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venerdì, Novembre 15, 2024
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La danza-documentario di Rachid Ouramdane

BRUNA MONACO | Quando le porte della sala Petrassi si chiudono e si spengono le luci di sala, sul palco non c’è ancora l’ombra di un danzatore. Anche lì è buio, totale. Una voce francese dall’accento straniero inizia a raccontare qualcosa e il palco si illumina della luce tenue dei sopratitoli bianchi per i non francofoni in sala. Il racconto è lungo, molto, e frammentario. E per il pubblico, restare in ascolto per tutto quel tempo completamente al buio è quasi una tortura.
Voluta senza dubbio da Rachid Ouramdane, coreografo franco-algerino e ideatore di questo “Ordinary Witnesses” che parla, appunto, di tortura, di violenza. Di genocidi ed educazione all’odio e allo sterminio, di parole impronunciabili, pensieri irriconducibili a parole. Ricordi coscienti che vanno cancellati e inconsci che, purtroppo, non abbandonano mai. “Ordinary Witnesses” parla di tutto ciò in senso letterale, perché lo fa attraverso le parole registrate o videoregistrate di chi le torture le ha subite davvero, i suoi testimoni ordinari che vengono dal Brasile, dal Ruanda, dal Medio Oriente.
Per i primi venti minuti “Ordinary Witnesses” è un alternarsi di voci esitanti che riflettono sulle violenze subite, provano a trovare un senso, ma non le descrivono mai. Poi, mestamente, iniziano ad abitare il palco cinque danzatori (Jean-Baptiste André, Lora Juodkaite, Mille Lundt, Jean-Claude Nelson, Georgina Vila-Bruch). Si muovono come fantasmi, una camminata lenta, vacillante, quasi al rallentatore. Per lo più non si incrociano o ignorano l’incontro, ma quando questo avviene, basta che si sfiorino per obbligarsi ad assumere una posizione dall’aria dolorosa. Mille Lundt inarca la schiena in modo parossistico e il suo corpo, normalmente esile ed elegante, diventa deforme. Sembra una contorsionista, come anche gli altri che Rachid Ouramdane ha scelto così flessibili inseguendo una qualità di movimento che evocasse la tortura fisica senza mostrarla.
Il momento clou dello spettacolo è quando Lora Juodkaite inizia a roteare. E lo fa per un tempo che pare infinito. L’attrazione è magnetica, l’attenzione s’incaglia in quel volteggiare che nulla ha in comune con quello dei dervisci. Nessuna regolarità o estatico incontro con il divino. Il corpo di Lora Juodkaite sembra sempre sul punto di essere dilaniato dal movimento centrifugo. La testa guarda il suolo poi si inclina su un lato. I capelli sciolti e la colonna vertebrale mai perfettamente eretta deformano il suo corpo nella velocità del movimento. Alla sensazione di precarietà contribuiscono le luci di Yves Godin: in obliquo su un lato del palco, una lastra con sessanta fari sferici dalla luminosità ora intensa e abbagliante, ora calda e ambrata, che illuminano la scena o se ne fanno protagonista, alternando combinazioni sempre diverse. E le musiche di Jean-Baptiste Julien che si muovono tra un rumore di fondo disturbante ma appena udibile e una sonorità angosciante e tumultuosa, invasiva.
“Ordinary Witnesses” è una sorta di documentario con accompagnamento coreografico e musicale, puro stile Ouramdane la cui sfida sin da subito è stata quella di conciliare due tensioni, una verso l’arte l’altra di riflessione e analisi sociale, in particolare riguardo le ingiustizie e la violenza. È uno spettacolo complesso dai tempi lunghi e lenti ai limiti dello sfinimento e dai momenti di rara intensità. Uno spettacolo pieno di opposizioni. Uno spettacolo che è il contrario del godibile: non si lascia amare facilmente, non si lascia dimenticare.

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Tutto quello che (non) sappiamo di Moro

aldo-moro-2-300x300BRUNA MONACO | Daniele Timpano è solo sul palco, come sempre: è interprete e regista di questo “Aldo Morto” andato in scena al Palladium e di cui è ha firmato anche la drammaturgia. Una drammaturgia matura e solida, nonostante l’impostazione frammentaria e la sovrapposizione dei piani narrativi, delle voci, dei punti di vista.
Aldo Moro e la sua tragica storia sono al centro dello spettacolo, ma tutt’intorno gravitano digressioni, riflessioni, citazioni colte e popolari. Tutt’intorno c’è un contesto che non è solo storico, ma anche personale, perché Timpano non vuole raccontare la verità dei fatti: ai fatti certi (o dati per certi) somma quelli soggettivi, la sua percezione dei fatti. In questo modo “Aldo Morto” si tira fuori dal teatro di narrazione. Quella di Timpano è una prova d’attore (brillante) che si serve a pretesto di un evento storico relativamente lontano nel tempo, e racconta il presente più del passato. Una condizione personale (probabilmente condivisa da una generazione, la sua, la nostra), lo spaesamento, l’impossibilità a comprendere i fatti, la politica.
Timpano interpreta il ruolo di se stesso-narratore, del figlio immaginario di Aldo Moro, dei brigatisti Renato Curcio e Adriana Faranda, di un giornalista che parla in diretta da via Fani il 16 marzo 1978. Ne fa parodia, irride le mille narrazioni – seriose, tragiche, servili, fittizie – che sono state fatte sul caso Moro. Racconta, ricordando quello che tutti sappiamo, poco, attraverso le parole originali della stampa dell’epoca, dei comunicati dei terroristi, degli aneddoti raccontati dalla vera figlia di Aldo Moro, Agnese, nel suo libro.
Le fonti sono originali eppure a Timpano la verità non interessa. Perché quella verità non la sa nessuno, tranne chi nella stanza-prigione di tre metri per tre c’era. Uno di loro è morto, e gli altri si ostinano a tacere. Timpano fraziona gli eventi e giustappone le parti, non le collega fra loro col filo di un senso, lascia che sia il pubblico a farlo. La realtà si presenta ai nostri occhi come il risultato della somma delle parti, la si dà per scontata, come se fosse ragionevole, matematica. Ma in Italia, dice in qualche modo Timpano, non sempre 4 = 2+2. E allora abbiamo che Curcio è un ex brigatista autore e direttore di una casa editrice, che scrive della situazione carceraria italiana, del mondo del lavoro, ma della verità sulle brigate rosse, quella che tutti vorremmo (e dovremmo) conoscere, tace. La verità non vuole dirla nessuno. E allora tanto vale non stare a cercarla, tanto vale stare a guardare e constatare amaramente. Evitare le teorie.
Come ogni giovane artista Timpano è alla ricerca del proprio stile, cerca di raggiungere consapevolezza e padronanza dei propri mezzi, e “Aldo morto” dimostra che la sua ricerca procede nella direzione giusta: la sua tecnica è affinata, non solo sul piano drammaturgico, ma anche su quello attoriale. Timpano è riuscito ad asciugare la recitazione pur mantenendola così caratteristica. L’andatura dinoccolata e l’irrefrenabile impulso a muoversi anche quando è fermo, poi, in “Aldo morto” assumono un significato drammaturgico, incarnano lo smarrimento, il nostro essere in balia non tanto dei fatti, ma di coloro che ce li raccontano. In fondo, per noi che, come Timpano, a quell’epoca eravamo appena nati o ancora non nati, Aldo Moro è un nome importante, ma in testa non ne abbiamo che qualche immagine, lui con dietro la stella dei br, la Renault 4 rossa (gli splendidi gli oggetti di scena costruiti da Francesco Givone). Aldo Moro è morto, dice Timpano, è una tragedia: ma chi era Aldo Moro?

Woyzzecco, una sgangherata ballata

ELENA SCOLARI  |  Al Teatro i di Milano la compagnia Astorri-Tintinelli mostra una rilettura folgorante del testo di Büchner, dedicata a Leo de Berardinis.

“Nella grappa c’è il mondo, bevila!”. Questo viene suggerito al buon soldato Woyzeck (qui ribattezzato in un parodico Woizzecco) dal suo commilitone Andres e questa battuta servirà ai nostri lettori per avere subito una sensazione riguardo all’atmosfera dello spettacolo: ebbra, storta, apparentemente confusa e disordinata, anche un po’ sporca.

Attenzione, però: tutto questo è da intendersi in accezione positiva, eccome! Il testo di Büchner, rimasto incompiuto, è formato di molte scene brevissime, che sembrano fatte apposta per essere smontate, rigirate, spostate e riassemblate. Alberto Astorri e Paola Tintinelli hanno fatto proprio così, rendendo perfettamente la tragicità sgangherata di questa specie di favola.

Woyzecco è fidanzato con Marie, incinta, cerca di sostenere questa famiglia non istituzionale, (i due non sono sposati), il protagonista accetta perfino di fare la cavia per strani esperimenti al soldo di un perfido medico che lo riduce a fenomeno da baraccone, e proprio un baraccone da circo è quello dove i due vedono un imbonitore mostrare un animale mostro, un freak. Il soldato è ingenuo, insicuro, e qualcuno gli inocula il sospetto che Marie lo tradisca con il Tamburmaggiore, il quale occhieggia a Marie nel tendone. Da qui la fiducia di Woyzzecco comincia a rompersi, a zoppicare, la sua moralità è colpita e si convincerà di dover uccidere la donna. Finirà per accoltellarla in un accesso di follia e diperazione.

Astorri è tutti i personaggi, anzi: Woyzeck è anche tutti gli altri, e passa da uno all’altro in una catena incoerente e continua di spezzoni giustapposti e legati tra loro da pochi oggetti, oggetti da officina, da rigattiere, maschere, secchi di metallo, croci… Astorri dimostra qui, ancora una volta, la sua bravura, l’alta capacità drammatica mai priva di ironia, un modo personalissimo di togliere i contorni ai personaggi, interpretandoli come se ognuno di loro mantenesse un pezzetto del precedente.

L’uso della voce e la pluri-interpretazione ricordano Carmelo Bene, omaggio a Leo de Berardinis è invece l’autonomia dei due artisti: Paola Tintinelli è impeccabile nel suo ruolo di tecnico luci e audio interno alla scena, compie tutto l’accompagnamento stando di spalle, a fondo palco, la precisione chirurgica di questa partitura teatrale è evidente proprio nell’armonia tra i due, che pur non si vedono. Tintinelli è un folletto operaio che interpreta “l’animale” del circo, è un manovale musico.

La straordinarietà dello spettacolo è anche nella casualità soltanto apparente di ciò che accade in scena, c’è un andamento che ci stordisce, la narrazione non è lineare, o meglio non c’è narrazione ma racconto per stazioni di una via crucis che Woyzzecco vive, in un ciclo senza fine, portandone anche fisicamente, la croce.

Due artisti di primordine hanno composto lo spartito di questo spettacolo, musicale e drammaturgico, che lascia lo spettatore traballante, come il protagonista, i suoni viaggiano tra Rossini e la Santissima dei naufragati di Vinicio Capossela, ma in questo “baraccone” lirico si avverte un lavoro ricco e complesso, durato anni, la scelta della regia interna senza interventi a distanza, nemmeno di ordine tecnico, regala una compiutezza rara.

La ballata di Woyzzecco è un’orologio con ingranaggi incastrati perfettamente, anche se a volte sembrano girare al contrario.

Steve McCurry all'ex-Mattatoio di Roma. Obiettivo sul mondo

steve mc curryMARIA CRISTINA SERRA | Il consueto scorrere del tempo diluisce in contorni sfuocati le immagini del nostro presente. Frammenti sospesi di realtà, che non necessitano di spiegazioni forzate né di equilibrismi interpretativi, ci appaiono le istantanee di Steve McCurry, viaggiatore instancabile e lirico lungo le strade attraversate dagli abissi del dolore e dai pulviscoli di luce della speranza, insiti nella condizione umana. Dettagli, ritratti, paesaggi avvolti da luci soffuse, da toni che rievocano l’intensità caravaggesca e la profondità ritmica dei chiaroscuri di Rembrandt, tracciano in modo discreto, intimo, gli scenari dentro i quali si sono svolte le vicende storiche degli ultimi decenni, travolgendo la vita sociale e culturale di intere collettività.

“Voglio capire e mostrare cosa significhi essere quella persona, colta in quel preciso contesto, il suo senso universale che può definire la condizione stessa dell’essere umano”, racconta McCurry, “la maggior parte delle mie immagini trovano radici nelle persone e io sono sempre in cerca del momento inaspettato, l’essenza dell’anima, che si affaccia per una frazione di secondo, le storie di vita incise sui volti”.

E i Padiglioni della Pelanda, all’interno del suggestivo ex-Mattatoio di Roma, a Testaccio, sono il luogo ideale per ospitare la mostra “Steve McCurry – Viaggio intorno all’uomo” e smarrirsi sulla strada di una ricerca esistenziale attraverso mondi diversi dalla nostra quotidianità, lasciando che siano le emozioni a guidarci, a fondere il presente con un passato ricco di archetipi, così da indicare un punto di svolta verso un infinito di promesse: somma di culture e sottrazione di barriere.

Si segue un percorso obbligato, alternando assonanze e contrasti, attraverso una “sorta di villaggio nomade con una serie di volumi che si compenetrano fra loro, per restituire quel senso di umanità, che si respira nelle foto”, spiega Fabio Novembre, curatore dell’esposizione, concepita come un susseguirsi di aeree strutture dalle volte gotiche, congiunte sotto un unico tetto “volante”, che riunifica simbolicamente i punti opposti del globo. Un itinerario impegnativo tra una yurta mongola trasparente e l’altra, ricolme di 200 foto del raffinato maestro della Magnum.

Per entrare si passa, come per un rito iniziatico, davanti ad un portale composto da infiniti tasselli dalle mille sfumature. Gli sguardi sul mondo di McCurry: “l’ampio mosaico dell’esperienza di 30 anni di incontri casuali con sagome ed ombre, acqua e luce”.

Come in un magico gioco di riflessi e luminosità, di contrasti e rapporti cromatici, i frammenti si ricompongono in un’unica grande immagine: la sua foto-icona di Sharbat Gula, la ragazza afgana dagli occhi verdi smarriti e fieri, accentuati dal logoro velo rosso cupo, drappeggiato, che le circonda il viso e le ricade sulle spalle, ripresa nel campo profughi di Peshawar in Pakistan, nell’84.

Le fa da contrasto il “fiammingo ritratto” della splendida scolara ad Herat nel ’92, in grigio monacale che si stacca dal fondo nero per il candido foulard. Una nuova vita viene alla luce, in un ospedale a Jaipur, nel Nord dell’India, nel 2009; uova colorate augurali sono trattenute da mani ruvide, fra drappeggi violetti, a Kabul. Primi piani “familiari” di piccoli afgani, cambogiani e tibetani; quindi, i visi piegati da sofferenze e fatiche dei minori schiavizzati: ai forni del pane, nei cantieri edili, nelle cave, al tornio. Visi da “uomini” di dieci, dodici anni, sui quali l’infanzia non ha fatto in tempo a lasciare traccia.

Ad alcuni ha impresso solo ferite, come alla piccola vittima di una mina antiuomo in Afghanistan, nel 1992: il capo coperto da bende, la camicetta insanguinata, lo sguardo che rende superflue le parole a descrivere l’orrore.

“Sono i non combattenti, i civili che si ritrovano nel mezzo di due fazioni in lotta” ad entrare nel suo obiettivo, perché “tutti noi possiamo identificarci in queste persone, sulle quali ricadono le conseguenze più gravi e terribili dei conflitti”. E’ il bel volto “perduto”, incorniciato dal velo verde smeraldo, di una adolescente afgana del 2002, moderna trasposizione della Madonna di Antonello da Messina, a rivelarci il dolore delle ferite interiori causate dalle bombe.

E poi c’è la miseria delle vedove di Kabul, costrette a mendicare. Una di loro emerge col suo burqa giallo-oro dal buio dell’uscio, profilato dal turchese di una casupola diroccata; un’altra, accovacciata dentro i suoi panni viola, allunga la mano nella penombra di un vicolo tagliato da ombre scure. Il venditore di arance le dispone sulla carcassa di un’automobile fra grigiore e rottami. Solo due occhi profondi tagliano come una lama il velo nero che copre la donna yemenita di Sana’a’.

Sotto la dolcezza di un sapiente sfocato e della pioggia battente, una mamma stringe al petto il suo bambino a Bombay.

Nei vicoli azzurri a Jodhpur, un bimbo scalzo spicca il volo mentre corre. Nel buio della sera, il villaggio color ocra vicino Herat appare come un presepe dimenticato: al centro le luci di un focolare domestico svelano la sua intimità.

E’ la componente emotiva a guidare sempre la mano di McCurry, per il quale: “il significato, il senso, deve sempre avere la priorità”.

L’uso sapiente della luce, la composizione degli elementi, le sfumature del colore, completano l’armonia della sua narrazione, che si tratti di Sharbat Gula, diventata adulta e segnata dalla vita, ritrovata dopo anni di ricerche nel 2001, o del gioco del pallone, attimo di libertà ed evasione unificante ad ogni latitudine, o dei riti religiosi, arcaici, propiziatori. Spesso le meditazioni avvengono in armonia con la natura circostante. A volte, i monaci in arancione sono figure minuscole davanti ai templi birmani. Altre volte, sacro e profano si contaminano.

Così il giovane buddista a Bodh Goya ha alle spalle il murales della Coca Cola; nel tempio di Saholin, in Cina, i monaci si allenano come atleti alla concentrazione, appesi ad un tubo a testa in giù. In Sicilia, la Settimana Santa è evidenziata da elementi di antichi riti pagani. La Roma barocca mischia madonne, santi e cianfrusaglie varie a Porta Portese. Il fumo dei pozzi petroliferi in fiamme, nel Kuwait del ‘91, oscura un cielo rossastro. Un grigio spettrale squarcia il cielo di New York l’11 Settembre 2001.

Ma c’è anche l’oriente sapiente e misterioso evocato dalle pagine di Pearl S. Buck nelle sue foto. L’India sospesa fra incanto e dannazione nella luce del giorno e il buio della notte, laddove tutti i sogni possono affiorare. Ci sono le atmosfere dei romanzi di L. Bromfield e di E. M. Forster, colori accesi che improvvisi si stingono nella penombra, lasciando intuire linee di fuga verso l’infinito.

La bottega dell’indovino sul Gange si schiude ad ogni possibile incantesimo: il corso del fiume unisce il suo azzurro al rosa del tramonto, il chiromante seduto sull’atrio arancio è lì per leggere il destino; in primo piano la sagoma adombrata di un “intoccabile”, assorto con i suoi pensieri sul teatro della vita.

Un’intervista a McCurry in occasione della mostra
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Un video reportage in HD in due parti di HdTvOne
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I due Karamazov di Brie e De Monticelli

RENZO FRANCABANDERA | Non si sa per colpa di chi, generalmente si evita, ma in questa stagione teatrale sono in scena due adattamenti de I fratelli Karamazov. In origine non avevo intenzione di compararli o fare un’unica riflessione, ma la visione ravvicinata dei due spettacoli ha favorito in modo naturale l’accostamento, il confronto. Cercheremo di tener separate le cose, ma anche di unire in un finale logico, le riflessioni.

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karamanzov-de monticelliI Karamazov per la regia di Guido de Monticelli che ha debuttato due settimane fa al Massimo di Cagliari ed a Prato fino al 22 aprile, è il secondo episodio di una collaborazione nella produzione fra lo Stabile di Sardegna e il Metastasio di Toscana, che ha portato in autunno alla regia Magelli con Il Giardino dei ciliegi e ora il direttore artistico dello Stabile di Sardegna, con un cast di attori che è rimasto nella quasi totalità invariato fra i due spettacoli.
L’allestimento dell’opera dostoeskjiana parte dall’adattamento del testo che, come ovvio, ha implicato la scelta su quale “Karamazov” mettere in scena, fra epopea epico-familiare e argomenti filosofici sviluppati nel testo (il dilemma bene-male compendiato nell’esistenza di un dio, il libero arbitrio dell’essere umano, la giustizia dell’uomo, l’ingiustizia di dio, ecc).
Come tutte le opere complesse che non nascono per il teatro, la riduzione drammaturgica è il primo e fondamentale passo, la scelta per certi versi apicale e “pesante” non meno della regia. Sotto questo aspetto, De Monticelli predilige il punto di vista dei fratelli, la seconda generazione, per il tramite del cui sguardo il resto si compone, ma in realtà ancor più sceglie di mettere la trama in secondo piano, per prediligere il pensiero, la riflessione più alta.
La scenografia è quasi operistica e vuole ambientare la storia in un contesto spaesato, con due strutture lignee ai lati destro e sinistro, dietro le quali si apre uno spazio vuoto molto grande. Sul fondo, che mai si illumina pienamente se non nel finale, e che resta di fatto oscuro e in penombra per quasi tutto il tempo, pendono travi spezzate, che scendono a diverse altezze dal soffitto, e che completano concettualmente l’indeterminatezza ambientale. L’unico elemento che riempie lo spazio vuoto è un lungo tavolo, quello attorno al quale ad inizio spettacolo il padre chiede al figlio: “Ma dio esiste?”.
Di qui la vicenda del violento padre Fedor (Mauro Malinverno), avido di amori e lontano dalle sue creature: i tre figli, il giovane novizio Alesa (Francesco Borchi), Dmitrij (Fabio Mascagni) e Ivan (Corrado Giannetti) dal profilo più intellettuale e turbato, sceglieranno vite diverse, ma mai slegate fra loro, in un crescere di emozioni e violenze che porterà alla morte del genitore, per sospetta mano del più focoso dei figli. Ma ovviamente nulla è come sembra, e il confine fra giusto e ingiusto oscilla in un sentimento ideale.
A qualche giorno di distanza dalla fruizione, che è sempre un test di persistenza del sapore più attendibile dell’emozione immediata, restano in mente alcuni vertici attorno ai quali la narrazione scenica si condensa.
Sono le sequenze del romanzo che sono state isolate e che in alcuni punti affiorano proprio per testimoniare la ricerca di una polisemia che vuole provare a rompere il gioco teatrale.
Avviene nel finale, quando tutto torna al libro, o nella sequenza della morte di Padre Zosima, in cui Paolo Meloni recita in terza persona il racconto della sua morte, mentre si fa icona, in un tabernacolo che racchiude in sè la potenza dell’attimo fra morte e santificazione.
E’ questo senza dubbio uno dei vertici emotivi e scenici più alti, mentre la trama pare dissolversi, per rimanere in alcuni punti criptica e non portata completamente a galla, a vantaggio di alcune riflessioni, ora filosofiche ora di dinamica familiare dalle quali emerge che un sentimento di ineluttabilità di fondo del destino a cui l’uomo soccombe, ulteriore perfino rispetto all’esistenza di un’alterità divina. Alla fine, che dio esista o non esista, il sollievo/la dannazione che trae l’uomo da questo essere/non essere è al contempo causa ed effetto del malessere stesso del vivere. Lo spettacolo stesso si apre su questo dibattito.
Questo è ciò che nella messa in scena forse vorrebbe venir fuori attraverso i dialoghi di natura più filosofica, ciò che nella riscrittura drammaturgica affidata a Roberta Arcelloni, resta, come l’impalcatura più forte su cui tutto vuole poggiare.
Ma la parola non basta a teatro, e così questi piano-sequenza fra vita, filosofia e morte, restano sospesi in una terra di mezzo fra le questioni di pensiero che il grande scrittore russo pose alla base della sua ultima opera (o almeno di quella che doveva esserne la prima parte) e la trama. La seconda senza le prime non sarebbe nulla, e le prime senza una trama sarebbero un trattato di filosofia avulso dalle vicende umane in cui il romanziere era solito calare le sue riflessioni, per rendere più laceranti i dilemmi.
Lo spazio temporale del rapporto con un grande romanzo è fatto da giorni di lettura, quello di uno spettacolo teatrale da poche ore. Già solo condensare giorni in ore, va da sè, porta a una perdita di dettaglio e alla necessità di selezionare l’informazione letteraria al servizio del teatro, impresa che, nel caso dei grandi russi, è davvero durissima.
De Monticelli ci prova, in alcuni momenti ci riesce, ma l’impianto generale costruisce la sua cupezza più in maniera indotta dal circostante che dalle trame nere che vi scorrono dentro.
Troppo testo, poco lavoro fisico, per una regia di impianto tradizionale, molto diversa da quella che Magelli aveva proposto mesi fa con lo stesso cast, allora sbilanciata su un lavoro fisico a tratti finanche eccessivo. Alcune recitazioni sono volutamente spinte verso modalità di rendere la prosa talmente ricercate e “calligrafiche”, per dirla con Massimo Marino che su questo punto ben ha reso l’idea di vizi e virtù di questa regia nel suo recente articolo di commento alla visione, che alla fine spiccano nel lavoro degli attori solo pochi frammenti di prosa tradizionale e di mestiere, vere e proprie ancore di salvataggio per chi vuole godere degli squilibri di Dostoevskij, senza che a quelli se ne aggiungano molti altri (a volte superflui) di derivazione scenica. Fra le ancore, il bellissimo discorso del servo picchiato dal figlio violento, che spiega a suo figlio il valore non monetizzabile della dignità: pura prosa, che fa emergere ancor più l’insensatezza di recitazioni spinte verso inspiegabili rapporti fra elemento vocale e parola, in cui più che i personaggi, come si vorrebbe, è la stessa lettura registica ad apparire un po’ grottesca.

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karamanzov-briePassano due settimane e al teatro dell’Elfo assistiamo all’altra riduzione scenica, quella per la regia di Cesar Brie, prodotta da Emilia Romagna Teatro. E’ innegabile che la prima sensazione, indotta dalla fruizione precedente, sia di grande leggerezza e levità.
Come già in Albero senz’ombra, Brie squadra la scena, demarca lo spazio dell’azione condelle funi, e all’ingresso gli spettatori trovano gli attori seduti intorno a quest’area quadrata, delimitata, mentre sullo sfondo pendono dalle grucce i vestiti di scena che di lì a poco gli attori indosseranno.
Dentro questo quadrato nulla. Gli oggetti di scena verranno portati dentro all’abbisogna, e riportati via. Ma sono pochissimi, spesso le stesse panche che all’inizio vedono seduti gli attori, e disposte ora a mo’ di tavolo, ora a mo’ di piccola struttura di delimitazione architettonica.
La storia è la stessa, ma come è facile immaginare è un’altra storia, perché la lettura del classico è profondamente diversa, orientata a innescare cadenze sull’incombere degli eventi, lasciando bel leggibile la trama, e affidando agli interpreti più che alla parola del romanziere il compito di scolpire i personaggi, della cui vita e delle cui vicende, con un veloce sunto iniziale, siamo resi perfettamente edotti.
Il registro, proprio per questa voglia di trasmettere il racconto, il fatto, l’epopea familiare e umana, sa oscillare fra tono ironico e tono drammatico. Brie sceglie una lettura, comunque, fresca, in cui gli episodi chiave si collegano e si avviluppano al turbine di legami fra gli esseri umani, concentrandosi poi in particolare sul tema della giustizia e dell’ingiustizia e sul sopruso, cose che si leggono in controluce nelle scelte di soffermarsi sugli episodi di più cupa violenza, come quelli sui bambini di cui il testo racconta. I bambini sono qui tre manichini di impressionante realismo realizzati da Tiziano Fario, che a fine spettacolo rimarranno soli in scena seduti ad una panca, mentre gli spettatori defluiranno.
Il cast è composto da un gruppo di giovani attori, che hanno vissuto con Brie l’esperienza della costruzione in laboratorio dello spettacolo.
Da questo giovane gruppo il pedagogo riesce a ricavare un lavoro compatto, dove la chiave di lettura è omogenea, anche se non mancano le ingenuità, che a tratti impoveriscono lo spettacolo: il dramma delle vicende a volte solo l’età (e l’esperienza) degli interpreti sa regalarlo.
Così, se le vite dei figli sono affidate ai giovani, quelle dei padri (Fedor, ma anche Zosima, e il servo picchiato) sono affidate allo stesso Brie, che vive queste paternità con sentimento vivo, fino al finale che racconta la morte di un figlio. A rivedere lo spettacolo sotto questa luce, è innegabile che questo tema della paternità sia un elemento-alimento forte nella scelta di quale Karamazov raccontare.
Lo spazio temporale del rapporto con un grande romanzo è fatto da giorni di lettura, quello di uno spettacolo teatrale da poche ore. Già solo condensare giorni in ore, va da sè, porta a una perdita di dettaglio e alla necessità di selezionare l’informazione letteraria al servizio del teatro, impresa che, nel caso dei grandi russi, è davvero durissima.
Brie ci prova, in alcuni momenti ci riesce, ma la scelta di evitare quasi totalmente l’enfasi sul testo, che viene ripreso tal quale solo in piccole parti, tralasciando i temi più filosofici e il prevalere delle parole del grande autore russo sui frequenti momenti di sintesi, impoverisce l’impianto generale di alcuni elementi che restano troppo in secondo piano, perché l’allestimento si armi di una solidità intrinseca che completi il tema della sofferenza, della mancanza, di quello che dai genitori non abbiamo avuto e che come esseri viventi non siamo capaci di trasmettere.
Piacevoli anche se a volte un po’ ingenue, le musiche dal vivo e le luci eseguite senza computer: a volte l’errore si percepisce, e in un caso, nella replica a cui assistiamo, il veloce passaggio da una dissolvenza a quella successiva avviene con lentezza, tanto da far pensare al pubblico di trovarsi al buio di fine spettacolo, provocando un applauso.
Brie, durante la replica, quando è fuori dal ring scenico, non di rado passa fra i suoi ragazzi, accarezzandoli, facendo sentire ai giovani attori il pathos del grande teatro pieno ma anche la presenza del padre fuori scena. Ma nessun padre può chiedere ai figli più di quanto questi possano e debbano dare, Brie lo sa, forse per esperienza, forse per vita, e quindi cuce il classico russo sulle spalle del gruppo.
Ma Dostoevskij arriva ai Karamazov alla fine della sua vita, mentre questi attori sono all’inizio della loro carriera. In questo spazio di esistenza c’è esperienza, sentimento, frustrazioni, gioie e dolori che l’età tardo adolescente ancora non ha vissuto.
Quindi il giovane gruppo racconta quello che può, quello che deve, che è comunque tanto, ma manca di quella pregnanza forte, filosofica e più in generale di pensiero, che un legame con un testo così forte reclamerebbe.
La visione esemplificatrice del nostro punto di vista è nella scena in cui il servo seppellisce il giovane figlio scomparso. In questa scena Brie chiede ad alcuni suoi attori di seguirlo quasi in processione e di fare quello che lui stesso fa, prendendo ciascuno un manichino e portando questo figlio nel trapasso verso la morte, fino ad adagiarne il corpo in un giaciglio mortuario: in questo episodio, a nostro avviso, è solo Brie che vive, che trasmette l’emozione del padre. I ragazzi non hanno la presenza scenica per trasmettere questa temperatura.
Se quindi la hyubris di De Monticelli rispetto al romanzo è quella di voler sfidare la densità del pensiero del romanziere senza alleggerirla, cercandola e portandola tal quale in scena, spesso modulandone solo il recitato vocale (ma alcune parole hanno bisogno del rapporto con l’immaginario della lettura, non possono essere portate in teatro con lo stesso effetto e la stessa potenza), quella di Brie è quella di lasciare solo su di sé il peso del confronto generazionale, schiacciando tutta la parte di pensiero, di profondissima elaborazione emotiva di Dostoevskij, su spalle troppo giovani per portare questo peso, e adattando così il testo in maniera forse un po’ troppo semplice, tanto che perfino della figura paterna di Fedor, non poche sfaccettature restano inespresse.
In questa antinomia, in questa contrapposizione di punti di vista che si rivelano parziali entrambi, è condensato il rischio di rileggere per il teatro i romanzi. Il calibro del testo letterario che non nasce per il palcoscenico è percepibile, tanto nella sua troppa presenza che nella sua voluta assenza.

Un video promo de I Karamazov di De Monticelli
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Alcune immagini video del Karamazov di Cesar Brie nel video realizzato da ERT

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=kuBob-yQ-_g]

Il vero teatro necessario di Belarus free Theatre

BRUNA MONACO | È con “Generation jeans” che si è aperta la micro rassegna che il Teatro India di Roma ha dedicato alla compagnia bielorussa di Minsk nata nel 2005, il Belarus free Theatre: fuorilegge nel proprio paese, ha partecipato a numerosi festival internazionali con spettacoli di denuncia. Un teatro-documentario, quello del Belarus, che urla contro la situazione politica della Bielorussa, democrazia solo nominale, di fatto una dittatura di Aleksander Lukashenko. Un teatro che urla e sa farsi ascoltare, tanto da convogliare al teatro India un pubblico numerosissimo e caloroso.
“Generation jeans” è un monologo, un one man show o uno spettacolo di narrazione che dir si voglia. In scena c’è solo Nikolai Khalezin, fondatore (insieme alla compagna Natalia Kolyad) del Belarus free Theatre, che ha scritto diretto e interpretato lo spettacolo. Lo accompagna il DJ Laurel (Laur Biarzhanin) che sul fondo, dietro i sintetizzatori, dà musica alla performance.
Nikolai Khalezin ha un borsone da tennis, dentro ci sono gli oggetti di scena, quelli della sua vita: una busta di plastica firmata, come quelle che da adolescente acquistava per tre rubli e rivendeva a cinque, uno status symbol nella Bielorussa anticapitalista degli anni ’90. Dischi di vinile, musica vietata dal regime: rock americano e inglese, musica progressive. Qualche paia di jeans, quelli che rubava negli alberghi ai turisti stranieri, quelli che lo facevano sentire come gli altri, come gli altri fuori dalla Bielorussia, nel resto del mondo capitalista, il mondo che, a chi vive in dittatura, pare il mondo libero. E allora “jeans” diventa sinonimo di libertà. E i “tipi jeans” sono gli spiriti liberi.
Nonostante sia in lingua russa e i sopratitoli scorrano veloci a seguire le parole di Nikolai Khalezin, l’ironia del testo non si perde. Come non se ne perde la drammaticità laddove il racconto si fa duro. Quando, insieme al protagonista, entriamo in una cella punitiva di un metro per un metro, per aver srotolato in piazza cartelloni inneggianti alla libertà.
“Generation jeans” non è uno spettacolo esteticamente perfetto e Nikolai Khalezin che nasce giornalista e si fa drammaturgo, non ha una formazione d’attore, forse nemmeno una vocazione. Si potrebbe dire che è attore per caso, o forse, meglio, per necessità. Necessità vera, prima politica poi personale. Guardando il lavoro del Belarus ci si ricorda che il teatro non è solo un fine, ma anche un mezzo. Un mezzo di comunicazione.

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Angelica

angelica-CosentinoRENZO FRANCABANDERA | E comunque. La settimana scorsa a Milano potevo andare a vedere uno spettacolo di Steven Berkoff, grande autore del teatro contemporaneo anglosassone, rivisitatore dei miti del classico, interpretato da lui in persona. E invece sono andato a vedere al Teatro Litta, Angelica, di Andrea Cosentino, uno dei suoi primi spettacoli, scritto nel 2005, interpretato sempre da lui medesimo in persona.

Alla fine non ho maturato una sensazione di pentimento per la mia scelta, innanzitutto perché Angelica incorpora una serie di riflessioni tutt’altro che banali sulla semantica del medium scenico, e su come questo si vada sempre più modificando grazie a tempi e modi di cinema e televisione. In secondo luogo perché è un monologo divertente, fresco, dove universo intellettualistico e piacere del racconto sono calibrati in modo giusto.
Il pre-testo è una riflessione di Pasolini circa la differenza fra piano sequenza e montaggio nel cinema. Mentre il piano sequenza è descrizione, presa diretta del vissuto senza cesure, analisi finanche prolissa ma pur sempre analisi, il montaggio è operazione di riduzione all’essenziale. Lo scarto geniale nel pensiero pasoliniano è in una breve ma densissima similitudine a margine del pamphlet, in cui paragona il piano sequenza alla vita, e il montaggio alla morte che seleziona, riduce l’esperienza del vissuto a poche, salienti immagini, prima di consegnarle alla Storia, procedendo ad una sorta di imbalsamazione dell’emotività, che ovviamente in questo “trapasso” si perde.
Lo spettatore ovviamente non assiste a nessuna tirata epistemologica nel corso dello spettacolo, perché tutto il postulato viene dimostrato raccontando due storie, una attraverso il mezzo teatro, con un dettaglio da piano sequenza, e una attraverso il mezzo televisivo.
Si tratta di alcune scene di uno sceneggiato di basso cabotaggio, girato in un interno romano. Nel mondo teatro assistiamo a tutto quello che a queste riprese fa da contorno, con tutte le figure che popolano l’universo delle riprese, gli attori, le loro emozioni laterali, i mille ciak per ottenere quei pochi minuti di riprese tv, che ovviamente fanno perdere molta, quasi tutta l’umanità del girato. Questo spiega parecchio della tecnica cinematografica di Pasolini, fatta di lunghe panoramiche ambientali, piani sequenza, e dettagli di un vissuto, di sguardi di dentro ma anche di/da fuori. Ma anche molto del lavoro di Cosentino che, pur essendo fatto, a suo modo (e questa è la grande ma d’altronde inevitabile aporia del linguaggio inteso come scelta, in senso assoluto) di scene e sequenze narrative montate in sequenza fra loro, cerca di restituire quella pluralità di sguardi interni, esterni, voci a margine, che ricordano nella loro struttura, quella tecnica cinematografica, contrapposta a quella più sterile e banale del medium televisivo.
Nostalgicamente potremmo riflettere su quanto perdiamo passando dall’analisi alla sintesi, dalla vita alla morte, è però altrettanto certo che nessun elemento esiste di per sé senza il postulato della sua negazione. Tutti i linguaggi, dai primordi della scienza a quelli della filosofia, ci ricordano che l’Essere è, il non Essere non è, che un punto, una retta e un piano sono.
Come tutto questo possa passare attraverso una passeggiata per Roma in un anno santo, con tanto di vista sulla papa mobile di Woityla con lui medesimo in persona che ci benedice apparendo di colpo in scena, uno spettacolo da realizzare in una cantina, due vecchie parrucche, due barbie, due miniature di plastica, un vestito da sposa e una carrozzina, è quanto spiegherà Cosentino.
E comunque. Angelica, forse perché all’epoca Cosentino era non meno ardito di quanto sia ora, ma forse in scena osava riflessioni meno strutturalmente complesse sulla decostruzione del linguaggio scenico, è uno spettacolo godibilissimo, appuntito nel suo portarci verso una comprensione alta ma al contempo semplice del postulato semantico in discussione. Di Angelica lo spettatore tiene a mente molte cose, anche a diversi giorni di distanza. E’ uno spettacolo che, dunque, a suo modo, favorisce la ritenzione. Si lascia ricordare. E questo è un motivo non banale per andarlo a vedere, con un Cosentino che con la maturità interpretativa di ora, torna su quello che era allora, si confronta con tutto quello che è stato finora (fino alla recente rilettura assai decostruita e forse intimamente meno lineare di Fedra, che è stata ospitata sempre al Litta) e da dentro una scatola televisiva, quasi come un gestaccio, ci benedice.

Ecco un video dello spettacolo
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Incendi, una storia di guerra

BRUNA MONACO | Wajdi Mouawad è ormai da diversi anni una vera e propria star in Francia, Canada e paesi francofoni. Nel resto del mondo si sta facendo notare da quando Denis Villeneuve ha trasformato “Incendi” nel film “La donna che canta”, che ha ricevuto i plausi di pubblico e critica, e quattro nomination come miglior film straniero nei più importanti festival del cinema internazionali.
Seconda tappa di una tetralogia della memoria, “Incendi” è un testo ricchissimo in cui le storie si intrecciano, i piani temporali si alternano, le teorie matematiche tentano di spiegare dinamiche familiari calate un contesto storico-politico aberrante.
Questo groviglio di fili è dipanato da una macchina drammaturgica che avanza come un caterpillar senza incontrare ostacoli, mai. È ai figli gemelli di Nawal Marwan, indiscussa protagonista, che è affidato il compito di svelare la trama di questo dramma. Sta cioè a loro indagare sulle proprie origini, scoprire l’impronunciabile verità e svelarla a un padre e a un fratello (o meglio, un padre-fratello) di cui, fino a quel momento, avevano ignorato l’esistenza. Una verità impronunciabile al punto che Nawal stessa smise di parlare appena appresa: suo figlio e il padre dei suoi figli sono la stessa persona. Una drammaturgia potente, che però ha appunto il difetto di una macchina narrativa schiacciasassi: la complessità della vita che Mouawad vuole raccontare è sbeffeggiata dalla facilità con cui, invece, tutti i nodi vengono al pettine.
La regia di Renzo Martinelli sottolinea questo difetto drammaturgico, punta tutto sul lato investigativo tranciando i monologhi, le scene e i personaggi più ricchi di pathos. La scenografia e i costumi sono accattivanti e servono con efficacia gli scivolamenti da un piano temporale all’altro, il passaggio dal Canada dei nostri giorni (il presente dell’azione scenica) al Libano della guerra civile (dove i figli di Nawal vanno a cercare le proprie origini, la verità). Dei microfoni pendono dal soffitto, diffondono, amplificano e a volte deformano le voci e i rumori sulla scena facendo da fastidioso contrappasso al silenzio di Nawal.
Qualcuno ha definito “Incendi” un Edipo al femminile, ma l’accostamento appare forzato. Si tratterebbe, al più, di una riproposizione del mito sofocleo visto con gli occhi sbarrati di Giocasta. Solo che Nawal di fronte alla verità non si ammazza, tace, fino alla morte. E poi non è amante, né regina, e l’incesto di cui è vittima (non complice) non provoca pesti, non è causa scatenante di nulla, ma conseguenza di quel flagello tanto simile alla peste che è la guerra. La storia di Nawal manca di universalità, è segnata e schiacciata dalla contingenza e dal caso: in un tremendo contesto di guerra e violenza, una donna viene violentata da un figlio che fu costretta ad abbandonare appena nato e di cui non può riconoscere il volto. Per caso, non per fato. Sempre casualmente anni dopo lo ritrova dall’altra parte del mondo, in tribunale, e da un dettaglio, questa volta, lo riconosce. Edipo, invece, è destinato ad amare sua madre (e certo non a violentarla), a uccidere suo padre. È il destino di ogni uomo, dice Sofocle, desiderio di ogni uomo, traduce in termini psicanalitici Freud. E qui il parallelo col mito sofocleo si sfalda: dire che la guerra produce orrori, come fa Mouawad è cosa ben diversa dal dire che la vita è una condanna. Nell’Edipo sofocleo la verità andava svelata proprio perché si giungesse a questa consapevolezza, e perché la verità si rivelasse per quel che è: insopportabile. In “Incendi”, invece, sembra dominare un sentimento voyeuristico che, abbinato al meccanismo investigativo, fa pensare alla televisione, anche se a quella rara, di buona fattura. O a un teatro di intrattenimento dai temi forti, poco diffuso in Italia ma di cui la scena francese, per esempio, è ricca.

L’istruttoria

istruttoria-teatrodueRENZO FRANCABANDERA | E’, a dire il vero, inspiegabile come questo spettacolo, che da quasi trent’anni gira l’Italia, per una delle produzioni storiche del nostro teatro, quella di Teatro Due di Parma del classico di Peter Weiss diretto da Gigi Dall’Aglio, non abbia mai avuto alcun riconoscimento, che ora sarebbe magari “alla carriera”, ad honorem; nessuno, se non quello del pubblico che da decenni continua ad uscire dalla sala sgomento e affascinato.
Il motivo dello sgomento è facile da intuire, trattandosi di una messa in scena di un testo ispirato, nei suoi 11 quadri, alla tragedia dell’Olocausto, al resoconto crudo e terribile delle torture dei campi di sterminio nazisti. Eppure non sono pochi gli spettacoli sul tema che restano superficiali. Se questo allestimento continua a girare, sempre diverso e sempre uguale, e a rimanere scolpito negli occhi di chi lo guarda, un motivo ci dev’essere.
Lo spettatore viene portato fin dall’inizio in una dimensione voluta di falsità teatrale, accedendo a teatro dal retro del palcoscenico, dove assiste al trucco degli attori entrando nei loro camerini a vista, mentre scorrono parole di Pasolini e l’atmosfera è di irreale attesa.
Ci guardano attraverso gli specchi gli storici interpreti Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Pino L’Abbadessa, Milena Metitieri, Tania Rocchetta (sostituita nella replica cui abbiamo assistito da Bruna Rossi) prima di apririci una porticina attraverso la quale entriamo in palcoscenico. Siamo costretti in piedi, in un recinto di corde sul palco, mentre alcuni attori in controluce in platea, con i fari che puntano giù, su di noi, iniziano a raccontare i momenti della deportazione. E dopo poco capiamo, iniziamo a sentire la sensazione di essere ammassati, uno sull’altro, costretti, impossibilitati a vedere tutto. Sentiamo ma non vediamo, qualcuno cerca di vedere ma è come trovarsi in un caro bestiame, dove la coscienza di sè piano piano cede il posto ad un’inspiegabile sentimento di paura e disagio.
Questa capacità di regalare allo spettatore la tragica ma compiuta e tangibile sensazione di essere in quello che assiste, di come il passo fra la realtà e la finzione sia una porticina, continua in questo lavoro per tutto il tempo, fino alla fine, fino a quando la luce blu gelida del freddo siderale degli inverni nei campi di concentramento e il gas avvolgono lo sguardo, sulle note delle musiche di Alessandro Nidi affidate all’esecuzione dal vivo di Davide Carmarino.
Tanto è stato scritto di questo spettacolo (ovviamente chiamarlo spettacolo porta in sé una giusta dose di cinica considerazione ma anche un’altissima e tragica significazione di quello che il teatro è, nella sua doppia faccia di finzione e mimesi del vero), quello che sento personalmente di aggiungere è che il lavoro di questo storico gruppo è proprio la testimonianza “altra” di come il nostro tempo abbia bisogno di un nuovo ricordare, di un ricordare con precisione. Che è diverso dal ricordare in modo didascalico e meccanico.
Perché il copia e incolla del tempo digitale mangia tutto e oblia in un istante, mentre L’Istruttoria di Teatro Due è analogica incarnazione, militanza dell’essere, partigiana resistenza che in quanto tale non abbisogna e non richiede applausi, ma mira a risvegliare, a dare un pugno all’in-cosciente dormiveglia nel quale siamo piombati. Mai abbastanza spettatori avrà questo lavoro, per arrivare dove dovrebbe. Ma guai a coloro che rinunciano a testimoniare, a far memoria.

L’istruttoria di Teatro Due è un segno di civiltà, esattamente come il mandare un libro a mente in Fahrenheit, come qualsiasi cosa che sfida l’ottundimento non per farsi compiacimento di sé, ma per il ricordare. Agli altri e a sé. Che compito stancante e disperante è a volte testimoniare la memoria, la cognizione del dolore. Usciamo.

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Le scuole a teatro

ELENA SCOLARI | Le rassegne scolastiche offrono classici eccentrici e riflessioni sull’attualità: una carrellata su quattro spettacoli visti al Teatro Verdi di Milano e alla Sala don Ticozzi di Lecco.

La primavera è arrivata prepotente in queste ultime settimane, di solito segna il ramo declinante della stagione teatrale, ma prima che il clima morbido induca a godere del tepore serale all’aperto ci siamo dedicati ad un’incursione nei cartelloni di alcune rassegne scolastiche per gli istituti superiori, che spesso comprendono spettacoli adatti anche ad un pubblico adulto, che li può incontrare in tradizionali stagioni di prosa.

E’ questo il caso di Clitemnestra – l’altra donna, ultima produzione del Teatro del Buratto, per la regia di Renata Coluccini e Marco Di Stefano. Il lavoro è presentato sia in matinée sia in serale e sarà al Teatro Verdi di Milano fino al 5 aprile.

Tre attrici di bianco vestite ad interpretare tre personaggi archetipo della letteratura classica greca: Coluccini è Clitemnestra, Benedetta Brambilla Cassandra e Ylenia Santo Elettra. Gli uomini sono assenti e le parole su di loro sono tutt’altro che lusinghiere. L’idea portante è la rappresentazione femminile, intima e familiare di fatti mitologici e grandiosi. Un’Elettra adolescente e bulimica attende nervosamente il ritorno del padre dalla guerra di Troia, nel frattempo è lei che fa la guerra alla madre Clitemnestra, la quale smitizza il concetto eroico di Agamennone raccontando gli orrori e le viltà della battaglia, soprattutto rivelando le violenze contro le donne per quello che sono: una barbarie. Anche se a compierla sono i vincitori.

Al rientro dei soldati sarà l’indovina Cassandra, condannata a non essere mai creduta e fatta amante/schiava da Agamennone stesso, a testimoniare del crudele comportamento dei greci. Solo Clitemnestra le crede, e attuerà la sua tragica vendetta: assassinerà Agamennone per fare “giustizia” e obbedirà alla preghiera di Cassandra che vuole morire per poter dimenticare.

Tutto si svolge a casa della protagonista e tutto è visto con occhi di donne, agito con gesti di donne. E’ interessante un punto di vista completamente sbilanciato sul femmminile, che analizza il mondo attraverso le loro relazioni: rivalità, complicità, antagonismo, comprensione.

Le scenografie richiamano il teatro classico con due gradinate bianche dove le attrici parlano, dormono, mangiano, si scoprono. Al centro un frigorifero, elettrodomestico che costituisce il focolare ma che anche simboleggia Agamennone, col quale tutte e tre i personaggi hanno, diversamente, a che fare.

Abbiamo apprezzato l’asciuttezza e la modernità del linguaggio, sfrondato da ogni classicismo, troviamo invece meno azzeccata la modalità di attualizzazione resa, in buona sostanza, soltanto dalla presenza di un televisore che Elettra guarda compulsivamente mentre trasmette Ufficiale e gentiluomo. Questo solo elemento, insieme al disagio alimentare della ragazza, ci sono sembrati francamente superflui. A nostro avviso, il buon testo è strumento sufficiente a rendere attuali le riflessioni che emergono dallo spettacolo, la recitazione è sincera (tranne per Elettra che risulta forse un po’ troppo petulante) e la forza del mito arriva a noi ancora intatta grazie alle parole e agli argomenti, anche senza televisore. Non nascondiamo qualche perplessità anche sul frigorifero/Agamennone, senza averlo letto sulla scheda difficilmente ne avremmo intuito la simbologia.

“Assedio”, ispirato all’Iliade, della compagnia Mariano Dammacco, è un altro esempio di eccentricità di sguardo per rappresentare un testo che più classico non si può. Dammacco sceglie di richiamarsi ad un saggio della filosofa Simone Weil, che ipotizza il concetto di Forza come vera protagonista dell’Iliade, distribuita su tutti i personaggi del poema, non soltanto su Achille che ne rimane invece schiacciato. L’Achille di Dammacco (regista e interprete) è sotto assedio, la sua mente è assediata dalla follia della guerra, è un uomo reso fragile dalla continua esibizione di violenza, un eroe antieroe che vuole andarsene dal campo di battaglia e non vuole più essere indentificato e appiattito sulle sole idee di virilità e potenza. Una prospettiva inusuale e che permette un’analisi atipica e per questo avvincente del più epico racconto di guerra mai narrato. L’interpretazione sofferta di Dammacco tende a far sfociare la disperazione di Achille in un eccesso di lamento ma la compagnia è ben equilibrata e il risultato intelligente.

Il classico per eccellenza, Amleto, è messo in scena dalla compagnia Ippogrifo di Verona, in un allestimento definito dal regista Alberto Rizzi “balcanico”. Ci sarebbe piaciuto molto vedere Shakespeare in salsa Kusturica, sarebbe stato un modo originale di trasportare la Danimarca, ma i Balcani annunciati sono presenti solo in un paio di brani di Bregovic, usati (abusati?) come musiche di scena, per il resto l’Amleto di Rizzi è piuttosto fedele ma certo non nuovo. Questo spettacolo è quello che spesso si intende per “versione scolastica” di un testo classico, cioè uno strumento adatto a capire la trama del dramma per uno studio più facilitato, non memorabile per qualità di recitazione e ridotto del giusto perché degli adolescenti non si agitino troppo sulle poltrone. Unico spunto interessante di analisi, se si amano le interpretazione freudiane, è il personaggio di Orazio, travestito da orsacchiotto, a significare il rifugio d’infanzia e l’unico depositario della fiducia di Amleto.

Chiudiamo questo mini dossier con una nota su “Binge drinking”, ancora produzione Teatro del Buratto, stavolta uno spettacolo pensato specificatamente per i ragazzi, un testo sulla dipendenza  sempre più giovanile dall’alcool, il titolo allude all’usanza di assumere più dosi di alcoolici in un tempo molto breve per poi godere dell’ebbrezza per il resto della serata. I tre attori (Stefano Panzeri, Elisa Canfora, Dario De Falco) sono tre credibili adolescenti, amici per la pelle, ognuno con un rapporto conflittuale con i propri genitori. Aspettano il sabato per dimenticare la scuola e la famiglia e bere. Bere per essere felici, bere per non avere più paura. Cappa, il Risu e il Rosso scandiscono la loro vita tra un weekend alcolico e l’altro finché non assistono alla morte del fratello minore del Rosso, che li scuote e li riscuote. Speriamo. La bella idea di scegliere la vittima al di fuori del terzetto dei protagonisti e un buon ritmo fanno di Binge drinking uno spettacolo che cattura profondamente l’attenzione dei ragazzi. Un cambio di stile e tempo di narrazione gioverebbe alla sottolineatura dei momenti più simbolici.