Da tempo capita con sempre minor frequenza di vivere l’elemento corale nella proposta teatrale. E’ costoso e le compagnie non possono permetterselo. Sarà per questo che Armando Punzo sta cercando di togliersi lo sfizio nella forma più estrema, chiedendo a cittadine intere di partecipare al suo progetto su Mercuzio, cui potremo assistere a Volterra in occasione del Festival che nelle ultime settimane di luglio troverà albergo nella città toscana e in alcuni paesi viciniori.
Non è di questo che vogliamo parlare, comunque, ma di una delle più interessanti declinazioni di coralità cui ci sia capitato di assistere di recente, ad opera di una compagnia giovane, ma capace di scelte e letture sceniche di una certa audacia. La proposta di cui parliamo è quella della Compagnia degli Scarti di La Spezia, che quasi in chiusura di stagione ha proposto al Pim Off la sua personalissima lettura di uno dei classici del teatro dell’ultimo secolo, l’Ubu rex di Jarry, il padre del teatro patafisico.
La scena è poverissima. Sul fondo un telo bianco, per terra un delimitato scenico che null’altro è se non il pavimento delimitato sui tre restanti lati da un segno bianco. Un mondo rinchiuso, una nazione, il mondo.
Oltre a questo, alcuni piccoli bancali di legno modulari dipinti di bianco, che diventano tutto quello che può servire ad un allestimento povero: da scranno del sovrano a trincea, da sepolcro a campo di battaglia, e navi, e case.
Si capisce bene, da queste considerazioni, come in realtà la compagnia abbia usato quell’ingegno, che solo può permettere al pubblico di farsi parte integrante di quanto accade, dovendo completare con fantasia e intelligenza quello che manca, quello cui il teatro allude senza dire. E questa secondo noi è una grandissima ricchezza in un allestimento, perché aiuta il pubblico a crescere, a non aspettarsi la pappetta pronta e non sudata.
Il gruppo di attori vede in minor numero ragazzi “di scuola”, mentre molti vengono da esperienze di autodidattica e in alcuni casi da nessuna esperienza: per questo, a maggior ragione, sorprende in modo per noi entusiasmante in questo lavoro, che pure è tutt’altro che di immediata penetrabilità, la bravura della regia di Enrico Casale nel portare lo spettatore dentro un linguaggio che sceglie di raccontare la miseria del potere come destino perenne, attaccato alle caviglie del genere umano. La nuova generazione? Una speranza, ci dirà la compagnia nel finale. Come d’altronde sempre è. Sempre si spera che il futuro riesca a guarire i mali antichi, a evolvere verso una dimensione meno ferina.
Ma quello cui prima si assiste non lascia in realtà grandi speranze, fra parricidi indiretti (l’attore che interpreta il re cui Ubu dà la morte è il vero padre dell’attore Alessandro Cecchinelli che interpreta Ubu), pasoliniane erotizzazioni della dinamica violenza-potere, insaziabile brama di coito da auto rappresentazione: in Italia, d’altronde, non è concetto di difficile comprensione.
Funziona molto, nell’allestimento, il senso di coralità che la regia sa infondere, e qui ci colleghiamo all’inizio: anche se in scena sono una decina (oltre a Cecchinelli, Sara Battolla, Davide Faggiani, Simone Biggi, Raffaele Briganti, Daniele Cappelletti, Ino Cecchinelli, Rossana Crudeli, Chiara De Carolis, Giovanni Franceschini, Davide Ragozzini, Paolo Turini), la sensazione, per tutto il tempo, è di assistere ad una vicenda numericamente inestricabilmente molteplice e aggrovigliata, con naufragi di masse del genere umano alla ricerca di improbabili zattere di salvataggio, tableaux vivent di quadri di fine Settecento.
Questa rilettura del testo, peraltro, ci restituisce un Jarry molto shakespeariano e riesce a scolpire un percorso che è proprio condensato di tutti gli espedienti narrativi cui pure il Bardo fece ricorso nelle sue più celebri opere, a testimonianza di come i grandi temi su cui il teatro si è interrogato sono in fondo rimasti gli stessi nei secoli e che a ben guardare il patafisico può essere anche molto molto classico.
Aspettarsi tanta compattezza, tanto ritmo, tanta capacità di celare i propri difetti, le ingenuità (che pure qua e là ovviamente si presentano) è roba che si guadagna con il mestiere. Ci sorprendiamo quindi di dover ammirare tanta consapevolezza in una compagnia giovane e in parte (volutamente) inesperta. Ma l’esperienza e l’impostazione della voce, del gesto, la pulizia, siamo sicuri che siano sempre ingredienti necessari all’arte del teatro?
Pasolini si interrogò con grande forza sulla necessità di questi elementi per il cinema arrivando alle risposte che tutti conosciamo, figuriamoci dunque se il teatro non può indagare le sue strade più feconde ricorrendo alla negazione (non aprioristica, s’intende) dell’accademico, per lavorare sulla miserabile sporcizia del genere umano, su quella parola così sudicia che è Potere? Su questo l’indagine della compagnia continua, il prossimo progetto sta prendendo la direzione de La serva padrona, per passare dal macrocosmo al microcosmo dei rapporti di forza, dalla violenza sulle masse a quella più subdola su chi ci è prossimo. Noi su questo gruppo di lavoro, su chi lo coordina, riteniamo di poter maturare aspettative sensibili. La loro ricerca ci interessa. Sono vivi, sanguigni, veri, niente chiacchiere e orpelli: poche storie, questi fanno Teatro!
*Disegno di Renzo Francabandera
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