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venerdì, Novembre 15, 2024
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L’Ubu rex degli Scarti

scarti-uburexDa tempo capita con sempre minor frequenza di vivere l’elemento corale nella proposta teatrale. E’ costoso e le compagnie non possono permetterselo. Sarà per questo che Armando Punzo sta cercando di togliersi lo sfizio nella forma più estrema, chiedendo a cittadine intere di partecipare al suo progetto su Mercuzio, cui potremo assistere a Volterra in occasione del Festival che nelle ultime settimane di luglio troverà albergo nella città toscana e in alcuni paesi viciniori.
Non è di questo che vogliamo parlare, comunque, ma di una delle più interessanti declinazioni di coralità cui ci sia capitato di assistere di recente, ad opera di una compagnia giovane, ma capace di scelte e letture sceniche di una certa audacia. La proposta di cui parliamo è quella della Compagnia degli Scarti di La Spezia, che quasi in chiusura di stagione ha proposto al Pim Off la sua personalissima lettura di uno dei classici del teatro dell’ultimo secolo, l’Ubu rex di Jarry, il padre del teatro patafisico.
La scena è poverissima. Sul fondo un telo bianco, per terra un delimitato scenico che null’altro è se non il pavimento delimitato sui tre restanti lati da un segno bianco. Un mondo rinchiuso, una nazione, il mondo.
Oltre a questo, alcuni piccoli bancali di legno modulari dipinti di bianco, che diventano tutto quello che può servire ad un allestimento povero: da scranno del sovrano a trincea, da sepolcro a campo di battaglia, e navi, e case.
Si capisce bene, da queste considerazioni, come in realtà la compagnia abbia usato quell’ingegno, che solo può permettere al pubblico di farsi parte integrante di quanto accade, dovendo completare con fantasia e intelligenza quello che manca, quello cui il teatro allude senza dire. E questa secondo noi è una grandissima ricchezza in un allestimento, perché aiuta il pubblico a crescere, a non aspettarsi la pappetta pronta e non sudata.
Il gruppo di attori vede in minor numero ragazzi “di scuola”, mentre molti vengono da esperienze di autodidattica e in alcuni casi da nessuna esperienza: per questo, a maggior ragione, sorprende in modo per noi entusiasmante in questo lavoro, che pure è tutt’altro che di immediata penetrabilità, la bravura della regia di Enrico Casale nel portare lo spettatore dentro un linguaggio che sceglie di raccontare la miseria del potere come destino perenne, attaccato alle caviglie del genere umano. La nuova generazione? Una speranza, ci dirà la compagnia nel finale. Come d’altronde sempre è. Sempre si spera che il futuro riesca a guarire i mali antichi, a evolvere verso una dimensione meno ferina.
Ma quello cui prima si assiste non lascia in realtà grandi speranze, fra parricidi indiretti (l’attore che interpreta il re cui Ubu dà la morte è il vero padre dell’attore Alessandro Cecchinelli che interpreta Ubu), pasoliniane erotizzazioni della dinamica violenza-potere, insaziabile brama di coito da auto rappresentazione: in Italia, d’altronde, non è concetto di difficile comprensione.
Funziona molto, nell’allestimento, il senso di coralità che la regia sa infondere, e qui ci colleghiamo all’inizio: anche se in scena sono una decina (oltre a Cecchinelli, Sara Battolla, Davide Faggiani, Simone Biggi, Raffaele Briganti, Daniele Cappelletti, Ino Cecchinelli, Rossana Crudeli, Chiara De Carolis, Giovanni Franceschini, Davide Ragozzini, Paolo Turini), la sensazione, per tutto il tempo, è di assistere ad una vicenda numericamente inestricabilmente molteplice e aggrovigliata, con naufragi di masse del genere umano alla ricerca di improbabili zattere di salvataggio, tableaux vivent di quadri di fine Settecento.
Questa rilettura del testo, peraltro, ci restituisce un Jarry molto shakespeariano e riesce a scolpire un percorso che è proprio condensato di tutti gli espedienti narrativi cui pure il Bardo fece ricorso nelle sue più celebri opere, a testimonianza di come i grandi temi su cui il teatro si è interrogato sono in fondo rimasti gli stessi nei secoli e che a ben guardare il patafisico può essere anche molto molto classico.
Aspettarsi tanta compattezza, tanto ritmo, tanta capacità di celare i propri difetti, le ingenuità (che pure qua e là ovviamente si presentano) è roba che si guadagna con il mestiere. Ci sorprendiamo quindi di dover ammirare tanta consapevolezza in una compagnia giovane e in parte (volutamente) inesperta. Ma l’esperienza e l’impostazione della voce, del gesto, la pulizia, siamo sicuri che siano sempre ingredienti necessari all’arte del teatro?
Pasolini si interrogò con grande forza sulla necessità di questi elementi per il cinema arrivando alle risposte che tutti conosciamo, figuriamoci dunque se il teatro non può indagare le sue strade più feconde ricorrendo alla negazione (non aprioristica, s’intende) dell’accademico, per lavorare sulla miserabile sporcizia del genere umano, su quella parola così sudicia che è Potere? Su questo l’indagine della compagnia continua, il prossimo progetto sta prendendo la direzione de La serva padrona, per passare dal macrocosmo al microcosmo dei rapporti di forza, dalla violenza sulle masse a quella più subdola su chi ci è prossimo. Noi su questo gruppo di lavoro, su chi lo coordina, riteniamo di poter maturare aspettative sensibili. La loro ricerca ci interessa. Sono vivi, sanguigni, veri, niente chiacchiere e orpelli: poche storie, questi fanno Teatro!

*Disegno di Renzo Francabandera

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Salvador Dalì. Vizi e virtù di un artista

Manif-mostra-Dalì VittorianoMARIA CRISTINA SERRA | L’inesauribile desiderio di trasformare la realtà in un prodotto dell’immaginazione, fondendo la vita stessa in una perenne esibizione artistica, si fusero così a fondo in Dalì che è quasi impossibile scindere la sua biografia dalle sue produzioni, come mette in rilievo la mostra “Salvador Dalì, un artista, un genio”. La sovrapposizione surrealista, traboccante di motivi barocchi spagnoleggianti delle sue opere si intreccia con la sua personalità narcisistica, in continua provocazione con il mondo, proiettandoci in un universo popolato di acrobazie fantastiche e paure primordiali, simili a “fotografie di sogni dipinti a mano” in bilico fra sublime e superfluo, in una scenografia dell’assurdo in cui ogni paranoia è sistemata in una casualità ragionata. Così da introdurci al suo “metodo paranoico critico” di conoscenza irrazionale i cui le “associazioni e le interpretazioni dei fenomeni deliranti” trovano una sistemazione nel pensiero dialettico.
Il viaggio nel misterioso e scabroso realismo fantasmagorico dell’artista ha il suo preludio in bianco-nero lungo un corridoio scuro rivestito ai lati da gigantografie della serie “Dali’s mustache”, scattate dal geniale ritrattista Philippe Halsman, al quale lo legò un sodalizio artistico durato oltre 30 anni. I sapienti giochi di luce, l’ironia, l’anticonvenzionalità del grande fotografo (nel 1942 lo ritrasse nudo, rinchiuso all’interno di un uovo,simile ad un embrione), sono speculari al carattere istrionico e narcisistico dell’artista catalano. I contrasti audaci, le pose bizzarre sollecitano la fantasia di Halsman, che “annoda” con il filo sottile dei celebri baffi (tributo a Velasquez) un racconto irrituale e fedele all’originale.
In una saletta adiacente, come fosse una camera oscura dotata di monitor, si diffondono i filmati delle sue teatralizzazioni, traboccanti di vitalità : rappresentazioni della società consumistica dal bulimico bisogno di nutrimento “la ben nota, sanguinolenta e irrazionale cotoletta ai ferri, che ci divorerà tutti”.
La sequenza dei temi da lui prediletti prende l’avvio con “Autoritratto dal collo lungo di Raffaello”, opera giovanile del 1921 e omaggio a uno dei suoi maestri, velato di malinconia in arancio, indaco e violetto, sullo sfondo del natio villaggio di Codaques. Dalì scavava sempre nelle proprie memorie per riportare alla luce luoghi familiari, incubi o legami profondi.
Così nella “Figura alla finestra sulla baia”, la morbidezza della modella (la sorella Anna Maria sorpresa di schiena) nasconde un sottile erotismo (motivo che in seguito diventerà ossessivo) che fa da contrappunto alla quiete dell’atmosfera estiva. La calda luce mediterranea accoglie le “Bagnanti nude di Llane”, ammucchiate sulla spiaggia con un’armonia costruttiva che rievoca l’unitarietà dello spazio di Cézanne. Le bellissime illustrazioni all’autobiografia di Benvenuto Cellini e al Don Chisciotte evidenziano le sue raffinate doti di disegnatore.
La “Madonna di Port Lligat” ha per protagonista Gala, sua inseparabile modella e compagna: l’ambientazione rinascimentale è un tributo a Piero della Francesca. Nell’azzurro statico del cielo, interrotto da elementi architettonici frammentati e sospesi nel vuoto, una conchiglia e un uovo galleggiano sul capo della donna amata in un equilibrio misterioso (rivisitazione della celebre Pala di Brera), mentre intorno elementi rituali si mescolano a nuove ossessioni come forze che si attraggono e si respingono in simmetrica composizione.
“Singolarità” è un delirio rosso che trasferisce in una scenografia dell’assurdo forze arcane, ancestrali, contraddittorie, in strane associazioni, pescate negli archetipi del pensiero.
“Impressioni d’Africa” è un paesaggio di memorie sensoriali, immerse in un’atmosfera crepuscolare, carica di segnali (celati da un ambiguo realismo) che rilevano concatenazioni illogiche di mondi paralleli. In primo piano, a sinistra, il pittore seduto allunga la mano per afferrare l’attenzione dello spettatore e condurlo nei labirinti della tela.
Qui, come anche nel piccolo gioiello “Lo spettro del sex appeal”, incastonato in una cornice importante è la cura minuziosa del dettaglio, da fine cesellatore, a farci scoprire le doti tecniche dell’artista. Le imponenti scogliere rossastre della Catalogna, come una geografia dell’anima, sono il palcoscenico naturale su cui si dipana il suo destino. Da queste visioni si svela il suo Metodo, come formazioni geologiche “mutevoli, enigmatiche, ambivalenti, simulatrici, camuffate, vaghe e concrete, senza sogno né rabbia, misurabili, oggettive, materiali e dure come il granito”. E in un angolo, minuscolo, l’eterno bambino osserva la mostruosa figura acefala dal ventre e dai seni deformati sorrette dalle grucce, puntello dei suoi deliranti viaggi interiori.
Si procede un po’ a tentoni, nonostante la forte illuminazione delle sale (una luce più soffusa avrebbe favorito una maggiore intimità percettiva) per soffermarsi sulla poetica “Coppia con la testa piena di nuvole”, due silhoutte profilate d’oro (Gala e Salvador) che racchiudono due delicati paesaggi, “apparecchiati” di simboli su linde tovaglie, sovrastati da un cielo nuvoloso in coincidenza delle teste.
“In quanto il più generoso di tutti i pittori, io mi offro continuamente come cibo e servo alla nostra epoca da eccellente nutrimento”, scriveva Dalì; e se sotto il suo pennello gli orologi ( “il tempo è la dimensione delirante e surrealista per eccellenza”) si deformano in materia molle, anche il suo “Autoritratto con pancetta” si liquefà in una ripulsiva, inafferrabile sostanza gelatinosa .
Il cinema fu una sua grande passione: “Il Surrealismo lì diventa realtà”, sosteneva fin dai tempi della collaborazione con Bunuel a “Un chien andalus” e “L’age d’or”. Negli anni ’40, segnati dal declino creativo e dall’espulsione dal movimento surrealista, la collaborazione con Hitchcock (“Io ti salverò” ) e poi con Disney per il magnifico cartone animato “Destino” (visibile in un piccolo monitor a fine percorso ma con un ’audio carente e coperto dallo scalpiccio dei visitatori sul parquet), sembrarono favorire la sintesi a tutte le sue più geniali fantasie.
A conclusione della mostra, come testimonianza dell’amore che aveva per l’Italia, le foto dei suoi soggiorni, il filmato nel parco “dei mostri”di Bomarzo, i progetti realizzati con Visconti e quelli rimasti come sogni nel cassetto con Fellini. Insoluto, invece, rimane il quesito già a suo tempo sollevato da Breton: “Dalì un uomo sempre esitante fra genio e talento, vizio e virtù”, a cui Dalì rispondeva: “Ma io cercavo sempre il cielo, attraverso la consistenza della carne, sconcertata e demoniaca della mia vita”.

un reportage sulla mostra – web tv della Luiss
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Il sogno – scenografia di Dalì
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Un video di Walt Disney dedicato al lavoro di Dalì
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Iodice, un’Italia di genitore in figlio

iodice-smallRENZO FRANCABANDERA | Se esiste una questione cruciale per chi indaga sul teatro, essa pertiene eminentemente all’ambito della solitudine. Questo sentimento è uno di quelli cui il critico maggiormente deve farsi avvezzo, in ragione dell’ovvia e in fondo anche naturale propensione dell’uomo a stabilire rapporti che possano minare l’indipendenza di giudizio.
Non è raro “prendere a cuore”, in quel senso etimologico che riguarda il voler bene, lo sviluppo di un momento empatico con chi fa arte, e in modo precipuo con chi lo fa in modo serio, con accanimento quasi animale, la cui ragione profonda non risiede né solo nell’indole nell’artista né nella sua intelligenza creativa, ma in quel sistema di ricambio emotivo che spesse volte finisce per indurre una sorta di distorsione visiva, una propensione a calibrare in forma imprecisa il proprio giudizio.
Davide Iodice è artista che nella Napoli dell’impegno teatrale, del rapporto non “raccomandato” ma vivo, militante, con il fare scena, è riconosciuto come intelligenza capace di spunti di creatività e innovazione sul linguaggio non banali, e comunque mai superficiali.
Mi accosto dunque con serietà al sentimento non solo di distacco ma anche di dissenso che invece in me ha generato la creazione artistica che Iodice ha proposto durante il Napoli Teatro Festival, cercando anche di capire le ragioni per le quali diversi colleghi con cui pure mi sono a lunghissimo, e con un calore raro, confrontato su quello che ho visto, si sono detti invece colpiti positivamente da quanto visto.
“Un giorno tutto questo sarà tuo”, proposto al San Ferdinando nel primo week end del festival, è un lavoro che vuole indagare la storia d’Italia, o forse meglio la società italiana dell’ultimo secolo, senza nessuna velleità di completezza ma cercando di portare in maggior definizione quei fili, quei legami che infatti non a caso a più riprese ricorrono proprio materialmente in scena, ricercandone i bandoli, fra grandi balzi nei decenni, in alcuni episodi e momenti chiave della vicenda collettiva.
Iodice sceglie così l’Italia che si fa unita, quella delle guerre mondiali, della migrazione, del Sessantotto, di Piazza Fontana, quella delle lotte operaie, e quella gravida di speranze per un futuro incerto, che deve ritrovare pace, spesso senza riuscirci. Iodice affida la chiusa dello spettacolo alla figura di Carlo Giuliani e a quel sentimento di protesta che serpeggia nel nostro tempo e che, dal nostro punto di vista, legge la realtà ma non centra l’obiettivo perché si fa protesta dal piglio estremo, finanche solitario, perché continua a scegliere, forse, la via della violenza, dello scontro.
La successione fra epoche è raccolta nell’intimo del rapporto filiale, cui questo lavoro concede il massimo spazio, portando in scena le madri e i padri degli attori, esito di un laboratorio sul passaggio generazionale. Questo esperimento di teatro-realtà in fin dei conti riesce, non trasforma il condensato scenico della ricerca in episodi banali dal sapore catodico.
Ma se questo rischio viene abilmente evitato, e così pure tutte le sue più spiacevoli e banalizzanti conseguenze, il lavoro mostra invece più debolezza in alcuni contrappunti didascalici, in scelte di immagine che non trovano vera e profonda spiegazione.
Se emblema del legame filiale è proprio il filo che annoda le vicende, questo elemento viene declinato in tutte le sue possibili forme e se alcune risultano di un certo interesse, altre sono totalmente superflue e pertengono all’ambito dell’inutile scenico, se non in alcuni casi e con il nostro metro estetico, del brutto.
Così anche questa sorta di mamma Italia, che piange sul cadavere di Carlo Giuliani che viene ricordato negli ultimi istanti dello spettacolo per la sua sfortunata fine durante le manifestazioni per il G8 di Genova, non convince.
Si, il rapporto conflittuale fra genitori e figli può trovare sicuramente in quell’elemento di contestazione una sua lettura, ma onestamente mentre tutti gli altri passaggi storici vengono letti dall’esterno, in forma mediata, raccontata, quest’ultimo episodio, ricordato invece con il suo risvolto più mediatico e televisivo, impoverisce, fa didascalia.
La sensazione di questo spettacolo è che in diversi momenti Iodice avrebbe potuto fermarsi prima, alleggerire, dire meno. Invece, in questa impossibile tensione di onnicomprendere e far sintesi di una vicenda nazionale, la semplificazione per un verso e l’horror vacui dall’altro finiscono per nuocere in modo a tratti feroce. E’ vero che leggere il presente è arte difficile, ma come diceva Calvino, raccontare bene in sintesi è molto più difficile che farlo in modo analitico. Iodice su questo lavoro, che è ancora in forma di studio, ha da alleggerire le ali del poetico, che rischia diversamente di non riuscire a prendere il volo.

Disegno di Renzo Francabandera

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Il teatro educa: incontri del fare e del pensare

Report-Teatro-Educazione_2-300x235ANDREA CIOMMIENTO | Nei maggiori centri teatrali europei l’Educational Theatre (o EduTheatre) si fa garante istituzionale di percorsi formativi, focus group propedeutici alla visione, esperienze laboratoriali e allestimenti teatrali con vocazione pedagogica (solo per citarne alcuni: il Globe Theatre e il National Theatredi Londra, lo Schaubühne di Berlino, ilThéâtre de la Ville di Parigi).

Il loro punto di partenza e di arrivo non è solamente il destinatario bambino o ragazzo ma una più articolata idea di educazione contaminata alle espressioni artistiche. Da tempo ci chiedevamo quale fosse l’istantanea panoramica di un teatro concesso all’educazione nel nostro Paese. Così, motivati dalla ricerca di azioni sceniche portatrici di senso, abbiamo seguito le tre giornate sul Teatro del Fare e del Pensare a Cascina (vicino Pisa)un’occasione propizia per riflettere sul legame tra teatro e arcipelaghi educativi attraverso il coinvolgimento di artisti, docenti, educatori, operatori sociali e culturali. La Fondazione Sipario Toscana, ente promotore dell’iniziativa, ha proposto una ricca programmazione d’incontri e workshop tra cui Sguardi sulla visione e la bellezza insieme a Fabrizio Cassanelli (regista e attore/Fondazione Sipario Toscana), Giorgio Testa (pedagogista) e Renzo Boldrini (regista e attore/Giallo Mare Minimal Teatro); Interazioni sulla trasformazione non–violenta del conflitto interculturale con Gigi Gherzi (regista e attore) ed Enrico Euli (filosofo e psicologo/Università di Cagliari); Emozioni sulla creatività e poetica del corpo con Chiara Pistoia (attrice/danzatrice), Serena Gatti (attrice), Piera Principe (danzatrice) e Mario Piatti (pedagogista). La Fondazione ha comunicato il rilancio nazionale della regione Toscana come laboratorio esperienziale del teatro per le nuove generazioni, rimettendo nuovamente al centro il confronto sulle metodologie e le pratiche teatrali per l’educazione, la ricerca di una relazione autentica tra teatro e ambienti socio-educativi e la costruzione di un orizzonte culturale e progettuale condiviso.

Per stabilire la nostra riflessione, qui e ora, sentiamo la necessità di ricordare quel che unisce pedagogia e teatro ripartendo dall’inizio, seppur in forma sinottica. Il secolo delle ansie pedagogiche (il Novecento) ha fatto evolvere memeticamente il teatro e l’educazione grazie ad artisti e pedagoghi come Copeau, Stanislavskij, Mejerchol’d, Decroux, Laban, Grotowski, Brook, Dewey, Montessori, Rodari, Piaget. Tra questi, lo studio di Célestin Freinet ha portato alla nascita del Movimento Cooperazione Educativa (1951), ottenendo risonanze italiane attraverso le ricerche sulla soggettività di Mario Lodi e le attività parascolastiche di Bruno Ciari fino all’approccio educativo connesso alla maieutica socratica (l’arte del tirar fuori) portato avanti da Danilo Dolci. Saranno gli anni Settanta i veri testimoni del congiungimento ufficiale tra pedagogia progressista e rinnovamento teatrale con la scoperta di teatri al di fuori del teatro stesso (in spazi nuovi e aperti) e la conseguente nascita del movimento torinese dell’animazione teatrale (animation théâtrale) grazie alle iniziali visioni profetiche di Franco Passatore, Gianrenzo Morteo e Remo Rostagno. S’intravede un teatro pronto ad uscire dalla scena e ad entrare nella vita sviluppando una pedagogia e una didattica dell’educazione come attività creativa di gruppo e uso attivo del proprio corpo (contro un’educazione rigida e nozionistica che non vede l’integralità della persona). Una corsa a ostacoli, certamente, sorretta dalla voglia di dare un senso a questa complessità, una scoperta pioneristica fondata sulla progettazione, documentazione e ricerca di ogni spazio abitato dai ragazzi: dalle palestre sorde agli androni delle scuole fino ai cortili della città urbana e suburbana. Un traguardo raggiunto con il riconoscimento dei teatri stabili d’innovazione per le nuove generazioni, un protocollo d’intesa ministeriale e la creazione di un Centro di Teatro Educazione promosso dall’Ente Teatrale Italiano (ETI) del Ministero della Pubblica Istruzione, con specifico interesse a tre principali aspetti educativi: la pratica teatrale nella fase dello sviluppo evolutivo nella scuola, il significato dell’essere spettatore e la metodologia della didattica della visione (sviluppata negli ultimi quindici anni a Roma, a Firenze e in Friuli). Un’alleanza amputata istituzionalmente con la soppressione dell’ETI nel 2010 e la conseguente dissoluzione del CTE. E adesso, come costruire il futuro o quantomeno immaginarlo?

Le tre giornate di Cascina hanno ristabilito la profondità del punto focale: recuperare la sirena degli anni costruiti insieme pensando al teatro come a un servizio pubblico, a stretto contatto con gli insegnanti e gli ambienti socio-educativi. Un’eredità che serve, probabilmente, per fare chiarezza: pedagogia, teatro, animazione sociale e teatrale, insegnamento, didattica della visione, esperienza laboratoriale, metodologia, rigenerazione della scuola, legittimità istituzionale, metodi attivi… Consideriamo questi giorni un prezioso momento di condivisione e crescita, non d’inizio ma di proseguimento, con la speranza che il Teatro Educativo (Educational Theatre) non diventi un’ulteriore etichetta di mercato ad autocombustione pronta a cadere giù nella fossa, rigurgitando se stessa o nel migliore dei casi i suoi gemelli omozigoti. Auspichiamo altresì un’attuazione autentica non solo basata sulla logica dello scambio di spettacoli e di progetti stantii tra centri di settore ma piuttosto sulla garanzia di una contaminazione e di un’educazione rivolta all’ascolto reale del contemporaneo (senza troppe congetture teoriche di origine sociologica), avendo certamente a cuore la responsabilità educativa (paritetica) nei confronti delle nuove generazioni.

Vi presentiamo i due contributi video pubblicati sul canale web Arte&Culture Live :

Il teatro educa con interventi di Fabrizio Cassanelli, Loredana Perissinotto, Giorgio Testa, Enrico Euli, Guido Castiglia, Gigi Gherzi, Mario Bianchi, Piera Principe.
Link: http://www.youtube.com/watch?v=oToOdSRgMWM

Intervista a Donatella Diamanti, nuovo direttore della Fondazione Sipario Toscana – Teatro Stabile d’Innovazione, Cascina (PI)
Link: http://www.youtube.com/watch?v=tbjb198TMgw&feature=plcp

Si ringrazia per il supporto ai contenuti scritti: Fabrizio Cassanelli, Giorgio Testa, Mario Bianchi, Loredana Perissinotto.

Il teatro educa: incontri del fare e del pensare (Fondazione Sipario Toscana)

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Donatella Diamanti, direttore Fondazione Sipario Toscana

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Se a scuola il teatro greco non è solo sulla carta

BRUNA MONACO | Si è da poco concluso a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il XVIII Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani che, insieme alla stagione del teatro greco di Siracusa, è un asse portante dell’attività della fondazione Inda. Novantadue le scuole che quest’anno sono state coinvolte nel progetto, per lo più secondarie superiori, ma anche qualche classe elementare. E ben quattordici venivano dall’estero: Francia, Belgio, Russia, Lituania, Grecia e altre.
Gli attesissimi Inni bacchici e danze tribali dei ragazzi della Tanzania non hanno purtroppo lasciato l’Africa per problemi burocratici, ma per l’anno prossimo sono previste scuole e spettacoli da oltre oceano. Una festa di portata internazionale in espansione, quindi, e non solo geografica: dai sei giorni della prima edizione nel 1991, si è passati oggi a quasi un mese di festival: dal 9 maggio al 4 giugno. E il ritmo è sostenuto: tre, quattro, a volte cinque spettacoli al giorno, in un teatro antico, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, che non ha nulla da invidiare a quello di Siracusa.

Una grande esperienza per questi giovanissimi appassionati di classicità e teatro che, dopo un anno di laboratorio e ore di prove rubate non alla scuola ma al proprio tempo libero, possono infine mostrare le proprie creazioni davanti a un pubblico di quasi professionisti: coetanei e “colleghi” con cui condividono ansie e, soprattutto, passione. Qui non si tratta del saggio finale davanti a parenti e amici, si tratta di misurarsi con estranei – studenti, turisti, operatori – e con la monumentalità del teatro classico. Per scoprire che, dietro la patina di noia e distanza che ricopre tragedie e commedie, c’è il gioco dei giochi: il teatro. E che quel gioco aggrega e accresce come nient’altro, è scuola nel senso più alto del termine: un luogo di crescita e condivisione.
Nei vari spettacoli, gli approcci pedagogici e artistici si intrecciano secondo le più diverse combinazioni e con risultati a volte sorprendenti. La qualità media è infatti molto alta e in alcuni casi, addirittura, le proposte non sfigurerebbero sulle scene di norma calcate dai professionisti. Peccato che il passaggio dall’essere attori a spettatori è senza mediazione, e sia mancato un momento, uno spazio in cui i giovani si potessero riunire e riflettere insieme sull’intercambiabilità del ruoli del teatro: dalla scena alla platea, in ogni caso parte essenziale dell’opera teatrale. Al gioco, insomma, è mancata la sua controparte fondamentale: la riflessione sul gioco stesso, i modi di attuarlo e di assistervi.
Resta però che il Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani e le iniziative analoghe meriterebbero più attenzione da parte degli addetti ai lavori, di studiosi e ricercatori. Da una realtà teatrale considerata marginale, come appunto è quella del teatro nelle scuole, c’è tanto da imparare. Per esempio, che l’arte non è detto che nasca sempre dove la si aspetta, ovvero dove si afferma di produrla. E che l’innovazione è impossibile senza vitalità e desiderio di rivolta, qualità facili da perdere nella vischiosità del sistema, eppure ancora intatte in quei ragazzini che per la Morante avrebbero salvato il mondo. Sarebbe salutare uscire un po’ dall’asfissia, dal gioco di specchi artisti-produttori-critici, e tornare alla fonte: al rapporto col pubblico. E quale pubblico migliore degli studenti che, se anche ci ostiniamo a non considerare come attori sulla scena del presente, lo saranno di sicuro su quella di domani?

Luca Dini (Pontedera Teatro)

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

L’Hamlet di Lenz Rifrazioni

ofelia lenz hamletRENZO FRANCABANDERA | La ripresa dell’Hamlet di Lenz Rifrazioni è a suo modo un evento. Dopo gli allestimenti alla Rocca dei Rossi di San Secondo (2010) e alla Reggia di Colorno (2011), Lenz ha riproposto la sua rilettura del classico di Shakespeare diretta da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, nell’ultima settimana di maggio all’interno della stupenda cornice del Teatro Farnese di Parma. Con cadenza annuale, dunque, questo itinerario esperienziale porta gli spettatori all’interno di un percorso-confronto con l’altro da sé e con il sé fragile che con più difficoltà accettiamo. Il cuore di questo lavoro, persino della stesura drammaturgica e della più profonda intimità che l’allestimento emana, è dovuto alla partecipazione, in qualità di attori, di alcuni degli ospiti della Comunità Terapeutico Riabilitativa, per un’esperienza iniziata oltre dieci anni fa in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Parma.
Gli attori “sensibili” sono Liliana Bertè, Franck Berzieri, Giovanni Carnevale, Guglielmo Gazzelli, Paolo Maccini, Luigi Moia, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Varoli, Barbara Voghera.
Fin dalla scalinata d’ingresso lo spettatore viene condotto fra video installazioni e momenti recitati attraverso una sorta di amletica via crucis, dove perfino la crocifissione trova esplicita menzione. Il Teatro Farnese, i suoi anfratti, le bellissime sale del palazzo che lo ospita, sono un luogo all’interno del quale il recitato riesce a sospendersi in epifanie dell’irrisolto, dove mai quello cui si assiste chiude o completa alcun concetto, lasciando un sentimento di sospensione onirica, tanto che l’essere o non essere arriva alla fine, quasi a confermare lo stadio intermedio, il dormiveglia dell’anima cui tutto si ispira, quel momento ipnotico capace, a volte, di regalare intuizioni, premonizioni, a farsi deposito di saggezza ancor più assoluta, proprio in quanto non decodificata con il sistema di valori del consesso sociale, ma al bordo del sensibile umano, in quel limitare che a volte si avvicina a ciascuno di noi in forma pericolosamente chiara e leggibile.
Il confronto dialettico fra Amleto e Ofelia, prima del suicidio di quest’ultima, è perfetto da questopunto di vista: i due personaggi non sono più emanazione shakespeariana ma per il tramite dei personaggi portano in scena il loro vissuto, le loro solitudini, con lui che, nel condannarla a una vita senza amore con parole “da matti”, risolve il dialogo in una delle vette comiche dello spettacolo, una comicità che nasce proprio dalla constatazione dello stato di emarginazione in cui chi troppo ama, chi troppo sente, finisce per trovarsi, con una beckettiana e comica rassegnazione. L’Hamlet, proprio perché affidato a sensibilità ulteriori, vive la sua forza nei momenti in cui questo concetto diventa cristallino, distillato, in cui la spontaneità non viene incanalata in una volontà d’ordine troppo sovrastrutturato.
Cerchiamo di snodare questo punto in modo il più dettagliato possibile, perché in questo si risolve il nostro giudizio di merito sull’operazione artistica. Concettualmente la stessa è intrinsecamente legata ad una lettura quasi platonica, che prende solo a pretesto il testo shakespeariano. Supponiamo che l’obiettivo dell’operazione sia proprio quello di indagare forza e fragilità del vivere per il tramite dell’opera teatrale, capace di farsi incarnato nel corpo di una persona con sensibilità psichica più accentuata. Maria Federica Maestri e Francesco Pititto paiono, infatti, voler spingere chi percorre questa simbolica processione, dallo stato di coscienza all’incoscienza del sè, ricorrendo a quella sorta dottrina della reminiscenza di cui Platone parla nel Menone, per arrivare a un interrogativo più dilaniante sul senso del vivere, del morire e del transito di sentimenti che ci attraversa.
L’imperfezione con cui, fin dall’inizio dello spettacolo, siamo costretti a confrontarci, diventa quasi rovesciamento di un ideale estetico e di ragionamento, che è quello del mondo “fuori”, ma in grandissima parte anche di quel mondo all’interno del quale la rappresentazione stessa viene svolta, la Pilotta, appunto. In non poche scene, come quella ai piedi della statua antica, infatti, il tema della reminiscenza dell’assoluto e della sovversione dell’ideale estetico trovano estrinsecazione. Sono i punti in cui l’imagoturgia di Pititto risolve meglio il dilemma di Amleto che cerca l’idea di un sé oltre la pazzia, come possibile condizione di sonno, del sogno. L’assoluto pare qui essere nella coincidenza degli opposti, come quando ai piedi della statua di prassitelica ispirazione, quasi si addormenta uno degli interpreti della casa di ricovero, con il suo fisico imbelle, dilaniato dall’adagiarsi giorno dopo giorno sulle palpebre del peso del farmaco sedante.
E’ quando lo stridore, l’incrocio concettuale, viene più naturale che il percorso iniziatico dello spettatore trova i suoi momenti più alti, quando il chiasmo lega mondo reale e universo del sonno/sogno con ideale estetico e sentimento dell’imperfezione. Quando invece ricerca lo stesso risultato con mezzi più artefatti, come nell’insistito di dialogo con i video da parte degli attori (a volte con l’artificio del fuori sincrono), l’operazione, proprio perché si spinge alla ricerca di una sublimazione estetizzante del termine imperfetto del chiasmo, sbilancia il delicatissimo equilibrio della struttura ad X, dove ogni polo dell’incrocio concettuale deve essere puro, assoluto, incontaminato.
Capita così di avvertire il peso di una certa lunghezza, di una costrizione ad alcuni momenti fruitivi che potevano essere risolti in maniera più sintetica. Invece la sosta, la stasi, la stazione della via crucis, trasformano in alcuni momenti l’Hamlet da operazione di risveglio platonico in ricerca di un liturgico teatrale neo-pitagorico e accessibile a pochi, di cui non sono più incarnazione gli interpreti e la loro imperfetta e al contempo assoluta elementare saggezza, ma i registi, con la loro costruzione sovrastrutturale.
E se è normale che questo in fondo un po’ avvenga in ogni creazione d’arte, è pur vero che, nel meno, questo lavoro potrebbe trovare ancor di più, con qualche accortezza maggiore dal punto di vista tecnico sull’impianto di amplificazione sonora non sempre all’altezza nella regolazione dei volumi e delle distorsioni, e dal punto di vista concettuale attraverso l’eliminazione di barocchismi artistici, laddove il livello base è già capace, ha già la potenza di impatto per risvegliare.
Esemplifichiamo, anche in questo caso, con un episodio estrapolato dallo spettacolo, che è proprio quello della morte di Ofelia. L’evento segue l’irresistibile dialogo cui si faceva menzione prima, dialogo di naturalissima e al contempo antinaturalistica semplicità, giocato al bivio fra vero e falso, sulla condizione del disagiato psichico, talmente capace di amare, da rimanere vittima di questo sentimento così distillato. La scena si svolge sul palco del teatro Farnese. Il pubblico è anch’esso sul palco, spalle alla sala. Poi Ofelia, questa anziana attrice, recitando una sorta di straziante Miserere popolato di incubi e creature bestiali, inizia a percorrere la sua lentissima camminata verso il destino, procedendo a piccoli e incerti passi sulla lunga passerella che dal palco la porta in una platea vuota, sgombera di sedie, fin verso l’uscita di scena, che avviene proprio dalla porta di ingresso in platea. Provate a immaginare questa piccolissima figura, sovrastata dal barocco del teatro, con il pubblico che la segue con lo sguardo allontanarsi, mentre la sua voce amplificata continua a portarci nelle orecchie la paura del buio, dei coccodrilli. Ecco, in questo, già di suo, ricchissimo e potente insieme di simboli, lo spettatore deve distogliere il suo visus dalla vicenda, richiamato da proiezioni che in fondo nulla tolgono e nulla aggiungono a quanto già di suo, fortemente sta avendo luogo.
L’Hamlet può trovare un più fecondo terreno di approfondimento per i prossimi allestimenti, ove, a nostro avviso la regia fosse capace di riequilibrare il chiasma, lasciando all’imperfetto di mostrare la sua immensa potenza nell’incerta camminata, senza costringere a vederla e rivederla ripresa da altri obiettivi e proiettata con dispositivi tecnologici finanche alle nostre spalle. In questo horror vacui risiede una debolezza ancora irrisolta dell’impianto artistico nella sua attuale versione. Di fronte alla potenza dell’imperfetto, che deve introdurci al sogno e innescare il percorso della reminiscenza, per trovare l’assoluto attraverso la perdita di coscienza del sé istituzionale, guidata dal passo malfermo di un essere fragile e spaesato, è ovvio che distogliere in quello stesso momento l’attenzione dal processo di abbandono del nostro inconscio con il ricorso a mezzi sofisticati e tecnologici può finire per essere un’infrazione grave di quell’ideale prassitelico di misura che trovava nel motto «nulla di troppo» (medén ágan) la sua sintesi perfetta.

Disegno Renzo Francabandera

Claude Debussy, in mostra a Parigi fra suoni e visioni

manifesto-mostra DebussyMARIA CRISTINA SERRA | La musicalità infinita delle iridescenti Ninfee di Monet, pregne di luce riflessa nella superficie a specchio degli stagni, è lo sfondo sublime nel quale immergersi, accompagnati dalla fluidità delle note di Claude Debussy. Un viaggio attraverso una rassegna che ci svela l’intreccio fra percezione visiva e uditiva, in un’unica trama, senza confini di luoghi e di tempi, allestita al Musée de L’Orangerie (fino al 16 Giugno).

Per il 150° anniversario della nascita del “più francese” dei compositori, la mostra “Debussy, la musica e le arti”, curata in maniera strutturalista da Guy Cogeval, Jean-Michel Nectoux e Xavier Rey, restituisce il complesso itinerario artistico del grande musicista, legandolo a quello dei numerosi esponenti dell’arte con cui venne in contatto. Si è, inoltre, ricreata l’atmosfera estetica di un’epoca nella quale si respirava l’aria di transizione fra lo stato d’animo impressionista e quello simbolista, la fascinazione dell’Art Nouveau e l’amore per l’Oriente e il Giapponesismo: scenario sfaccettato in cui si libera l‘immaginario del musicista innovatore del ‘900.

Una rassegna di grande seduzione che accosta (in un ambiente tinteggiato di blu profondo e illuminato da luci sapienti e soffuse, in contrasto con la luminosità del Museo) affinità e discordanze, arte e letteratura, accompagnate dal sottofondo melodico di un “sogno a cui sono stati tolti i veli”, inseguito per tutta la vita da Debussy, pervaso dal desiderio di catturare un presente inafferrabile.

Il percorso, attraverso un andamento ad arabesque, è segnato dalle opere di Monet, Manet, Degas, Renoir, Turner, Denis, Bonnard, Redon , Rossetti, Moreau, Klimt, Munch, Gauguin, Hokusai, Whistler, Kandisky; dalle sculture di Camille Claudel che riusciva a trasformare in materia l’anima; dai contributi letterari di Mallarmé, Villon, Valéry,
E. A. Poe e Baudelaire; dalle coreografie del ballerino Nijinsky, che aveva rubato agli uccelli il segreto della leggerezza. Il tutto intervallato con un’alchimia perfetta fra immagini e suoni, con documenti, oggetti, suppellettili, carteggi, spartiti e foto d’epoca, preziosi per ricreare lo scenario storico della Bell’Epoque.

E’un rapporto empatico quello che Debussy stringe con la natura, liberandola dalla staticità delle forme, innalzandola a principio ispiratore, intuendo “la possibilità di una musica costruita appositamente per l’aria aperta, fatta tutta di grandi linee, di audacia vocale e strumentale, che gioca nell’aria libera e plana gioiosamente sulle cime degli alberi”.

Il linguaggio del vento e dell’acqua è colto nelle sue misteriose analogie con le asimmetrie della struttura musicale, rivelando e nascondendo assonanze e dissonanze armoniche, cariche di ovattate sonorità senza regole prestabilite. “Gli accordi devono essere incompleti, fluttuanti, in modo che, sfumando, il tono possa sempre finire dove si vuole, uscire e rientrare dalla parte che si percepisce”, diceva il musicista. E’ nella libertà che la disciplina deve costruire le sue fondamenta, ”sforzandosi”, spiegava Debussy, “di conservare ad ogni timbro la sua purezza, di metterlo al suo vero posto”.

“Dialogue du vent et de la mer”, “Le jet d’eau, “Refletts dans l’eau”, “La mer”, “L’après-midi d’un faune”, suggestivi titoli di alcune sue composizioni, sono la chiave di lettura per penetrare nei tanti mondi sommersi, o in quelli luminosi, al pari delle vetrate delle cattedrali gotiche, e che fanno da eco alle suggestioni evocate dai dipinti in mostra. L’intensità e le molteplici sensazioni, evocate dal mare, sono raffigurate dalle leggere pennellate di Monet, intonate sulle sfumature di bianchi velati di grigio-azzurri e rosa, sotto le cui trasparenze emergono gli spezzoni brunastri delle rocce.
La ”Marina” quieta di Degas scopre un infinito mare immobile: solo un filo netto di azzurro separa il cielo punteggiato di nuvole. La “Baia nascosta tra le dune”, dipinta da Turner nel 1845, avvolta dall’abbagliante luce solare che mischia le forme con dorate evanescenze, scopre grovigli di arbusti che si allungano indistinti, fondendosi con la luce dell’orizzonte.

I colori impastati di luminosità sollecitano Debussy ad allontanarsi dalla scrittura musicale classica, per modellare un nuovo linguaggio secondo un ordine cromatico. L’esotismo e l’audacia di Hokusai gli suggeriscono turbamenti improvvisi come “L’Onda” che si innalza brutale verso il cielo calmo: l’eterna contrapposizione fra lo Yin e lo Yang. Il fragore è riassorbito dal silenzio, dalle pause, dagli accordi slegati, sussurrati. Il “non detto” è cercato da Debussy come “mezzo di espressione per far volare l’emozione di una frase “.
L’impalpabile indefinito che si fa finito nella zona di mezzo fra notte e giorno di Redon, mentre intinge il suo pennello nei colori del silenzio, è speculare ai preludi per pianoforte. La “Notte stellare” di Munch dalle forme incerte, dinamiche, visionarie, si specchia nella scomposizione stilistica di alcuni suoi brani. La “Sala della musica” di Vuillard, satura di colori e di elementi sovrapposti, è una metafora della fluidità melodica nel tessuto orchestrale. Il notturno danzante di H. Winslow della “Notte d’estate” ci lascia una sensazione di vertigine, come se onde sonore riempissero la notte. La bellissima “Marina con vacca” di Gauguin, priva di valori spaziali e ricca di
tinte forti, evoca interruzioni improvvise di armonie, ricomposte in una stesura musicale dalle infinite variazioni. E’ una sinfonia in verde e rosa quella evocata dai “Roseti sotto gli alberi”di Klimt. “Il più ricco insegnamento viene dalla musica”, scriveva Kandisky nel suo saggio “Lo spirituale nell’arte”: “nasce da qui l’attuale ricerca di un ritmo pittorico, di una costruzione matematica astratta; il valore che si da alla ripetizione della tonalità cromatica, al dinamismo dei colori”, che nel “Parco di Saint-Cloud” si diffondono con idilliaca grazia, contrastati ma fluidamente legati tra loro. “Le spiagge dorate” di H. E. Cross, che penetrano in un crescendo di riflessi rosati nel mare di un sereno azzurro, si dischiudono alle sensazioni oniriche, come trasportate dalle note de “La mer”. Al centro di una parete divisoria, fra due ali di capolavori, l’enigmatica “Fanciulla eletta” di G. Rossetti, dallo ieratico erotismo, giocato sui cromatismi degli ocra e dei neri, irradiati di bianco, rimanda al poema lirico che alla fine dell’Ottocento rivelò il temperamento di Debussy. Come l’intermittenza del cuore, di una “Sérénade interrompue”, che lascia sospesi i sentimenti, per decrescere improvvisamente, “La Valse” di Camille Claudel, che nel bronzo insieme ai corpi avviluppati fondeva il suo genio artistico, il vortice della passione disperata per Rodin, il dolore per una “pazzia indotta”, ci appaiono come l’allegoria di un’epoca dorata sotto la quale covavano le contraddizioni di una società, che si stava avviando inesorabilmente verso la catastrofe della Prima guerra mondiale.

Un contributo in francese sulla mostra

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La musica di Debussy
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