essere asciugato ancora di segni e simboli, oltre che di oggetti di scena, come l’inutile (e pericolosa quando fa partire un’inopportuna scarica di batteria elettronica) tastiera.
Per gli appassionati della vicenda ricordiamo che al Museo del Castello Sforzesco, chi vuole, può ancora trovare il basamento della colonna, in cui il potere di allora, tronfio, si gloriava delle torture inferte. Come i militari delle recenti missioni “di pace” alle prese con elettrodi e prigionieri inermi, ricordati con un’abile paragone nello spettacolo.

Sarabanda, alcune immagini video
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La colonna infame di teatro Invito
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=xfRVVLl5TC0]

Au revoir Mr. Brook

laflute535BRUNA MONACO | Grandissimo regista, fondatore del Théâtre des Bouffes du Nord, a 86 anni Peter Brook realizza il suo sogno e nasce “Un flauto magico”, versione molto rivista della celeberrima opera di Mozart. È il Teatro Argentina ad ospitarlo fino al 27 novembre, all’interno del Romaeuropa Festival.

Che Peter Brook abbia scelto di anteporre un modesto indeterminativo davanti al suo flauto magico, è singolare, toccante. Grandioso. È “Un flauto magico” e non “Il flauto magico” il titolo dell’ultimo spettacolo di Peter Brook. Un enorme gesto di umiltà, amplificato perché è un artista enorme più del suo gesto, a compierlo.

“Un flauto magico” si presenta al pubblico come una possibilità, non l’unica, non la migliore, non l’indiscussa e indiscutibile messa in scena teatrale dell’opera di Mozart. Dopo aver scritto un importante capitolo della storia del teatro di tutti i tempi, l’ottuagenario regista, inglese di origine e francese di adozione, dice addio al teatro un po’ come Socrate disse addio alla vita: la ricerca di Brook non si è mai fermata. Fino alla fine, la spinta alla sperimentazione e alla ricerca hanno vinto sull’autocompiacimento e su ogni desiderio di celebrazione, di dimostrazione. D’altronde nulla da dimostrare: la carriera di Peter Brook parla da sola. E parlerà a lungo.

La celeberrima opera di Mozart è modificata nella trama, nei personaggi, nei recitativi e nella partitura musicale: solo un pianoforte sul palcoscenico a compensare l’assenza di flauti, oboi, fagotti, clarinetti, trombe, tromboni, timpani, archi… l’arduo compito di adattare le musiche, Brook lo ha affidato a Frank Krawczyck, anche esecutore in scena. Dall’abbondanza all’essenza, e naturalmente non è solo la forma a essere modificata: se ne “Il flauto magico” la musica era protagonista, in “Un flauto magico” diventa accompagnamento. E quella di ridefinire il ruolo della musica in un’opera, soprattutto se parliamo di un’opera di Mozart e se ridefinire significa ridimensionare, è una scelta aggressiva. Brook prende dei rischi: per teatralizzare “Il flauto magico” pone l’accento sulla trama, e in questa opera/non opera brookina (frutto della collaborazione con Marie-Hélène Estienne, come sempre da anni, oramai), il libretto di Emanuel Schikaneder diventa più pesante delle musiche di Wolfang Amadeus Mozart.

Opera/non opera su tutti piani, infatti, sono ridotti all’essenziale, tanto il tessuto musicale, quanto i costumi e le scenografie, i marchi distintivi dell’opera stessa. Abiti semplici coprono i corpi di cantanti e attori. Qualche canna di bambù mobile e multifunzionale si trasforma, di volta in volta, in bosco, stanza/prigione, sotterranei. Opera/non opera, ma anche teatro/non teatro: “Un flauto magico” riesce a collocarsi nel centro esatto della dialettica tra teatro e opera. L’integrazione non è raggiunta, ma forse, in fondo, nemmeno ambita. Oppure, purtroppo e semplicemente, anche per un mostro sacro come Brook valgono le leggi del mercato e il tempo delle prove non è bastato a trasformare dei giovani cantanti d’opera freschi di conservatorio in cantanti/attori degni di peter Brook.

William Nadylam (che fu Amleto ne “La Tragédie d’Hamlet” di Brook del 2002) e Abdou Ouologuem sono bravissimi. Attori 100%. La loro presenza scenica è assorbente, i loro movimenti sempre giusti in direzione e intensità. Brook ha inventato per loro un ruolo che né Schikaneder, né Mozart avevano previsto: spiriti o aiutanti di scena, sono loro che si fanno più di tutto garanti della teatralità dello spettacolo. Perché poi gli altri, i cantanti, cioè i personaggi, a cui è affidato il compito di sorreggere la storia con i loro canti e recitativi, la presenza scenica di Nadylam e Ouologuem non possono eguagliarla.

Applausi scroscianti comunque, alla fine di ogni replica. Applausi di commiato, per salutare e ringraziare un grande, immenso maestro.

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I fasti pompeiani fra onori e oblii

Pompei-Musee-Maillol-locandinaMARIA CRISTINA SERRA | Fra promesse mancate e pericoli di nuovi crolli, Pompei confida nel finanziamento europeo di 105 milioni di euro, mentre la sua “Art de vivre” brilla nel suo splendore alla mostra del Museo Maillol, in collaborazione con la Sovrintendenza per i Beni archeologici di Napoli e la Fondazione Dina Vierny (fino al 21 febbraio 2012)
Un Paese, il nostro, che periodicamente si sbriciola e frana, travolto dalle devastazioni di acqua e fango, imprigionato da endemico fatalismo e storica miopia, incline a ripudiare le regole e le
responsabilità collettive in favore di interessi privati e fasulle rappresentazioni della realtà. Nei giorni in cui cala il sipario sul grottesco “Truman show” che con le sue luccicanti luci al neon ha abbagliato le menti, corrotto i cuori e sbiadito la democrazia, sul terreno rimangono rovine e detriti difficili da rimuovere. Come metafora speculare anche i ruderi del mondo antico, “tesori superflui”, abbandonati all’incuria e all’inerzia delle istituzioni, attendono una loro “ricostruzione etica”.

Nel frattempo, l’armonia e l’atmosfera di un’antica “Domus pompeiana” è ricreata con cura attraverso un percorso che si sviluppa lungo i due piani del museo Maillol e restituisce la vivacità della vita quotidiana, partendo dall’Atrium, attraversando Impluvium, Tablinium, Triclinium, Culina, Balneum, Cubicula, Peristilium, decorati da circa 200 reperti (statue, pitture, mosaici, bronzi, marmi, utensili, monili d’oro), che raccontano tutta la ricchezza e la “normalità” di una vita di provincia e la raffinatezza della sua arte nell’apogeo dell’Impero romano. Una storia artistica sociale ed economica, qui razionalmente riassunta, iniziata attorno al VI° secolo a.C., sulla foce del fiume Sarno, nel cuore di una regione fertile e crocevia dei traffici commerciali con la Grecia e l’Oriente, travolta la mattina del 24 agosto del 79 d.C., quando il boato del Vesuvio spazzò per sempre la sua quiete e la sua fiorente industria alimentare e tessile, seppellendola sotto tre metri di polvere lavica e cristallizzandola per secoli.

Una terribile distruzione che immortalò come in un’istantanea fotografica di inestimabile valore storico un’intera città e civiltà, preservando miracolosamente “per la felicità dei posteri”, come annotò Goethe, durante il suo viaggio in Italia nel 1787, “la magnificenza degli antichi romani”, non solo quella dei grandiosi monumenti o delle dimore dell’aristocrazia, ma anche quelle “delle piccole dimore” ordinarie e modeste, dotate di comodità moderne con l’acqua corrente, riscaldamento e giardini interni. Dal mito, tramandato nei secoli, alla realtà delle prime scoperte archeologica dei suoi tesori, nella metà del XVIII° secolo, Pompei ha esercitato un fascino immutato fra viaggiatori, letterati ed artisti di ogni epoca, perché lì l’emozione di “trovarsi faccia a faccia con l’antichità”, come scriveva Stendhal, è sempre stata attuale.

La mostra allestita nel museo di Saint Germain ricostruisce con eleganza, grazie alla disposizione delle opere e ai pannelli narrativi, quell’itinerario ideale ed estetico che fra il Settecento e l’Ottocento elevò l’antica città sannitica, colonizzata poi dai romani, a “modello di vita”, in grado di suggestionare l’intera cultura europea. Così l’arte e la moda del tempo ricercarono nello studio dell’antico un’ideale armonia, fondata sulla linearità geometrica, in cui gli ornamenti, la struttura architettonica e gli arredi si amalgamavano con libertà e immaginazione.

Un importante tavolo in marmo di epoca augustea sorretto da due bassorilievi, decorati con grifoni e cornucopie, simboli d’abbondanza, prerogativa delle dimore più ricche, accoglie i visitatori all’inizio del percorso espositivo. L’attenzione si concentra quindi sul “rosso pompeiano” di un frammento di affresco sul quale spicca un “Dionysos sul trono” (protettore delle mura domestiche) di colore giallo ocra avvolto in velo azzurro,una pantera sacra ai suoi piedi, mentre impugna con la mano sinistra una lancia e con la destra un calice di vino. Perfetti giochi geometrici in rilievo incastonano figure di divinità nella grande cassaforte in legno, bronzo e ferro. Sembrano anticipare di molti secoli lo stile Liberty il sofisticato porta-lampade in argento a forma di albero, decorato da ghirlande, il leggiadro Treppiedi a base quadrata sorretto da un drago, e il tavolino tondo, singolare connubio fra rigore e leggerezza. E’ ispirato ai modelli ellenistici il cratere “a calice”, ornato da scene mitologiche con base raccolta su motivi in rilievo di palmette.

Sintesi di funzionalità ed estetica la stufa cilindrica in argento e bronzo, con coperchio mobile chiuso da un tritone e sul davanti da una porticina a due battenti, sormontata da un frontone con testa di Medusa. Si rifà alla moda greca ed etrusca la bellissima anfora a forma di testa femminile in bronzo, intarsiata minuziosamente in oro e argento, la cui luminosità è accentuata dalle pupille in pasta di vetro. Ma è anche il fascino verso la cultura egizia a ispirare la varietà dell’arte pompeiana e a definirne i contorni di “città aperta” al Mar Mediterraneo. La vita quotidiana si ricava dalle suppellettili usate per la tavola e la cucina: tegami, padelle, colini, cucchiaini simili al moderno design, coppette e bicchieri in vetro dai colori brillanti, brocche e anfore di varie forme e dimensioni, alcune specifiche per il “garum”‘, salsa ottenuta dalla macerazione del pesce azzurro.

L’importanza della religione, una coabitazione di riti tradizionali, culto per gli avi e mistiche orientali, è evidente negli spezzoni di affreschi e nei due magnifici bronzetti speculari, che innalzano i loro favori dall’alto di una doppia base ottagonale e rettangolare. Tanta grazia è spezzata dalla crudezza dei calchi rappresentanti le vittime, ricavati dalla colata di gesso nelle cavità impresse dai corpi sepolti dalla cenere. Geniale invenzione dell’archeologo Giuseppe Fiorelli, patriota rivoluzionario (nel 1848 guidò i moti liberali campani, incarcerato per due anni ne trascorse dieci da vigilato speciale), che nel 1863 con rigoroso criterio scientifico rivoluzionò le tecniche di scavo e conservazione, rendendo Pompei uno dei siti archeologici più visitati al mondo, grazie al fascino di rivivere “il giorno che si fece notte senza luna”, descritto da Plinio il Giovane, “notte che sarà eterna e l’ultima del mondo”.

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Il cubo di Bernhard

ELENA SCOLARI| Recente vincitrice del Premio Eleonora Duse 2011, Federica Fracassi è in scena al Teatro i di Milano fino al 27 novembre prossimo con il corrosivo “Prima della pensione” di Thomas Bernhard, per la regia di Renzo Martinelli. Con Michelangelo Dalisi, Irene Valotta e Francesca Garolla.

Una enigmatica bambina sordomuta (Francesca Garolla), di nero vestita e che si trasformerà in angelo della morte per il finale, ci accompagna nello svelamento di una situazione familiare bizzarra e e surreale: un grande cubo di plexiglass contiene i personaggi dello spettacolo, un cubo che è anche gabbia, acquario, prigione, ci presenta inizialmente le sorelle Clara e Vera, all’interno di un salotto che più borghese non si può, che battibeccano senza sosta.

Clara (Irene Valotta) è da anni bloccata su una sedia a rotelle in seguito ad un bombardamento degli alleati che colpì la sua scuola, ma è bloccata anche nell’espressione dei suoi desideri, ormai repressi e risolti con cinismo tagliente verso il prossimo. Vera è invece la sorella garrula e straripante falso entusiasmo, la Fracassi sa dare a questo personaggio toni di ironia, disincanto e isteria davvero eccezionali, il suo incessante ciangottìo è il perfetto controcanto al doloroso distacco di Clara.

La famiglia Höller gira però intorno al fratello Rudolf, ex ufficiale delle SS e ora presidente del tribunale, un po’ stolido come spesso sono rappresentati i nazisti a teatro e al cinema, rimpiange i bei tempi del lager e costringe le sorelle a commemorare il 7 ottobre di ogni anno l’eroico Himmler, altro nazista che gli salvò la vita.

Il pubblico testimone assiste ai preparativi di questa assurda festa, in cui Rudolf indossa di nuovo la divisa, si sfogliano album di foto dei campi di concentramento sorridendo di un’allegria feroce e tanto superficiale da lasciare agghiacciati.

Rudolf ripete, consapevole dell’atrocità delle sue azioni, la semplice giustificazione “eseguivo soltanto gli ordini”. Il libro “La banalità del male” di Hanna Arendt racconta proprio questa sensazione: l’incredulità di fronte alla spiazzante risposta.

L’interpretazione travolgente di Federica Fracassi offusca un po’ i pur bravi Dalisi (phisique du rộle perfetto) e Russo Arman. Una scenografia creativa e molto funzionale al testo fanno di “Prima della pensione” uno spettacolo interessante e intenso.

Non ci ha convinto del tutto la ripetitività del gesto di Olga, la bambina che ci svela e nasconde il cubo degli Höffer tirando una tenda, alla lunga risulta un po’ stucchevole.

Bernhard è sferzante, raggiunge un punto di sgradevolezza altissimo proprio perché rimane ironico e mostra una famiglia ancora perfetta nella forma ma sfasciata nella morale: rapporti incestuosi di Rudolf con la sorella Vera, una malcelata gelosia da parte di Clara che prima dell’incidente era probabilmente la preferita, tutti camminano ossessivamente su un vischio di ipocrisia così appiccicoso da non permettere più di staccarsene. Se non con la morte. Cristallizzata in uno dei momenti più riusciti dello spettacolo: un tableau vivant dei tre fratelli, lividi e immobili, dietro il vetro.

Spettacoli reali e potenziali

pastore_castellucciBRUNA MONACO | Per accogliere “Il velo nero del pastore”, il Teatro Vascello si è rifatto il trucco. O meglio se lo è fatto rifare da Romeo Castellucci e dalla sua folta équipe di macchinisti, scenografi e scultori. Il boccascena è baroccheggiante in marmo azzurro, chiuso ai lati da due lampade d’antiquariato a colonna, dorate. Un velluto pesante e imponente per il sipario, blu e immobile come la gonna di una matrona. E come la gonna di una matrona del Seicento, contegnosa e reverenziale, alla vista del pubblico in sala, anziché aprirsi, il sipario indietreggia in un inchino o in un debutto di danza. Il movimento è fluido, del tutto inatteso, seduce e invita lo spettatore ad accompagnare con gli occhi il balletto.

Prima di questo, protagonista della scena era stato un caotico quadrante di vetro racchiuso dal boccascena: piume e coriandoli vorticavano come i panni in una lavatrice gigante, e l’ombra di un uomo, fissa, sbandierava un drappo scuro. Ma ora davanti al sipario danzante, tutto è morbido, gradevole, rasserenante, il caos di prima è dimenticato. Ci lasciamo cullare da questo movimento che mette pace. Fino all’intoppo: la gonna della matrona indietreggiando scopre un corpo. Lo ricopre riavvicinandosi al boccascena. Di nuovo indietreggia, e il movimento non rima più a una danza, ora è terribile come una marea che avanza e ingoia la spiaggia-palco, indietreggia e la scopre, lasciando i segni del suo passaggio, detriti, piume, un cavallo morto. Poi una donna, nuda, dal corpo magrissimo e glabro. È rannicchiata su se stessa, tra le gambe stringe una sfera d’oro, pesante, che cade e rotola sul palco. L’alta marea la spazza via. Il mare si ritrae la donna riappare, rannicchiata, come prima, una sfera fra le gambe: è vestita, pantalone nero e camicia bianca. Ma dal suo aspetto e dalla posizione non pare sia cambiato molto. La sfera le cade dalle gambe, questa volta il rumore è sordo, è vuota. Dorata, non d’oro.

“Il velo nero del pastore” è una successione di immagini senza un filo narrativo apparente, montate come monterebbe Eisenstein. Mancano i connettivi a garantire la coesione del testo, che pure è carico di senso. Di sensi. Nel quadro successivo la performer, Silvia Costa, è in ginocchio al centro del palco, camicia e pantaloni, mette del rosso alle guance. Senza civetteria. Poi, una macchina posta sul palco di fronte a lei, le spara addosso una luce: una striscia luminosa orizzontale, una verticale e la crocifigge. La luce è stroboscopica, la musica che l’accompagna assordante. Il tessuto sonoro, come sempre negli spettacoli di Castellucci, è angoscioso, opera di Scott Gibbons.

La fucilazione si ripete più e più volte. Troppe, forse. Ad ogni colpo Silvia Costa oscilla, barcolla, ma resta in ginocchio. Beve dell’acqua da un catino per riprendersi. La sua bocca e il suo viso sono insanguinati, schizzi di sangue sulla camicia bianca. Due uomini intervengono. Sono macchinisti, operatori, non hanno nessun rapporto con lei. I macchinisti puliscono il volto della performer, non ci sono personaggi.

La novella di Nathaniel Hawthorne a cui Romeo Castellucci si è ispirato per questo suo spettacolo parla di un pastore, il reverendo Hooper, che un giorno compie un gesto bizzarro e immotivato: decide di vivere col volto coperto da un velo. I suoi fedeli piombano nell’angoscia che qualcosa di terribile sia accaduto. Il mistero della scelta resterà irrisolto. Tante le possibili interpretazioni, tutte valide, nessuna esatta. Come per lo spettacolo di Castellucci che sembrerebbe non avere nessun contatto con la storia di Hawthorne.

Sono spettacoli, quelli di Castellucci, sempre in grado di eccedere i significati che veicolano. Rifrangendosi negli sguardi degli spettatori si moltiplicano, e ognuno può dire di aver visto uno spettacolo diverso. Di cruciale importanza è non solo il vissuto di chi guarda, ma la posizione che occupa negli spalti. È una sorta di teatro caleidoscopico, il suo. E allora chi potrebbe negare che “Il velo nero del pastore” racconta la storia della prostituzione, delle migliaia di ragazze portate in Italia da chissà chi (dalla marea, forse)? Galline dalle uova d’oro per alcuni: massiccio prima, quando la giovinezza e la verginità aumentano il valore di quei corpi. Poi man mano che le donne diventano merce, si svuotano, perdono valore (non possono essere uova quelle sfere d’orate prima pesanti e poi leggere che Silvia Costa lascia cadere dalle gambe?). Donne che muoiono più e più volte. Troppe, forse. Ad ogni colpo oscillano, barcollano, restano in ginocchio. Forse qualcuno che non ha nessun rapporto con loro, le rimette a posto quando le violenze subite le rendono impresentabili. Come fanno i tecnici con la performer.

Forse, “Il velo nero del pastore” di Castellucci non vuole raccontare la storia del reverendo Hooper, ma rispondere alla domanda dei fedeli: cos’è accaduto di così terribile? Cos’è che ha visto e non ha saputo sopportare? Forse Castellucci ha voluto squarciare il velo e vedere le immagini nascoste dietro. La scena non è più il luogo in cui tutto ciò che si vede esiste, e ciò che non esiste non si vede. La scena non è un palco. È un sipario. La sua funzione è permetterci di interrogarci su cosa nasconda.

Il Racconto d'inverno dell'Elfo

RENZO FRANCABANDERA | Il particolare delle mani giunte di Benedetto di Pigello Portinari di Hans Memling, ingigantite su tela formato tre per due, emergono dal buio con un graduale innalzamento del tono delle luci, in un iperrealismo fotografico che pian piano trapassa nel palesarsi del dettaglio pittorico. Pare un miracolo d’illusione ottica. Così, in generale, la messa in scena del Racconto d’inverno che il gruppo dell’Elfo, dalla regia di Bruni/De Capitani fino agli attori storici della compagnia, ha riportato in scena a Milano in questi giorni come ripresa del lavoro dell’anno passato, passa dal falso al vero, dal sogno alla realtà e viceversa.
Che il tono della narrazione sia di una tardogotica e rinascimentale neutralità si evince non solo dall’ulteriore citazione del Morieris di Memling ma anche da tutti gli altri lavori pittorici usati come sfondo della rappresentazione e dall’impianto razionale, quasi da incompiuta città ideale che la scena riporta. E’ in questo luogo di razionalità e trasparenze che si consuma il dramma della gelosia e della misoginia, quella di Leonte, Ferdinando Bruni nei confronti della fedele compagna Ermione (la solita impeccabile Elena Russo Arman), che porterà ad una diaspora familiare che solo nel finale si risolve per il meglio con il mea culpa del sovrano, distrutto dalle sue stesse insicurezze.
Forse è per il lieto fine, forse per il tono un po’ farsesco che nel secondo atto prende il sopravvento su quello tragico del primo, fatto sta che Racconto d’Inverno, pur contenendo spunti di assoluto interesse rispetto al corpus drammaturgico shakespeariano, non viene ripreso con frequenza a teatro. Quindi è indubbio il merito dell’Elfo nel concentrare uno sforzo produttivo di primo piano su un allestimento che da ormai un anno sta riportando quest’opera in giro nei teatri italiani. Sforzo perchè l’Elfo è ormai uno dei pochi teatri italiani a potersi ancora permettere messe in scena di tenore corale, che in questo lavoro, e con diversa sfumatura sia nel primo che nel secondo atto, danno il respiro della massa, dell’umano, del plurale.
A guardare la messinscena a qualche giorno di distanza, infatti, la memoria, al di là dei bei costumi pensati da Bruni/De Capitani, e delle belle istantanee degli attori d’esperienza, torna sul collettivo, sull’insieme, sulla forza del gruppo. E questo di fatto è un merito che ritorna sul lavoro stesso, confermandone la compattezza stilistica, la linearità dell’impianto narrativo, capace di tenere l’equilibrio fra dramma e farsa che Shakespeare aveva volulto per quest’opera. Non a caso si parla per Racconto d’Inverno di un Giulietta e Romeo a lieto fine.
Dopo l’iniziale e “otellesca” pazzia del sovrano che, come Lear, allontana e maledice metà del parentato, incurante di rapporti filiali e muliebri, la seconda parte del racconto si sviluppa in quei non luoghi della fantasia tipici di alcune opere del bardo, come l’altrove veneziano del Mercante, o il mondo parallelo del Sogno. Qui fra orsi e impersonificazioni del Tempo, la rappresentazione assume un tono surreale che la regia bel racconta ricorrendo ad espedienti scenici da teatro povero, come il lenzuolo scosso a ricordare il mare in tempesta, o la lanterna magica per le ombre di un reale che rimane appunto sempre in dubbio e sospeso: questo fino al finale in cui Ermione ritorna in vita, invecchiata dentro una teca (come la pianta carnivora del Giardino), quasi come ne il ritratto di Dorian Gray, a ricomporre il destino di un sentimento che si santifica e si purifica nell’astinenza. Insomma dell’anima gemella e della sua grandezza ci si accorge più facilmente quando ci viene tolta che quando l’abbiamo a fianco, pare dirci il Bardo, e con lui chi lo riporta in scena.
Ma è ovvio che questo riguarda in generale gli affetti. Il valore del consueto è sempre appannato dal nuovo, dal fuori abitudine. Quest’opera, secondo me, invita a riflettere, oltre che sul tema della dualità femminile e di genere in senso lato, sul concetto del rispetto dell’alterità e sull’impatto della consuetudine nel vivere del nostro tempo, se dovessimo cercare un’estensione al contemporaneo del letterale shakespeariano. A questo proposito non si può non segnalare la consueta filologica ricerca sul e nel testo compiuta dalla regia, capace di ravvivare con pochi ma efficaci puntelli lessicali il testo.
Non che Shakespeare non sia sempre attuale, ma molto meno di lui lo sono alcune traduzioni dal tono roboante che ancora vengono portate in scena. Il teatro, il testo sono materia viva, e “aggiornare” Shakespeare senza ammalarsi di modernismo è un’arte sottile, di cui gli Elfi sono sempre efficaci interpreti.
Racconto d’inverno è un lavoro equilibrato, pulito, divertente, che si guarda con scorrevole attenzione per tutto il tempo, complice un allestimento che non lascia mai la mano allo spettatore, facendolo entrare e uscire dall’universo fiabesco, giocando al limitare fra luce e oscurità, fra illusione e carnalità, fra iperrealismo fotografico e finzione pittorica.

Un video dello spettacolo
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