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venerdì, Novembre 15, 2024
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La pedagogia del Théâtre du Soleil di Parigi

Soleil_OcchielloANDREA CIOMMIENTO | Superato il confine francese tornano le immagini di un’Italia imbrattata e compressa artificialmente in un incubatore di falsate idee culturali arrese da tempo alla luce mediatica del main-stream. Un buffo bagliore abbacinante ed effimero agli occhi di un artista come Duccio Bellugi Vannuccini, da oltre trent’anni alla ricerca di una verità scenica personale fatta di incontri autentici ed esperienze formative importanti (Pina Bausch,  Marcel Marceau, Étienne Decroux) fino alla convivenza professionale nella casa di Arianne Mnouchkine al Théâtre du Soleil di Parigi. Una comunità teatrale composta da decine di attori e tecnici provenienti da tutto il mondo, dediti alla cura dei propri spettatori e degli spazi della Cartoucherie. Il nostro confronto inizia nel primo pomeriggio, in una pausa del laboratorio sull’uso pedagogico della maschera all’interno del progetto Teatro Comunità di Torino (un percorso ambizioso che avremo modo di approfondire sulle nostre pagine in tempi opportuni). Questo senso di degrado pubblico nel vivere contemporaneo stringe ogni sentimento sul nostro Paese; all’arrivo italiano dell’attore quel che rimane impressa è una panoramica apparentemente distante dal fatto teatrale: la constatazione di una spiazzante “differenza tra una toilette francese e una italiana, pubblica o privata che sia. Qui in Italia già nel primo posto che vai, trovi uno schifo”…

In Francia anche i bagni sono l’eccezione? (Ride) Sappiamo che i francesi tengono molto all’exception, alimentano la cultura nonostante i tagli generali ma il sistema continua ad esserci con solidità. Pensi solamente al sistema d’intermittenza, vale a dire il sussidio di disoccupazione per gli artisti. Questo permette alle compagnie di avere il tempo per fare delle prove, per fare ricerca. In Italia percepisco altro: qui si pensa “facciamo lo spettacolo che venda il più possibile così il Comune ha il suo grande fascio di luce e ci finanzia”, senza ricerca artistica, magari con l’attore o il gruppo più famoso. Così non si alimenta la cultura, non c’è il tempo per rimetterla in questione, non ci si pone delle domande…

Di chi è la colpa? Non credo che la colpa sia dei grandi o piccoli enti di politiche culturali. La colpa è in buona parte degli artisti stessi che non si pongono più domande.

In che modo si è avvicinato al Soleil di Parigi? Ero molto giovane, studiavo nella scuola di Pina Bausch. Avevo un problema al ginocchio e per un periodo non potevo più danzare. Ho saputo che Arianne Mnouchkine dava uno stage, avevo da poco visto lo spettacolo Sihanouk, roi du Cambodge. Lo stage diventò audizione e lì entrai in compagnia.

Arianne Mnouchkine ha inciso molto nella sua ricerca? Il lavoro che Arianne fa al Soleil è in gran parte un lavoro pedagogico di formazione con i giovani attori. Avevo avuto esperienze di formazione artistica con Marcel Marceau, Étienne Decroux, oltre a Pina Baush, esperienze del corpo. Cercavo qualcosa di più teatrale. Il Soleil era ed è una grande scuola di pensiero e di azione nella quale creare un rapporto con il pubblico, un’attenzione al pubblico essenziale per fare teatro. Il lavoro che da anni cerchiamo di fare è quello di riflettere coinvolgendo tutti gli spettatori, senza per questo abbassare il livello a una dimensione televisiva.

La Cartoucherie è la casa del Soleil e di altri sette teatri parigini. Il vostro è un luogo di convivenza comunitaria che si riversa anche nel confronto poetico? In verità il confronto poetico non c’è con gli altri teatri, siamo uniti per far fronte alla città di Parigi che è il “proprietario” del luogo. Noi del Soleil siamo una settantina di persone (circa trenta attori), ci occupiamo di diverse mansioni per tenere in piedi questa grande struttura.

Una struttura enorme… Effettivamente enorme, sì. Non appaltiamo le pulizie a una società. È tutto nostro: noi attori facciamo da mangiare per il pubblico, facciamo le pulizie… È una vera casa per la nostra poetica.

Vi prendete cura in prima persona degli spazi che vivete, questo è chiaro anche nel laboratorio condotto in questi giorni. Si respira una sacralità dello spazio… È un dare valore alle cose e alle persone che vivono il laboratorio. Se uno spazio si lascia trasandato, anche le persone saranno trasandate.

Questa sacralità è alla base della pedagogia che da anni ricercate. Un metodo che segue la stessa profondità di altre esperienze: Bausch, Brook,GrotowskiQueste sono famiglie teatrali: Mnouchkine, Bausch, Brook… Cercano le stesse verità, cercano la stessa poesia in maniera differente e con forme diverse. Con Arianne ho fatto un percorso formativo molto profondo. Questo traspare nel mio modo di condurre un laboratorio: saper ascoltare, avere gli “occhi puliti”, non attraversare la scena senza un senso di sacralità fuori e dentro lo spazio stesso. Certo è più faticoso: ricercare la verità è uno sforzo più grande confrontato alla ricerca di una forma artificiosa. Una voce impostata la troviamo dopo il secondo corso teatrale che facciamo. La ricerca della verità no.

In questa ricerca l’uso della maschera sembra fondamentale… La maschera è come una lente d’ingrandimento. Senza maschera, alla fine di un esercizio puoi dire: “io sentivo questo, sentivo quell’altro”. Invece la maschera o vive o non vive. Tutti quelli che hanno un occhio benevolo lo capiscono subito. Gli altri no.

Come mai? Perché è difficile ammettere che forse “mi hanno detto delle cavolate fino ad ora o forse mi sono sbagliato”. Tutti quelli che hanno l’occhio benevolo, invece, vedono quando esiste o non esiste qualcosa in scena, quando c’è una verità o non c’è. È difficile per tutti, anche per noi. È una fatica quotidiana: dobbiamo trovare la verità per fare arrivare l’altro. Un certo tipo di teatro pensa soltanto alla bella presenza dell’attore. Mi fa piacere ma in scena non voglio vedere questo: voglio vedere Amleto, Agamennone, Tartufo, Pantalone.

La maschera affina l’ascolto e la propria presenza scenica… Ti avvicina al saper ricevere e ascoltare non soltanto un blablabla ma con quale emozione questoblablabla viene detto. È una cosa difficile, solitamente non si fa. Basta andare in un dibattito politico per vedere come ognuno mette la sua pedina senza ricevere e ascoltare. Innanzitutto serve comprendere quale sia il cammino che ognuno può intraprendere. In questo ci aiuta il divertimento: abbiamo la fortuna di lavorare con maschere di commedia. Già solo questo: se metà delle persone lo capisse sarebbe una grande cosa.

Ebrei matti e Pinocchio a pezzi

ELENA SCOLARI |  Idee nuove venite a noi! Abbiamo recentemente visto due spettacoli originali e di cui vale la pena di raccontare: Gli ebrei sono matti del romano Teatro Forsennato (vincitore ex aequo con “La Protesta” di La Ballata di Lenna, del premio Festival Anteprima89 Edizione 2012 ANTIDOTI”) visto allo Spazio Teatro 89 di Milano e Pinocchio readymade di Delleali Teatro visto a Casatenovo (Lecco) in occasione della rassegna Librinscena.

“Gli ebrei sono matti” vede in scena Dario Aggioli e Angelo Tantillo, il primo interpreta Enrico, malato di mente vero che durante il ventennio fascista viene ricoverato in un manicomio, lontano dai suoi cari e dai tanto amati discorsi del duce, il secondo è invece Ferruccio, un ebreo romano che si finge matto per sfuggire alla cattura. Un matto vero, gentile, e un ebreo vero ma matto finto che si incontrano e si confrontano nell’assurdità dell’istituto psichiatrico. La storia si ispira ad un episodio reale. Enrico è autistico e Aggioli lo interpreta con realismo toccante, l’attore ha effettivamente lavorato con persone autistiche ed è in grado di rappresentarne i tic e le ossessioni in maniera senz’altro credibile e ricca di ironia, Tantillo è continuamente in bilico tra l’imbarazzo di doversi fingere quello che non è per salvarsi e l’affetto sincero che sviluppa verso Enrico. Lo spettacolo non ha un testo definito (soltanto i buffissimi discorsi del duce interpretati da Aggioli sono quelli originali), i due interpreti improvvisano ogni sera, rispondendo alle reazioni del pubblico e calibrando l’interazione tra i personaggi secondo l’estro. Questo aspetto deve ancora essere padroneggiato meglio, essendo al debutto il lavoro manca di rodaggio e il solo canovaccio rischia di mostrare un ingranaggio ancora non ben oliato, ne soffre un po’ la fluidità narrativa dello spettacolo che non appare ancora drammaturgicamente solido. Siamo però di fronte ad un esperimento forte, che merita di essere visto per la capacità di mostrare la crudeltà delle leggi razziali in un modo nuovo, anche comico; inoltre l’utilizzo di maschere di cuoio molto belle, (realizzate da Julie Taymor, regista cinematografica di Titus e Frida) rende articolato il racconto e sottolinea con arte la doppiezza di ognuno di noi, il contrasto tra almeno due anime racchiuse in ogni uomo e in ogni personaggio.

Lello Cassinotti, attore e regista di Delleali Teatro, residenza lombarda, ha ideato una versione di Pinocchio che è un omaggio dichiarato al maestro Carmelo Bene, faro di pochi attori del nostro tempo, purtroppo. Cassinotti ha ridotto ognuno dei 34 capitoli del libro di Collodi, lavorando soltanto in levare, le parole che sentiamo sono tutte dell’autore. Ma una lettura integrale, benché ridotta, del testo, risulterebbe comunque troppo lunga, così è il pubblico a scegliere quali capitoli l’attore leggerà, le regole del gioco sono chiare: il primo e l’ultimo capitolo sono obbligatori, in mezzo si può fare ciò che si vuole, anche andare in ordine sparso senza rispettare la cronologia della storia. Si confida che il pubblico conosca almeno a grandi linee l’intero intreccio, perché non si perda in questo percorso libero. La rappresentazione prevede sul palco l’attore insieme a un musicista (Alberto Forino) che accompagna la lettura con una tastiera, apparentemente con una certa libertà di scelta musicale. Cassinotti è molto bravo, riesce, benianamente, a dare voce a tutti i personaggi, voci diverse che si attagliano perfettamente alle creature che popolano Pinocchio. Il risultato di questo ready-made teatrale, è godibile, surreale quanto basta, ma suggeriamo all’ideatore di creare una selezione guidata dei capitoli, che lasci intatta l’unicità di ogni serata, limitando però con sapienza le scelte del pubblico in modo che l’oggetto finale risulti comunque sempre compiuto, anche se ogni volta diverso. La casualità completa, infatti, rischia di far saltare capitoli affascinanti e di insistere su quelli meno significativi, accentuando il fuoco sulla bravura tecnica a discapito però dello straordinario ingegno visionario di Collodi.

Apprezziamo particolarmente l’atteggiamento sincero di questi due spettacoli, entrambi fanno sentire chiaramente una passione attenta verso il teatro, verso modi nuovi di costruirlo, entrambe le strutture abbisognano ancora di consolidamento ma rivelano una freschezza professionale che ci mette di buonumore. Ebrei matti e Pinocchi fatti a pezzi.

L'Orlando androgino di Isabella Ragonese

BRUNA MONACO | Emanuela Giordano, regista e autrice del piccolo e del grande schermo, oltre che drammaturga e regista teatrale, porta al Teatro Argentina La commedia di Orlando, adattamento teatrale del romanzo di Virginia Woolf Orlando. Un romanzo ironico, divertito e fantasioso, pubblicato nel 1928, che la stessa autrice non prende troppo sul serio e lo definisce un “libricino”. La messa in scena è abbastanza fedele alla trama del libro: Orlando è un nobile inglese un po’ annoiato dalla vita ma con una forte ambizione: raccontarla, la vita, in forma di romanzo. Questa aspirazione, che si lega al desiderio di diventare uno scrittore, è il filo rosso di una storia che attraversa i secoli e i continenti e durante la quale Orlando si innamora e viene abbandonato, è vittima di lunghi sonni simili a coma, parte per l’Asia e, colpo di scena, diventa una donna. Da donna vive con gli zingari, poi torna a Londra, si sposa e realizza il suo sogno pubblicando il romanzo scritto nel corso della lunghissima stramba e visionaria vita, e diventa una scrittrice affermata.

La regia di Emanuela Giordano è pulita ma non incisiva. Sul palcoscenico enorme del teatro Argentina gli attori (Erika Blanc, 
Guglielmo Favilla, Andrea Gambuzza, Claudia Gusmano, 
Fabrizio Odetto e Laura Rovetti) corrono per riempire uno spazio che resta sempre vuoto: la scenografia è semplice, e gli attori non riescono a tenere viva l’attenzione del pubblico. Isabella Ragonese, ottima attrice cinematografica, si muove come danzando e con la sua agilità e leggerezza incarna un certo modello di androginia, ma il risultato è calligrafico. I microfoni che diffondono senza profondità le voci (che arrivano all’orecchio dello spettatore sempre uguali, che l’attore sia in proscenio e gli si rivolga direttamente o gli dia spalle sul fondo scena) non aiutano a rendere vitale la scena. Le musiche originali sono della
Bubbez Orchestra,
eseguite dal vivo da
Giovanna Famulari al violoncello e
Massimo De Lorenzi alla chitarra, in prima balconata ai lati del palco. Fanno da cornice, ma non da contrappunto alla scena scialba.
Neppure l’adattamento convince. È chiaro dal titolo che, della vita di Orlando, a Emanuela Giordano interessa la commedia. Ed è pur vero che nel testo di Virginia Woolf non mancano ironia e leggerezza, ma la La commedia di Orlando trascura la psicologia dei personaggi. E la questione sessuale – la trasformazione di Orlando da uomo in donna – qui è ridotta a elemento della trama, uno fra tanti, invece di farne il grimaldello per una riflessione, magari ironica, sulle differenze di genere, biologiche e sociali.

Rosso

rosso_lucapiva_19RENZO FRANCABANDERA | Nelle primissime pagine dei più celebri e divulgati manuali su come si costruiscono le drammaturgie, il primo elemento cui si fa cenno è la costruzione di un conflitto. “Red”, Rosso, di John Logan portato in scena per la prima volta in Italia è una drammaturgia costruita attorno al conflitto fra il pittore Mark Rothko, in questo caso disegnato con una personalità egocentrica e misantropa ai limiti dello psicotico, e un giovane apprendista, che in realtà fa esplodere con la sua paziente vicinanza al maestro, i suoi conflitti interiori, frutto del rancore verso una società, quella americana di fine anni 50 e inizio 60, che ancora non ne apprezza appieno il valore artistico, preferendo alle sue tele di natura informale più orientate al cromatismo la forza del gesto di Pollock, che aveva sfidato e trovato la morte nel 1956.

Logan è drammaturgo esperto e che ama ricavare le sue storie in un passato di cui indaga le sfumature ambientali, un’attitudine che gli ha decretato negli anni un successo planetario, il cui più recente ed eclatante caso cinematografico è stato l’Hugo Cabret di Scorsese, regista per cui ha sceneggiato anche The Aviator, ma lo ricordiamo anche con Spielberg, per il quale ha scritto Lincoln con Tony Kushner.
Nel caso di Red l’ambientazione è facile da ricostruire: siamo già nella maturità artistica di Rothko, quella in cui era arrivato ad uno stile riconoscibile, fatto di rettangoli monocromi, spesso adagiati su altre monocromie, su tele di importanti dimensioni. Più precisamente siamo nel 1958, quando Philip Johnson gli commissiona una importante serie di lavori per il ristorante Four Seasons nel Seagram Building di New York, progetto cui l’artista lavorò per più di un anno, per poi, dopo aver completato l’opera, richiedere che i grandi lavori murali gli fossero ritornati, perché inadatti a convivere con un ambiente così poco attento all’arte stessa.
Nove di quei quadri finirono quasi dieci anni dopo alla Modern Tate di Londra, il cui direttore dell’epoca Norman Reid li commentò entusiasta per “a princely gesture”, anche se la negoziazione con l’artista non fu di poco conto, visto che lo stesso pretese che i quadri fossero esposti in modo permanente in una sala, senza avere vicini altri esempi che fossero per quel tempo più accessibili al grande pubblico per descrivere la sua arte.
Poco tempo dopo, il 25 febbraio del 1970, il pittore fu trovato morto nel suo studio, con le vene dei polsi recise, in un lago di sangue che macchiava di rosso il pavimento che misurava 8 piedi per 6.
Questa scena viene citata da Ferdinando Bruni in maniera brigante nella versione in scena all’Elfo Puccini dell’opera di Logan, che lo vede impegnato in questi giorni insieme ad Alejandro Bruni Ocaña, sotto la direzione di Francesco Frongia.
Siamo nello studio dell’artista, in un processo di iniziazione all’arte che come in molti casi attestati nella letteratura dello spettacolo, diventa un’alimentazione inversa, un soffio di vita dalla parte giovane a quella matura e spesso incancrenita, dura alla vita.
Questa è ad esempio la chiave di lettura che del testo di Logan aveva voluto dare Michael Grandage, che a fine 2009 lo aveva portato ad uno straordinario successo, prima a Londra e l’anno dopo a Broadway, dove a metà 2010 ha ricevuto sei Tony Awards, più di quanti ne abbia mai ricevuti ogni altra messa in scena, fra i quali miglior drammaturgia, miglior regia e miglior attore per Eddie Redmayne, che interpretava il giovane assistente di Alfred Molina. A questo link alcune sequenze di questo allestimento .
L’intonazione cromatica che le luci di Nando Frigerio conferiscono allo studio di Rothko in questa versione di Rosso targata Elfo, richiama per certi versi quella del celebre allestimento londinese/newyorkese. Come pure alcune dinamiche di scena appaiono vicine a quelle pluripremiate, forse anche per evidente necessità di impostare lo spazio in modo semplice, orientato alla fruizione del pubblico.
La grandissima passione di Ferdinando Bruni per l’arte è quindi stata senza dubbio il motore della scelta di lavorare su questo testo, e su un personaggio dal tratto scontroso ma appassionato.
Lo spettacolo ha spunti di interesse, che non sviluppa in toto. L’ “attor giovane” pur preciso nell’interpretazione, non arriva a dare al suo personaggio quella crescita di personalità che fa sviluppare anche la crescita del conflitto con l’artista e la sua psicosi. Questo porta Bruni un po’a “titaneggiare” con il suo personaggio dal fare tiranno, il cui gesto suicida, che viene mimato, non trova una vera corrispondenza in uno stato disperato sufficientemente sviluppato, se non in una progressiva tensione alla dipendenza alcoolica.
E’ paradossalmente tutto troppo misurato, c’è un’ortoepia assoluta, per cui l’istante in cui la passione diventa travolgente è quello in cui i due protagonisti, con fare violento, dipingono in pochi secondi una grande tela di rosso indiano, pronta per essere la base di uno dei celebri quadri di Rothko. Solo qui l’arte prevale su tutto, soprattutto sulla parola, una parola che alla fine dello spettacolo rimane fredda e un po’ distante, senza lasciare quella profonda scalfitura informale nell’animo di chi assiste.

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Quaderni ritrovati, Cristiani e baleniere

BRUNA MONACO | L’ammirevole progetto ZTL-pro da cinque anni permette a compagnie indipendenti di realizzare spettacoli a volte di gran qualità. È il caso di Lev dei Muta Imago, presentato nel 2008, o de L’origine del mondo di Lucia Calamaro, uscito dalla scorsa edizione e che ha raccolto grandi successi di pubblico e critica. La direzione artistica di questa rassegna è prismatica (Angelo Mai, Rialto Santambrogio, Santasangre / Kollatino Underground, Teatro Furio Camillo e Triangolo Scaleno Teatro) come anche la tipologia di spettacoli selezionati. Il focus è sulla varietà dei linguaggi artistici, ma grande attenzione anche al teatro di ricerca.

Quest’anno gli spettacoli finanziati da Ztl-pro sono tre, molto diversi tra loro, appunto. Il più interessante, Reality, nasce dall’incontro frala brava Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Il punto di partenza è il reportage di Mariusz Szczygiel sulla casalinga polacca Janina Turek, che in seguito alla deportazione del marito a Auschwitz per elaborare il lutto ha sviluppato una psicosi tutta particolare, ovvero un filtro affettivo che, anziché deformare la realtà, la mette a fuoco con una precisione maniacale. Una realtà oggettiva, scevra di emozioni: i fatti, soltanto. Quelli meno significanti, quelli di tutti i giorni. Fatti ridotti a elenco di fatti, ridotto a numeri. È così che scrive 748 quaderni, annotando 38.196 telefonate, 1.922 appuntamenti fissati, 70.042 programmi televisivi visti. Eccetera, eccetera. Per tutta la vita, ad insaputa dei familiari. Di tutti.
L’inizio di Reality è acutissimo, ed esilarante. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini partono dalla fine, dalla morte della protagonista, un infarto, mentre rientrava a casa dopo la spesa. Subito la domanda: come si mette in scena la morte? Traslitterazione scenica della questione atavica (come si elabora la morte?) a cui Janina Turek ha risposto compilando quaderni. Deflorian e Tagliarini osservano l’uno le proposte di morte dell’altra. Si correggono, si aiutano. Hanno pudore. Sono impacciati e umani.
Poi, a dispetto del titolo, Reality inizia a somigliare a una docu-fiction sulle difficili prove di trasposizione scenica di qualcosa che, a stringere, è una serie di liste. Come fare uno spettacolo dalla lista della spesa. Reality diventa così la messa in scena di un tentativo di spettacolo che ha forse la debolezza di alludere a tratti più a uno studio preparatorio (molto interessante) che a uno spettacolo compiuto.

Anche Or, sulla frase nominale, ideato e diretto da Silvia Rampelli per la compagnia Habillé d’eau, è a suo modo uno spettacolo incompiuto. O forse, solo non riuscito. La scena completamente nuda è quella grigia ma per nulla anonima del teatro Palladium, nessun lavoro è stato fatto sullo spazio. Sul fondo scena due gambe d’uomo, distese, il resto del corpo nascosto dalla quinta. Rumori di fondo registrati e poi una voce che chiama “Cristiani” e che sarà il tormentone dello spettacolo. Le performer in scena non faranno che reiterare gesti poco comprensibili. La ricerca dichiarata nel foglio di sala sulla “dialettica tra temporalità e identità della forma” sulla scena è ancora più criptica che sulla carta. Dal bisogno di un senso, lo spettatore può anche liberarsi, se l’elemento visivo è più che attraente, penetrante. Ma né corpi delle due pur brave performer (Alessandra Cristiani e Eleonora Chiocchini), né la qualità dei loro movimenti colpisce in profondità, impossibile che riesca ad affondare da qualche parte nella percezione dello spettatore.

Chiude in leggerezza la rassegna il Teatro delle Apparizioni di Fabrizio Pallara con Moby Dick di Rockwell Kent, uno spettacolo per adulti e bambini. I novanta spettatori invitati a salire sul palcoscenico del Palladium siedono su delle panche disposte in forma ovale. Corde dai nodi scorsoi scendono dal soffitto e si legano a delle balaustre. Siamo su una nave, e non una qualunque: il Pequod, la più famosa baleniera di tutti i tempi. Dario Garofalo (unico, bravo attore in scena) in quaranta minuti ripercorre il monumentale romanzo di Melville. Proiettate sul pavimento della nave, le illustrazioni di Rockwell Kent accompagnano e scandiscano la sua narrazione. Anche in questo caso, si avverte una cerca incompiutezza. Lo spettacolo è ben costruito, ma da risolvere il rapporto con gli spettatori, seduti su panche scomode come quelle di una nave, ma trattati non da mozzi e marinai, bensì da spettatori ordinari, in nessun modo coinvolti nell’azione, malgrado la prossimità. Il progetto è ambizioso, ma l’adattamento scenico di un romanzo, specie di un libro universo come quello di Melville, è sempre un’operazione complessa, e si corre il rischio di rimanere intrappolati nella trama dimenticando i passaggi che dalla trama straboccano e in cui, spesso, si annida il senso.

Quando l’arte racconta Camus

camus-2_loulou-picasso1MARIA CRISTINA SERRA | Percorrendo le stradine accanto al Centre Pompidou, fra le solennità gotico-fiammeggianti della chiesa di St. Merry, stretta fra le case e la leggiadria delle sculture animate “nouveau réalisme” di Niki de St.Phalle nella fontana Stravinskij, si arriva alla Galleria Tolmar, punto d’incontro e tendenze d’avanguardia, luogo di scambio di idee e di dibattiti.

Quattordici artisti, impegnati in differenti ricerche espressive, si sono ritrovati (sino a fine Maggio) per affermare, ancora una volta, la capacità dell’arte di mettere in discussione le certezze di facciata. Il tema dell’Innocenza fa da collante, il pensiero di Albert Camus da filo conduttore, attraverso un itinerario espositivo di grande suggestione: dipinti, disegni, installazioni, video, fotografie, per un omaggio al grande scrittore franco-algerino e disvelare le ipocrisie della società e i mali del presente. Lo spazio limitato della galleria si amplifica in tre direzioni di racconto: “L’infanzia o l’ illusione dell’innocenza; il tempo della colpevolezza; l’innocente dissidente o la figura del’Idiota”.

Gli artisti (Yassine Balbzioui, Raed Bawayah, Corine Borgnet, Katia Bourdarel, Arnaud Cohen, Jessy Deshais,Mounir Fatmi, Jamila Lamrani, Jacques Lizène, Luna, Moolinex, Loulou Picasso, Lionel Scoccimaro, Michaela Spiegel) sviluppano a loro modo le tematiche, lasciando agli spettatori la libertà di evocare il loro vissuto e interpretarlo nel presente. “Seules les pierres sont innocentes” sono le parole lapidarie che l’esistenzialista “sui generis” scagliava dalle pagine de “L’uomo in rivolta”, del ‘51, opera che suscitò scompiglio e aspre polemiche nel mondo intellettuale e la rottura con Sartre. E la definizione che Camus diede di sé “non sono né un romanziere né un filosofo, ma piuttosto un artista che crea dei limiti a misura della sua passione e della sua angoscia”, ci fa da guida.

Le adolescenti di Corine Borgnet, emergenti dall’acqua, hanno l’inquietudine dell’anima e la malinconia del mondo simbolista, reale o sognato, di Redon. Velate di solitudine e misteri si perdono in storie intime, frammentate, alla ricerca di una innocenza perduta. La delicatezza dell’installazione di Jamila Lamrani, “Bribes”, delimita un’oasi di speranza fra le illusioni perdute. Le garze, il tulle, i delicati tessuti ricamati in trasparenza rievocano la magia della sua terra, il Marocco, prendono forma e volumi, si riempiono della tensione fragile e al tempo stesso forte della sua arte, intenta a riannodare i fili del non-detto fra la violenza dell’esistenza e la dolcezza della memoria.

Appese al soffitto, galleggiano nella sala come lampade, “les petites coulottes”, di Jessy Deshais, irrigidite da uno sciroppo di acqua e zucchero e rifinite da ingenui merletti. Dalla strada, al di là della vetrata, attirano la curiosità dei passanti con la loro dissacrante ed elegante ironia, oscillante fra il candore e la perversione. “Hanno il peso di una piuma, la fragilità di un’ala di farfalla e il grido sordo della violenza”, dice l’artista. Hanno innocui disegnini, denti minacciosi, occhi languidi o macchie sulle quali è ricamata con perline la parola “shit”.

Nativo di Tangeri, Mounir Fatmi, va diritto al cuore del problema: decodificare l’ambiguità e la manipolazione delle immagini che, saturando il nostro immaginario, trasformano la violenza e l’ingiustizia in consuetudine senza peso né significato. Il suo è un punto di osservazione privo di convenzioni, teso a far affiorare “il mostro dominante in ognuno di noi” e la morbosa curiosità voyeuristica che riduce a spettacolarità il dolore e la tragedia reale. Nel suo video “Dieu me pardonne”, si scontrano e si integrano immagini strappate dai loro scenari in sequenze e dissolvenze che creano un effetto soft, estetizzante e anestetizzante.

Al rallentatore si susseguono scene di guerra, morte, erotismo, scadenzate da una musica cantilenante, in un crescendo martellante.

Il San Sebastiano contemporaneo di Arnaud Cohen ha la forma aerodinamica di un caccia, ricoperto da una rete rossa e trafitto da una freccia: una rivisitazione metaforica di doppiezza fra paganesimo e sacralità. Raed Bawayah, fotografo palestinese di rara sensibilità e purezza stilistica, penetra nell’alterità e le lacerazioni della vita per ridare voce ai silenzi dimenticati. I suoi “Territori Occupati” sono ripresi nel quotidiano alternarsi di “normalità” e follia, riflettono la condizione umana nella sua universalità di forza e debolezza. “Le mie foto”, dice, “sono ritratti di uomini e donne, vecchi, bambini, immigrati, europei, malati mentali, guerre psicologiche e speranze sotterranee”. La sua foto, simbolo stesso della Pietà (“l’unica legge dell’esistenza umana”, scriveva Dostoevskij), fa parte della serie Deadline, scattata in un ospedale psichiatrico a Betlemme. Una denuncia commovente e fragorosa di paure, pregiudizi e barriere che ogni società erige verso il diverso, o l’Idiota eversivo.

L’ironia feconda, colta, sofisticata di Michaela Spiegel, che si destreggia tra molteplici codici espressivi, per ricomporli poi con spirito dadaista, ci ricorda come l’Arte sia il termometro che misura lo stato esistenziale della società. L’artista viennese (impegnata per l’imminente riapertura del Palais de Tokyo e nella mostra alla Galerie Nuke ”Beautiful Penis”, considerazioni sulla bellezza del corpo maschile e la sua assenza dalle opere delle artiste) espone qui la serie “Immagini d’infanzia perduta”, foto vintage rivisitate e decontestualizzate con piccoli interventi dipinti e giochi di parole.

“Per distruggere le immagini dell’infanzia santificata”, spiegala Spiegel: “Una volta le foto erano un privilegio riservato ai bimbi ricchi o molto religiosi. Mi servo delle immagini vintage, perché penso che non si possa costruire l’avvenire, senza riflettere sul passato – dunque sulla Storia”. Così, teneri infanti nudi accarezzano i loro spropositati organi genitali aggiunti; estasiate bambine con gli abiti della Prima Comunione accavallano le gambe inguainate in nero; altre in abiti di mussola e fiocchi tra i capelli hanno accessori sado-maso, cestini di fiori e bombe a mano; sguardi innocenti e i segni delle future perversioni. “Io corrodo le immagini della rispettabilità, ma sempre con una sorridente ironia”. Conturbante è la maternità della ragazza, ferita nell’anima e nel corpo, della “Rivoluzione triste” di Loulou Picasso (cofondatore del Collettivo Bazooka), mentre è dilagante il sarcasmo nella serie fotografica “Les Octodedégénérés” di Lionel Scoccimarro, ottuagenari privi di pudore che assumono le movenze giocose dei bambini, per allontanare lo spettro della loro decadenza.

Una mostra esemplare, in cui risuonano le parole profetiche di Camus: “Quando il concetto di innocenza scompare nell’innocente stesso, la potenza eretta a valore regna definitivamente sopra un mondo disperato. Perciò un’ignobile e crudele penitenza regna su questo mondo, ove solo le pietre sono innocenti”.

L’inaugurazione alla galleria
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Roberto Saviano racconta Camus
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=nhKebJeVc6M]

Il Don Giovanni di Latella

latella-dongiovanniRENZO FRANCABANDERA | La ricerca teatrale di Antonio Latella si sviluppa da anni per aree tematiche. Il “Don Giovanni a cenar teco” è il confronto del regista con il tema dell’amore come conquista, come solitudine, come ricerca.

Lo spettacolo è una produzione di un anno fa e porta in sé alcune ricerche, eminentemente dal punto di vista scenico, che hanno poi trovato esito compiuto nella regia di Tennessee Williams del regista campano.
La scena è vuota. Fa eccezione un drappo di broccato giallo largo circa un metro e mezzo, che pende sulla destra del palcoscenico a creare una quinta artificiale. L’impianto luci prevede oltre ai posizionamenti in alto, un grande faro che viene spostato con l’ausilio di una sedia a rotelle, e che ad inizio spettacolo viene spinto dal fondo del palco verso il pubblico, quasi ad abbagliarlo.
All’ingresso del pubblico in sala, due personaggi si fronteggiano, seduti ad un lungo tavolino con gambe basse, seduti anche loro su sedioline basse. Sul tavolino giocattoli di plastica. E’ la dimensione del gioco, della leggerezza. E’ un don Giovanni giovane, incosciente, che seduce e abbandona una delle sue vittime.
Ma non è l’unico don Giovanni che vedremo in scena, perchè di Don Giovanni questo allestimento cerca di raccontarne più d’uno, con l’ambizione di approfondire sfaccettature meno indagate ma pure attestate nel paradigma letterario del personaggio, come, ad esempio, la sua passione per l’universo matematico.
La drammaturgia è affidata ancora a Linda Dalisi ma firmata anche da Antonio Latella, e deve confrontarsi con figure archetipiche, con i vertici non solo poetici ma anche psicanalitici ante litteram dello straordinario libretto di Da Ponte, ad esempio, o degli altri testi illuminati che hanno scolpito nei secoli la figura letteraria.
Per evitare un confronto uno ad uno, la scelta è quella di raccontare più di un Don Giovanni, in un seguirsi di ambiguità, di sverginamenti del rapporto con il pubblico e con la sua idea di un personaggio “lirico”, che invece viene portato sulla strada.
Ad interpretare il lavoro è in gran parte il gruppo di giovani attori legati al progetto della Compagnia Stabile-Mobile che Latella aveva messo insieme nell’anno passato al Teatro Nuovo a Napoli, alcuni impegnati nel progetto Fondamentalismo, nelle interpretazioni di nuove drammaturgie dei giovani scelti da Latella per un percorso di crescita sul modello tedesco, come i giovani Fior e Vacca.
In scena vanno Caterina Carpio, Daniele Fior, il Don Giovanni più giovane e irrequieto, attore in crescita che ricordiamo nella versione riletta da Linda Dalisi di Opinioni di un clown di Böll, Giovanni Franzoni il Don Giovanni più ambiguo e fragile, l’impossibile anima trans gender del seduttore, Candida Nieri, che dà brillantemente carne ad una femminilità fragile e sguaiata, in cerca di equilibrio, e Valentina Vacca.
A loro si aggiungono Massimiliano Loizzi, il servo giocoso e logorroico del Don Giovanni giovane, e Maurizio Rippa, che dona la voce alla figura del padre e a tutti gli intermezzi “lirici”, ma anche non di rado comici, con cui Latella rilegge la tradizione operistica del Don Giovanni; a lui è affidata la dimensione del personaggio spettatore, quasi silente convitato di pietra e inconscia sovrapposizione, scopriremo, con la figura paterna. Questo filone di approfondimento, tuttavia, risulta piuttosto esile e non sufficientemente sviluppato, risolvendosi in poche battute nel secondo atto, che non possono esaurire una tematica così complessa, rappresentando certamente un punto debole di quanto portato in scena.
Audace anche la scelta di lasciare in più momenti all’improvvisazione uno spazio importante, soprattutto nelle scene che coinvolgono il pubblico e in generale in quelle in cui il servo di Don Giovanni deve alzare la temperatura ironica del recitato, per portarla verso gli esiti meno convenzionali che la drammaturgia prevede. Sono momenti in cui spesso si va un po’ oltre la misura, trascinando verso un gioco di cui lo spettatore finisce per avere consapevolezza, mentre le parti più rimarchevoli dello spettacolo sono quelle in cui la regia riesce a giocare sull’occulto, sull’invisibile.
A questo proposito, ad esempio, la scena del secondo atto in cui il padrone e il servo si inseguono intorno al drappo imitando il vociare degli animali rimane uno dei punti più interessanti, come pure l’epifania finale, un’epifania di apocalisse barocca dove i personaggi, invecchiati in se stessi e nel loro stanco dire e dirsi, soffiano via la loro anima emergendo da una botola come dagli inferi in cui tutti sono finiti.
Il cuore dello spettacolo è il gioco delle ambiguità di ruolo, l’indagine sul debole, sul passaggio fra uomo e donna, fra maschio e femmina, il limitare biologico, quello psicologico. La regia mette al meglio in scena un testo che però alterna a momenti più interessanti e a momenti di monologo di maggior esito alcuni passaggi concettuali a vuoto.
Sicuramente dire qualcosa di nuovo e soprattutto di interessante su questo personaggio e sull’apparato mitologico legato al topos umano di cui è incarnazione, dirlo con la prosa teatrale, con le difficoltà della scena, non è agevole. Al termine dello spettacolo restiamo con il sapore immediato di un vino frizzante, capace di comunicare, eppure nel lungo tempo, nel sapore persistente, non manca il sentimento di qualcosa che viene meno, che appare più pallido e slegato di quanto sia apparso in un primo momento. Oltre a due tre monologhi, a qualche interessante trovata registica, sentiamo a qualche giorno di distanza dalla fruizione, la mancanza di un reale, profondo punto di approdo drammaturgico sul personaggio, sui personaggi.
Insomma ci troviamo pericolosamente a chiederci il perché di alcuni perché, come se la rappresentazione non si risolvesse in re ipsa, non riuscisse a dirimere un vero e proprio bandolo, un filo da portare a casa, con cui ritornare a quello che si è visto.
Quando l’abbiamo visto ci era piaciuto ed abbiamo battuto le mani convinti. A qualche giorno di distanza, pur nella consapevolezza di una prova di regia capace di grandissime riflessioni sul teatro come luogo dell’anima, del piatto servitoci ricordiamo solo alcuni ingredienti. E ci chiediamo il perché.
Un sentimento stranissimo in ragione del fatto che, ritornando con la memoria a ciò cui si è assistito, vengono in mente alcune sequenze, alcune apparizioni, momenti più lirici, ma non torna in mente in nessun modo ciò che le lega, l’amalgama, il cemento. E se è vero per Latella quello che lui stesso aveva postulato al termine del Lear con Albertazzi, laddove lasciava a metafora della necessità profonda del teatro un testo e le tavole su cui portarlo in scena, vale a dire quel complesso di tecniche che disciplina il mestiere del teatrante sia esso regista o attore, quel che più sentiamo venir meno in questo allestimento è il primo elemento. Peccato, perché in realtà di recitato ce n’è perfino tanto. Ma a volte liquido. Frizzante al momento della bottiglia stappata, ma che poi nella riflessione più profonda evapora, proprio perché viene meno il legante molecolare, che solo la drammaturgia rende stabile o instabile.

Disegno Renzo Francabandera
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Se la scuola è uno spettacolo

BRUNA MONACO | È il 1983 e ci troviamo in Inghilterra, a Sheffield. I protagonisti della nostra storia sono otto ragazzi di diciannove anni alle prese con un’ardua prova: prepararsi al concorso d’ammissione per Oxford e Cambridge, le più anelate Università inglesi, garanzia di successo nella vita e nel lavoro. Il professor Hector (un bravissimo Elio De Capitani, anche regista dello spettacolo insieme a Ferdinando Bruni), dai metodi efficaci ma poco ortodossi, li accompagna in questa avventura. Lo affianca il neoassunto Irwin (Marco Cacciola) un giovane insegnante, in cui il preside (Gabriele Calindri) confida per la riuscita dei ragazzi nella prova d’esame. Ida Marinelli, unica donna della troupe, interpreta il ruolo della disincantata insegnante di storia, brava, tanto da meritare il premio Ubu 2011 come migliore attrice non protagonista. Del resto altri due premi Ubu sono stati tributati a The history boys: uno come miglior spettacolo, un altro, cumulativo, a Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Angelo Di Genio, Loris Fabiani, Andrea Germani, Andrea Macchi, Alessandro Rugnone e Vincenzo Zampa, gli otto interpreti degli studenti di Sheffield che la giuria dell’Ubu ha ritenuto i migliori attori under trenta del 2011. E infatti, i giovani attori sono tutti bravi, soprattutto nei momenti corali in cui dimostrano un grande affiatamento: nell’incalzante rincorrersi di botta e risposta sono sempre brillanti. Un po’ meno convincenti nelle parti monologate e nei dialoghi, in cui a volte appaiono artificiosi, stereotipati. Colpa forse anche del testo di Alan Bennet, che ha una struttura drammaturgica compatta ma molto spesso scivola in sketch da telefilm, in cui le risate registrate sono sostituite da quelle live e sincere del pubblico in sala.

L’enorme quantità di citazioni che i personaggi rincorrono e si sfidano a indovinare durante tutto lo spettacolo, non lo redime, non riesce a farne un prodotto intellettuale. E probabilmente non è questo lo scopo: in un momento storico in cui diffusamente in Europa si sta tentando di distruggere il sistema scolastico, trasformando i presidi in dirigenti, Bennet ha voluto mettere a confronto idee diverse di incarnandole in personaggi come Hector (ovvero l’amore per il sapere, gratuito e fine a se stesso), Irwin, (la capitalizzazione del sapere ai fini del successo), e il preside, (il sapere come uno dei tanti mezzi per ottenere il successo). Nel finale, un po’ didascalico, Bennet fa morire Hector in un incidente stradale, confessando quello che, probabilmente, secondo lui, è il destino dell’amore per il sapere ai nostri giorni.

Insomma, uno spettacolo godibile con cui la coppia Bruni-De Capitani dimostra che il pubblico italiano è ormai pronto a un teatro di intrattenimento di alta qualità.

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Il Profeta di Gibran diventa un cartone

Gibran-Il profetaFRANCESCO MEDICI | Quando fu pubblicato nel settembre 1923 dal newyorkese Alfred Knopf (attuale Random House) in sole duemila copie, nessuno avrebbe potuto immaginare si sarebbe rivelato uno dei più grandi successi editoriali di tutti i tempi che non sembra conoscere battute d’arresto: si stima se ne vendano nel mondo, nelle sue diverse decine di traduzioni, cinquemila copie al giorno.
La prima tiratura di “Il Profeta” (The Prophet) andò esaurita in pochi giorni e divenne immediatamente un best seller, poi uno dei long seller più amati, insieme a “Siddharta” di Hermann Hesse e a “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry, con oltre cento milioni di copie vendute fino a oggi.
Il segreto del successo del capolavoro di Kahlil Gibran – poeta e pittore libanese, statunitense di adozione – risiede forse nella sua (almeno apparente) semplicità.
Semplici sono infatti il linguaggio adoperato e la struttura dell’opera: Almustafa (o meglio al-Mustafà, letteralmente, in arabo, “l’Eletto”, attributo dell’Apostolo di Allah), figura profetica a metà tra Gesù e Maometto (pur non aderendo il poema a nessuna religione specifica), è interrogato dagli abitanti della città di Orphalese (per alcuni metafora di New York, forse dell’America o dell’Occidente tout court, oppure solo un simbolo per indicare ‘la città degli orfani dello spirito’), che gli ha dato asilo per dodici anni e che egli si accinge ad abbandonare per salpare alla volta della sua non meglio specificata ‘isola natale’ (il Libano? l’Oriente? L’Aldilà?), a esprimersi sui grandi temi dell’esistenza. Un’esile trama fa dunque da mera cornice a ventisei sermoni, tra cui, particolarmente celebri, quelli dedicati rispettivamente ai Figli, all’Amore, al Matrimonio, all’Insegnamento, al Lavoro, alla Preghiera, alla Religione, alla Morte.
Ma se “Il Profeta” è senz’altro l’opera più celebre di Gibran, elevata a simbolo della generazione hippie negli anni delle contestazioni studentesche e tuttora ampiamente citata nelle omelie (perfino in sostituzione delle letture evangeliche, specialmente in occasione di battesimi, matrimoni, funerali), non va trascurato neppure il largo successo di altri suoi scritti in versi e in prosa, in inglese e in arabo, nonché il ritmo sempre crescente delle mostre dei suoi disegni e dei suoi dipinti presso i più importanti musei e gallerie di tutto il mondo.
Se vasta è la produzione teatrale e musicale (dai Beatles a David Bowie, tra gli altri) ispirata a Gibran, neppure il cinema e la televisione sono rimasti indifferenti alla figura e all’opera dell’artista. Del 1962 è la suggestiva trasposizione filmica del romanzo “The Broken Wings” (Le ali spezzate) del regista libanese Yousef Malouf. Degni di nota anche i cortometraggi ispirati al racconto “Satan” (regia di Walid Salhab, Scozia 1995) e all’atto unico “Iram la città dalle alte colonne” (regia di Davide Cincis, Italia 2005, vincitore del premio Akab Short Movie Festival 2006). Nella pellicola americana del 1997 “Heaven Before I Die” (regia di Izidore K. Musallam), mai distribuito nel nostro Paese nonostante la presenza nel cast di Giancarlo Giannini, era stato addirittura Omar Sharif a vestire i panni di Gibran in carne e ossa.
A partire dal 2008, diverse emittenti del Mondo Arabo hanno inoltre trasmesso una fortunata serie televisiva in trenta episodi sulla vita del poeta-pittore, per la regia del siriano Fardos Atassi. Nello stesso anno a Beirut veniva pubblicato dall’editore Adonis un albo a fumetti in arabo e in francese dal titolo “Khalil Gibran – La vie de l’auteur du ‘Prophète’”.
Era, insomma, proprio “Il Profeta” a mancare all’appello, sebbene, secondo alcune voci, ormai da anni si valutasse l’idea di farne un grande film a Hollywood. È stata Salma Hayek, la bella attrice messicana, in veste di produttrice, a imbarcarsi nell’impresa e ad annunciare poche settimane fa: «Il Profeta è stata un’incredibile fonte di saggezza e ispirazione per milioni di persone in tutto il mondo. Essendo di discendenza libanese, sono particolarmente orgogliosa di essere parte di un progetto che presenterà questo capolavoro alle nuove generazioni in un modo mai visto prima d’ora».
Si tratterebbe di un lungometraggio animato realizzato in sinergia con Clark Peterson e Ron Senkowski, mentre Doha Film Institute del Qatar cofinanzierà il progetto insieme a Participant Media, MyGroup Lebanon, FFA Private Bank, JRW Entertainment e Code Red Productions.
La particolarità dell’adattamento è che ogni capitolo-sermone dell’opera sarà affidato a un regista diverso, sotto la supervisione di Roger Allers (Il Re Leone), che si occuperà della cornice. Tra i nomi coinvolti, premi Oscar e maestri dell’animazione noti a livello internazionale del calibro di Marjane Satrapi (Persepolis), Chris Landreth (Ryan), Tomm Moore (Brendan e il segreto di Kells), Nina Paley (Sita Sings The Blues), Michal Socha (Laska), Francesco Testa (Aladino), Joan Gratz (Mona Lisa Descending a Staircase), Bill Plympton (Guard Dog) e Mohammed Saeed Harib (Farij), il quale ha dichiarato: «È un immenso onore poter tradurre nel regno visivo l’opera di uno degli scrittori più amati del Mondo Arabo. Sono entusiasta di essere tra i registi di animazione scelti per portare ‘Il Profeta’ sul grande schermo e nel ventunesimo secolo».
La fase di pre-produzione è avviata e il film potrebbe approdare nelle sale già nel 2013.

Conversazioni sulla catastrofe con Rafael Spregelburd

Conversazioni_Spregelburd1_CiommientoANDREA CIOMMIENTO | Lo abbiamo conosciuto all’inizio dell’autunno porteño. Il nostro viaggio teatrale prospettava la realizzazione di una serie di reportage intitolati Distrazione Buenos Aires sul vivace turbinio culturale della capitale argentina (anno 2010). Con un oceano di distanza alle spalle eravamo pronti a incontrare Rafael Spregelburd, autore e regista quarantenne già conosciuto dal pubblico europeo per la sua presenza in teatri come il Royal Court di Londra, il Deutsches Schauspielhaus di Amburgo e lo Schaubühne di Berlino; un artista dal raffinato pensiero ancora poco conosciuto in Italia e tradotto soltanto da piccoli gruppi indipendenti. La nostra chiacchierata, durata un intero pomeriggio e confortata da un tè nero bollente, aveva lasciato spazio ai suoi racconti biografici e ai pensieri sull’imminente debutto italiano di Bizarra, diretto da Manuela Cherubini per il Napoli Teatro Festival, uno spettacolo a episodi (realmente bizzarro) sulla crisi finanziaria argentina d’inizio millennio. Nei mesi a seguire l’autore è ritornato nel nostro paese in diverse occasioni ricevendo menzioni ufficiali e riconoscimenti artistici (Premio Ubu 2010 come Miglior testo straniero) grazie alla sua poetica di ficción portata in scena da compagnie e registi, tra cui Luca Ronconi con La Modestia per il Piccolo Teatro di Milano. Da pochi giorni è stata annunciata la presenza di Spregelburd all’École des Maîtres, il percorso europeo di formazione itinerante ideato da Franco Quadri. Il CSS di Udine, principale promotore del progetto, continua ad assurgere la ricerca artistica e la qualità pedagogica con maestri dal soffio vitale…

Rafael, l’École di quest’anno s’intitola “Cellule teatrali- Macchine per produrre catastrofi”. Qual è la più grande catastrofe del nostro tempo al di fuori di ogni regolare e prevedibile pensiero? Credo che la parola “catastrofe” nella nostra vita quotidiana venga utilizzata con una forte connotazione negativa anche se non dovrebbe necessariamente essere così. Nella catastrofe sembra proprio che gli avvenimenti non seguano il modello di causa-effetto, quello che però la teoria del caos ci insegna è che in realtà non c’è semplice disordine in essa ma piuttosto un ordine più complesso, che in quanto tale non può essere totalmente percepito dalla Ragione.

Come immagini questo ordine più complesso che molti chiamano caos? Mi piace immaginare complesse linee drammatiche, con motivi simultanei, motivi per una stessa azione, sovrapposizioni decentrate di figure e sfondi, cause senza effetto o effetti senza cause apparenti… Questa forma di linearità narrativa la chiamo “catastrofe”. Inoltre la nostra conoscenza del mondo contemporaneo è mediata da tutti i tipi di specialisti: i banchieri vogliono spiegarci che si avvicina la fine dell’Occidente e nessuno osa contraddirli del tutto perché servono molte pseudo-conoscenze specifiche per sviscerare il groviglio che loro stessi hanno costruito, così tutta la certezza diventa opaca, densa e sospettosa. Penso che sia un buon momento per il teatro. Esso può riprodurre, mettere in scena, demistificare e rimodellare questa sorta di “postilla nel contratto” che regge il potere globale di chi ci governa e ci tormenta.

In questi ultimi anni stanno mutando le vecchie assi d’equilibrio globale tra centri e periferie urbane… Oggi come in tutte le altre epoche i centri sono i centri e le periferie continuano a essere le periferie. Questo non è cambiato. Quello che semplicemente accade è che quando il centro agonizza d’incertezza immagina che nelle periferie si conservi un “sapere” differente, liberato dal gioco oppressivo dell’agonia di un modello centrale. Non è così: le periferie sono, per definizione, luoghi lontani dai centri perché tendono semplicemente a riprodursi. Nonostante questo, nelle periferie può generarsi un sensibile disequilibrio di priorità, una macchina che funziona inopportunamente, un’immaginazione ingenua e creativa delle utopie ed è per questo che a volte provocano l’illusione dell’Eden.

Il teatro prova fascino verso questa immaginazione creativa… Nel teatro le periferie sono molto appetitose. Non si reggono sulle stesse regole della logica centrale di mercato ed è per questo che le sue produzioni e riflessioni offrono un respiro di libertà, di paura e di sorpresa. Però non dimentichiamoci, la libertà di quest’arte scenica si basa su un prezzo abbastanza alto: la sua marginalità.

L’École è un progetto di formazione itinerante con allievi attori europei. Questo comporterà un approccio diverso nel modo in cui condurre la formazione teatrale e la creazione poetica? Sono abituato a lavorare sul modello di “drammaturgia per attori”, osservando in condizioni di laboratorio come si costruiscono le scene per un gruppo specifico di attori. La novità in questo caso è che gli alunni provengono da quattro paesi diversi (Italia, Belgio, Francia e Portogallo). Questo presuppone non solamente quattro lingue differenti ma anche, e soprattutto, quattro appartenenze culturali diverse.

Lavorerai su questo… Immagino che il contrasto delle tradizioni sarà la stella di questo progetto, e io -che non mi trovo troppo bene con l’idea di “tradizione”- spero di poter mantenere in alto la bacchetta per coordinare questa orchestra di dissonanze.

L’Italia ha fondato i suoi ultimi trent’anni in una cultura mediatica dove tutto si è trasformato in spettacolo tramite una bizzarra contaminazione dei mondi porno-politico-economico-sociali. È possibile costruire finzioni (ficción) in un paese come il nostro? Questa è una domanda fondamentale. L’Italia è un esempio facile per tutte queste cose menzionate, però non è l’unico. La maniera nella quale la politica e la vita pubblica è tornata finzione (ficción) in molti paesi mostra evidentemente l’indirizzarsi delle culture verso gli stratagemmi della rappresentazione con tutte le proprie varianti: l’impostazione, l’esagerazione, il grottesco, la tragedia. La scena politica è proprio questo: una scena. Gli attori hanno come tenaci competitori i politici ma la cosa più grave è che dobbiamo sedurre un pubblico già arduamente abituato a non credere a nulla di quel che si sta trattando in nome di altri, vale a dire: nessuno che dica di sentirsi “rappresentato”.

La professione teatrale si complica… Certo, il nostro lavoro si fa ogni volta più difficile. Per questo in alcuni paesi si coltiva un teatro chiamato “postdrammatico” (vecchiume degli anni Novanta) come un’alternativa di falsa novità: un teatro senza rappresentazione. Credo che il vero problema non passi da lì ma dalla complessità dei racconti che il teatro decide di affrontare. Dalla fábula semplice e riduzionista possiamo passare con coraggio a un teatro realmente seduttore e problematico: quello senza messaggio univoco, che rinnova i procedimenti che lo vedono nascere e che si progetta verso il futuro proponendo le domande che una comunità di senso ancora non si è degnata di formulare. A guardar bene, il teatro che oggi intendiamo come “classico”, ha sempre fatto questo, a volte senza saperlo.

Il lavoro con gli allievi europei sarà indirizzato verso una creazione drammaturgica che nasce dall’attore e non solamente da un regista che dirige e comanda secondo una concezione europea della regia… Non credo nella divisione di ruoli schematici. Quel che posso dire è che attorno al teatro d’arte di Buenos Aires (che è enorme, con quasi 300 sale di teatro alternativo) sembra già radicato il fatto che gli attori, i ballerini o gli interpreti sono le vere assi del teatro, e sviluppano strategie per costruirsi teatralità attorno. A volte -come nel mio caso- molti attori diventano registi dei propri testi. Io non ho diretto testi che non fossero scritti da me tranne che in due rare occasioni e ho sempre scritto testi per un gruppo determinato di attori. Il lavoro del drammaturgo, “da scrivania”, che non partecipa alle prove, è ogni volta più raro nella mia città. Questo non vuol dire che non ci siano grandi registi che siano guide di una poetica molto singolare, e che possano imprimerla sugli attori o artisti con i quali lavorano. Tuttavia questi buoni registi sono (se vediamo gli esempi) attori che hanno deciso di dirigere perché dovevano farlo. Non è molto comune questa illusione (che a volte si opera in Europa) secondo la quale il drammaturgo o il regista posseggano uno statuto “superiore” agli attori ridotti a meri braccianti, interpreti dell’idea di un altro. Noi valorizziamo la linea personale di ogni attore, e ci piace molto scrivere per e con questa singolarità poetica che ogni attore sviluppa come artista unico e irripetibile.

Dopo il fenomeno teatrale Spregelburd, ora sta debuttando in Italia Claudio Tolcachir con le ultime produzioni del Piccolo Teatro di Milano. Cosa può trasmettere il teatro argentino in un sistema come il nostro? Non lo so esattamente. La categoria “teatro argentino” mi risulta troppo estesa per supporre che ci sia qualche tratto distintivo chiaro e trasmissibile. È la domanda che si formula al povero antieroe della mia opera Apàtrida: “Cosa è l’arte nazionale? C’è qualcosa? Ha territorio il cumulo esile di un gruppo eterogeneo che condivide uno stesso passaporto?”. L’ironia con la quale formulo la domanda suppone la risposta: no. È molto difficile per un attore farsi carico del proprio mondo immaginario, ancora più difficile caricare sulle proprie spalle tutto un paese.

Buenos Aires vive un particolare momento di fertilità artistica… L’eterogeneità di diversi registi che lavorano oggi simultaneamente a Buenos Aires fa pensare che è uno strano momento, alcuni critici lo hanno chiamato: “micropoeticas”. Un momento storico che ha fatto cadere le grandi tradizioni dei maestri che facevano scuola impregnando dei loro segni i propri discepoli, sono anche caduti i presupposti tecnici di apprendimento della recitazione, sono entrati in crisi anche certe categorie confuse come classico/avanguardia, realista/assurdo, presentativo/rappresentativo, impegnato/intrattenimento, commerciale/alternativo. Quando uno spazza via queste nubi rimangono solo le poetiche molto singolari, molto isolate, dove la grande festa, il grande valore, costruisce la pluralità. Per sopravvivere oggi nella scena teatrale a Buenos Aires è necessario coltivare un pezzo di terra irripetibile, singolare e proprio.

Come coltivare questo pezzo di terra irripetibile? L’originalità non ha tanto a che vedere con la novità, bensì con la singolarità poetica con la quale si decide di mescolarsi negli stessi elementi di sempre, un teatro d’arte che non copia modelli già installati. Nonostante questo, visto da un paese straniero come l’Italia, è possibile che si trovino tratti comuni tra nomi che a noi appaiono molto distanti: in quasi tutt

i gli artisti rilevanti della nostra generazione si trova una passione violenta, che a volte meraviglia gli scenari europei, tanto professionalizzati quanto burocratizzati. Ci sono registi c

he fanno teatro nella propria casa per venti o trenta spettatori con lo stesso rigore e lo stesso amore con il quale altri lo fanno per mille. Altri sono capaci, per esempio, di provare un’opera nel corso di due anni… Siccome nessuno ci finanzia, nessuno ci rincorre: il risultato e gli spazi del nostro lavoro saranno decisi dalla cooperativa artistica che integra gli attori. Questa è una costante negli esempi del teatro argentino che saranno perseguiti, si spera, anche nelle scene italiane. Siamo come piccole fabbriche prese dai suoi operai. Non produciamo niente di utile; non vendiamo prodotti. O forse sì: quel che produciamo si chiama “senso”.