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venerdì, Novembre 15, 2024
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A Radicondoli il Premio Nico Garrone

E’ da alcuni anni nell’ambito del festival di Radicondoli, quest’anno sotto la direzione artistica di Massimo Luconi, che viene assegnato il premio giornalistico intitolato alla memoria di Nico Garrone, critico teatrale de La Repubblica scomparso da alcuni anni.

La sua attenzione alle nuove forme d’arte, la sensibilità nella ricerca dei giovani talenti, ne fa anche per le giovani generazioni un modello. Abbiamo intervistato uno dei due giovani vincitori, il critico Roberto Rizzente.
Roberto, quando hai saputo che avevi vinto il premio che lega il suo nome al compianto Nico Garrone, cosa hai pensato?

Ero in pausa pranzo coi colleghi del lavoro che faccio per mantenermi quando è arrivata la telefonata di Marcotti. Non ci potevo credere. Ero felicissimo. Già l’anno scorso ero arrivato in finale. Ho subito telefonato a Claudia Cannella per ringraziarla. E’ stata lei a insegnarmi il mestiere.

Come vincitore di questa edizione, insieme alla giovane e promettente collega Sustersic, cosa pensi di aver fatto, fuor di modestia per arrivare a questo premio? Se dovessi raccontarti in due parole…

Mi sono avvicinato al teatro un po’ per caso, all’Università. Certo, avevo la passione – grazie alle lezioni di Sisto Dalla Palma, soprattutto. Ma è stato il caso a farmi scegliere il teatro, invece del cinema. Ed è stato di nuovo il caso a farmi collaborare prima con Einaudi e poi, come giornalista, con Hystrio. Mai avrei pensato di fare il giornalista. Sono grato al caso, e da allora ho sempre cercato di essere onesto, verso il mio mestiere. Con la rubrica “società teatrale” prima, segnalando le iniziative più meritorie del panorama teatrale contemporaneo. E poi via via con le recensioni, entrando sempre di più nel vivo della questione. Fino alle inchieste, che sono il genere che amo di più, capaci come nessun altro di scavare tra il non detto, lasciando trapelare il “marcio che c’è in Danimarca”. Senza dimenticare, ovviamente, l’attività di operatore. Prima con la curatela delle serate teatrali allo Spazio Tadini a Milano, e poi con l’attività di giurato e fiancheggiatore, fino al Premio Hystrio “Scritture di scena” per la drammaturgia, per il quale spingevo da un po’.

La passione per il teatro e per i viaggi paiono per certi versi lontane, eppure anche nei viaggi la tua passione per il racconto, quasi documentaristica, fa emergere un tuo desiderio di rilasciare testimonianza, segno di presenza.

Mi ritengo fortunato a poter viaggiare. Ho una curiosità viscerale e forsennata che mi porta a scoprire nuove culture, nuovi riti, nuove tradizioni, ai quattro angoli del pianeta. Non tutti hanno questa possibilità, me ne rendo conto. E allora cerco di restituire quello che vedo, quello che sento con i racconti, la fotografia e, in un futuro prossimo, il documentario. Trovo un forte senso etico nel prestare i miei occhi a chi non può essere là. Ho ricevuto molti ringraziamenti per il reportage sull’Uganda e il Rwanda, e questo mi spinge ad andare avanti.

Quali sono secondo te le caratteristiche che deve avere un testimone del proprio tempo e in che modo la critica si fa testimonianza?

Non si può prescindere dalla curiosità. Bisogna essere voraci di tutto. Sempre e comunque. Il teatro è solo una delle manifestazioni del genio umano. Non esistono barriere. Bisogna amare tutto, meravigliarsi di tutto, l’arte, il cinema, la letteratura, la musica, l’architettura. Ma poi bisogna essere onesti. Filtrare quello che si vede. Per il bene dell’opera d’arte, che è un qualcosa di autonomo e indipendente, che sta sopra all’artista, e dal quale tanto l’artista quanto lo spettatore traggono un godimento estetico che è, nella sua misura, etico. Per lo meno come antidoto alla volgarità e la superficialità.

Cosa ti piace del teatro contemporaneo? Un tuo lettore cosa trova nei tuoi pezzi?

Non so se dipenda da un fattore generazionale o meno, ma sento un’istintiva affinità con il teatro cosiddetto sperimentale, la generazione “T”, per dirla con Palazzi. Mi piace la commistione dei linguaggi, l’estetica del frammento. Tutto questo, però, vale per me. O per la video-arte e i cortometraggi che, con la mia associazione, Nu de Dos Arte, realizziamo. Nell’esercizio critico tutto questo passa in secondo piano. Non credo al protagonismo della critica. L’io ipertrofico del critico è un male che ci è stato tramandato e del quale è necessario liberarsi al più presto. Bisogna essere obiettivi e imparziali. Mettendosi al servizio dell’opera, come diceva Dreyer, con un linguaggio il più possibile piano e franco. Evitando le malignità e argomentando, senza falsi giri di parole.
 
Se avessi potuto scegliere di vivere qualche anno prima, o anche in un’altra epoca per vedere gli spettacoli di quel tempo, quando avresti voluto vivere?
Posso dare tre risposte? Nell’antica Grecia, nel periodo elisabettiano e negli anni ’60 e i primi ’70. Sono tre periodi molto diversi tra di loro, ma dove il teatro aveva un ruolo fondante in seno alla comunità. A quei tempi gli artisti parlavano a tutti. Senza, per questo essere banali. Un po’ come è accaduto, di recente, a Volterra, con il bellissimo Mercuzio non deve morire di Punzo.

Instagram da Sansepolcro

BRUNA MONACO | Come già scriveva Laura Novelli (http://www.paneacqua.info/2012/07/visioni-di-teatro-a-confronto-sulloggi/), alla 10° edizione di Kilowatt (dal 20 al 29 luglio a Sansepolcro in provincia di Arezzo) la scena contemporanea appare in tutta la sua eterogeneità.
La poesia a teatro: La compagnia Capo Trave, fondata da Luca Ricci e Lucia Franchi, ha presentato in prima nazionale Nel bosco, ispirato a una poesia di Andrea Zanzotto dal titolo Il galateo in bosco. La voce registrata di Roberto Herlitzka, che interpreta le parole di Zanzotto, e le musiche di Antonelli Lanteri fanno da fondo sonoro allo spettacolo. Roberto Gudese e Alessia Pellegrino prestano il proprio corpo ma non la propria voce alla performance: sono giovani e non ancora padroni della scena. Anche la regia, pur apprezzabile in alcune soluzioni visive, è da mettere a punto: i movimenti appaiono a un tempo schematici e poco leggibili. E le parole di Zanzotto, nonostante la maestria di Herlitzka, si giustappongono senza fondersi e senza riuscire davvero ad attirare l’attenzione.

Teatro d’attori: una doppia replica per il numeroso pubblico che vuole assistere a Mea culpa della compagnia Odemà. È la seconda parte di un trittico sul potere e le contraddizioni dell’essere umano iniziato nel 2011 con A tua immagine. Per indagare il potere Enrico Ballardini (interprete, musicista e drammaturgo della compagnia) sceglie di porsi dal punto di vista di chi il potere lo detiene in assoluto: Dio. Il Dio di Abramo e di Isacco. Protagonista indiscusso dello spettacolo, di questo come del precedente, personaggio riuscitissimo interpretato da un’eccellente Giulia D’Imperio. La affiancano Enrico Ballardini e Davide Gorla, rispettivamente Caino e Abele. E non è qui Abele il fratello buono, ma il diabolico compare di Dio: insieme, quei due, hanno spinto Caino all’assassinio solo per convincere gli uomini che, al mondo, esistono un bene e un male facilmente distinguibili e così nascondere, dietro una patina di senso, l’arbitrio senza freni del potere divino. Davvero ambizioso, il progetto di Odemà, e non privo di qualità. Anche se, forse, questo spettacolo risulta meno armonioso e profondo del capitolo precedente della trilogia.
Teatro di figura: una colonna di libri su un tavolo, tre donne sedute intorno, il suono del tempo scandito da un metronomo. Su un tappeto di sonorità contemporanee, una voce off racconta la vicenda biblica di Abramo e Isacco con le parole quattrocentesche di Feo Belcari. Sul palcoscenico, le tre donne in nero raccontano la stessa storia con i pop-up books creati da Giulia Gallo. Niente più che forme di carta che compaiono una dopo l’altra, come fotogrammi naufragati nel buio del palcoscenico, sogni sfuggiti alla mente di Dio, che la fa davvero da padrone a Kilowatt. Abram e Isaac (della compagnia I sacchi di sabbia) è uno spettacolo breve, fresco e ironico, in cui la levità è la cifra stilistica e al contempo il limite: poco o nulla la compagnia si sofferma sul senso di questo evento che, compreso nelle poche righe del racconto biblico, ha generato esegesi più numerose dei granelli di sabbia del deserto.
Maschere: i protagonisti di Onirica arsenic dreams sono un uomo e una donna (Matteo Fantoni – anche ideatore dello spettacolo – e Sara Venuti) dai corpi umani e le teste di plastica (anche le maschere sono state costruite da Matteo Fantoni e Sara Venuti). Senza parole, lo spettacolo racconta le solitudini e i sogni di due vecchi, la passione amorosa che non regge l’urto della vita, e allora non resta che la nostalgia, ripensare al lui o alla lei di tanti anni prima, quando non si era che ragazzi, e amarsi era bello come è bello il volto dei ragazzi. Sulla scena, il presente e il passato sfumano l’uno nell’altro in una confusione di piani narrativi in cui anche la realtà e l’immaginazione si confondono. Il fantasma di lei giovane riappare (è Carina Pousaz), il lui vecchio se ne innamora subito, vorrebbe sbarazzarsi della lei vecchia per tenersi stretto al suo petto di vecchio la giovane amante. Ma il trucco non riesce: uccisa la sua vecchia moglie, muore anche la sua immagine giovanile, perché nessun passato è pensabile senza presente. La vecchiaia dei protagonisti è ben rappresentata dalle maschere dall’espressione stanca e dalla lentezza dei movimenti, esasperata, che vela però di pesantezza tutto lo spettacolo, e lo rende a tratti prevedibile.

La scelta civica di Santarcangelo.12

Il secondo fine settimana di Santarcangelo 2012 forse più del primo restituisce la cifra di una rassegna che decide di ricalibrarsi nel segno della continuità e della discontinuità.
Segue la storia tutto quello che è di contorno al festival, e ovviamente l’intima essenza degli spazi più tradizionali di questa cittadina, il lavatoio, le grotte, lo Sferisterio, le strade. Segue la storia e la naturale evoluzione dei linguaggi il programma, sempre attento a pluralità, multimedialità, apertura alle espressioni internazionali.
Si rafforzano collaborazioni pluriannuali come quella con Richard Maxwell, portato in Romagna da Chiara Guidi, e che ha accettato per Santarcangelo 2012 di dar vita ad un progetto, ADS, in cui è stata coinvolta la comunità cittadina, chiamata a raccontare in pochi minuti se stessa attraverso sogni e speranze che descrivessero il senso della vita per ciascun abitante. Gli ologrammi degli abitanti, ripresi in brevi monologhi, dichiarazioni sul senso della vita e della felicità. Nulla di tangibile, insomma. E proprio per questo potenzialmente ricco.
Questo spettacolo andava forse visto in controluce con la sua altra ideale metà, quello di Viriglio Sieni, che identicamente restituiva la corporeità dei sogni di una comunità. Maxwell e Sieni sono in questa edizione del festival l’esito compiuto della scelta voluta dalla triade di direzione Bottiroli-Sacchettini-Ventrucci, che hanno indirizzato dall’inizio il loro impegno non sull’evento estivo ma intorno alla costruzione nel/per il territorio di un valore aggiunto attraverso l’arte e la comunicazione.
Già dall’anno scorso il festival era addirittura riuscito a colmare il tragico gap economico che le ultime folleggianti edizioni di inizio anni 2000 avevano lasciato. L’indirizzo delle edizioni ultime, quelle della triade romagnola Raffaello-Motus-Albe, era già andato nel segno di un riequilibrio di forze e di maggior misura e ragionevolezza. Quella di quest’anno è un’edizione piccola ma non triste, governata dai tre operatori che proprio per le ultime edizioni avevano lavorato nell’ombra ad organizzare il tutto. Il passaggio di mano è stato indolore ma non evanescente.
Le maggiori risorse sono state forse quelle spese per confermare il festival, l’impegno sul territorio, ribadirne il vantaggio, misurabile in crescita culturale ed economica e intessere un dialogo con le persone che negli anni si erano sentite un po’ estromesse dal palcoscenico dell’evento, a favore di una messe di foresti che per dieci giorni all’anno strapopolavano il borgo.
Abbiamo speso queste note perché Santarcangelo 2012 è nel senso della continuità proprio in questi termini di restituire la creatura al territorio. Non nascondiamo che Santarcangelo è anche una speranza di modello nuovo, di cambio generazionale, di attenzione ai costi, di ritorno all’importante e all’essenziale.
In questo si misurano anche i momenti di discontinuità: il percorso invernale, gli spettacoli e le residenze, il centro culturale Liviana Conti, diventato luogo del dopo festival ma anche sede di ospitalità all’interno di uno spazio che ha il sapore di officina e magazzino di periferia, ma riadattato in maniera intelligente e sobria.
Circa spettacoli di questo fine settimana, lasciamo volentieri testimonianza su quello di Gyula Molnàr. Alcuni anni fa Moni Ovadia raccontava, in un suo monologo, di come durante l’assedio del ghetto di Varsavia c’era una attempata signora che non smise neanche per un momento di fare teatro, utilizzando molliche di pane. Il teatro di Molnàr è fatto con sei cioccolatini, una compressa di alcaselzer, una mappa cittadina, dieci noccioline, tre scatole di fiammiferi, una tazzina da caffè piena di chicchi, due tubetti di schiuma da barba, una noce di cocco e due orologi al quarzo. Come con tutto questo sia possibile raccontare esclusione, amore disperato e logica del sopruso in cinquanta minuti è la sfida dell’artista, che aiutato da una mimica facciale che per i più giovani può ricordare quella di Mr Bean, e per i più grandi quella di Walter Matthau, porge al pubblico tre storie (le prime due che terminano con dei “suicidi”) intrecciate ad un codice narrativo necessariamente eroso dalla termite dell’illogico, per evitare il sopravvento della didascalia in un tracciato che si svolge su un piano scenico che è quello di un tavolino illuminato da una lampada fioca, dietro il quale lui è seduto. Il pubblico dall’altro lato, comprende, si illumina, a tratti si emoziona perfino, per il tanto con poco. Bello.
Allegro, per lungo tratto interessante ma poi incapace di trovare una chiusa all’altezza dell’idea e quindi alla fine inutilmente lungo è stato il lavoro di Kalauz/Schick: CMMN SNS PRJCT.
Due ragazzi attendono il pubblico nel grande spazio Liviana Conti. Sono i banditori di un’asta di premi da poco. Li regalano via via al pubblico, introducendoli poi ad una lunga riflessione sul possesso, che culmina con la vendita dei diritti in licenza common creative ad uno spettatore. Impresa riuscita. Di qui in poi lo spettacolo inizia una digressione inutile e cervellotica. Devono averglielo detto in tanti visto che ne parlano nello spettacolo stesso, loro ne sono consapevoli ma non lo hanno mai cambiato. Buon per la loro tenacia. Meno per gli spettatori. Peccato. Il senso della misura è una necessità essenziale per il teatro più performativo.
La riflessione, su livelli qualitativi per fortuna sensibilmente superiori, vale anche per la proposta di She She Pop, collettivo femminile tedesco, che ha portato a Santarcangelo Schubladen, una riflessione sull’unificazione fra le due Germanie vissute nel confronto intergenerazionale fra donne, in un dialogo a coppie, fra sei espressioni della femminilità assai diverse. Quasi come colonna sonora, e in parte farcita di musica, la recita, che si allunga per due ore circa, porta sul tavolo, è proprio il caso di dirlo, il di qua e il di là del muro. Due trentenni, due quarantenni e due cinquantenni: le loro vite, diverse e uguali, i loro sogni, diversi e uguali. Le loro illusioni e disillusioni. Una arriva a mimare, su una sedia d’ufficio con le rotelline, le evoluzioni sui pattini di Kate Witt, la dea dei pattini su ghiaccio, una delle ultime regine dello sport nella DDR. Cosa resta di tutto questo universo di differenze? E cosa poi rimane uguale, quasi incurante dei sistemi sociali di provenienza? Meno ironico di Goodbye Lenin e per loro stessa ammissione più accademico, lo sguardo sul cambiamento, su come questo ha influito sulle loro vite, ha comunque un sapore intenso, deciso e interessante. Disperatamente ( e un po’ lungamente) femminile.

Eugène Atget. L’artigiano che immortalò la “Vieux Paris”

Ritratto-di-E-AtgetMARIA CRISTINA SERRA | Stretto all’angolo fra le animate rue de Francs-Bourgeois e rue de Sévigné, un austero portone introduce attraverso uno splendido, silenzioso giardino, ai fasti del rinascimentale Hotel Carnavalet, consacrato alla storia di Parigi dalle origini al XX Secolo, che tra quadri, oggetti, arredi, plastici, ricostruzioni di ambienti e memorie del passato, insieme a manoscritti e carte, custodisce fondamentali documenti sulla Rivoluzione giacobina.

Per sottolineare l’importanza delle fonti d’archivio e celebrare l’opera e l’originalità di uno dei padri della fotografia una preziosa mostra antologica su Atget (fino al 29 luglio) ci invita a sfogliare le pagine ingiallite, ma immortali, degli album di un artista di strada nativo di Bordeaux (già attore fallito di provincia, pittore mancato, instancabile flaneur di ogni angolo della città), scopritore della realtà urbana spogliata di ogni sovrabbondante orpello, nell’intento di imprimere e catalogare la nuda realtà con l’occhio fedele e disincantato dello storico, rendendo ogni immagine catturata un documento unico.

Come un venditore ambulante, girava instancabilmente con la sua pesante macchina fotografica in legno, a soffietto 18 x 24, munita di treppiede e di lastre di vetro, deciso a documentare ogni forma di vita sopravvissuta alla razionalizzazione della revisione urbanistica del barone Haussmann. Andava alla scoperta delle atmosfere e delle antiche abitudini; registrava le trasformazioni storiche e valoriali di una società che progressivamente, tra l’Ottocento e il Novecento, modificava i suoi stili di vita in nome della modernità. Sono le cose minute ad attrarre l’attenzione di questo poetico precursore della fotografia surrealista e di quella umanista, poi. Riprendeva gli uomini e le donne comuni, i bambini, la fatica di vivere, gli umili lavori di strada, le piccole botteghe, gli oggetti ammucchiati o allineati in file ripetute, gli interni disadorni, i cortili nascosti, le insegne sui muri, i batacchi e i mascheroni dei portoni, le terrazze dei caffè spogli di clienti, le entrate dei bordelli, i giardini animati da statue di marmo o da alberi rinsecchiti dal gelo, gli angoli di strade dalle insolite prospettive.

Tutto ciò che è anonimo diventa sotto l’obiettivo di questo “artigiano” timido, riservato, solitario, che quasi viveva nell’ombra, improvvisamente luminoso, affascinante ed unico. E come accade per i film muti, con sottofondo di note stonate diffuse da un piano scordato, che mai smetteranno di incartarci, le sue immagini un po’ sfocate ci conducono in sentieri inesplorati, alla ricerca di istanti perduti, che non sapevamo di poter ritrovare dentro di noi. L’estrema precisione dei suoi particolari, che mentre liberano la vista dal superfluo, amplificano il dettaglio dell’essenziale, restituendo nobiltà al sottinteso e al nascosto, rappresenta la chiave di accesso al suo mondo enciclopedico e bizzarro, suddiviso per voci in maniera intransigente. ”Egli perseguiva gli elementi dimessi, spariti, svaniti, e così le sue immagini si rivoltano contro il suono esotico, pomposo, romantico dei nomi; risucchiano l’aura dalla realtà, come l’acqua pompata da una nave che affonda” , così con queste lapidarie, monumentali parole, lo descriveva W .Benjamin.

Per sopravvivere, vendeva i suoi scatti per pochi spiccioli ad amatori occasionali, a piccole botteghe fotografiche, a decoratori e scenografi, a chiunque necessitasse di avvalersi dei suoi ”documents pour artistes”. Poi, nel 1898, iniziò a vendere alle collezioni pubbliche e ai musei le sue foto. Ma fu solo nel 1921 che il suo lavoro ottenne dei riconoscimenti, grazie all’incontro con Man Ray, affascinato dai suoi nudi di prostitute e dalle surreali composizioni di manichini e oggetti nelle vetrine, dalle insolite inquadrature. Ma fu la sua assistente, Berenice Abbott, la vera scopritrice nel 1925, che dopo aver acquistato un gran numero di negativi, realizzò su di lui saggi e libri fotografici, ritraendolo poi nel ’27 (poco prima della morte) come un personaggio epico, uscito dalle pagine crepuscolari di Victor Hugo: curvo e avvolto nell’ abituale pastrano nero.

E’ un luogo dello spirito la città che lui racconta con straordinaria precisione tecnica, velata da una nostalgia agrodolce e attraversata da un tempo che fugge. Le silhouette delle case, all’angolo fra le rues de la Seine e de l’Echaudé, si stagliano nell’aria, tagliando il cielo; i carretti rimangono abbandonati nelle corti del ghetto, in rue des Rosiers; dentro la vetrina di un antiquario a Faubourg Saint-Honoré le immagini scorrono con dissolvenze incrociate. E’ un racconto denso di poesia il ritratto, nel 1898, della piccola cantante di strada che come un “passerotto” si appoggia all’organetto (quasi una preveggente visione di una Edith Piaf adolescente). Come in un gioco prospettico il pavé chiaro di rue Lepic, a Montmartre, viene infranto dallo spaesato venditore di abatjour. E’ invece corpulenta e arcigna la venditrice di ostriche, seduta davanti all’entrata della brasserie. E’ una Parigi vulnerabile, avvolta nella nebbia e nel mistero quella dei lungo-Senna verso Notre-Dame.

La Conciergerie getta un riflesso sinistro sulle acque sottostanti. La basilica del Sacré-Coeur è fotografata dal retro, seminascosta dalle case. La chiesa di St.Etienne-du-Mont si profila in controluce fra le insegne dei negozi.La Galerie Viviennesi specchia nel silenzio dei suoi marmi traslucidi; spettrali appaiono i saloni degli Hotel particuliers, come abitati da fantasmi. Sembrano quadri di nature morte fiamminghe i banchi dei mercati rionali

Sono concrete, invece, le immagini delle fortificazioni militari, “Les Fortifs”, dismesse alle porte di Parigi, con le catapecchie e i laboratori improvvisati degli straccivendoli, gli “chiffoniers”, e gli insediamenti del sottoproletariato: immagini e testimonianze dell’insalubrità dei luoghi, della precarietà della vita e del lavoro schiavistico, senza scadere mai nell’emotività gratuita o nella commiserazione. Un’umanità povera, reietta, ma dignitosa, che si metteva in posa con i bambini sorridenti, consapevole che attraverso l’obiettivo di Atget sarebbe entrata nella storia, colmando per un attimo fuggente le disuguaglianze alle quali la vita l’aveva confinata.

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Il buono, il brutto, il cattivo: cronaca di una sera ad Asti Teatro

asti-teatro-2012RENZO FRANCABANDERA | Iniziamo col dire che Asti teatro è manifestazione storica, giunta quest’anno alla 34esima edizione. Questo già chiarisce la consolidata presenza sul territorio, il richiamo di artisti di fama ed emergenti, che fra fine giugno e inizio luglio scelgono i palcoscenici della città piemontese per proporre nuovi lavori o spettacoli già rodati, ma che nella città acquistano una magia particolare.

L’edizione di quest’anno, sotto la direzione artistica di Gianluigi Porro e con la consulenza di Emilio Russo, è stata nel complesso interessante, con alcune punte coincise con la trilogia che ha portato Saverio La Ruina a proporre i suoi lavori di maggior esito, o il proustiano lavoro di Lombardi/Tiezzi. Sensibile anche la scelta delle compagnie indipendenti, come i Sacchi di Sabbia, o la Compagnia Dammacco. E di qui partiamo per il racconto della nostra serata del 4 luglio ad Asti.

IL BUONO
Ma che dico buono, l’ottimo risultato cui approda fin dalle prime repliche pubbliche “L’ultima notte di Antonio” di Mariano Dammacco e della sua giovane compagnia, merita una riflessione e un’indagine. Avevamo perso le repliche al Giardino delle Esperidi, ma è innegabile che l’allestimento di Asti, che coproduce lo spettacolo, era senza dubbio più imponente, non fosse altro che per l’impianto luci. Una porta, in fondo ad un’immaginaria stanza segnata sul pavimento da nastro bianco e niente altro.

La vicenda di Antonio, personaggio dal tratto psicotico, uscito da una vicenda di fine Ottocento di bevitori d’assenzio o come costola triste da un fumetto di Pazienza. Dammacco torna finalmente, dopo i successi di gioventù coincisi con la nascita dell’esperimento Kismet a Bari e alcuni anni passati in Lombardia a maturare come regista e scrittore, a sfoderare un colpo di talento che sorprende lo spettatore.
Innanzitutto per il testo, una proposta coraggiosa come da tempo non si vedeva, il diario di una morte annunciata, intervallato da episodi grotteschi ispirati ad un documentarismo irridente. Le ispirazioni letterarie sono diversissime e vanno dai romanzi ottocenteschi alla letteratura post punk fino ad approdare sicuramente a qualche rivista da barbieri per soli uomini della provincia di Potenza.
Eppure questo melange sporco, che sta ancora cercando un definitivo equilibrio interpretativo, nel contrappeso fra i meno (meno enfasi su epifanie figlie dei laboratori di preparazione come il carillon, la bambola, la figura narrante, meno effetti luce) e i più (più equilibrio fra gli interpreti, più decisione nelle scelte sulle presenze/assenze sceniche), arriva a piazzare un colpo sorprendente.
Un testo dicevamo, così ardito che ex post non viene in mente alcun’altra ragionevole messa in scena possibile se non quella cui il duo registico composto da Dammacco e Salvo Lombardo dà vita; vincitore del Premio nazionale di drammaturgia contemporanea Il centro del discorso – edizione 2010, il testo si veste di una parola capace di irridere nei momenti di maggior drammaticità e di far commuovere in quelli di maggior ironia.
Parliamo, di solitudine, algida, amletica solitudine, ma con un intreccio della vicenda, un modo di prendersi sul serio il giusto, che lascia respiro, nell’ora di recita, ad un’aria teatrale fresca, che di rado si assapora. Bene anche Serena Balivo, giovane attrice di talento che ha ancora margine per regalare ad un personaggio difficile, la compagna del misantropo, una meccanicità dal volto umano, che sappia incarnare quel colorito olivastro che il bel disegno luci di Francesco Dell’Elba le dona fin dalle prime battute.
Qualche scelta coraggiosa necessita sulla parte di movimento, dove il personaggio del narratore fuori scena, Salvo Lombardo, non è poi così fuori scena come si dovrebbe.
Siamo tuttavia in un ambito di riflessioni che riguardano le scelte registiche e su cui la Compagnia ha spazio per lavorare, con l’obiettivo di arrivare a proporre ben levigato un piccolo gioiello, ancora in parte grezzo in queste primissime uscite, ma di cui è impossibile non leggere la straordinaria lucentezza drammaturgica e di scelte teatrali. Lo spettacolo deve girare assolutamente per dare alla talentuosa compagnia modo di crescere.

IL BRUTTO
A volte non è che una cosa è brutta in sé, ma se accostata ad una bellissima viene schiacciata dal confronto.
Forse è finita così, per me, la mia fruizione di Bye Baby Suite, performance sulla figura di Marilyn Monroe nata dallo spettacolo Bye baby di Chiara Guarducci, che ha debuttato il 19 maggio 2009 presso il ridotto del Teatro La Pergola e diventato poi una performance interpretata da Alessia Innocenti, che ha debuttato all’Hotel Liana di Firenze il 23 novembre 2009, e che, da allora, si svolge unicamente in suite e camere di hotel. Grandi città, grandi alberghi, hanno ospitato in questo triennio la recita. Gli spettatori sono incollati al letto di Marilyn, la vedono agitarsi nei pensieri dei suoi ultimi attimi, quando in un cocktail di tristezza e psicofarmaci, abdica alla vita, spogliandosi del personaggio per tornare forse, in punto di morte, persona.
In realtà la recita è sfortunata fin dall’inizio: mentre alcuni spettatori già entravano nella suite riservata allo spettacolo, l’attrice, ancora in (prolungato) training pre spettacolo e distesa già sul letto-palcoscenico, si accorgeva che il pubblico entrava nel piccolo e intimo ambiente e decideva, invece che di lasciar seguire e partire, di farci uscire tutti per spegnere l’aria condizionata. In quel preciso momento, veniva toccata un’inarrivabile vetta di geniale eccentricità, di vero contenuto capriccioso, degno della migliore Monroe. Qui in me si è fatta largo la convinzione, poi incarnata dal vero di lì a qualche minuto, che quello cui avevo appena assistito sarebbe rimasto il fortuito e colossale tocco del caso, mentre il preordinato, umanissimo e normale che di lì a poco sarebbe seguito, altro non poteva essere che qualcosa di molto meno: un percorso testuale a volo d’uccello sui più noti episodi della vita del personaggio pubblico, messi insieme in modo non sempre convincente e di fatto intimamente incapace di far esplodere un conflitto drammaturgico prima ancora che con il mondo con se stessa.
Questa pecca di prima grandezza, ovviamente, affossa ogni tentativo dell’interprete di far decollare nei quaranta minuti di performance, un’emotività legata alla personalità disturbata e capricciosa dell’attrice americana. A onor del vero anche l’interpretazione è risultata, forse a causa dell’aria condizionata, poco convincente, e in diversi fra gli spettatori forzati a vivere questa dimensione iper-intima e reclusa, vagano con lo sguardo in cerca di qualcosa di inafferrabile che non arriva.

IL CATTIVO
E’ così che, dopo aver assistito all’involontaria e straordinaria micro performance iniziale, costretto poi ad un’assai più scontata clausura senza via di fuga, nel pieno dello psicodramma della signora Norma Jeane Baker (ho pensato ad un certo punto l’occasione potesse essere quando l’attrice si reca in bagno per dar di stomaco – ma che caduta di stile il rumore mimato del vomito che cade nel wc!) ho vissuto la più irresistibile voglia di andar via.
Ma il malessere della protagonista dura troppo poco per vincere la mia rispettosa timidezza a rompere il cerchio magico dello spettacolo. Allora resistiamo. Ma il seguito testuale è un’enumerazione cabalistica delle occorrenze a tutti note della vita del personaggio pubblico, un errore che per carità capita anche ai grandi drammaturghi alle prese con le più note biografie (si veda il tiepido esito di Koltès alle prese con la vita e la morte di Coco Chanel), che non fa decollare un’interpretazione schiacciata, vocalmente monocorde e in alcune parti inutilmente urlata.
Allora, come le statue di Bernini davanti alle sgradite architetture di Borromini, decidiamo anche noi di guardare altrove, di distogliere lo sguardo. “Perché sono la favola bionda, la stupida d’oro, la sciocca di zucchero, sono il tuo calendario, la tua colazione, il tuo amore calmante, pensa che buffo il tuo calmante chiuso in manicomio, il tuo calmante è un manicomio, sono sempre stata rinchiusa, c’è qualcosa che non va se mi chiudono a chiave, se mi tengono in cassaforte deve esserci un malinteso… sono un caso, sempre e solo un caso”: decidiamo anche noi che è il caso di staccare i collegamenti, volgendo lo sguardo al soffitto fino al termine della recita.
Non se ne deve avere a male alcuno: se è vero che Pennac rispetto ad un libro reclama il diritto per il lettore di interromperne la lettura, anche lo spettatore deve poter interrompere la fruizione di uno spettacolo teatrale in un qualsiasi momento. E’ quello che ho deciso di fare, impossibilitato com’ero dal buon senso ad alzarmi, io unico, nella camera da letto, con Marilyn morente, e ad andar via, anche se, nel farlo, in fondo sarei stato solo uno dei tanti che l’hanno fatto con lei in vita. Ma post mortem, la sua memoria non meritava tanto. Né io mi sono mai sentito JFK o Joe di Maggio.

Una goccia d’olio per l’anima

Goccia d'olioFRANCESCO MEDICI | La raffinata casa editrice milanese A Oriente! fondata e diretta da Anna Schoenstein si lancia in una nuova sfida: “ragazzi tra due mari”, una collana di racconti inediti per i bambini e i ragazzi del Mediterraneo. Il primo numero, “La goccia d’olio”, non poteva che essere ambientato nel ‘nostro’ Levante, la Puglia, e in particolare il Salento, da sempre ‘Porta per l’Oriente’.
L’eroe del racconto – scritto in italiano da Kamen’tov A., con testo arabo a fronte a cura del marocchino Khalid Nabata e di Martina Bianchi, corredato dalle illustrazioni originali di Marina Schoenstein – è Alfredino, un bambino di Otranto che, dopo aver rovesciato una giara di olio (simbolo dorato del ‘Mare Nostrum’), per sfuggire alle ire di zie e cugine a seguito della sua marachella, si rifugia nella Cattedrale della città, finendo letteralmente con il precipitare nel celebre mosaico del XII secolo che ne riveste l’intero pavimento e che la tradizione vuole contenga – nella sua complessità di simboli – la profezia della distruzione della città messapica, avvenuta nel luglio 1480 ad opera dei Turchi.
Alfredino, in compagnia del pirata Uccialì (Ulug Ali, calabrese divenuto pascià di Algeri e capo supremo della flotta ottomana), intraprende allora un suggestivo e strampalato viaggio per mare attraverso le genti, le culture e le lingue del Mediterraneo, tra personaggi reali o di pura fantasia, mostri marini e sirene, avventure bizzarre e naufragi. Il piccolo protagonista, che, riscoperte le proprie radici, imparerà a guardare il mondo con occhi nuovi e ad ascoltare la voce del cuore, riuscirà infine a fare ritorno a casa, accolto dal dolce e rassicurante abbraccio della nonna.
Il racconto gioca con un’incredibile varietà di lingue, tra le quali anche il lettore d’occasione può facilmente districarsi grazie a un agile glossario in appendice. All’italiano e all’arabo si mescolano, infatti, il salentino, il maltese, il greco, il turco, il francese e altri idiomi misteriosi…
Al pregevole volumetto è inoltre allegato un CD, con la canzone “La goccia d’olio”, in forma di fantasia musicale incisa dai Rebis e ispirata al celebre brano greco “Apó xéno tópo” (noto in turco come “Kâtibim” e in arabo come “Ya banat Iskendarya”), i cui versi in arabo e in italiano sono della voce del gruppo, la giovane cantautrice e arabista Alessandra Ravizza. La colonna sonora si avvale del contributo di Andrea Megliola (chitarra classica, whistle e fisarmonica), affiancato da Amira Awajan (viola), Margherita Marincola (violino), Andrea Trabucco (pandeiro, repique, tamborim, shaker e basso elettrico).Goccia d'olio
Il testo si conclude con una dedica, che suona come un invito (rivolto non soltanto ai più piccoli…) a riappropriarci delle nostre origini e del nostro comune patrimonio culturale: «Questo libro è per tutti i bambini che abitano sulle rive del Mediterraneo e per le loro nonne». Nessuna pianta rappresenta infatti un elemento di identità per tutti i popoli del Mediterraneo quanto l’olivo. La Bibbia lo evoca come il primo albero e numerosi riferimenti ad esso appaiono nei testi sacri delle tre grandi religioni monoteiste. Senza dimenticare che quello dell’unzione è uno dei riti fondamentali della consacrazione a Dio nel Giudaismo come nel Cristianesimo.
Per quanto concerne la tradizione musulmana, l’olivo e l’olio d’oliva sono entrambi benedetti nell’Islam. Nel Corano, la luce donata da Allah, sotto forma di fiaccola, viene accesa con il «combustibile» dell’«albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. […] Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore» (Sura della Luce, XXIV,35).
Così, anche questa ‘goccia d’olio’ è metafora divina e insieme auspicio perché l’essere umano, che sembra aver perduto l’innocenza del bambino, non sia, come recita un verso di Rumi, «né d’Oriente né d’Occidente», ma superi ogni divisione interiore ed esteriore per farsi – come direbbero i mistici islamici – Uomo Universale, più vicino ai suoi simili e quindi a Dio.

Kamen’tov A., La goccia d’olio, versione araba di Khalid Nabata e Martina Bianchi, illustrazioni di Marina Schoenstein, A Oriente! – ragazzi tra due mari, Milano 2011, pp. 104

Hugo Pratt. Il fumetto è letteratura

Corto-e-VeneziaMARIA CRISTINA SERRA | Dopo l’ebbrezza del meraviglioso “Viaggio immaginario”, iniziato da Place dela Madeleine, lo scorso anno, con la mostra ospitata alla Pinacothèque, prosegue l’affascinante itinerario fra le storie del “fumettaro” Pratt. Così amava definirsi con leggerezza l’autore vagabondo, romantico, cosmopolita, capace di farci immaginare la vita una sequenza infinita di avventure. “Corto Maltese e i segreti dell’iniziazione” è una singolare esposizione al Musée dela Franc-Maçonnerie, che ha ricostruito i riferimenti all’esoterismo e alla simbologia del mondo massonico, spesso presenti nell’ opera dell’artista veneziano, come la fascinazione per i riti voodoo, i ninja giapponesi, la cabala ebraica e i rituali islamici.

Cuore della mostra è la “Favola a Venezia” (“solo lì possono succedere certe cose”), che prende l’avvio dalla leggenda della Clavicola di Salomone, un prezioso smeraldo intarsiato dai misteriosi poteri andato perduto. Corto dovrà risolvere l’enigma “in un beffardo gioco meraviglioso” dalle seducenti incoerenze, perdendosi fra manoscritti criptici, segreti biblici, logge massoniche e sette segrete; in un continuo sovrapporsi di realtà e visioni oniriche (“ora mi sveglierò e uscirò da questo sogno matto”). La cornice è quella di una Venezia notturna, che nasconde i suoi segreti dentro le stratificazioni secolari delle pietre affondate come barriere coralline nelle acque immobili della laguna, su cui la luna riflette ombre inquiete. “Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti: aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle calli si va per sempre in posti bellissimi e in altre storie”.

Nelle tavole di “Favole di Venezia” c’è tanto della strategia narrativa di Hugo Pratt e della sua concezione del tempo: sospeso contemporaneamente in luoghi diversi tra loro.

In questa favola, che si dipana negli anni Venti,fra incursioni nelle dispute filosofiche di Ipazia e le letture dei tarocchi, ritroviamo i tratti calligrafici distintivi di tutti i suoi disegni, la sottile linea del suo orizzonte che non separa mai realmente il mare dal cielo, il rosso del tramonto dalle dune del deserto, il verde del fogliame dal grigio delle nuvole nelle foreste tropicali, il giorno che si congiunge alla notte. La magica naturalezza, imbevuta di candore e di ironica malinconia del tratto vergato con leggerezza, mista a corposità da Hugo Pratt, segnato da spazi vuoti che sanno di infinito e da luminosi fondi improvvisi, narrano di un mondo immaginario, farcito di fascinazioni letterarie e geografiche, che conducono lontano. In un sovrapporsi di coincidenze e di colpi di scena, di rimandi e allusioni, si può partire dai labirinti delle calli veneziane e ritrovarsi nelle suggestioni speziate del Medio Oriente, osservare le increspature dell’acqua mentre si trasformano in caratteri arabi. Incontrare la magia e l’occultismo dell’antica Cina e attraversare le aride steppe della Siberia orientale; navigare al largo delle isole Fiji ed approdare nei porti abbaglianti dei mari del Sud. Scoprire i continenti nascosti dentro i libri di Conrad, Stevenson, Melville e London, risalire lungo le rapide dei fiumi e ritrovarsi nel silenzio profondo del deserto del Nord Africa, o nella vastità della Pampas argentine.

E’ una letteratura figurata, dove il dettaglio minuzioso della storia si confonde con il fiabesco, il senso della realtà con l’invenzione. I sentimenti di Corto e quelli di Pratt si uniscono per assonanze e sfumature in un continuo gioco di specchi nella ricerca di sé. . Una maniera di essere adulto, mantenendo l’incanto del bambino, che a Venezia seguiva rapito le storie della nonna sul vecchio ghetto, i versi del nonno poeta e gli arabeschi tracciati dalla mamma, amante di esoterismo. E che sia una realtà sognata o il sogno di un resoconto, le sue narrazioni si aprono sempre “alla ricerca del tempo perduto”, a vele spiegate, anche se a volte non tutti gli avvenimenti che si succedono vi troveranno posto e svolgimento; ma, vaganti e senza dimora, avranno narrazione in un tempo e in un’avventura successiva, perché dopo la fuga in avanti c’è sempre un ritorno.

Non c’è spazio per le delusioni, tutto è magica affabulazione e i vuoti lasciati volutamente fra i punti di partenza e quelli di arrivo sono “un altrove che è qui”, per fare sì che gli elementi si possano ricomporre fra loro, creando nel lettore la gioia di una suspense tenuta in piedi con sapienti giochi di luce e ombre. Il mare, come il deserto, è uno scenario onirico ideale, fonte di avventure e conoscenze. “La ballata del mare salato” fu il primo capitolo della saga che ha per protagonista l’affascinante capitano senza vascello, Corto Maltese, avventuriero gentiluomo solitario e generoso, da sempre in cerca della libertà. “Sono l’Oceano Pacifico e sono il più grande di tutti. Mi chiamano così da tanto tempo, ma non è vero che sono sempre calmo”, è il leggendario inizio che ci fa comprendere il senso profondo delle parole di Pratt: “Sono un autore di letteratura disegnata, uno scrittore che sostituisce le descrizioni dei volti e delle ambientazioni con dei disegni. Disegno la mia scrittura e scrivo i miei disegni”. L’amore per Shakespeare, Kipling, Rimbaud, Yates, Chatwin, Borges, Hesse, le frequenti citazioni, non tradiscono mai la dipendenza, ma una raffinata rielaborazione alla luce di emozioni e vissuti della sua vita rocambolesca. Così gli anni della permanenza in Argentina gli ispirano la trama noir di “Tango”, che si sviluppa nei quartieri malfamati della Buenos Aires anni Venti, dove corruzione politica e malaffare si intrecciano con toni alla Hammett e Chandler.

Non si finisce mai di esplorare il “non detto” delle sue storie, di ammirare la luminosità dei suoi cieli immobili, interrotti da ali di gabbiani, le dissolvenze dei guerrieri indiani che danzano, di cercare nel bianco delle pupille di Corto i codici segreti dei suoi sentimenti. Rapiscono le trasparenze dei suoi acquarelli, astrazioni che si fanno realtà, istanti infiniti che con essenzialità imprimono il senso fragile dell’esistenza, come da contrappunto alla pienezza certa delle chine.

Diceva Pratt: ”Se entrerò in una biblioteca, sarà per lasciare un sorriso. Quando il libro è letto, il suo autore in una sorta di reincarnazione potrà così rivivere con il suo lettore”.

Reportage su “Hugo Pratt” à la pinacothèque de Paris di BD
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Un cartone animato tratto dai disegni e dalle storie di Pratt
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Teatro a Corte 2012

MORDOJRENZO FRANCABANDERA | E’ un festival senz’altro ricco di spunti e punti di vista ampi sulla scena teatrale internazionale e non solo quello di Teatro a Corte, iniziato il 6 luglio e che durerà ancora quindici giorni nelle magiche ambientazioni delle dimore sabaude in Piemonte. Uno spaccato di grande interesse di alcune dinamiche già presenti ed altre venture della scena.

Non ripeteremo quindi quanto di questo festival già è consolidato nella mente di operatori e appassionati, in merito allo spirito di valorizzazione del patrimonio artistico presente sul territorio, e nel dialogo, nello scambio aperto, nel ponte verso altre culture, altre nazioni.
Se l’anno scorso erano state alcune compagnie russe e della comunità belga vallona a tenere banco, quest’anno l’offerta è ancora più ampia, con il consolidarsi delle partnership francesi e belghe in particolar modo all’interno del mondo della danza, quest’anno un occhio di maggior interesse va alla scena performativa e di teatro/danza, in quella particolarissima intersezione con l’arte circense cui il Festival è sempre stato attento.
Nuove realtà della scuola britannica e mitteleuropea, e giovani maestri dell’arte dei muppets, come il già celebre in tutto il mondo, Duda Paiva.
Il primo fine settimana, nella giornata di domenica 8, già dalle prime ore del giorno, ha portato ad un subbuglio generale, con interventi delle forze dell’ordine chiamate all’intervento da alcuni cittadini allarmati dalle installazioni in Piazza Castello. Casette sigillate e chiuse a lucchetto, dall’interno delle quali provenivano voci umane. Non pochi i passanti e visitatori del castello reale che hanno chiesto l’intervento della polizia per segnalare.

E’ stato questo microcosmo surreale di reclusione e affermazione di un sé prigioniero a fare da sfondo alla performance di danza di Peter Jasko, artista slovacco che lavora ai confini tra il circo e la danza, cofondatore del collettivo di danza Les SlovaKs, e allievo di Anna Teresa de Keersmaeker e con collaborazioni internazionali come quelle di Cherkaoui, Barberio Corsetti, e molti altri.
Venti minuti di grande intensità, con il ballerino portatore di un linguaggio del corpo originalissimo e sporco, figlio della scuola belga che dalla Keersmaeker a Platel ha cambiato la danza in Europa negli ultimi trent’anni.
Si muove sul pavimento di sampietrini della piazza il danzatore, tenendosi in un equilibrio mai stabile, camminando malfermo e cercando il punto di flesso del sentimento.
Una solitaria dichiarazione d’amore, un’attestazione di presenza vitale, che si divide in due parti, la seconda delle quali inizia con il performer impegnato anche in un’esecuzione canora. Forse è questa la parte un po’ più “ordinaria e zuccherina” anche perché la melodia, giocata su armonici e scale più facili all’orecchio, stride un po’ con quel corpo tormentato che per i quindici minuti precedenti e per i quindici successivi cerca di liberare l’anima dagli spasmi del corpo, dando vita ad acrobazie impegnative e rese ancora più complicate dal pavimento della piazza. La sensazione finale è quella di un poeticissimo clochard della danza, un artista più interessato alle disarmonie e agli equilibri fragili. E forse proprio per questo non immune da fascino.

Quella seguita di lì a poco nelle sale della Cavallerizza Reale è stata una performance dal sapore particolarissimo, uno spettacolo che racchiude anni di ricerca dell’artista Jeanne Mordoj e il suo poetico interrogarsi sulla femminilità, fino a prenderne gli estremi più grotteschi, come la donna barbuta che fa da pretesto giocoso di questo Eloge du Poil.
La donna lavora sul tema dell’inaccettato, dell’innominabile, del bordo fra essere e non essere. Il suo spettacolo è un condensato di danza macabra e gioco fisico, in cui persino i teschi degli animali della foresta dicono la loro, e un numero con dei tuorli d’uovo getta il pubblico ad indagare il sentimento della vita e del suo stato così fragile. A ripensarlo a distanza di qualche giorno, si colgono alcune delle implicazioni più interessanti dello spettacolo dell’artista, che si finge barbuta per tutto lo spettacolo e che finisce con un rito di auto sepoltura, passando fra ispirazioni neogotiche e tutto il tema del grottesco.
Chiude la serata l’atteso spettacolo di Duda Paiva nel cortile del Castello di Moncalieri. L’artista è accompagnato in scena da un danzatore e mimo di primo livello, Javier Murgarren, e svolge in questa sorta di passo a due (perché anche a danza, ad ottima danza, si assiste durante lo spettacolo) un’indagine ispirata al personaggio della Malvagia strega dell’Ovest, una delle protagoniste de Il mago di Oz.
Nello spettacolo la ricerca delle scarpette rosse da parte di una sorta di essere non umano che cerca identità e coerenza di sé all’interno del mondo delle fiabe, di cui si intravedono spezzoni, è il motivo che silenziosamente annoda la vicenda fin dall’inizio quando due chirurghi lo riportano in vita. Questa sorta di ET che reclama un cuore tutto per sé, finisce, per essere fatto a pezzi, per incontrare brandelli di Cappuccetto rosso, per prendere parte a pic nic acidi in stile Alice nel paese delle meraviglie, per diventare mezzo cane e mezzo extra terrestre, in un gioco di muppets di cui il pubblico apprezza la finezza, e di cui Duda Paiva non nasconde alcun segreto, permettendo a tutti a fine spettacolo di avvicinarsi e toccare le sue creature di gomma piuma.
L’esperimento concettualmente è chiaro, la fiaba decostruita è servita come portata principale. Rispetto ai lavori precedenti di Duda Paiva qualche passaggio logico (o illogico, a seconda) non funziona però perfettamente e l’ingranaggio scenico non si incardina allo stesso ritmo e con la stessa intensità dall’inizio alla fine. La sensazione, in fondo a tutto, che alcune parti dello spettacolo siano un po’ lunghe o insistite resta, come pure il fatto che alla base di tutto ci sia un presupposto intellettuale forse troppo ambizioso.
Non che si voglia sostenere che con i muppets non si possa fare altissima filosofia, ma è onesto dire che in questo caso l’altitudine raggiunta non è quella delle vette cui lo stesso artista ci ha abituati con altri spettacoli. La complessità in fondo è una sfida, ma Duda Paiva è tenace creatore e confrontarsi con difficoltà di elaborazione concettuale sono un passaggio necessario per i grandi artisti.

Gli animali nell’Olimpo dell’arte: Beutè animale al Grand Palais

Beutè animale mostraMARIA CRISTINA SERRA | Un percorso suggestivo attraverso i secoli, dal Rinascimento ai giorni nostri, che traccia un fil-rouge fra “bestialità e umanità”. Da Durer a Picasso, passando per Géricualt, Goya, Bonnard, Steinlen e Van Gogh, solo gli animali sono protagonisti, liberi di affermare tutta la consapevolezza dei loro “sentimenti umanizzati”: fedeltà, mitezza, aggressività, forza, vitalità, tristezza, furbizia, malinconia. E di meritarsi per questo degni ritratti. Al Grand Palais, la mostra Beutè animale celebra la bellezza della rappresentazione ferina nella storia. I curatori e la commissaria della rassegna, Emmanuelle Héran, hanno centrato l’obiettivo di conciliare la spettacolarità dell’avvenimento con il rigore estetico e scientifico.

Le frontiere fra l’arte e la scienza si incrociano alternandosi su piani di racconto tematici e temporali, sostenuti da dettagliate schede tecniche, che raccontano la vita e l’evoluzione di queste creature, l’accettazione o i pregiudizi da cui erano circondate, le teorie elaborate dagli studiosi nelle varie epoche. Così il naturalista, illuminista, G.L.Leclerc, conte di Buffon, nella sua “Historie naturelle”, 100 anni prima di Darwin, aveva prefigurato la somiglianza dell’uomo con le scimmie, suddiviso le specie fra nobili e ripugnanti.

Cartesio, padre del pensiero moderno, negando ragione e coscienza agli animali, ne giustificava le sofferenze, considerandole delle mere reazioni meccaniche a stimoli esterni; bisognerà attendere la metà del XIX secolo (con la fondazione in Inghilterra e poi in Francia della Società per la difesa degli animali), per riconoscere loro la dignità di esseri viventi. Fra i 120 quadri prescelti (oltre a sculture, installazioni, stampe e preziosi volumi antichi), per segnare il percorso di un’esplorazione affascinante, dalle molte sorprese, tanti sono quelli sconosciuti al grande pubblico che mai avevano lasciato i loro paesi di origine. E’ il caso del magnifico “Les oiseaux” di un anonimo tedesco, datato 1619, prestato dal Museo di Strasburgo. Una trama di colori fiammeggianti, intarsiati di lucidi scuri e chiare trasparenze, senza interruzioni né vuoti (gli esperti hanno contato ben 71 tipi di uccelli). Una tela enigmatica, che si sviluppa in verticale con una simmetria dal potere ipnotizzante per la misteriosa diagonale impressa in alto da un pipistrello, proseguita da un fenicottero rosa, con il contrappunto di un ramo secco che proviene dal basso. Dal Museo Van Gogh di Amsterdam arriva per illuminare la notte scura il “Chauve-souris” del maestro del colore: un pipistrello espressionista, rosso-aranciato dalle grandi ali spalancate, screziate di giallo. Il “Giardino dell’Eden”, il “Dodo” di F.R.Savary (mitico volatile estinto nel 1662, vittima della crudeltà umana) , “La lepre fra l’erba” di Hans Hoffman, dagli occhi languidi e dal pelo soffice, reso “palpabile“ con sottili pennellate dorate, il superbo “Fenicottero rosa” di J.J.Audubon, e lo stupefacente, ibrido “Rinoceronte” di A.Durer, ci introducono nel mondo della natura e nell’impianto “ideologico” della narrazione.

Il rosso pompeiano delle sale, i grandi spazi centrali occupati dalle bacheche e dall’imponente scultura in bronzo di A.D.Barye, “Tigre che divora un caimano” (destinato alle Tuileries e ora al Louvre), accentuano l’importanza delle opere esposte e l’empatia fra i soggetti e gli autori. T.Géricualt, il sublime pittore romantico dal realismo energico e anticonvenzionale, coglie nei suoi adorati cavalli quelle lacerazioni della vita, che furono al centro della sua poetica. Il “Cavallo grigio” su sfondo scuro emerge con la forza possente della sua muscolatura, manifestando una palpabile drammaticità (fu proprio una caduta da cavallo ad uccidere il pittore a 33 anni). La “Testa di cavallo bianco” è vigorosa, modellata dal colore che le conferisce la solidità di una statua .I suoi “Studi di anatomia”, sono veri e propri trattati che meritano il confronto con le tavole dell’ “Anatomy of the horse” (1756) dell’inglese G. Stubbs; la “Testa di leone” un vis-à-vis con il re della foresta.

La fiamminga “Tete de Boeuf” di J.Asselijn ha l’intensità dei grandi ritratti. E’ fiero lo “Struzzo” di Nicasius Bernaerts, testimonianza di una moda nel fine Seicento per gli animali esotici, che trionfavano nei serragli privati, giardini reali e fiere popolari, con tale successo da suggerire nel 1793 (in piena rivoluzione giacobina) di aprire all’interno del Jardin des Plantes di Parigi uno Zoo. Le scimmie suscitavano curiosità e ilarità, tanto da diventare soggetti privilegiati per gli artisti. La “Scimmia pittrice” di G.Decamps e le “Scimmie critiche d’arte” di G.Van Max sono una metafora della vanità umana, mentre il muso scolpito in marmo nero dell’ “Orango” di F.Pompon esprime un’autentica malinconia. Il suo “Orso bianco”, levigato, essenziale, posto a metà percorso, in una nicchia isolata, pone l’inquietante questione della sua estinzione.

Lungo la scalinata Art Nouveau del museo, che congiunge le due parti dell’esposizione, la spettacolare istallazione di Gloria Friefman “Les rapprèsentants” (cervo su tappeto di foglie morte, a ridosso di un grande tondo muschiato) allude alla fragilità dell’ecosistema in cui viviamo. Simile ad un lampadario spettrale il “Chauve.souris” di César pende sulle nostre teste, inquietante. Quindi, il verde pastello delle sale seguenti, invita al relax.

E’ un principe trasfigurato il “Rospo” di Picasso dalla pelle ricamata per esaltarne viscosità e asperità. Numerose sono le raffigurazioni di cani e gatti. Sempre nobilitati i primi, in pose che esaltano la loro eleganza e proverbiale fedeltà. Ma sono i secondi ad impadronirsi della scena e dei nostri cuori. C’è il gatto accovacciato e sornione di T.A. Steinlen, uno dei tanti che abitavano nel suo atelier, “compagni di anarchismo”, come li definiva. E poi i “Due felini arruffati” e litigiosi di Goya (con le pupille dilatate, pronti alla corrida), in bilico su un muretto, nel fondo grigio-azzurro del cielo schiarito di rosa. E’ misterioso, voluttuoso, il gatto stilizzato di Bonnard, dalle “mistiche pupille” che inglobano ogni visione: scostante, irraggiungibile, mentre “penetra nei recessi più scuri e passeggia dentro il mio cervello come se fosse in casa sua, mite, leggiadro, forte”, scriveva Baudelaire nella sua “Ode al gatto”.

Ma la stagione delle Bestie in scena non termina (il 18 luglio) con questa storica mostra. Al Museo degli Anni Trenta (fino al 28 ottobre) prosegue, infatti, con “Cento sculture animali”, da Bugatti, Degas, Pompon, a Giacometti, Brancusi e Zadkine. Inoltre, fermo nel tempo come un Gabinetto enciclopedico dall’atmosfera intrigante e charmant, il Museo della Caccia e della Natura, a Rue des Archives, nel Marais, resta un appuntamento da non mancare per gli amanti degli animali e le sue raffigurazioni.

Bartabas, creatore del teatro equestre ci porta ad una particolarissima visita guidata di “Beauté animale” au Grand Palais
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La vera prigionia di Amleto

BRUNA MONACO | Tre strane figure in tuta bianca da polizia scientifica si insinuano fra gli spettatori, li avvicinano, sussurrano: “Sai chi è morto? È morto Amleto”. Così inizia Hamlet’s Dreams, spettacolo a tappe, o meglio a quadri: ogni scena è costruita come un tableau vivant che all’improvviso inizia a muoversi. Il pubblico insegue lo spettacolo: i quadri sono dislocati nello spazio, per ognuno cambia l’angolo di visione, anche il punto di vista dello spettatore è in movimento. È un lungo corridoio a separarci dalla seconda tappa, dal secondo quadro, l’azione è in corso prima ancora che il pubblico arrivi, quasi che l’urgenza degli attori non ammetta dilazioni. Su un palco quadrato che sembra un ring, tre uomini in tuta, forse pugili, mimano la scena dell’avvelenamento del re Amleto, la salita al trono di suo fratello Claudio e le nozze di Gertrude. Li riconosceremo più in là: colti nel momento delle prove, sono gli attori della compagnia di giro che presto prediranno la tragedia al castello di Elsinore. Chen Zhin Aman viene dalla Cina, Ayoub Elmounim è di Casablanca, Tarek Omezzine tunisino. Poi degli uomini in abito nero che sembrano becchini coprono la scena con un lungo telo nero. Dietro si prepara un nuovo quadro: si alza il telo e vediamo Gertrude, Claudio e gli altri cortigiani che banchettano sul cadavere del re (un esilarante Augusto Savi). Briciole di pane ovunque, sul corpo di Amleto padre, intorno alle bocche degli officianti/commensali. Il morto si alza e, in un romano musicale da stornelli da taverna, ordina la vendetta a un Amleto fragile ma determinato, contraddittorio, quindi estremamente umano, credibile (il bravissimo Ervis Hibraj).
Credibili sono tutti gli interpreti di questo Hamlet’s Dreams creato nel 2011 dalla regista del collettivo Teatro Metropopolare, Livia Gionfrida, perspicace, eccellente nella direzione degli attori: di ognuno dei venticinque che compongono il cast internazionale ha saputo cogliere e valorizzare le specificità. Alcuni recitano nella propria lingua o, più spesso, glissano sulle lingue, passando dall’albanese allo spagnolo, dal polacco all’italiano. E ci sono anche i dialetti ad arricchire il tessuto linguistico dello spettacolo, portatori di una cultura antica che sta scomparendo, di vocaboli arcaici che rimandano a concetti arcaici, e nostalgici di un mondo pre-globalizzazione. Così il siciliano ben declamato e orgoglioso dell’usurpatore Claudio (interpretato da Giovanni Tripodi) suona persino più ricercato e colto della lingua dell’Ambleto di Testori che viene fuori qua e là, soprattutto nelle parole della radiosa regina (Ilaria Cristini). Laerte (Grzegorz Wojdyło) parla in polacco in una delle scene più commoventi dello spettacolo: alto e massiccio, dal contegno brutale, si scaglia contro la sorella (una deliziosa Alessia Brodo in tenuta calcistica, con tanto di parastinchi e scarpette) per aver accettato il corteggiamento di Amleto. Ma ha uno sguardo così amorevole, così protettivo che la furia del corpo scomposto si frantuma in un gesto giocoso.

Hamlet’s Dreams è anche il titolo di un saggio di David Schalkwyk che esamina le somiglianze linguistiche tra la prigionia mentale di Amleto e quella fisica e psicologica dei detenuti di Robben Island durante l’apartheid. L’omonimia non può essere un caso dato che lo spettacolo di Livia Gionfrida è andato in scena presso la Casa Circondariale La Dogaia di Prato e che dei venticinque attori, ventidue sono detenuti. Allora, come accade solo quando c’è un grande disegno artistico, tutto assume un surplus di valore. Come l’urgenza degli attori, che non stanno ad aspettare l’arrivo del pubblico. Come l’idea di un’Ofelia in tenuta calcistica. Ofelia è un miraggio, per Amleto. Allora, anziché farle incarnare lo stereotipo della bellezza femminile, la regista la veste appunto nel più maschile dei miraggi: essere un calciatore. Elevando così l’inevitabile cortocircuito erotico di una ragazza che recita con un gruppo di reclusi in un potente cortocircuito intellettuale. Il finale è incantevole: Amleto, Laerte, Gertrude e tutti gli altri si passano un pallone, giocano, si divertono pensando alla libertà che non può esserci perché, come dice Shakespeare, tutto il mondo è una prigione. E perché le prigioni, quelle vere, hanno le sbarre.
Accanto a Peter Brook, Ariadne Mnouchine ed Eugenio Barba, oggi, il teatro internazionale lo troviamo in carcere. Un luogo che di certo non crea integrazione, un luogo in cui di norma la diversità non è considerata una ricchezza. Eppure, grazie al teatro…

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