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giovedì, Settembre 19, 2024
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Poesia fra i rifiuti

RENZO FRANCABANDERA | Liberamente ispirato ad un testo di Tiziano Scarpa, ha debuttato nei giorni scorsi il poetico e immaginifico “Scatorchio Blues”, interpretato da Luca Marchiori, accompagnato da due musicisti in scena e prodotto dalla compagnia lombarda Ilinx
Sono lì, in tre, fra bustoni di rifiuti, biciclette rottamate, scatole rotte e oggetti vintage recuperati in discarica. Cala il buio e uno dei due musicisti, con la maschera antigas, trae, sfiorando con un pestello di legno un posacenere di metallo di forma tonda, un suono quasi tibetano, ascetico, mentre l’altro intona un lamento figlio della più classica teatralità millenaria occidentale.
Al centro della scena, fra i rifiuti, un cassonetto. Dal cassonetto una voce. Una voce che inizia a raccontare in una lingua meridionale, ma di derivazione territoriale indefinibile, la storia di un amore di paese: Scatorchio per riconquistare la sua amata Sirocchia e sottrarla alle insidie del rivale che continua a fare “lo schiaccianoci” agli occhi di lei facendo il capopopolo in una sollevazione di paese, decide di appoggiare la scelta del sindaco corrotto di ospitare una discarica in cambio dell’installazione di un ripetitore televisivo. Perderà l’amore e la dignità di uomo e di cittadino.
E’ questa “in cinque righe”, come avrebbe richiesto C.F. Russo, storico direttore di Belfagor, la trama ricavata da Groppi d’amore nella scuraglia, testo assai ispirato, scritto alcuni anni fa da Tiziano Scarpa.
La libera rilettura ricavatane per Scatorchio Blues, serpeggiando nel testo con una non sequenziale sinuosità (scelta interessante e teatralmente opportuna, operata da Marchiori con l’ausilio di Maria Rosa Criniti e Nicola Castelli, che firmano la regia), rende merito non solo al meridionalese in cui Scarpa volle scrivere, ma soprattutto ai vertici poetici di quel testo, ai quali il gruppo ha saputo avvicinarsi con profondo e immaginifico rispetto, per ricavarne un esito dal tratto originale e tagliente.
Il duo di musicisti in scena insieme a Marchiori, composto da Tia Airoldi e Luca Piazza, ribattezzato “SurciPantecani” in omaggio alle creature bestiali cui Scarpa dedica i suoi intermezzi letterari in Groppi, regala un’ulteriore e icastica texture musicale, ricavata esclusivamente da oggetti di recupero, come quasi tutto quello che è in scena.
Marchiori emerge dal suo contenitore e racconta con bravura attorale la storia di Scatorchio, abitando in ogni forma il microcosmo cassonetto; e, anche quando se ne porta fuori, rimane sollevato da terra, come a raccontare un’esistenza sospesa in un mondo immaginario, a sfidare la drammaticamente plumbea materialità in cui tutta la storia si svolge.
La maggior poesia si raggiunge nelle preghiere-imprecazioni che Scatorchio rivolge al Dio dei brutti, sporchi e cattivi, così simile alle sue creature da rimanere silenzioso e assente, da lasciare i disperati nella loro condizione di suicida ignoranza. In quel momento l’attore, aiutato solo dalle luci algide di Andrea Morarelli, raggiunge una capacità di compenetrazione con il messaggio profondo del letterario sottostante, rara da vedere in scena.
La passata condivisione di un progetto artistico con Marchiori ci porta per onestà a confessare una possibile distorisione in questa valutazione, ma con ancor maggior gioia sentiamo di poter dire, con altrettanta limpidezza, che questo punto di vista ha robustezza non solo nel nostro pensiero, ma anche in quello del pubblico che ha seguito il debutto di Scatorchio Blues a Cassano d’Adda, in apertura della rassegna Tagadà, organizzata da Ilinx, compagnia appartenente alla Rete delle Residenze Etre – Lombardia, che con coraggio produce Scatorchio Blues.
C’è da essere davvero contenti per questo gruppo di giovanissimi (tutti sotto i trent’anni) e per la loro prova d’arte teatrale così matura e ben riuscita, interpertata con giovanile e magistrale incoscienza e scandita da tempi e ritmi perfetti: senza ombra di dubbio, la miglior trasposizione scenica di un testo di Scarpa, fra le diverse proposte in questi ultimi anni. Da vedere assolutamente, con la speranza di una lunga tournèe.

Not for sale. Quando i galleristi non vogliono vendere

not for saleMARIA CRISTINA SERRA | Un’insolita rassegna raggruppa opere simboliche delle più importanti gallerie d’arte parigine, sfidando il paradosso che “non tutto è in vendita” e svelando la sottile complicità che lega l’artista al suo mercante

Ci sono cose da cui per nessuna ragione ci separeremmo, perché in esse ci rispecchiamo, o riviviamo momenti significativi della nostra vita, o perché in loro abita una parte segreta di noi, che solo il nostro sguardo sa riconoscere in tutta la sua unicità.

All’inizio dell’estate, Jacqueline Frydman, direttrice del centro espositivo Passage de Retz, scrisse una lettera a 164 galleristi parigini, chiedendo loro di prestare fino alla fine di Settembre un’opera “speciale”, non in vendita, che rivelasse “tutto il rapporto di intimità che voi avete con essa e la consapevolezza e il piacere di condividerla per il periodo estivo con il pubblico”. Hanno risposto affermativamente 90 galleristi e ne è venuta fuori una mostra animata da una vitalità vibrante ed insolita.

Artisti tanto diversi tra loro hanno inconsapevolmente formato una trama di coincidenze, in grado di distinguere e riunire, senza barriere, stili, luoghi e periodi con emozioni di comune intensità. Una generosità “eclettica, aperta e impegnata”, confida Jacqueline Frydman, “che ha favorito una riflessione sulle diversità del nostro presente e a comprendere cha l’equazione arte=vendita non è la sola definizione che sta al fondo del commercio. Sapete come me che si acquista sempre anche un po’ dello spirito dell’opera e del suo autore”. Il cortile segreto del seicentesco Hotel particulier de Retz, che nella discreta stradina di Rue Charlot, nello storico quartiere del Marais, accoglie l’entrata alla mostra, appare già come il luogo ideale cui affidare in custodia un bene prezioso che racconta implicitamente di noi. E allora i percorsi da seguire diventano due, che intrecciano le loro convergenze e ci sfidano a trovare le nostre, raccogliendo il tracciato lasciato dagli artisti alle loro spalle come segmenti di una continuità, sempre nuova, e quello dei galleristi che accompagnano con le loro motivazioni e sentimenti i loro autori “del cuore”.

Le ariose, limpide pennellate, i delicati toni azzurri e rossi di Paul Signac (1931) di un incantevole acquarello della serie “I porti di Francia”, è un esempio di come spesso nel cuore “del gallerista il mestiere del mercante convive con la passione del collezionista”. Nuvole di polvere, sollevate dai Cavalieri arabi in corsa (di Adolphe Schreyer, 1880) si stagliano nell’ocra del paesaggio selvaggio, mentre un cielo denso all’orizzonte delinea i confini. Spirito cartesiano e delicate armonie sono racchiusi nel “Pont des Arts”, il primo ponte in ferro di Parigi, di Jean-Jacques René (2009). Dense e forti sono i colori stesi da Kirill Zdanevitch in piena rivoluzione russa. Il suo “Composition” del 1918, unisce forme curve e cubiche, delineando i grigi, i blu, i verdi e i mattoni dalle sfumature cipria con lucidi contorni neri. Va all’essenziale Albert Marquet (1910) con “Paris”, che allude al silenzio di un paesaggio industriale avvolto nelle nebbie, ma ricco di spazialità e d’interrogativi esistenziali, “contrariamente al suo grande amico Matisse, che ricercava il decorativo”.

La spiritualità della natura che si fonde con l’interiorità umana emerge nel groviglio di lampi rossi aranciati, lacerati dai chiari e immersi nei neri e nei blu cobalto di Wang Yan Cheng (2006) in “Derniers flux du soleil”. Il “Desert plat” (1946), luminoso contrasto di aranci, neri, verdi in sottofondo ocra di Man Ray è un “meraviglioso regalo”. Sembra alludere al mistero della vita e della morte lo studio per “La partie de cartes” di Balthus (1947). E’ un inno all’amore e alla gioia l’opera di Pierre & Gilles “Te souviens – tu d’un soir d’eté…”, per celebrare nel 2004 i dieci anni di attività dello “Spazio de Retz”, un luogo di incontri e confronti fra arte e culture, mai convenzionale o rituale. Il grande dipinto di Jurg Kreienbuhl che ritrae “Maurice e Boulon” seduti nella cucina della loro baracca con i toni rossi e cubi di un moderno fiammingo (fine anni ’60), è uno straordinario “pugno nello stomaco”, che racconta più di mille inutili parole l’alienazione della povertà e la vita estrema delle bidonville. “Dove collocare quest’opera?”, si domanda il gallerista Alain Blondel, “in un salotto, nella hall di una banca, di una multinazionale? Meglio attendere che un museo d’arte moderna la richieda anche fra cento anni! Allora si potrebbe venderla”.

Le evanescenti ombre pastello che raffigurano “La morte del duca di Guisa “, dipinto negli anni ’50 da Marie-Laure de Noailles, sembrano illustrazioni di una storia di Enry James, con quei toni che attribuiscono alle figure e alle illusioni una luce, che rende irrilevante il vero dal falso: un “portafortuna insostituibile” per i suoi proprietari. Il mistero e il senso di abbandono in cerca delle emozioni perdute emergono dalla grande tela di Wu Xiaohai: “24 hours daylight” (2008) ha il rigore del disegno in bianco/nero e la classicità delle forme. Un grande letto occupa lo spazio, tre figure vi si appoggiano, distanti, assorte “una luce laterale viene dalla finestra, come da una pittura antica”, che sia “gioco, riposo o amore? O semplicemente voglia di oblio?”. Il Pop astratto di Fiona Rae del 1997 in “Tomb Raider” unisce la cultura dei Manga alla pubblicità e al fumetto, in un sofisticato montaggio barocco che sprigiona sonorità. Il periodo realista/espressionista di Felix Del Marle con “La Yelouga” (1931) è di dissacrante ironia: l’informe ballerina, dalle rotondità rosa pesca, si esibisce in una danza futurista, nello scenario geometrico di immobili figure scure.

Arte e artigianato si fondono nelle figure, come archetipi di arte precolombiana, con la “Bucolique” (1982) di Roberto Matta. Non si sottrae ai dolori della vita e li accoglie, trasformandoli in impegno Joan Mirò che con “Aidez l’Espagne”, serigrafia del 1937 lancia il grido contro la dittatura imminente franchista. Ma vale anche per le minacce presenti e ci rammenta che uno dei compiti dell’arte è di farci spalancare gli occhi sulla verità.

India, un universo di complessità e fascinazione

 MARIA CRISTINA SERRA | Un ponte culturale unisce Delhi con Parigi al Centro Pompidou. Fino al 19 settembre una mostra getta uno sguardo penetrante sulla più grande democrazia del mondo, i suoi fermenti e i continui mutamenti. Una rivisitazione della globalizzazione che mette in luce la profonda spiritualità e l’integrità estetica indiana dalle radici antiche

L’India del nostro immaginario, con i suoi incantesimi e le sue contraddizioni, la beatitudine e la dannazione; i colori accesi e suadenti, gli odori penetranti e i suoni avvolgenti, una realtà “altra” dalla nostra misura occidentale, ma essenziale e illuminante per cogliere le distorsioni e le ambiguità del nostro presente, ci sembra più vicina dall’alto della terrazza al sesto piano del Centro G. Pompidou, dove è allestita la mostra “sperimentale” “Paris-Delhi-Bombay”.Sullo sfondo di un luminoso cielo azzurro di un’estate ancora piena, le guglie delle cattedrali e la siluette della Tour Eiffel delineano un orizzonte senza confini che invita al dialogo e alla comprensione. Le opere di 30 artisti indiani e 17 francesi indagano la contemporaneità di questa “terra di contrasti” attraverso 6 tematiche: la politica, l’urbanizzazione, la religione, l’identità, l’artigianato, il privato e i rapporti familiari, con un continuo alternarsi di argomenti e di visuali che ripercorrono la memoria storica.

Dal passato coloniale alla conquista dell’indipendenza, all’accelerazione di un liberalismo economico, sovrapposto ad arcaici rapporti sociali e culturali, basati sul sistema delle caste. Basta varcare la porta a vetri che immette alle sale della mostra per entrare nel tempio circolare di “Tara”, blu-arancio: realizzazione pop-artigianale dall’aspetto spettacolare e dalle armoniose proporzioni di Ravinder Reddy. Al centro della pedana, una monumentale testa di donna, dipinta in oro è un omaggio alle donne indiane, elevate a rango di Dea, le labbra carminio, gli occhi bistrati in nero che non cercano risposte, ma pongono interrogativi, i capelli intrecciati con fiori: è una perfetta sintesi fra scultura religiosa classica e immaginazione popolare. All’esterno, pannelli con foto,documenti, e didascalie, raccontano la cronologia politico-sociale dell’India dal 1947 ai giorni nostri, indicando così le possibili direzioni da scegliere per iniziare il percorso espositivo.

La stanza di “Alì Baba” è piena di lucenti utensili e batterie da cucina di infinite forme e grandezze, in acciaio inox, che ricoprono in ordinate file le pareti e pendono dal soffitto. Un paradosso di perfezione e opulenza monocroma, contrapposta al colore e al disordine della quotidianità, resa in forma straziante e poetica da Hema Upadhyay, che interpreta la Bidonville di Dharavi a Bombay, la più grande e fatiscente dell’Asia. “Think left, think right, think low, think tight” crea nel visitatore un senso di oppressione realistico. evocando le disumane atmosfere di vita dei suoi abitanti, che sono anche riusciti a ricreare un’economia parallela, come forma di sopravvivenza.

E’ un labirinto inaccessibile di architettura arabesca e argentata l’installazione “Six Cages” di Sudarshan Shetty, ispirata all’arte mongola: sei portali, finemente intagliati, collegati fra loro da specchi che riflettono i peccati capitali, ci invitano a riflettere sul senso profondo dell’esistenza. Come una rivisitazione della galleria degli specchi di Versailles, Bharti Kher con “Reveal the secrets that your seek” decora le pareti della sua “stanza” con 24 specchi scheggiati, dalle cornici dorate in stile, ricoperti da centinaia di minuscoli “Bindi” (il terzo occhio delle donne maritate), collegati fra loro da fili regolari e paralleli, che formano un velo nero di suggestiva bellezza. Il riflesso offuscato rimette ironicamente in discussione lo scorrere del tempo e il rapporto tra l’individuo e la società.

Tradizione e industrializzazione convivono con le loro discrepanze, per Sokshi Cupta. Il suo tappeto scuro di gomma e metallo, “Freedom is Everythings”, riproduce motivi decorativi dei tappeti tradizionali, attraverso materiali di recupero. La libertà sessuale costituisce ancora un tabù nella società indiana e Thukral & Tagra la demistificano, riscrivendo con la delicatezza dei rosa e verdi pastello una scena erotica, ispirata alle sculture dell’antico tempio di Khajuraho. Il tema della comunità ancestrale trasgender Hijras, con la precarietà della loro esistenza a cui fa da contrappunto il loro ruolo augurale che svolgono nelle cerimonie, ispira a Kader Attia un filmato che spazia anche sui rapporti fra tradizione e modernità. “Silenzio” suggeriscono le tre leggiadre sculture rosse, composte da ossa umane, “Morbid trinkets”, di Anita Dube, quasi dei talismani erotici, adornati da paillettes, perle e merletti, che sottintendono una sottile tensione politica e poetica.

Di grande fascino è lo sguardo indiscreto “Le regard” in una camera da letto borghese, tipicamente parigina: letto a baldacchino, caminetto, tende di taffetà che incorniciano la grande finestra, che si affaccia sulla strada. Leandro Erlich fa scorrere un filmato della folla vociante di una via di Bombay oltre il vetro. L’individuo è così “uno fra tanti”, in ogni luogo: lo spazio privato si sovrappone a quello pubblico, il reale e l’immaginazione si confondono con effetti stupefacenti. “Please do not touch”, dietro l’aspetto innocente si nasconde il pericolo. Le tre ghirlande tradizionali, usate nelle cerimonie indù, appese al muro e appoggiate su una sedia bianca da Sunil Gawde sono formate da sottili lamelle di rasoio, dipinte in color sangue, a rievocare la tragicità della violenza del fondamentalismo religioso e l’assassinio di Rajiv Gandhi.

E’ emozionante il filmato di Camille Henrot, “Le songe de Poliphile”, che esplora i miti e gli archetipi comuni tra Oriente e Occidente. Suoni acuti e spezzati, rulli di tamburi e sirene, fanno da sottofondo ai colori densi e ai bianco-neri. Folle pressanti e asettici laboratori di ricerca, danze tribali e templi, in un montaggio strepitoso di immagini che si susseguono veloci, legate fra loro dalla “simbologia del Serpente”, fra paure reali e inconsce, malattie e guarigioni, magie e medicina.

L’ironia e la gioiosità onirica di Pierre & Gilles riempiono con una fantasmagoria di colori il loro spazio. Una ventina di opere che ripercorrono il fascino e l’estetica della cultura popolare indiana, la cinematografia di “Bollywood” e la ritualità delle cerimonie religiose, svolgono il racconto delle tante facce dell’India, sospesa fra tradizione e innovazione.

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Short Theatre: breve ma intenso

RENZO FRANCABANDERA | I luoghi della rassegna sono il Macro a Testaccio dal 5 al 7, e poi dall’8 al 18 settembre ci si sposta al Teatro India, sempre a Roma, per il grosso degli spettacoli. Short Theatre è una rassegna che da alcuni anni ospita spettacoli di teatro e danza, eventi performativi e musicali, dibattiti, presentazioni di iniziative culturali o editoriali di una comunità composita di attori, registi, performer, spettatori, operatori, studiosi.
Fuori dalla specificità di un tema legante, il collante di tutto è nel diritto di cittadinanza temporanea, spesso negata, che la direzione artistica (affidata a Fabrizio Arcuri, fra i promotori del sodalizio de Gli Artefatti) concede a percorsi artistici legati alla drammaturgia contemporanea e alle sue derive
Ne parliamo proprio con Arcuri.
Quali sono le linee guida che hanno indirizzato la programmazione dell’edizione 2011 di Short Theatre?
La linea guida che anima short theatre è da sempre quella di formulare un’ipotesi di programmazione che mescoli i generi e le generazioni e che abbia un occhio di riguardo sulla drammturgia contemporanea e sui nuovi linguaggi.
La comunicazione ufficiale del festival e ovviamente la direzione artistica tengono a precisare che
Short theatre non vuol essere in realtà un festival ma un’occasione di incontro e confronto. Su quale terreno avviene questo incontro e quale è il patto che si vuole stipulato fra programmatori culturali e fruitori?
Il territorio di confronto e di incontro è naturalmente quello dei linguaggi in primo luogo. Ma Short Theatre coltiva il desiderio di suggerire uno spazio adatto alla rigenerazione di una comunità che si riconosce nel pensiero, non quindi negli stili nè nei generi.
Il patto è dunque che a Short theatre ognuno cerca e trova quello che vuole, compresa la possibilità di incontrare persone, sostare in un luogo per conversare e dunque quello di restituire quanto possibile un valore di socialità all’arte.
Come sono andate le scorse edizioni della rassegna e cosa ci si aspetta da questa?
Le scorse edizioni sono andate ad alterne fortune con l’amministrazione e con le istituzioni, per tanto ogni anno abbiamo dovuto riformulare tempi e modi, ma il pubblico che è la vera anima di short theatre ha risposto con crescente interesse e partecipazione, dimostrando di accettare e condividerne l’essenza e quindi il patto di cui sopra.
Quest’anno ci aspettiamo che gli operatori culturali e l’amministrazione di questa città convengano che per coinvolgere i giovani e avvicinarli alla cultura e al teatro bisogna tentare di parlare il loro linguaggio e tentare di proporre qualcosa che li rappresenti.

Come ha inciso il taglio all’economia dello spettacolo sulla fase di programmazione?
Noi non siamo finanziati dal ministero quindi il paventato taglio non ha inficiato direttamente, siamo piuttosto in balia
del Comune di Roma e della Regione che hanno dei tempi poco consoni a chi intende la cultura come una progettualità. Il Teatro di Roma e Zetema progetto cultura sostenendoci a vari livelli ci consentono quanto meno una base su cui inizare a ideare.
Qual è il tuo punto di vista sul fermento artistico in Italia e in particolare su Roma, in quest’ultimo periodo? La crisi sta portando ad un risveglio anche della creatività o la situazione rimane sempre un po’ bloccata?
Ci sono crisi che fomentano la creativita’ e situazioni di stallo che la annichiliscono: credo purtroppo che stiamo entrando a pie’ pari in questa seconda fase.
Vuoi dare appuntamento ai nostri lettori presentandoci gli eventi in programmazione nei primi giorni di Festival?
Sicuramente non perderei le performance del collettivo di artisti Black Market International, che si alterneranno nei primi tre giorni al macro offrendo un occasione davvero rara dello stato della performance mondiale. L’evento davvero eccezionale è oltretutto gratuito, come altre cose all’interno della programmazione e poi al Teatro India dall’8 al 18 farei davvero fatica a nominare qualcuno a scapito di altri…

In Sardegna fra Festival e spettacoli in strada

RENZO FRANCABANDERA | L’estate volge al termine ma, complice il bel clima, in Sardegna sono numerosissimi gli appuntamenti fra fine agosto e inizio settembre. Festival e spettacoli teatrali che raccontano di compagnie storiche e riconosciute anche a livello internazionale.
C’è bellezza nel ritrovare un cantastorie popolare che dietro l’abside di una chiesetta in pietra dedicata a S. Pietro, in un paese che dal santo prende il nome, e in una sera calda, ne narra la vita a duecento persone all’uso di De Andrè, intessendo il percorso narrativo fra vangeli ufficiali e apocrifi, e parlando di un santo dal volto umano e di un uomo dal volto santo.
C’è bellezza nel vedere in un giardino pubblico della periferia di Cagliari centinaia di bambini ascoltare la storia del gatto con gli stivali, sovrastati da palazzoni ma rinfrancati dal suono di un’orchestra popolare e di una disegnatrice, mentre il narratore indossa stivali di plastica viola fosforescente, cappello e occhiali da sole.
C’è bellezza, ancora, nel piccolo Festival sull’isola di Carloforte, isola dell’isola della nostra penisola, che da quindici anni mescola le arti nella maniera più bella e aperta, con piccoli spettacoli di arte teatrale, in un’umanità tutta aperta e non costruita.
La Sardegna vive e si racconta in un fine estate che, sfollato del turismo più sbraitante e volgare, guarda a se stessa e ai più tenaci cultori dell’arte fuori dai circuiti del caos. E’ così che ci sono sembrati Gianluca Medas e Andrea Congia, che con semplicità ma grande efficacia e forza comunicativa, hanno ricostruito in forma piena la dimensione del teatro popolare che non disdegna di raccontare le stesse storie dei santi davanti al Papa e qualche mese dopo davanti a duecento abitanti di un piccolo borgo della costa sud di Cagliari. La Famiglia Medas è la più antica (e unica) famiglia di teatranti presente in Sardegna. Gianluca Medas, dal 1985 raccoglie il testimone di famiglia mescolando collaborazioni illustri a un impegno nel farsi anello di tramite per la cultura popolare, come nel caso del progetto Paddori, l’ipotesi di una maschera sarda, che coinvolge tra tutti Fabio Mangolini, docente di Commedia dell’Arte all’Accademia di Recitazione di Madrid e Donato Sartori del Centro Internazionale delle Maschere. Questa della vita di San Pietro è una forma spettacolare di narrazione accompagnata (ottimamente occorre dire) da musica cui Medas si dedica dal 1989: i Contos, narrazioni su canovaccio, con più di un migliaio di repliche, sono parte della tradizione non solo sarda, ovviamente, che pur nell’era dei nuovi media, trova sempre spazi per resistere e portarsi avanti. Dai Piripicchio degli anni ’30 in Puglia, ai cantastorie nella piazza di Marrakech, la tradizione orale ha una potenza dirompente difficile da arginare. E’ un fiume. Medas lo sa, ed esercita la sua arte con misura e attenta costruzione. E portando in giro moltissimi spettacoli contemporaneamente, con uno sforzo di memoria non banale.
Da un esperimento artistico totalmente autoctono ad altri nati dalla contaminazione con stimoli e arrivi dall’esterno come nel caso di Cada Die Teatro, sodalizio d’arte nato dopo l’arrivo in Sardegna di Giancarlo Biffi, che con Pierpaolo Piludu ed altri artisti ha creato un esperimento vivo e presente, che opera dal teatro ragazzi al teatro di narrazione con una continuità di progetti e proposte sempre interessante, raccogliendo consensi e interessi non solo in Sardegna ma anche fuori. Ne sono testimonianza la recente partecipazione Sabato 27 e Domenica 28 agosto al Festival Internazionale di Narrazione di Arzo, in Svizzera, con lo spettacolo “Le magiche pietre”, e quella nel prossimo fine settimana, Sabato 3 e Domenica 4 settembre al Festival L’ultima luna d’estate, nella Brianza lecchese, con due spettacoli storici come “Milano da bruciare!” e “Rosmarino e il frigorifero che parla”, spettacolo per ragazzi, quest’ultimo, come per ragazzi era nell’ambito della manifestazione “Quartu colora l’estate”, Mercoledì 24 agosto al Parco Europa di Pitz’e Serra lo spettacolo “Il Gatto con gli stivali”, fiaba musicale, liberamente ispirata ad uno dei più bei racconti della tradizione popolare.
Una co-produzione Cada die Teatro e Banda Comunale Giuseppe Verdi di Sinnai con musiche originali e adattamento del testo di Angelo Sormani e del direttore Maestro Lorenzo Pusceddu, sul palco nella veste di narratore Silvestro Ziccardi, e i disegni eseguiti dal vivo da Marilena Pittiu.
Ci piace segnalare l’importanza dell’esperimento delle scuole publbiche di musica, un’iniziativa tutta sarda che ha permesso in moltissimi paesi di creare bande e altre aggregazioni artistiche, e che ha dato a moltissimi la gioia di esprimersi con il linguaggio musicale. A loro, alla simpatia con cui queste persone si sono messe in gioco, e alla creativa professionalità messa in campo anche per questa occasione un plauso. Tutto davvero godibile e ben fatto.
Ultima segnalazione, ma non ultima per intensità emotiva, quella del festival organizzato dall’associazione Botti du Shcoggiu a Carloforte da fine agosto al 4 Settembre.
“Dall’isola, dell’isola, di una penisola”, questo il titolo dell’edizione di quest’anno del Festival Internazionale di teatro, musica, cinema, danza e nuovo circo, che si svolgerà nella magnifica cornice di Carloforte. Dal Digerseltz di Elvira Frosini al Bella Tutta di Elena Guerrini, passando per il Ciclope di Enzo e Francesco Siciliano, e poi concerti jazz (Scaccia e altri ensemble stranieri), burattini (Beppe Rizzo), i Camillocromo, i Malu Circo e ancora altri nomi, a cercare un percorso sul tema che ci pare sottilmente essere sulle altre bellezze possibili. Uno sguardo sensibile, come quello della pistoiese di origini ma sarda d’adozione Susanna Mannelli, che insieme a Riziero Moretti, da anni conduce gli spettatori attraverso i carrugi dell’isola fra percorsi mentali e di calore d’animo. Una dimostrazione di come con pochissimo si possa creare un’occasione di incontro e di racconto di un’altra umanità possibile.

L'ultima luna d'estate 2011

RENZO FRANCABANDERA |  Avrà luogo, come da quattordici anni a questa parte, nel lecchese il piccolo ma tenace Festival del teatro popolare di ricerca, che porta artisti di primo livello in luoghi magici della Lombardia meno conosciuta
E siamo a quattordici! Il Festival teatrale L’ultima luna d’estate compie 14 anni, è un adolescente e, come tale, è in un’età conflittuale: il tema portante dell’edizione 2011 è infatti “Conflitti”.
Eppure devo dire, raccontando della mia esperienza personale, che tutt’altro che conflittuale è stato alcuni anni fa il mio confronto con questa offerta culturale, quando in una serata di inizio settembre
2008, per una serata con Moni Ovadia e il maestro Carlo Boccadoro, mi inerpicai fra i boschi per giungere nello splendido cascinale di proprietà nobiliare nel cui parco si svolse quell’evento.
Mi parve una Lombardia sconosciuta. Audace nella proposta e gentile e intrigante nei modi. Un evento che faceva scoprire, a chi avesse avuto voglia di prendersi la briga di fare una quarantina di minuti in macchina, dei panorami davvero incredibili della Brianza possibile, fra boschi, laghi, natura incontaminata. La Lombardia fuori dallo stereotipo.
E un po’ L’Ultima luna è così. Teatro Invito, promotore della manifestazione, affronta, nell’edizione di quest’anno la ricorrenza del decennale dall’attentato alle Twin Towers di New York con un programma ricco di spettacoli coraggiosi, con artisti che hanno scelto di usare lo strumento del teatro per la sua funzione originaria: comunicare e far riflettere su ciò che accade intorno a noi, lontano e vicino. Il teatro come mezzo per rendere “res publica” i fatti del mondo, soprattutto quelli scomodi e dolorosi. Aprirà il cartellone venerdì 26 agosto a Casatenovo Licia Maglietta con “Vasta è la prigione”, testo dell’algerina Assia Djebar, racconto sofferto di una donna in una terra che può essere ostile.
Tra gli altri, il Festival ospiterà poi la compagnia Alma Rosè con “Come mi batte forte il tuo cuore”, dal libro di Benedetta Tobagi sul padre giornalista ucciso negli anni del terrorismo; Roberta Biagiarelli e il suo “A come Srebrenica”; Simone Cristicchi in veste di attore con “Li romani in Russia”, racconto in ottave classiche della tragica ritirata di Russia, con la partecipazione straordinaria del Coro Grigna di Lecco; e ancora Teatro dell’Orsa con la storia dei Fratelli Cervi “Cuori di terra”. Chiuderà Maddalena Crippa con un omaggio all’America: un recital accompagnato da musiche dal vivo dai testi di Raymond Carver.
Una scelta artistica affidata alla sapiente e appassionata mano di Luca Radaelli, e al lavoro tenace di pochissimi, fra cui l’onnipresente Elena Scolari.
Uno sforzo generoso per regalare ad un territorio così straordinario un’offerta culturale di primo piano ma fuori dagli schemi del già visto, del già conosciuto, del teatro impellicciato e all’odore di naftalina.
Tutto questo nei magnifici spazi del Parco di Montevecchia: giardini, ville, parchi, fienili, chiesine, chiostri… teatro nei luoghi meno tradizionali della Brianza lecchese. Un Festival con quasi trenta appuntamenti, per tenere viva la mente, gli occhi e il senso critico.

Processo Eichmann. La sottile linea grigia della banalità del male

juger-eichmann-XLMARIA CRISTINA SERRA | Nel cinquantenario del processo di Gerusalemme “all’architetto della soluzione finale”, una mostra ne ripercorre le tappe del giudizio. Fu per il neonato stato d’Israele un fatto di grande impatto emotivo e simbolico, che fece rivivere gli orrori della Shoah. Al Mémorial de la Shoah fino al 28 settembre

Senza la consapevolezza della memoria storica non ci può essere civiltà. “Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”, così scriveva nel 1951 la filosofa tedesca, di origini ebraiche, Hannah Arendt nel saggio “Le origini del totalitarismo”, analizzando la “banalità del male”. Argomento che diventerà poi il filo conduttore delle sue cronache per il settimanale “The New Yorker” nel 1961, durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, a Gerusalemme. Successivamente, sviscerando le varie fasi del processo e ricomponendo le complesse interrelazioni fra le questioni morali, politiche e giuridiche, scriverà la sua famosa opera “Rapporto sulla banalità del male”.

Il caso Eichmann, che spalancò le porte della storia e gli occhi dell’umanità inconsapevole sulla Shoah, e che permise, dopo l’orrore e il silenzio assordante che ne seguì, di acquisire la piena presa di coscienza dello sterminio nazista, fa discutere ancora oggi. Convegni, mostre, pubblicazioni di libri si susseguono a Parigi, Berlino e Washington.
Il processo di Gerusalemme (il primo interamente filmato) allo zelante, meticoloso tenente colonnello, responsabile della Sezione 4 – B – 4 dell’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), è fedelmente ricostruito con imponente e sconvolgente abbondanza di documenti inediti, filmati, registrazioni sonore e foto, al Mémorial de la Shoah. Cinquant’anni dopo, l’apparente normalità del male, che volontariamente si fa scegliere anche dalle persone comuni, quando l’assenza d’immaginazione e di pensiero offusca la percezione del sottile filo che divide il Bene dal Male, è ancora di tragica attualità.
Al di là del valore storico e documentale, l’itinerario espositivo, attraverso le varie fasi dello spettacolare processo (in un’intervista a Le Monde, il presidente di Israele, Ben Gurion lo definì “la Norimberga del popolo ebraico”), è una riflessione su come le barriere contro le barbarie siano sempre insufficienti.
“Facevo solo il mio dovere, conformemente agli ordini”, si difese Eichmann al dibattimento (dall’11 aprile al 15 dicembre ’61), “ero addetto a svolgere il mio lavoro da dietro una scrivania”. L’immagine anonima del grigio funzionario dalle labbra sottili, i rari sorrisi sprezzanti, gli occhi opachi sotto le spesse lenti, al chiuso della gabbia di vetro, che si riflette nelle foto e nei filmati, assume il valore di agghiacciante icona del conformismo e del cieco asservimento alle gerarchie, che si fa strumento inesorabile di sterminio.
Né Iago né Macbeth, tanto meno un moderno Riccardo III shakespeariano, ma un burocrate della morte, uomo mediocre e dedito all’ubbidienza, un gregario per vocazione, dall’itinerario umano emblematico. L’album di famiglia ce lo mostra bambino vestito da marinaretto, ragazzo in gita con gli amici, nel giorno del matrimonio, con il figlio sulle ginocchia. Poi le foto in divisa da SS, quindi con il poncho in Argentina, fra gli agenti del Mossad, all’arrivo in Israele. Le foto-segnaletiche, le impronte digitali, le immagini in cella, le pantofole scozzesi ai piedi, lo scrittorio pieno di libri. Eichmann, l’addetto alle espulsioni e poi alla deportazione del “popolo reietto”, si sentiva “liberato da ogni colpa, sollevato per non aver avuto nulla a che fare con lo sterminio fisico. Legato al mio giuramento di obbedienza, dovevo occuparmi solo dell’organizzazione dei trasporti”.

Il criminale nazista si definiva “un rotellina del grande ingranaggio: il meccanismo della distruzione”, diceva, “dipendeva dall’Ufficio centrale per gli Affari economici e amministrativi, non era compito nostro decidere dove mandare i trasporti, io ero un piccolo ufficiale subalterno”. Giocando con l’autoconsapevolezza della sua mediocrità di grado e di posizione sociale (famiglia piccolo borghese, cristiano-nazionalista, studi e professione incerta), riscattatosi quasi per caso nel ’32, aderendo alle SS, Eichmann usa frasi fatte e parole vuote, manipola la realtà, arrivando a definirsi un’idealista kantiano, in risposta alle domande incalzanti dei giudici, che tentavano di arrivare alla Verità.
Mentre scorrono le immagini filmate e dalle cuffie si ascoltano le voci delle parti, in un crescendo di sconcerto e di emozione, ci soffermiamo sulle parole di Hannah Arendt: “Il male non è mai così radicale, ma solo estremo, non possiede né profondità né dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché quando penetra in profondità non trova nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha la profondità e può essere radicale”.
La visione di alcune significative testimonianze (furono 111) dei sopravvissuti all’Olocausto che per la prima volta, rompendo il muro di ghiaccio della diffidenza e dell’incredulità con cui l’orrore per molto tempo venne congelato dalla stessa comunità ebraica, è un momento cruciale del processo a cui la mostra conferisce il giusto risalto.

L’ex-ministro della Giustizia del Presidente Mitterrand, Robert Badinter, oggi 83enne (a lui si deve l’abolizione della ghigliottina), all’epoca avvocato del settimanale “L’Express”, assistette alle fasi salienti del processo come giurista, figlio e parente di vittime dello sterminio. Fu colpito dall’assenza di carisma dell’imputato, “uomo qualunque e affaticato, neutro, nullo, non un bulldog come il Goering di Norimberga”, e dalla monotonia, quasi asettica del procedimento, condotto con solenne ritualità. La commozione irruppe, ricorda, “con la testimonianza di Leon Wellickzon-Wells”, inserito a 18 anni nel Sonderkommando numero 1005 del campo Janowsky, in Polonia, con l’incarico di far sparire qualsiasi traccia dei massacri, filtrando al setaccio le ceneri dei cadaveri per recuperare oro e gioielli, e poi spargerle nei campi come fertilizzanti.

Non solo un contabile, senza ombra di pentimento, è l’opinione dello storico David Cesarani, autore di “A. Eichmann – anatomia di un criminale”, ma anche un complice attivo e consapevole dello sterminio. Figura chiave della “Soluzione finale” e archetipo della corruttibilità umana, di cui Cesarani ricostruisce come in un macabro mosaico i tasselli della vicenda personale, che si sovrappongono con lo scientifico azzeramento dei valori umani, operati dal nazismo, dentro cui ritagliarsi una nicchia esistenziale. Eichmann si diventa, forti di convinzioni antisemite e di disprezzo per chi si considera in qualche modo “diverso e inferiore”. Lui, Era mosso da “un’utopia: far sparire con qualsiasi mezzo, gli ebrei dalla Germania e dall’Europa, per ricreare una comunità nazionale tedesca “. Stigmatizza lo storico inglese: “Esperto d’emigrazioni, Eichmann divenne un combattente nella guerra contro gli Ebrei. La sua arma fu il genocidio. Ed è così che si diventa sterminatori”.

Danza, ideologia ed espressione

RENZO FRANCABANDERA | Il Festival di Avignone, nello spaccato della seconda settimana di spettacoli, ha proposto tre lavori di danza molto diversi fra loro ma legati ad una corporeità che nega la coreografia classica per ricercare l’essenza del messaggio in qualcos’altro, perfino nel pubblico.
Eh si, se qualcuno cercasse il cigno nero ad Avignone non c’è dubbio che resterebbe deluso. Se poi magari lo avesse, per scelta incauta, cercato fra gli spettacoli di Meg Stuart o Xavier Le Roy in cartellone, sarebbe magari uscito prima della fine urlando.
Più improntata, per esempio, a un punto di vista ideologico la proposta di Rachid Ouramdane, danzatore franco-algerino, interessato alla dimensione storica degli avvenimenti, che propone un lavoro in cui il problema coloniale di una Francia che ancora non assorbe al suo interno la dimensione del dialogo.
Sotto una luce lampione pendente, quasi gigantesca lampada da scrivania ad illuminare in rotazione il palcoscenico, l’artista propone una serie di visioni accompagnate dalla musica eseguita dal vivo dal pianista e polistrumentista Jean-Baptiste Julien. Accompagnato da foto di un astratto dittatore in posa, l’artista, partendo dal saluto romano, sviluppa una narrazione dolorosa in cui il paragone implicito è quello fra il centro d’accoglienza e il lager, il campo di concentramento, con l’enorme lampada girevole che ad un certo punto assume la sembianza di faro della torretta di controllo.
Il lavoro ha un’idea, ma è la performance sonora a convincere di più.
Più intimamente violento, ad esempio, l’insieme di quadri naturali cui dà vita Xavier Le Roy, coreografo che ha scoperto la danza assai in là nel tempo, in concomitanza con i suoi studi di biologia molecolare e cellulare, e che ha poi deciso di abbinare i suoi studi al movimento e all’idea performativa. Sono proprio l’universo vegetale e animale ad offrire spunto anche per Low Pieces. Ad attenderci in sala, seduti al bordo del palcoscenico i dodici danzatori, vestiti di abiti sportivi, e pronti, appena tutti seduti, a intavolare una discussione introduttiva, ma quarta parete non si dissolve, tanto che ad un certo punto cala il buio totale per diversi minuti. Al ritorno delle luci la scena è quella di un quadro vivente, con i protagonisti nudi, a creare composizioni dal chiaro riferimento al mondo vegetale e animale, con alcuni quadri di intensa forza, come un branco di felini selvatici, coreografia a cui prendono parte tutti i performer.
A noi è piaciuto di più l’ultimo quadro, in cui come pietre in un giardino zen, questi corpi rannicchiati si adagiano sotto un vento-respiro. Buio. Si odono di nuovo le voci dei performer, pronti a riprendere il dibattito, ma al buio, per quindici minuti, alla fine di tutto. Nessuno, di fatto, può alzarsi e andar via. La sensazione di paradossale e artistica prigionia serpeggia nei vari interventi del pubblico.
Le Roy ci dice che il sopruso fra gli umani è pratica assai diffusa, dunque perché scandalizzarsi?
Chiudiamo con Meg Stuart e il suo Damaged Goods, ulteriore capitolo della sua riflessione sul corpo e la sua posizione nella società.
Violet è un’indagine sul limite dello sconosciuto, limitare che secondo la coreografa ha proprio il colore viola. Il viola non è solo un colore, secondo la Stuart, ma un luogo, il luogo che anticipa lo sconosciuto, l’ultravioletto, inteso come ultra mondo.
I cinque ragazzi in scena, aspettano il pubblico al fondo della sala, poi iniziano movimenti sincopati e tutti diversi, ma ripetuti all’ossessione, mentre un percussionista, armato (è il caso di dirlo) di computer, inizia a diffondere suoni di sapore industrial via via più forti. La sensazione di ambiente rilassato lascia subito il posto al più atroce disagio. Il rumore continua ininterrotto, i movimenti via via più veloci e meccanici. Non pare esserci salvezza. Solo dopo quaranta minuti di colpo piomba il silenzio. Nel frattempo diversi sono andati via. Ma il silenzio dura poco e tutto riprende forte come prima, nevrotico e iperteso.
Usciamo, non possiamo negarlo, con un senso di liberazione. Forse il lavoro non era concettualmente brutto, ma in verità non l’abbiamo capito, e siamo rimasti storditi ad attenderne la fine come il pugile suonato aspetta il gong. La fine, come quegli interminabili round in cui si viene presi a sassate dall’avversario, pareva però non arrivare mai e guardavamo con invidia i coraggiosi che, come prassi qui ad Avignone, si alzano e vanno via senza problema, senza reverenza di sorta.

Le parole in punta di pennello

Des_lettres_et_des_peintres_2MARIA CRISTINA SERRA | A Saint Germain des Prés, un’esposizione inedita della corrispondenza privata di 50 grandi artisti, che tra l’Ottocento e il Novecento hanno segnato la storia dell’arte, ci rende partecipi dei segreti della loro creatività, dei sentimenti, pensieri ed emozioni. Al Musée des Lettrese et Manuscrits, fino al 28 agosto

Nelle lunghe giornate estive, camminare per i viali ombrosi dei giardini del Luxembourg o sedersi a prendere il sole sulle caratteristiche poltroncine di ferro battuto, smaltate in grigio-verde, ai bordi della grande fontana ottagonale, dove i bambini spingono con aste di legno le barchette a vela, emuli di un gioco antico e perenne, ci fa sentire la felicità a portata di mano. Vengono in mente le bellissime pagine con cui Ernest Hemingway in “Festa mobile” descrive i giardini e i suoi sentieri ghiaiosi, mentre fra gli alberi “il vento soffia chiaro e pungente” e le passeggiate letterarie fra il Quartiere latino e Saint Germain des Prés, dove visse gli anni giovanili “quando eravamo molto poveri e molti felici”.
Da sempre questo spicchio di città sulla Rive Gauche è stata zona di letterati, poeti, filosofi e studenti (la Sorbona è nelle vicinanze). Non stupisce allora che proprio al numero 222 di Boulevard Saint Germain, in un edificio hausmaniano, con un allestimento d’avanguardia, si trovi il curatissimo Musée des Lettres et Manuscrits, ideato e diretto dal grande collezionista Gerard Lhéritier, per il quale “una lettera è lo specchio della vita”, che ospita l’affascinante mostra “Des lettres et des peintres”.

Invece di seguire l’itinerario che Hemingway percorreva abitualmente, uscendo dal cancello principale dei giardini in direzione di St-Sulpice, dei Caffè Flore e Deux Magots, e della brasserie Lipp, imbocchiamo la lunga discesa di Rue Tournon, la via degli antiquari librari. Al numero 18, immobile nel tempo e negli arredi, s’incontra il caffè Bistrot Le Tournon, a pochi passi dal Senato. Fra il 1933 e il 1939 questo locale divenne il rifugio-atelier, dove Joseph Roth, romanziere “di confine”, fra i più grandi del Novecento (Giobbe, La Marcia Radetzky, Fuga senza fine), scriveva con la magia della sua penna, riuscendo a superare i confini ideologici, culturali, religiosi e politici di un’Europa scossa dall’umana violenza, tra una guerra mondiale che finiva e un’altra che si preannunciava (“un continente triste e ormai prossima alla morte”,osservava ). A differenza della sua “Leggenda del Santo Bevitore” (suo testamento morale), “l’ovattato abisso” dell’alcool, senza il quale, diceva, “sarei rimasto al massimo un buon giornalista”, non gli regalò una “morte lieve e bella”, e una targa d’ottone su una parete sta a ricordare quel tragico 23 maggio del ’39, in cui si accasciò sul suo tavolino di marmo, pieno di fogli vergati con cura e bicchieri di Pernod e Calvados svuotati.

Travagli di vita, riflessioni sull’arte, storie d’amore e d’amicizia, confidenze e debolezze delusioni e speranze, trapelano invece dalle corrispondenze private dei grandi pittori ,da Delacroix a Matisse e Cezanne, da Géricault a Magritte, Picabia e Dalì, passando per Monet, Gauguin, Manet, Van Gogh, Picasso, Braque e Mirò. Le loro calligrafie tracciano sulla carta disegni che ci rivelano tratti inediti della loro personalità. Scrive nel 1821 Géricault, con stile calligrafico ed elegante, venato di chiaro-scuri, all’amata Madame Trouillard: “Mi permetto di prostrarmi ai vostri piedi, perché voi siete una creatura divina e io non ne posso fare a meno, tuttavia esito, non certo a scegliere, che è facile: se per voi è possibile di trovare uno spazio per un fragile mortale, di scendere fino a lui ! Allora…..”.

In una lettera a Darcy confessa inquietudini e gioie, riflessioni sulla pittura inglese “che non si distingue se non per soggetti di paesaggi e marine”. La scrittura di Van Gogh è precisa, trasuda sensibilità, è ricca di disegni, con un’impaginazione perfetta. All’amico pittore Van Rappard, nel 1883, manifesta il suo interesse per la litografia e per la “bellezza del colore nero, un bel tono caloroso”, che accosta ai racconti di Dickens “uno scrittore unico, artista insuperabile di bianchi e neri”. E’ larga e chiara la scrittura di Chagall, che nel 1950 scrive a Prévert: “mio caro amico, quando leggo i vostri poemi mi sembra di vedervi e di parlare con voi”. E’ complice e conflittuale il rapporto fra Breton e Picabia, che nel 1947 esprime “l’amore per lo spazio immaginario, impalpabile”. Léger descrive dal fronte alla sua “Janot”, nel 1917, dettagli di vita quotidiana e le dedica un disegno con due innamorati abbracciati. Nel 1924 insorge, invece, contro la critica e la “mondanità effimera parigina, J. Cocteau, i balletti russi, le serate piccanti, le duchesse, gli snob”.

Parole e immagini anche per il “fauviste” Matisse, tratti dinamici e variazioni di toni e colori vivaci, contrapposti alla rigidità del “cubista” Picasso. Cortesi, osservanti delle convenzioni e delle regole gli scritti di G. Braque. Le lettere di Magritte rivelano un borghese tranquillo, e a tratti svelano “giardini segreti” e malinconica ironia. Renoir si lamenta con Mallarmé dei suoi acciacchi. Il solitario Cezanne si sfoga per l’incomprensione che lo circonda e si lamenta con Pissarro per il tempo “estremamente piovoso del Midi”. Nel 1885 Pissarro invita Gauguin, che si trova in Danimarca, a perfezionare il suo stile: “solo e libero da voi stesso troverete qualcosa di nuovo”.

Commoventi le pagine in cui Monet lancia fra gli amici pittori nel 1889 una sottoscrizione per l’acquisto dell’Olimpia di Manet, per offrirla al Louvre, così “da rendere omaggio e giustizia alla memoria del nostro amico”. Così come quelle di Manet nel 1870, che denunciano la fame e i patimenti di una Parigi, alla vigilia della Comune. Delacroix manifesta la sua ammirazione per Rubens, “che ha fatto il miracolo: mi ringiovanisce più delle terme di Plombières”. Kandisky e Delaunay teorizzano sull’arte. Dalì invita il poeta Paul Eluard a mangiare il pesce ad Arcachon. E’ una scrittura poetica quella di Mirò, che gioca con le assonanze di frasi e colori. Toulouse-Lautrec esprime alla madre l’entusiasmo per il soggiorno a Londra e la delusione per i “pranzi approssimativi in hotel e la chiusura dei negozi, dopo le sei di sera”. Piena di slancio ideale la lettera di Courbet al “caro e grande poeta” V. Hugo, nel 1864 ancora in esilio: “Voi l’avete detto, io ho l’indipendenza feroce del Montagnardo, malgrado l’oppressione che pesa sulla nostra generazione, malgrado la Francia di oggi, noi salveremo l’arte, lo spirito e l’onestà della patria”. Un grido di indignazione più che mai attuale.

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Il viaggio senza tempo di Mimmo Jodice

jodice-installazione_580x260MARIA CRISTINA SERRA | Un’esposizione singolare, “Les yeux du Louvre”, che con sensibilità ed eleganza accomuna i capolavori di un tempo con le immagini del presente. 60 foto in Bianco/Nero che rileggono i capolavori dei grandi pittori dal Rinascimento all’Ottocento, miscelandoli con i ritratti dei dipendenti del Louvre (fino al 15 agosto)

La rue de Bretagne, ideale luogo d’incontro fra la Parigi popolare, che dal Carreau du Temple, vicino Place de la Republique, si estende fino Les Halles, e quella più à la page, che vive nell’intreccio di stradine medievali punteggiate da esclusive boutique e gallerie d’arte del Marais, ha mantenuto nel tempo la sua identità storica. Se nella parte alta e “più nobile” del Marais si incontrano i rinascimentali Hotels Particuliers (sedi dei musei Carnavalet, Archives Nationales, Cognacq-Jay, Picasso, Maison Europèenne de la Photographie), a dettare gli itinerari in quest’angolo accogliente del 3° Arrondissement, come un enciclopedico museo all’aperto, sono le numerose fromageries, boulangeries, charcuteries, caves aux vins, boucheries.

L’immaginazione è così veicolata, al di là della consistenza reale delle cose, a scoprirne la “realtà parallela” e la dimensione mentale. Il fil rouge della memoria collettiva, attraverso un visionario e liberatorio gioco di corrispondenze e dissolvenze, ci conduce dalle strade brulicanti di normale quotidianità ai fasti del Museo del Louvre, per centellinarlo attraverso lo sguardo sottile di Mimmo Jodice, maestro nel ridefinire i rapporti spazio-temporali, passando attraverso il cancello del Marché des Enfants Rouges. Dal presente ai secoli lontani, il passo è breve. Il seicentesco “Petit marché”, il mercato coperto rionale più antico di Parigi, da subito associato dalla fantasia popolare ai bambini “dalle mantelle rosse”, colore della carità, del vicino orfanotrofio, è un punto di riferimento per gli abitanti del quartiere, articolato tra banchi di fiori, verdure, pesci, ristorantini etnici e regionali. Seguendo il richiamo dei profumi e dei sapori, per rue Vieille du Temple e rue des Rosiers, centro del vecchio quartiere ebraico, con i suoi bistrot Kosher e le botteghe che vendono dolci e speziati falafel, si arriva in rue de Rivoli e al Museo del Louvre.

Dal mosaico di aromi e colori ci si immerge nel prodigioso incanto del “Bianco/Nero” della affascinate mostra del fotografo Mimmo Jodice: “Les yeux du Louvre”. Nella Sala Sully, nei sotterranei del museo, in un’atmosfera misteriosa e in una scenografia austera, a cui fa da contrappunto l’ariosità dell’altissimo soffitto a volta, 60 ritratti in Bianco/Nero, rigorosamente allineati in un’installazione circolare, intrecciano relazioni tra di loro e indirizzano i loro sguardi intensi, inquieti, verso i visitatori, instaurando un ‘empatia sotterranea che predispone alla riflessione. Come in un sortilegio, qualsiasi riferimento a contesti storici o ambientali è cancellato, la scansione temporale resa fluida “in un presente assoluto” e contemporaneo. “Ho cercato di abolire il tempo e la differenza tra la pittura e la fotografia”, spiega Jodice, ” e di ridare vita, anima e carattere alle figure del passato e di conferire nuovo statuto ai modelli fotografici”.

Così gli “abitanti del Louvre”, grazie al superamento dei confini temporali, e al l’abbattimento delle barriere tecniche e linguistiche, tra pittura e fotografia, sono resi dall’artista napoletano (mago nel rendere sublime l’immaginifico della realtà urbana e concreto l’archetipo dei reperti archeologici) con uno stile asciutto e oggettivo, velato di delicatezza. Il dosaggio perfetto della luce che quasi scolpisce le immagini, dopo averle scomposte e riassettate, per amalgamare l’Antico con il Moderno, conferisce loro una naturale solennità. “Fotografare un viso dipinto”, dice Jodice, “significa renderlo al presente, annullare tempi e differenze”. Così 40 volti,scelti in base alla loro espressività, estrapolati da dipinti celebri, sono affiancati in un ritmico montaggio da 20 ritratti di contemporanei. In una successione di immagini dal forte impatto emotivo scorre davanti ai visitatori l ‘universalità dei sentimenti umani.
“Passione, ansietà, nobiltà, arroganza, stupore, ironia, timidezza, tenerezza” accomunano uomini e donne di ieri e di oggi, indipendentemente dalle differenze sociali.

E qui affiorano nella complessità della loro intimità e segretezza come solo l’immediatezza delle immagini, più che le parole, è in grado di svelare. La poetica di Jodice, lontana da qualsiasi tentazione documentaristica, reinterpreta così i capolavori d’epoca rinascimentale e romantica, alternandoli con i “suoi” dipendenti del Louvre. Occhi e visi, di fronte o di tre quarti, raccontano le loro storie di condottieri, dame, alchimisti, direttori di museo, compositori, banchieri, custodi, restauratrici, filosofi, esperti in comunicazione: ognuno è lì con la propria identità, svincolato dalle strettoie del ruolo che il caso, la scelta o la nascita hanno ritagliato per loro. Con straordinaria maestria e sensibilità, Jodice allinea sullo stesso orizzonte immaginario i suoi scatti di oggi con gli sguardi dei personaggi, ritratti da Antonello da Messina, Dosso Dossi, il Veronese, Delacroix, Elisabeth Vigée Le Brun, Leonardo, Raffaello, Goya, Ingrés, David, il Perugino.

Il risultato è una meravigliosa alchimia in equilibrio fra instabilità dell’esistenza ed eternità, luminosa e irradiante interiorità e inconfessabili tormenti, rivelazione dell’invisibile e sottrazione del superfluo. Ogni personaggio presente o passato, più o meno noto, a suo modo riflette quella scintilla di autenticità, che permette di gettare uno sguardo del tutto inusuale sulla vita del museo, per comprenderne i suoi tesori, senza la fretta né l’ingordigia a cui spesso il turismo “mordi e fuggi” ci ha abituato. “Gli occhi del Louvre” ci penetrano dentro e ci aiutano a vedere con uno spirito nuovo le opere d’arte, per gustarle con i tempi lunghi della storia.

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