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giovedì, Novembre 14, 2024
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L’arte della commedia di Teatro Minimo, Terzo Millennio della Compagnia OlivieriRavelli e Idoli di Carrozzeria Orfeo

RENZO FRANCABANDERA | Troviamo in questo contributo lo spazio per parlare di tre spettacoli a cui di recente abbiamo assistito a Milano, girando fra Tieffe Menotti, Teatro della Contraddizione e Teatro Out Off.

teatro-minimo Arte della commediaL’arte della commedia nella versione di Teatro Minimo nasce da un incidente: l’anno scorso durante la tournèe del precedente lavoro, la compagnia subì il furto del camion con tutta la scenografia. Fu allora che, un po’ in preda alla rabbia, un po’ alla disillusione su un mestiere tanto complicato come quello del contadino, esposto alle intemperie del giorno per giorno, Michele Sinisi scrisse a Luca De Filippo rivolgendosi a lui come ad uno dei due personaggi principali de L’arte della commedia, il prefetto.

In questo lavoro del padre Eduardo, si racconta di un teatrante che ha visto distrutto in un incendio tutte le scene e il magazzino del suo teatro, e che si rivolge al nuovo rappresentante dell’autorità locale per chiedergli non un supporto in denaro, ma un segno di umana presenza, la sua partecipazione ad una replica. Identicamente Sinisi ha chiesto a Luca De Filippo un segno di umana presenza, quello che i De Filippo quasi mai accordano, ovvero i diritti di rappresentazione di un’opera paterna. Invece quel segno è arrivato, e così Teatro Minimo è una delle pochissime compagnie non amatoriali italiane che può portare in tournèe una drammaturgia di De Filippo padre.

L’allestimento ricorda moltissimo “Sequestro all’italiana”, con l’ambiente ricreato attraverso una porta e una finestra ma quasi senza muri: in questo caso le pareti sono nere e restituiscono la stessa idea di assenza. La rappresentazione inizia fuori da questo universo, in un prologo che forse vale l’intero lavoro, il preambolo, la dichiarazione d’intenti artistica: in cinque-dieci minuti il capocomico, che oscilla fra testo eduardiano e vita vera, racconta di sé, della sua vita d’attore. E’ un momento in cui Sinisi guarda gli spettatori in faccia, essendo lui stesso in platea, come in una passeggiata serale dopo una replica. Entrerà di lì a poco nell’universo della finzione totale attraverso il csipario ancora chiuso, come in un parto au-contraire, non eiectus ma reversus al mondo scenico.
Da lì in poi la rappresentazione, con il primo atto che ruota intorno al dialogo fra Sinisi e il prefetto (Continelli, bene nella parte e in generale come alter ego di Sinisi stesso), che si chiude con un nulla di fatto e una scommessa: il capocomico avrebbe inserito alcuni suoi attori fra le persone con le quali il prefetto avrebbe avuto appuntamento, sfidandolo a riconoscere chi fingeva e chi no. Ma realtà e teatro sono un unicum inconfondibile e quindi sarà il teatrante ad avere la meglio.
Lo spettacolo, in replica nei giorni passati a Milano al Tieffe, nel primo atto vive la sua parte più alta e intensa, mentre il secondo atto è un po’ figlio di quel teatro degli equivoci che, se calcato troppo nella recitazione, finisce per impoverirsi. Durante la recita cui abbiamo assistito, gli attori che Sinisi ha raccolto intorno al progetto hanno rivelato un’acerbità, una propensione all’eccesso e al tono carico che non permette al secondo atto di decollare, visto che tutto si regge intorno al delicatissimo equilibrio fra finzione e reale. Anche l’assistente del prefetto si muove per tutta la recita sulla lettura parodica del suo personaggio, risultando non sempre adatto a quel ruolo di collante fra mondo dello statuito e universo dell’arte.
L’arte della commedia è opera solo apparentemente leggera, in realtà una severa lezione di tecnica del teatro se trasportata nel nostro tempo e nel nostro gusto scenico mutato. Ecco dunque qual è lo spazio di miglioramento per il regista/capocomico, che deve calibrare la recitazione dei suoi giovani attori, per dar loro la più profonda dimensione di un testo che si regge sulla necessità di una concentrazione scevra da ogni autocompiacimento, che deve rifuggire la chiamata alla risata come la peste, per incarnare, proprio nel suo restare seria, la tragica comicità del reale.

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olivieriravelliIn replica fino al 1 aprile al Teatro della Contraddizione è la Compagnia OlivieriRavelli, con Terzo Millennio un testo di Fabio Massimo Franceschelli diretto da lui medesimo. La Compagnia, come noto, fa parte del consorzio Ubusettete che raccoglie alcune compagnie della scena romana, e fa di un linguaggio di prosa compreso nell’intervallo logico fra l’assurdo e il tragicomico la propria cifra. La drammaturgia è un esito interessante della produzione drammaturgica del regista. Descriverla è pressochè impossibile. Il lettore sappia che si troverà per quasi tutto lo spettacolo, ovvero per un’ora e trenta minuti circa, in compagnia di un duetto, che diventa, ai due terzi della recita, un terzetto. Un delirio a due con ospite, un Aspettando Godot durante il quale ad un certo punto entra in scena una signora un po’ sboccata e un concreta, che mette in crisi l’astratto filosofeggiare sulla funzione e sui paradossi della lingua dei due interpreti primigeni, il Maiale (Claudio Di Loreto), il Pescatore (Alessandro Margari), che attendono esisti ontologici della propria presenza al mondo, che non arriveranno.
La scena è semplice. Tre grandi superfici circolari di legno, come i famosi tondi di Vedova, ma monocromi, due (i laterali) di color rosa, uno, quello centrale, nero, fanno da sfondo. Rosa e nero sono anche i colori dei vestiti dei due interpreti iniziali, il primo intento a pescare già all’inizio dello spettacolo, quando appare poeticamente in controluce, mentre fa balenare un piccolo giocattolo di legno appeso all’amo della sua canna da pesca. Pochi istanti dopo arriva dalla platea l’altro protagonista, il porco. I due dibattono in forma alta su questioni al bordo fra logica e linguistica: dal significato delle parole a quello della loro presenza al mondo in quel contesto isolato e arido. Assiste alla diatriba un manichino di donna che solo a recita avanzata smetterà di incombere con il suo silenzio, lasciando il posto ad un’incarnazione tutt’altro che manichina (Francesca Guercio).
L’arrivo della terza figura in un primo momento pare aggiungere elementi risolutivi e pragmatici al dialogo precedente, ma ben presto si impasterà della stessa anti-logica, arrivando a creare un delirio a tre che finisce per esaustione. La messa in scena è una prova d’attore, in cui il duo iniziale funziona meglio del terzetto successivo, anche se il divertimento e il ritmo, ovviamente, nei terzetto trovano esiti più interessanti. Gli attori tornano nel teatro in cui già l’anno scorso avevano riscosso un interessante successo, anche se questo esito è meno appuntito. Sicuramente l’impatto frontale, su una drammaturgia che ricorda l’assurdo di altri tempi, porta il sapore delle minestre d’una volta, espressioni di un teatro d’attore, testo e regia che, se da un lato non muore mai, per altro verso dopo un po’ ferma il metronomo nell’attenzione dello spettatore. I repentini cambi luce abbinati ad alcune parentesi del recitato non sono momenti di rottura di temperatura sufficienti a riscaldare il rapporto con il pubblico che dopo un po’ scema. L’avvento della figura femminile, e questo è un limite della drammaturgia, ha una forza intrinseca invero modesta e anche la relativa interpretazione resta scontata su un binario di amorevole isteria.
Si potrebbe dire che lo spettacolo dura un po’ troppo, lasciando la porta socchiusa al distacco fra scena e pubblico, ma effettivamente, considerato che le interpretazioni sono nel complesso riuscite, questo tipo di considerazioni resta limitato alle decisioni della regia di scegliere un impatto tradizionale e centrato sull’apicalità del testo. E’ il classico caso in cui una regia altra rispetto a colui che ha materialmente redatto il testo, avrebbe potuto creare quella (a volte) necessaria distanza per operare qualche scelta sul di troppo. La potenza del testo penetra, quella della recitazione anche, quello che rimane perfettibile è una modernità della diegesi testual-teatrale, vale a dire l’incardinazione della parola al suo posto in scena, la coerenza fra narrato e interiorizzazione del momento teatrale. A volte, insomma, il pubblico si trova fuori, e questa è sempre una responsabilità di chi deve leggere il rapporto fra chi recita e chi sta al di qua.

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idoli_carrozzeria-orfeoIdoli è uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo, interessante realtà lombarda che in pochi anni ha saputo conquistarsi uno spazio non marginale fra le compagnie di ricerca tanto sulla prosa che sul linguaggio scenico e sull’uso della maschera. Avevamo di recente assistito alla loro ultima fatica, Robe dell’altro mondo, nel corso del festival bresciano Wonderland, ma questo passo indietro ad una produzione dello scorso anno, grazie al teatro milanese Out Off che ne favorisce l’ospitalità, è una preziosa occasione per leggere, a distanza di poche settimane, l’evoluzione letta a ritroso.
Cercheremo di leggere il tutto in forma diacronica, partendo dalla crescita nella scrittura drammaturgica che la compagnia ha registrato da quel testo, Sul confine, che fu segnalato dal gruppo di visionari al Kilowatt Festival del 2010 a questi esiti più recenti. Innanzitutto va segnalata la capacità ormai acquisita di costruire le trame in maniera più efficace, incastrata, logica fino al necessario, ma capace anche di valicare i confini del sillogismo per i fuori campo nel laterale, nell’onirico, nell’impossibile.
In secondo luogo la compagnia si distingue per la capacità di portare in scena i propri testi in maniera ancor più forte e viva di quanto la parola stessa non sia di suo capace di dire. La compagnia sicuramente merita attenzione per la modalità di rappresentare la nostra società nel suo modificarsi, nelle sue derive, nelle sue insicurezze, che non è comune. Da ultimo ma non ovviamente in ultimo, l’abilità di dialogare con linguaggi altri rispetto all’arte scenica, come per il lavoro presentato a Brescia, che nasce dal dialogo con l’arte del fumetto. Ma non è sicuramente un caso isolato visto che in primo luogo questi ragazzi colpiscono per una maiuscola capacità di ascolto del circostante.
Le loro “situazioni”, le loro gag, nascono dalla più comune banalità, dall’ovvio. Nessun irreale à-la-Kane, con militari che irrompono a forza di bombe in vicende di coppia che si tengono in stanze d’albergo. Qui la storia è proprio basica, due ragazzi di periferia con lui ultras e lei legata ad una famiglia ormai evaporata, un nucleo familiare tediosamente borghese, due ragazzini che chattano, con lei che ancora adolescente gli chiede il numero di carta di credito, una nonna morta e già cenere in un’urna, e un nonno sulla sedia a rotelle che finirà vittima di un rigurgito di inaudita e inspiegabile violenza.
Cosa leghi tutto questo è proprio l’oggetto dell’indagine di Carrozzeria Orfeo, che prendendo come spunto alcune ricerche di Umberto Galimberti sulle distonie del nostro tempo, sul venir meno delle certezze e l’incombere della liquidità del sistema di valori, arriva a raccontare uno spaccato che lambisce il bordo del comics ma rimanendo saldamente entro il perimetro dell’umanità possibile. Restiamo convinti del grande potenziale della compagnia, che cresce in modo significativo e concreto, diremmo quasi misurabile, se davvero esistesse quel misuratore di contenuto poetico di cui si faceva grottescamente menzione ne L’attimo fuggente. Ma per fortuna nulla, nel fatto artistico, è realmente misurabile, se non la crescita del linguaggio originale dell’artista, la sua capacità di proporre le sue urgenze in intenso dialogo con il suo tempo. Da questo punto di vista Carrozzeria Orfeo è compagnia assolutamente figlia del nostro tempo, che nel nostro tempo cerca i pretesti per il proprio fare arte.
Diamo loro il tempo di crescere, non caricandoli di inutili aspettative e non gettandoli nel tritacarne delle produzioni in dinamica seriale, e fra qualche anno ci troveremo con un collettivo scenico in grado di apportare nuova linfa alla prosa italiana e non solo. Con riguardo invece allo spettacolo e alla prassi drammaturgica, si potrebbe, a mo’ di consiglio, dire che la giusta tensione emotiva va mantenuta verso un gesto scenico un po’ più sintetico, concentrandosi forse su un numero minore di personaggi in scena, approfondendo l’indagine sulla crudezza del vivere che ancora in alcuni casi non arriva alla più vera profondità. Ma sono peccati di gioventù, di quell’incosciente e costante sperimentare di cui seguiamo la scia, arrivando di tanto in tanto a leggere il momento conclusivo, lo spettacolo appunto. Finora hanno mostrato di saper fare, e di far bene.

Un video de L’arte della Commedia di Teatro Minimo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=nfPEVGsPnnE]

Un video del lavoro della Compagnia OlivieriRavelli

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Idoli di Carrozzeria Orfeo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=BS_ZPUE86Uc]

Paul Cezanne. Solitario poeta della concretezza

Cezanne-Pendule-noireMARIA CRISTINA SERRA | Arte di confine, ricerca costante ed infaticabile di un equilibrio sostanziale fra la realtà esteriore e la coscienza interiore, quella di Cezanne. Passaggio di frontiera tra la classicità “assoluta”, spogliata di nostalgia del passato, e la modernità incombente del Novecento. Studio meticoloso di uno spazio da realizzarsi in forme e prospettive dagli orizzonti allargati, volti a semplificare la sostanza delle cose e le sue incessanti combinazioni, dove i luoghi della vita e quelli dell’arte s’incontrano in una identità totale.

“Il pittore concretizza col disegno e col colore le proprie sensazioni, le proprie percezioni”, annotava Cezanne, “non si è mai troppo scrupolosi né troppo sinceri né troppo sottomessi alla natura”. Irrequieto e schivo figlio della ricca borghesia del Midi francese, ad Aix-en-Provence, la sua vita scorre metodica fra i colori e i profumi intensi della sua terra, rifugio dell’anima e ispirazione per la mente, e i rituali e lunghi soggiorni parigini, vissuti fin da ventenne, con sentimenti alternanti odio e amore, attrazione e respingimento.

Si è appena conclusa al Musée de Luxemburg una straordinaria mostra “Cezanne et Paris”, che ha ricostruito in modo insolito l’itinerario creativo, appassionante come un’intricata ed enigmatica storia d’amore, dell’artista della concretezza del visibile, inventore di una nuova “armonia parallela alla natura”, oltre alla quale liberare l’infinito attraverso una modulazione di colori pulsanti di vita e di forza plastica. Artista solitario e rigoroso, inconsapevolmente profetico, vissuto nell’oblio per gran parte della vita, refrattario a rincorrere il successo e il riconoscimento, che arrivò solo nel 1904, quasi alla fine della vita. La “Grandezza” l’aveva conquistata già dentro di sé, fra mille dubbi e una sperimentazione attraversata dalla fatica quotidiana di essere pittore in perenne “presa di coscienza critica” della realtà, in cerca della “Verità interiore” delle cose, oltre le impressioni visive.

Incastrando pazientemente tassello dopo tassello, così come per i suoi mosaici di colori vigorosi, privi di ombre, che scomponevano e ricomponevano le tele in un dinamismo dalle sorprendenti sfaccettature. Uno “sguardo tattile”, palpabile, nel quale “occhio e cervello devono aiutarsi fra loro per catturare l’inafferrabile e tradurlo in geometriche solidità, la cui resa volumetrica e spaziale è definita da pennellate dense di sostanza”. La lucentezza del nero si schiude dal fondo di un cofanetto prezioso nel quale sono custodite, come gioielli segreti, le opere giovanili dell’artista .

E allora “La pendule noire” domina con solennità la sobria composizione di oggetti resi vitali da una grande conchiglia venata di rosso posata sul tavolo, rivestito da una tovaglia bianca, ripiegata in un rigido drappeggio, che si sviluppa in verticale. E’ il gioco dei contrasti sempre presente nella sua pittura, lucente e opaca, solida e liquida. Due semplici baguette, sistemate su un candido tovagliolo, spezzano in orizzontale il fondo scuro de “Le pain et les oeufs” e stabiliscono un contatto immediato con la certezza dell’esistente.

Le mele, “modelle viventi”, animano come corpi autonomi una natura morta composta di “Tasse et fruit sur nappe blanche”, inglobata da una carta da parati che satura ogni via di fuga apparente. E’ seduto, severo, autorevole, scostante, intento nella lettura del giornale “J. Auguste Cezanne” padre, rappresentazione di quel rapporto di soggezione e incomprensione che lascerà segni indelebili di fragilità nel suo carattere. E’ di grande rigore formale il ritratto di Hortense, “Madame Cezanne dans un fauteuil rouge”: una figura monumentale nella sua indecifrabile compostezza, modellata nello smagliante blu cobalto dell’abito, reso ampio dai riflessi verdi delle righe verticali; come se i colori l’un l’altro si spingessero per appropriarsi di energie e trovare poi convergenza nel rosso della poltrona, rifugio della donna amata. Zola, amico di una vita, con il quale condivise sogni e speranze giovanili ad Aix e le prime avventure parigine, fino alla rottura traumatica nel 1886, è ritratto in modo frammentario, intimo, accovacciato in terra, avvolto da un informe caftano chiaro, lo sguardo meditativo immerso nell’oscurità della scena.

In un’altra tela giovanile, con pennellate fiammeggianti e impetuose, si ispira alla pittura di Delacroix per ritrarlo nel suo lavoro di scrittore. Disincanto e trasfigurazioni esotiche per i quadri di soggetto erotico degli anni ’60/’70: tentazioni da vivere con tormentato distacco. Anche Parigi all’inizio gli appare un po’ come una donna seducente, ma pericolosa, tentacolare e inaccessibile; ma poi impara a stabilire la giusta empatia. Ne ricerca gli angoli meno mondani, le strade lontane dal fragore, illuminate da luci fioche, intime, che nascono dall’interno dei pavè e dei muri, per espandersi all’esterno e far trovare così il giusto volume alle forme, come in rue des Saules, a Montmartre.

Dipinge la zona industriale del Quai de Bercy attraverso il caratteristico mercato dei vini, con le lunghe file di botti a segnare la Rue Jussieu. Ricostruisce la sua idea di città dai “toits de Paris”: una composizione architettonica armoniosa, suddivisa in tre piani orizzontali: la compattezza color ardesia dei tetti, la scansione alternata con tonalità pastello degli edifici, la nitidezza omogenea e grigio-chiara del cielo. Una ritmica perfetta di relazioni spaziali, che definiscono un’essenziale prospettiva in divenire. I dintorni di Parigi, la foresta di Fontainebleau, Auvers-sur-Oise, Pontoise, ospite dall’amico Pissarro, sono i luoghi ideali per definire la sua arte.

Il suo colore denso, forte, avvicina le cose, le impasta di bruni, violetti, rossi, verdi e azzurri, in vibrazioni che penetrano tra le nostre inquietudini del cuore per poi tornare in superficie. Troveranno pace, rivelazione e sintesi nei paesaggi e nelle cime delle montagne provenzali, dove le parole si sospendono per lasciare integra la realtà della natura in un impressionismo durevole, che si fa coscienza di sé.

Un video della mostra della AFP
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=7Zuuk_ly-bc]

Una guerra di terra e cognac

ELENA SCOLARI |  Giugno 1916 – Luglio 1917: la brigata Sassari è di stanza sull’altipiano di Asiago. Ci passa un anno intero. Andrea Brunello incarna le parole di Emilio Lussu e racconta gli episodi di questo folle anno della prima guerra mondiale. Storie di uomini dal romanzo Un anno sull’altipiano.
Queste storie di guerra sono belle e terribili, sono grottesche e crudeli, raccontano soprattutto dell’ottusità di capitani che non sanno comandare, della ridicola protervia di generali sciocchi che mandano al macello i proprio soldati pur di conquistare qualche metro di terreno al nemico. Ma per i soldati in trincea chi è davvero il nemico? Gli austriaci o i superiori con i loro folli ordini senza senso?
Brunello ci parla in un’atmosfera intima, fatta di pochi oggetti in scena e costruita sulla necessità di una vicinanza fisica col pubblico, una forte componente olfattiva è elemento caratterizzante dello spettacolo: i soldati si reggono in piedi ad acool, soprattutto cognac, e cognac è quello che viene asperso (e poi offerto) sopra gli spettatori diffondendo un odore alcolico che ci dà l’idea di un’ebbrezza rassegnata. La terra in cui sono scavate le trincee è il luogo dove i militari passano lunghissime ore di lunghissimi mesi e l’odore di questa terra arriva fino a noi che vediamo il protagonista farsela scivolare addosso. La regia di Michele Ciardulli è misurata, sono questi segni decisi che ne connotano lo stile.
I personaggi che popolano l’altipiano veneto sono vivi, sono resi vivi dalla calda recitazione di Brunello, la sua drammaturgia restituisce in modo rotondo la verità delle parole di Lussu, semplici nel descrivere le azioni sul campo e ironiche per definire la mente stolida del Generale Leone, per la cui morte i soldati avrebbero fatto gran festa.
I soldati che conosciamo in questa avventura sono tutti meglio della situazione in cui trovano, sono coraggiosi, sopportano tutto, non si lamentano e si fanno forza sì col cognac ma anche con il pensiero di amori romantici che aspettano a casa, sono uomini con un fortissimo senso del dovere, di una dignità commovente. Capiamo la follia della vita in trincea, delle marce lunghe giorni e notti intere, la noia di fare per settimane la guardia da una feritoia di legno,  l’orrore di vedere i compagni crivellati di colpi a pochi metri di distanza sotto le moderne armi austriache, ascoltiamo una bellissima descrizione di una disperata carovana di cavalli con cavalieri immobili perché ormai morti. Tutto questo è però narrato senza pesantezza, senza retorica alcuna, il ribelle Ottolenghi, Avellini l’innamorato e il soldato semplice Marrasi Giuseppe sono persone di cui abbiamo sentito il carattere e di cui serberemo un ricordo affettuoso.
Lo spettacolo della compagnia Arditodesìo di Trento riesce a fare un’operazione interessante di diffusione storica: con la giusta misura di sentimento e distacco mette in scena qualcosa che abbiamo ancora bisogno di ricordare per riconoscerne l’assurdità.

arturo ui1RENZO FRANCABANDERA | Come dare l’idea di un lavoro importante, accurato, senza scadere nell’eccessiva didascalia o nella seriosità di dire cose che possano apparire scontate per lettori, attori e a maggior ragione ad uno studioso di Brecht come è Claudio Longhi, il regista de La resistibile ascesa di Arturo Ui?

Siamo di fronte a uno degli allestimenti più importanti della scorsa stagione teatrale, una scommessa (l’ennesima, dobbiamo darne atto) vinta da ERT e Pietro Valenti, che ha voluto affidare a Longhi un cast importante per un’operazione rischiosa, che avrebbe potuto definitivamente consacrare o marginalizzare uno dei registi più interessanti e consapevoli del nostro panorama teatrale. Insieme a ERT, la co-produzione di Teatro di Roma. L’abbiamo visto al Teatro dell’Elfo.
Lasciando agli studiosi gli approfondimenti più intrinsecamente filologici, ritagliamo per la critica il compito, spesso più arduo, di trasmettere un sapore, un’impressione, di provare a stimolare un gusto, un olfatto, un senso, in un percorso che metta a fuoco punti di forza ed eventuali punti di debolezza di un allestimento.
Come noto, si tratta di un’opera scritta di getto nel 1941 da Brecht ormai in fuga, che attraverso similitudini neanche velate, avvicina la vicenda di un immaginario gangster della Chicago degli anni Trenta e i suoi tentativi di controllare il racket dei cavolfiori a quella del dittatore che aveva preso il potere in Germania (Longhi recupera la didascalia istruendo il pubblico con sovrascritte luminose sull’identità fra Ui e Hitler, fra l’America e la Germania, fra la città di Cicero e Vienna ecc.). Non ebbe rappresentazione che quasi vent’anni dopo.
Cassette di plastica, simili a quelle normalmente usate per la frutta, impilate, riescono a rendere l’idea di una metropoli americana con grattacieli, palazzi, inaccessibilità verticali di cemento. Lo spettatore entra in sala e trova già disposti ordinatamente in triplice filare i cavolfiori. Il clima narrativo è da subito quello del più ortodosso dramma epico brechtiano, con un corredo musicale originale, frutto della creatività musicale di Hans-Dieter Hosalla.
La trama, nota, racconta la vicenda di un uomo sostanzialmente fallito, un nulla di buono, che per una serie di circostanze incredibili e violente, complice la ricattabilità di una politica e di un sistema giudiziario molli e ormai all’ultimo respiro, riesce a demolire prima e a creare poi un sistema di potere, arrivando al controllo del tessuto economico con una modalità mafiosa. Gli attori sono chiamati a recitare, cantare, interpretare il proprio ruolo come parte di un ensamble musical-attorale, una banda che si sviluppa su un duplice piano, quello musicale e quello criminale che è della drammaturgia, esaltando il particolare talento di alcuni attori particolarmente vocati alla duplice sfumatura.
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La parte più interessante e coraggiosa dell’impianto registico è quella di non fare di Umberto Orsini, nel ruolo del protagonista, l’icona teatrale da portare in giro come santo in processione, ma quella di sviluppare in modo orizzontale le abilità a disposizione, in particolare dei giovani Nicola Bortolotti, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Luca Micheletti (dramaturg e interprete, poi premiato con l’Ubu per la notevolissima performance), Michele Nani, Ivan Olivieri, Giorgio Sangati, Antonio Tintis, per un’opera dal tratto corale e disperatamente, ma anche grottescamente sociale.

In questa dimensione, l’Orsini attore prende un altro respiro, mitigando le tensioni da mattatore per porre la sua esperienza al servizio di un obiettivo di ordine superiore.
Le scene pensate da Csaba Antal e ben supportate dai costumi di Gianluca Sbicca e dalle luci di Paolo Pollo Rodighiero, ricreano gli interni e le strade, e la metropoli americana prende vita fra le casse di frutta, in un gioco di primi e secondi piani capace di piani e orizzonti plurali; è un perimetro scenico all’interno del quale si muovono gli attori in forma molto aperta, fino a strabordare, inondando a più riprese la platea, chiamando nel respiro dell’allestimento il pubblico, che in non rare occasioni partecipa, vive, applaude a scena aperta, vivendo il sentimento di progressiva angoscia che la regia, filologicamente brechtiana, però decide spesso di smorzare attraverso piccoli escamotage: brillante, ad esempio, quello in occasione della mattanza malavitosa finale, dove le esecuzioni vengono accompagnate da didascalia sonora fumettistica. Nulla del pathos si perde, e tutto acquista una dimensione viva, pulsante.

arturo ui3Lo spettacolo, come la resistenza di una lampadina d’altri tempi, si riscalda via via, fino a raggiungere una temperatura, un calore, un’intensità che di rado si respira nelle fruizioni cui siamo abituati. E’ una lettura, quella di Longhi, rigorosa ma capace di mondarsi della sovrastruttura di consapevolezze che pure il regista avrebbe potuto profondere nell’allestimento. Al contempo è indubitabile che nella chiave di lettura della regia si possa respirare la consapevolezza di scuola, ma anche quella dell’accademia. Ma in questo caso il combinato disposto delle due forze rimane grandemente equilibrato, paritariamente soppesato nelle sue componenti, capace, un po’ come Ben Hur con i cavalli della sua auriga, di togliere e dare briglia ai diversi talenti, in maniera profondamente consapevole dei punti di forza e di debolezza di ciascuno.

A questo spettacolo, dal nostro punto di vista, forse andava riconosciuto qualcosa in più in termini di segnalazioni e riconoscimenti nell’ultima tornata Ubu. Ma tant’è, ormai è andata, quindi non resta che invitare il maggior numero di spettatori a godere di queste ultime date al teatro dell’Elfo (fino al 18 marzo), contribuendo a riempire la sala, come sempre è stato in questi giorni passati, in un interessante confronto a distanza con il Brecht di Ronconi al Piccolo Teatro. Il piatto della bilancia pende, secondo noi, dal lato di Ui.

Un video promo dello spettacolo realizzato da ERT
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=aFpwyTxPBcs]
 

Addio Monsieur Moebius

Moebius-davanti-manifMARIA CRISTINA SERRA | La vita deve avere la consistenza dei sogni per essere compresa e amata: imprevedibili e luminosi, assurdi e rivelatori, informi e pur fasciati nei colori della realtà. Leggerezza del cuore e profondità della ragione per raccogliere le molteplici fluttuanti alternanze dell’esistenza e gli strani schiribizzi del destino. Doni che possedeva in quantità, Jean Giraud, artista leggendario del fumetto, morto sabato mattina a soli 73 anni, dopo una lunga malattia, a Parigi.

Gir o Moebius, erano gli pseudonimi sotto i quali celava la complessità della sua identità, insieme alla necessità di vivere con coerenza il suo profondo bisogno di libertà interiore, che era “mio dovere esprimere anche attraverso i miei disegni”. Affabulatore delle nostre anime, insaziabili nel rincorrere trame ed esigenze di mondi poetici, sconfinati, oltre i quali cercare risposte alla finitezza delle cose apparenti. “Io sono un folle che può realizzare delle cose ragionevoli”, diceva di sé, perché un artista “sa cogliere i rilievi delle cose e diventare la voce del mondo”.
E allora noi lo vediamo sorridente e ironico come sempre e misterioso, curioso, profondo, mentre a bordo di una di quelle sue strane, ibride creature megalattiche si avvia all’esplorazione di cieli immobili, popolati da pianeti, galassie, firmamenti, sospesi senza tempo né spazio, che tante volte erano stati lo scenario, costellato di costruzioni barocche e fascinazioni surrealiste, sul quale ricamare le sue storie (Garage ermetico, Arzack, Il mondo di Edema, Incal), che mai imboccavano una sola soluzione, per lasciare perennemente sospesa ogni conclusione.

Certamente avrà portato con sé i suoi pastelli, per continuare a dare forma a quell’universo fantastico che emerge sotto traccia nel libero vagabondare alla ricerca di ogni possibilità; così da poter “scovare” in un deserto senza inizio e senza fine, la vita che si nasconde dentro il più piccolo granello di sabbia”.

Forse sta cavalcando in compagnia del solitario e malinconico “Soldato blu”, Mike Steve Donovan, alias Blueberry, per praterie assolate, sferzate dal vento, a rincorrere avventure dal sapore fiabesco e dai concreti minuziosi dettagli del disegno. Di sicuro non porrà limiti alla sua fantasia metafisica che aveva preso ispirazione dal “magico anello” del matematico e astronomo tedesco August Ferdinand Moebius, simbolo dell’infinito, per passare da un dimensione all’altra.

Ce lo immaginiamo così, insieme ai suoi due amici “principi dell’onirico”, Hugo Pratt e Federico Fellini, a spaziare tra le calli settecentesche della sua impalpabile visionaria “Venezia celeste”, privata dell’acqua per meglio sospendersi nell’azzurro eterno dei cieli, per rammentarci che il mondo per rinnovarsi ha bisogno di grandi sogni collettivi, perché senza di questi ci si può solo perdere.

Il servizio che Euronews ha dedicato alla scomparsa di Moebius

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ZA_t_E-fbPU]
Il video della stupenda mostra alla fondazione Cartier a Parigi
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=tlH9JBIHdmk?list=PLCE5F2CA6FA3A40FB]

Il “Tram” di Williams guidato da Latella

tram latella valgoiRENZO FRANCABANDERA – MARIELLA DEMICHELE | In fisica, un fluido ideale è un fluido che ha densità costante e coefficiente di viscosità nullo. La più importante conseguenza è che se il coefficiente di viscosità è nullo, in un fluido ideale non vi sono sforzi di taglio. Alcuni liquidi comuni, tra cui l’acqua, hanno un coefficiente di viscosità molto basso e un modulo di comprimibilità molto alto. Ciò ci induce a considerarli fluidi incomprimibili e fluidi non viscosi.

Il parallelo ci consente di dire, e speriamo di esemplificarlo nel seguito, che il teatro, il punto di vista del grande regista, dell’autore, di per se stesso, non è un fluido ideale, in primis perché nel suo evolvere, di spettacolo in spettacolo, cambia di densità, di portata emotiva. In secondo luogo perché, diremmo quasi per assunto, non ha quasi mai una viscosità emotiva nulla.
Studiare e vivere il teatro dall’interno equivale, nella mia esperienza personale, a scorrere proprio la non idealità del fluido, a sperimentarne dunque le densità scostanti, la maggior o minor viscosità e l’intrinseca capacità di essere trapassato con maggior o minor facilità, a galleggiare su questo fluido variabile e non ideale, e capire, però, come tutto sia in grado di discendere da quanto precede, da quanto scorre a monte.
Poniamo il caso de Un tram che si chiama desiderio, produzione 2012 di ERT, che ha debuttato giovedì 16 febbraio 2012 a Modena e che abbiamo visto ad Imola al teatro Ebe Stignani (ma a breve anche a Pavia, Taranto, Catania, il cui stabile coproduce lo spettacolo).
Il testo di Tennessee Williams, nella regia di Antonio Latella, viene affidato ad una squadra di interpreti che hanno avuto quasi tutti a che fare con Latella, sono già stati immersi nel fluido dell’artista campano. Si tratta di Laura Marinoni (che torna dopo il grande successo de Le lacrime amare), Vinicio Marchioni (unico nuovo acquisto del gruppo) , Elisabetta Valgoi (Trilogia della villeggiatura, Lear), e gli storici interpreti Giuseppe Lanino, Annibale Pavone e Rosario Tedesco, che accompagnano almeno da un quinquennio il regista.
Le scene di Annelisa Zaccheria raccontano di una casa sventrata, di cui sopravvivono alla vista dello spettatore suppellettili con anima di legno, a segnare un ambiente rurale ma meccanico, sufficientemente spersonalizzato e asettico. La scena è già visibile allo spettatore all’ingresso, insieme ai grandi fari posizionati qui e lì in scena e collegati da grandi cavi elettrici a vista. Cosa potrà dunque venir fuori da questo teatro elettromeccanico? Forse un Williams spersonalizzato e decostruito? Il gioco di Latella nel primo atto è proprio questo, riprendere ed esasperare il rapporto con le didascalie, il sottotesto con cui già ne La trilogia e nel Lear con Albertazzi si era confrontato, per arrivare a distillare quel processo, tendendo ad annullare la densità testuale ma spingendo lo spettatore a vivere l’intrinseca viscosità della scena, l’attrito, il fastidio di una situazione, quella drammatizzata in cui, come Laura Marinone costretta per tutto il primo in un metro di spazio agìto, si trova schiacciato da una vicenda dal tratto disumano.
La storia (almeno quella nella rilettura di Latella, che rovescia i punti di vista) è quella di una donna (Marinone), che bruciata l’eredità familiare, raggiunge l’altra (Elisabetta Valgoi), sposa di un violento ragazzo di origine polacca (Vinicio Marchioni), turbando i loro equilibri familiari proprio mentre aspettano un bambino. Nascerà un amore con un amico di lui (Giuseppe Lanino), fra un passato da dimenticare e un futuro che non prende luce e che vira sui toni della follia. Una figura asettica di medico psicanalista (Rosario Tedesco) assiste, guida, suggerisce sottotesti e battute, in un clima denso, a tratti impenetrabile, in cui la drammaturgia, scarnificata, decostruita e ricomposta, lascia la mano allo spettatore, che arriva alla fine del primo atto con una serie di dubbi che riguardano tutti gli aspetti del fluido artistico in cui è immerso.
Ma come chi insegna a nuotare, come chi deve segnare i confini e le regole della propria grammatica, ecco che Latella nel secondo atto riprende lo spettatore per mano, con maestria e lo riconduce nelle pieghe più drammatiche del testo di Williams, addensando il fluido ma riducendo di colpo l’attrito, proprio a dimostrare come tutto possa continuare ad essere la stessa materia, essendo in realtà tutt’altra.
Lo spettacolo è una prova di grandissima abilità sia della regia che degli attori, con la Marinone e la Valgoi a scandire il perimetro di una femminilità deprivata e quasi ferina.
I costumi di Fabio Sonnino e le luci di Robert John Resteghini trasferiscono questa America pop in un continente di cui tutti, dagli anni Ottanta in poi, facciamo parte, con la colonna sonora di chitarre figlie del blues e di riff noti, come quelli irresistibili dei Led Zeppelin, e che sono nel primo atto le uniche ancore di salvataggio emotivo che lo spettacolo lancia allo spettatore disorientato.
Il secondo atto è un capolavoro di psicologia, del rapporto regista-scena e regista-spettatore. Ma non potrebbe esistere senza il primo atto, come nessun lieto fine può arrivare senza traversie, ammesso che lieto fine sia, quello de Un tram che si chiama Desiderio nella lettura di Latella.
(Renzo Francabandera)
Intensa prova di Laura Marinoni, capace di esprimere la complessità psicologica di Blanche Dubois, in una messa in scena che abolisce ogni riferimento realistico per recuperare la dimensione fortemente simbolica del testo teatrale.
Scheletri di mobili invasi da cavi elettrici e riflettori, in un angolo una vasca da bagno con le pareti rivestite di plastica trasparente azzurra, sullo sfondo una porta che si apre e si chiude continuamente, fragile confine con il mondo esterno. Uniche note di colore un paralume rosso e, accanto, il nero di una poltroncina in pelle.
Così si presenta la scena dello spettacolo “Un tram che si chiama desiderio”, con la regia di Antonio Latella, prodotto da Emilia Romagna Teatro con lo Stabile di Catania, che ha appena concluso le sue repliche al teatro Argentina di Roma.
L’ambientazione è volutamente non realistica: Latella si è infatti ispirato a Williams il quale affermava che “i simboli non sono altro che il linguaggio del dramma, la più pura espressione del teatro”. E così, il luogo dell’azione diventa la mente di Blanche Dubois, uno dei personaggi più controversi della storia teatrale del Novecento. L’ambiente domestico diventa allora ambiente psichico e gli oggetti in scena, nell’allestimento di Annelisa Zaccheria, perdono la loro “funzione d’uso” – spiega Latella – “per diventare proiezioni della mente di Blanche” che, in un crescendo ossessivo, ripercorre gli episodi che l’hanno condotta alla follia.
Funzionale a questo approccio è la scelta del regista d’invertire la narrazione rispetto al testo originario; qui, infatti, il medico che nel finale porta via Blanche compare all’inizio e, nel ruolo di narratore, ci introduce nella storia, ci trasporta in quel pomeriggio azzurro di maggio in cui Blanche compare per la prima volta in Via dei Campi Elisi, in un quartiere popolare di New Orleans. Costretta dai debiti e dalla vergogna per il suo decadimento economico e morale a abbandonare il suo paese d’origine, cerca rifugio presso la sorella Stella che vive in un piccolo appartamento con il marito Stanley, un giovane immigrato polacco, rude e dalla sensualità dirompente.
Un matrimonio inspiegabilmente felice che viene messo in crisi dai modi sofisticati di Blanche, dalle sue continue critiche a Stanley edall’incapacità di capire cosa possa legarlo a sua sorelle. Invano Stella cercherà di spiegarle che “ci sono cose che succedono al buio tra un uomo e una donna che rendono sopportabile tutto il resto”; eppure, Stanley la turba, risveglia in lei qualcosa di animalesco che invano l’educazione puritana ricevuta e subita in famiglia aveva messo a tacere. Si prova allora compassione per le continue bugie di Blanche: sono il suo modo di proteggersi da una realtà dalla quale si sente attratta, pur giudicandola volgare, troppo “ordinaria”. Proprio come Kowalski, con il quale, fin dal primo incontro, comincia un gioco di attrazione e repulsione, una schermaglia che alterna la seduzione alla violenza verbale e fisica. In questa inadeguatezza di Blanche ad accettare la vita nel suo spietato realismo c’è la radice della sua follia, atto estremo di difesa.
Tutta la prima parte dello spettacolo scorre senza suscitare forti emozioni e non mancano momenti di vera e propria irritazione per l’improbabile accento slavo di Stanley, per l’invadenza del dottore/narratore e per il generale stato di eccitazione, algido e cerebrale, che pervade gli attori sulla scena. A questo si aggiunga l’effetto di straniamento ottenuto mediante l’uso delle luci, azionate direttamente in scena dagli attori con frequenti puntamenti in platea, e dei microfoni, che amplificano e distorcono le voci.
Solo alla fine del primo atto, quando le luci si abbassano e comincia il primo monologo di Blanche, abbiamo l’impressione di uscire da una condizione di sgradevole distanza e di respirare con lei l’atmosfera sospesa di un piovoso pomeriggio a New Orleans, quando “un’ora non è più un’ora, ma sembra un’eternità” e ci sembra di scorgere con i suoi occhi Mitch, all’angolo dell’isolato, con un fascio di rose tra le braccia.
Ed è proprio questo personaggio, interpretato da Giuseppe Lanino, che nel secondo atto sostiene e valorizza l’impegnativa prova di recitazione di Laura Marinoni, anche grazie alla generosità e al garbo con il quale ha affrontato una scena scabrosa che rischiava, con il suo crudo realismo, di infrangere l’atmosfera onirica della narrazione. Il gruppo in scena, costituito da attori che hanno già lavorato con Latella e hanno assimilato la sua lezione – oltre alla Marinoni e a Lanino, Elisabetta Valgoi, Annibale Pavone e Rosario Tedesco -, appare affiatato, coeso. Unica eccezione Vinicio Marchioni, nel ruolo di Stanley: forse perché nuovo, forse perché ancora alle prese con la ricerca di un personale stile interpretativo, non ci è sembrato del tutto a suo agio nelle battute, che spesso ci sono arrivate finte, artificiali, prive di intenzione
(Mariella Demichele)

Il disegno è di Renzo Francabandera

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Luoghi comuni a Bergamo

ELENA SCOLARI | Si è tenuto a Bergamo dall’1 al 4 marzo 2012 il festival delle residenze teatrali lombarde aderenti al Progetto Etre di Fondazione Cariplo. 2830 minuti di spettacoli sparsi per i luoghi teatrali della città.

La maratona teatrale ha registrato grandi numeri: 46 repliche per 26 titoli, 5.000 spettatori, 95 operatori culturali presenti, una macchina notevole. Entriamo nel dettaglio di alcuni spettacoli e per onestà di cronaca confessiamo di aver visto circa un terzo dei titoli in cartellone, facciamo quindi un reportage parziale.

Le compagnie che formano il gruppo di residenze  finanziate da Fondazione Cariplo in Lombardia sono realtà molto eterogenee tra loro, abbiamo quindi avuto la possibilità di vedere un panorama piuttosto variegato nelle tendenze teatrali di compagnie cosiddette “giovani”.

Progetti ambiziosi (e quindi rischiosi) hanno messo in difficoltà Araucaìma e Ilinx. I primi hanno presentato un Caligola complesso e composito ma alla fine noioso, lo spettacolo è diviso in quattro quadri detti “passio”, annunciati da striscioni tra il brechtiano e le proteste no-Tav, il perfido imperatore romano in scena non è abbastanza perfido, questo è il problema principale di uno spettacolo che punta molto in alto ma deve fare i conti con una materia difficile come l’immoralità: non è sufficiente dirla, bisogna incarnarla, nel caso di Caligola fino alla sgradevolezza. La cifra della compagnia è quella di inserire parti del testo cantate in coro, anche qui avviene, con qualità alta, ma questi inserti non risultano amalgamati con il resto, come invece fu per l’ammirevole spettacolo Foch.

Devil, twist & shout è lo spettacolo di Ilinx, anche qui ci si misura con temi e personaggi grandi e scivolosi: il male e il diavolo, niente meno. Nicola Castelli avrebbe un viso abbastanza mefistofelico per convincerci come diavolo, anche qui manca però un po’ di diabolica sottigliezza, è un demonio un po’ troppo esplicito e che non si sa abbastanza insinuare nelle vite dei personaggi archetipo che incontra: un teologo da cabaret, un politico chiaramente ispirato al sempreverde Berlusconi, un genio della finanza, ovviamente cattivo. Troppi Luoghi Comuni! Lo spettacolo ci mostra un diavolo che ha perso la bussola, insieme alla sua identità, a causa di un mondo ormai senza differenza tra bene e male. Purtroppo negli intermezzi tra un incontro e l’altro, vediamo alcune scene, improbabili anzichenò, tra una donna ingenua e due pseudobarboni un po’ beckettiani (si cita alla grande ma senza costrutto, ahinoi) che ci confondono assai, e ci fanno dire che l’idea di questo lavoro deve essere rivista a tavolino, ristudiata e chiarita nei suoi intenti.

Veniamo ora a due spettacoli che invece ci hanno lasciato il dolce in bocca grazie ad un evidente lavoro di “pensiero” dietro alla realizzazione scenica: Il nulla di Aia Taumastica, compagnia fondata e diretta da Massimiliano Cividati e It’s always tea time del Teatro delle Moire.

Il nulla è uno spettacolo concepito con la logica della playlist, pertanto formato da una serie di situazioni apparentemente slegate tra loro ma unite da un filo di senso. Cinque bravi attori si muovono in uno spazio bianco con alcuni oggetti (un divano, due file di sedie laterali alla scena, un tavolo) e interpretano dei “brani” di vita con grande espressività, brani nonsense, brani anche surreali e ironici, a volte drammatici, tutti tesi a dimostrare la superficialità con cui l’uomo affronta fatti e sentimenti dell’esistenza. Nonostante l’asetticità dello stile scelto da Cividati emerge una riflessione profonda sulla odierna mancanza di strumenti emotivi saldi che ci mettano in grado di  dominare noi stessi e ciò che facciamo. Aia Taumastica ci ha presentato un lavoro intelligente.

Teatro delle Moire è affine a questa intelligenza per sensibilità estetica: It’s always tea time prende spunto da Alice nel paese delle meraviglie, vediamo una lunga tavola che viene continuamente apparecchiata e sparecchiata con grande attenzione gestuale, gli attori sono muti, servi muti del rito ancestrale del pasto, dell’incontrarsi ad un desco, con tutte le piccole guerriglie scherzose che si possono verificare a tavola. Anche qui tutto è bianco, la pulizia della scena corrisponde a grande precisione di gesti, che acquistano significato, estetico o sostanziale, mentre li vediamo accadere, la quintessenza del “mettersi in scena”, se nello spettacolo Il nulla assistiamo a tranci di vita indipendenti dalla nostra presenza, le Moire creano un teatro fatto apposta perché noi lo guardiamo.

Suggeriamo soltanto un po’ di sintesi, alcune insistenze non giovano al tono divertito della messinscena.

Teatro Periferico con UmidoeVento ha portato al festival uno spettacolo dedicato agli autori del lago, i personaggi dei romanzi di Piero Chiara, Liala, Morselli, si incontrano in un improbabile albergo, rappresentano i loro autori in attesa di una fantomatica giuria di un premio letterario. Un’idea che permette di dare vita alle parole di scrittori che hanno in comune atmosfere acquatiche e lacustri, un intreccio simpatico che nella prima parte risulta però un tantino confuso, anche per la presenza di ben nove attori, un disordine che deve essere meglio governato ma in cui sentiamo molto affetto per le pagine animate dalla regia di Paola Manfredi.

Al festival Luoghi Comuni erano presenti anche operatori e compagnie internazionali, abbiamo visto due spettacoli di danza di compagnie straniere: SIN con Revolution e Scottish Dance Theatre con un tris di performances singole. SIN viene dall’Ungheria, è un gruppo composto da giovanissimi danzatori la cui prepotente energia è ancora da incanalare in modo molto più rigoroso e costruttivo. I ragazzi sono pieni di entusiasmo ma chi li dirige deve trovare come dare forma a questo slancio. La coreografia di Revolution vuole parlarci della spinta umana alla rivolta contro le ingiustizie tutte, la spinta è indubbiamente presente ma l’intento di denuncia sparisce in una sconnessa e continua agitazione e inultilmente rumorosa. La mano del coreografo/regista deve essere più presente.

Scottish Dance Theatre dalla Scozia è invece compagnia di maggiore esperienza e di evidente qualità. Abbiamo visto tre diverse coreografie, tutte e tre molto curate e che mostrano l’indubbia capacità tecnica dei danzatori unita ad una leggerezza non priva di forza. Movimenti e corpi belli da vedere, che raccontano emozioni e idee. In particolare il duetto Drift ci è sembrato potente e profondo al tempo stesso.

Ronconi e la compattezza del cristallo

RENZO FRANCABANDERA  |  Il vetro temperato è circa sei volte più resistente del vetro normale. Il motivo di questo risiede nella particolare tecnica della tempra che raffredda velocemente un materiale portato ad altissime temperature. Nel caso del vetro i difetti superficiali vengono mantenuti chiusi dalle tensioni meccaniche compressive, mentre la parte interna rimane più libera da difetti che possono dare inizio alle crepe.

Ho sempre pensato questo delle regie di Ronconi, della sua capacità di raffreddare materiali incandescenti, dando loro una compattezza da cristallo. Uno spettacolo di Ronconi è in genere una struttura formalmente inattaccabile, che o piace o lascia perplessi, ma in un sentimento unitario, che non si fa partizione di sé. La ragione risiede proprio in questo procedimento di tempra di cui si parlava, che impedisce che porzioni più o meno grandi dell’intero possano staccarsi, essendo un procedimento compattante di forza straordinaria.

D’altro canto, come nella tempra, questa grandissima tensione interna ha degli svantaggi. Proprio in ragione del bilanciamento degli sforzi, un eventuale danno sul bordo della lastra causa la frantumazione del vetro in molti piccoli frammenti. Per questa ragione il taglio delle lastre deve essere effettuato prima della tempra e nessuna lavorazione può essere fatta dopo. Così anche negli spettacoli di Ronconi. Una volta chiuso, una volta che si alza il sipario della prima, il prodotto si tempra, si cristallizza, mostra la sua forza coagulante interiore e non può più essere modificato, pena l’andare in frantumi.

Il Santa Giovanna dei Macelli di Brecht in scena in questi giorni al Piccolo Teatro Grassi di Milano è la prima regia del regista di un testo del drammaturgo tedesco. Giustamente la Bandettini su Repubblica lega la scelta al filo rosso di drammaturgie sulla decadenza, che tuttavia, secondo noi, inizia ancor prima del testo di Bond dell’anno passato. E’, a nostro avviso, sentimento che può ritrovarsi perfino nel progetto sull’Odissea di Botho Strauss. Cosa distingue la crapula dei proci e il lancio di carne viva di quell’allestimento, da questa meno evidente ma ugualmente fetida carnezzeria? Poco, perché si parla della stessa categoria umana, i profittatori.

Lì, quattro anni fa, erano una gang di strada, qui sono solo in doppio petto e inscatolati loro stessi, carne fetida, macellai e macellati allo stesso tempo. Sono gli imprenditori del settore della conservazione della Chicago fine anni Venti, che prima portano al macello un intero comparto industriale e la relativa manodopera, poi cercano la salvezza nella speculazione finanziaria. Se ne salvano pochi, gli oligarchi che riescono a piegare il mondo alle loro volontà, alla legge del denaro e della sua distribuzione ineguale.

Sono loro, non l’innocente e assurda Giovanna, i protagonisti della storia di Brecht, che racconta quello che quasi tutti i suoi lavori raccontano, ovvero di un mondo diviso in classi, con poteri diseguali. E così anche qui, da un lato la massa operaia e dall’altro i ricchi speculatori. Margherita Palli li infila in confezioni malandate di scatolette di carne in scatola, warholiane prove generali di un’epoca di consumismo che è la matrice stessa della crisi, degenerazione del sistema produttivo. Camminano queste scatolette, vanno avanti e dietro su binari preordinati, come su una catena di montaggio, industriali prove di una linearità che è solo nella forma ma non nella sostanza.

L’allestimento scenico non è banale, anche se non sfarzosissimo. Il palcoscenico è agito su due piani, grazie ad un piano rialzato a gradone, sul quale è posto uno schermo dove vengono proiettati frammenti video che richiamano il film muto degli anni venti e le epopee del lavoro, con scene di massa rilette in salsa orwelliana dai ragazzi della Scuola. Ma gran parte della dinamica avviene, come spesso accade nelle belle macchine di Margherita Palli, con piccoli marchingegni meccanici facili e complessi insieme.

Gli attori: sorreggono il progetto ronconiano. La filologica lettura della prosa brechtiana li pervade, ne fa icone di un universo che inizia a vivere di reclàme e nel frattempo illude e impoverisce. Bene Paolo Pierobon, ma anche la francescana Maria Paiato, che oltre ad essere la santa dei macelli ha anche un taglio che la fa oscillare fra san Francesco e Giovanna d’Arco. Come al solito impeccabile Fausto Russo Alesi, che trova nell’escalation psicotica dello speculatore narcotizzato dall’ebrezza del mandare gli altri in rovina una chiave di lettura del suo personaggio al sapore di cocaina ante litteram. Il suo salto al momento dell’esplosione delle quotazioni di borsa è un attimo capolavoro dell’interpretazione.
Funziona in generale il gruppo, al servizio del progetto del regista: Francesca Ciocchetti, Roberto Ciufoli, Alberto Mancioppi, Giovanni Ludeno, Massimo Odierna e i giovani della scuola del Piccolo, girano in uno schema geometrico, del quale, una volta definiti i postulati base, il resto consegue come deduzione logica.

Questa è la compatta forza degli allestimenti ronconiani, ma anche un po’ il punto di fragilità, proprio come nel vetro temperato, in cui non si respira più la forza della molecola impazzita che può davvero cambiare colore alla recita. Insomma tutto è talmente temperato da risultare a tratti disumano. La tesi è confermata dalle luci algide che inquadrano i personaggi in aureole di chiarore freddo. E poi un tema risulta ulteriore: una delle scene più belle è quando la povera illusa, l’ingenua Giovanna, personaggio pretesto per amplificare in chiave ossimorica l’universo di squali, si trova al freddo a far compagnia ai disperati mentre viene la neve.

La regia risolve il tutto in un’immagine di grande bellezza, con un angelo di un paradiso artificiale che viene a sporcare Giovanna di schiuma da barba lungo le braccia e sulle gambe. Questa metonimia, questo imbiancare una parte per il tutto, è la cosa più alta dello spettacolo, secondo me, ed è così rimarchevole perché purtroppo la tecnica in sottrazione non ricorre per tutto l’allestimento, che invece non di rado si perde in didascalie di portata supplementare, inutili all’aggiungere senso.
La filologia è un’arte perigliosa, che riporta al centro delle cose il testo e la sua cruciale essenzialità, e al contempo rischia di lasciare sul tappeto alcune questioni irrisolte di dialogo con il presente. In questo caso, per paradosso, il testo è più realista del re, e Brecht di Ronconi, e spesso sembra sia più il testo a lanciare e rilanciare, in alcuni momenti di profetica intensità, il dialogo con il nostro tempo.

"La madre" di Mimmo Borrelli

mimmo-borrelliRENZO FRANCABANDERA | Assistendo a “La Madre” di Mimmo Borrelli si ha la chiara percezione di essere di fronte a una manifestazione di talento puro, di una spinta alla creazione di non comune portata. In un momento così faticoso per l’individuazione di scrittori che sappiano restituire alla scena nazionale la capacità di farsi interprete nel presente come assoluto temporale, come tessera di un mosaico che è allo stesso tempo storia e Storia, Borrelli si fa riconoscibile esempio contrario, caso realmente atipico e di portata segnatamente distintiva.
Lo spettacolo, prodotto dal Mercadante e andato in scena pur fra non poche difficoltà sia organizzative che finanziarie al CRT di Milano alcuni giorni fa, è un concentrato della scuola drammaturgica napoletana, con un riferimento, almeno in questo allestimento, alle atmosfere più cupe delle regie di Emma Dante, fra La scimia, ‘Mpalermu e Vita mia. Gli spettatori possono assistere allo spettacolo in numero di 50 per replica, e si dispongono sui due lati lunghi di una pedana rettangolare di circa venti metri di lunghezza, all’estremo destro della quale siede all’inizio Milvia Marigliano in abiti consunti, un po’ pazza un po’ strega, che chiede ai suoi micini di far silenzio. In sottofondo piccoli miagolii che vengono da un mondo soffocato a-là-Poe.

Ad un certo punto, da una altissima loggia (al CRT Teatro dell’Arte allo scopo era usata uno dei balconi per i tecnici, in alto al lato del palco, dove sono in genere assicurate le luci) appare, opposto alla donna, lassù in cima, lui, l’antagonista, il suo uomo (lo stesso Borrelli), un individuo che si connota subito per la sua ruvida volgarità e il fare dominante e malavitoso. La trama di quanto segue, scritta da Mimmo Borelli e fondamentalmente ispirata alla figura di Medea, è la storia di una donna che si innamora di un uomo di malavita, dal quale ha due figli. Prima ancora di partorirli la donna viene abbandonata. La sua sarà una triste vendetta su un uomo dal quale non riesce in fondo a separarsi, e con uno stratagemma ne farà l’omicida dei figli stessi.

Come nella trama, così anche in scena, gli spettatori vengono portati sul baratro della tragedia, un baratro che si apre sotto i loro piedi e all’interno del quale scopriranno la triste vicenda dei due ragazzi, prossimi ai vent’anni ma totalmente dementi e analfabeti, vestiti di stracci e reclusi. E’ la loro stessa madre (e non a caso parlavamo di Vita mia) ad essere in parte soffio vitale e in parte elemento soffocante di queste esistenze vissute nella reclusione, nell’antro di un sottoscala che è prigione, sgabuzzino reale e metaforico dell’umanità disperata.  E’ l’umanità che spesso si fa finta di non vedere, o meglio che si vuole non vedere, e con cui di colpo lo spettatore è costretto a condividere uno spazio di pochi metri quadri. Certo, lo fa guardando a questo mondo dall’alto in basso, come sempre è abituato a fare, ma di fatto si trova fin dall’inizio in mezzo al gioco scenico, visto che lo spettro visuale dell’area agìta è proprio dall’estrema sinistra in alto all’estrema destra, mentre nel mezzo, di punto in bianco si aprirà un mondo inimmaginabile per chi entra in sala.

Torregaveta, capolinea nord della linea metropolitana cumana, è la punta estrema del golfo di Napoli, con una lingua dialettale dall’inflessione totalmente differente da quella napoletana, frutto di una comunità linguistica storicamente impastata di saraceno ed ebraico, e con un sistema di suoni che non appartiene nemmeno all’area partenopea in senso stretto. Un lessico quasi estraneo a quello che ascriviamo per convenzione nazionale al napoletano, figlio di un territorio che è punto di travaso di genti di mare. Un’altra lingua, insomma, che Borrelli protegge in forma strenua e che è però in parte estranea, se non a tutti gli attori del gruppo, certamente alla Marigliano, che palesemente non tiene questa cadenza, questo dialetto strettissimo.
L’attrice cerca per gran parte dello spettacolo una dimensione che è forse troppa, spesso più vicina all’icona della ianàra, della strega, in questa interpretazione, e costringe il testo ad una cadenza sul suo personaggio che invece si svilupperebbe molto, anche e soprattutto, in controcanto con le altre figure, volutamente mezze e smezzate, che mai arrivano alla dignità sovrana di esseri umani. Perché in fondo è così, solo lui, il boss, il malavitoso, può permettersi il drammatico lusso di titaneggiare, cosa che avviene perfino nel drammatico finale che lo vede soccombere, o nel rapporto assurdo e di violenza con i figli disconosciuti.

E’ l’unico personaggio che non ha bisogno di nessuno, e vive il gradasso bisogno di affermazione di sé, del suo cazzo, della sua prepotente mascolinità, come naturale manifestazione del proprio ego. Lo sfregio della donna abbandonata è proprio nel menomare l’immagine pubblica della sua mascolinità, alimentando i figli ad alcool in tenera età e dunque rendendoli cerebrolesi a vita, costringendo il padre a doversene vergognare, quasi che il suo fosse un seme marcio.  Se mai Gomorra ha avuto una esemplificazione teatrale (e parliamo dell’universo dei soprusi della subcultura borderline della periferia metropolitana nel sud Italia) quella non è certo la riduzione scenica che del libro di Saviano si ebbe qualche anno fa, quanto piuttosto questo lavoro aspro e durissimo di Borrelli.

L’irruenza, l’urgenza creativa che nell’immaginario del drammaturgo campano mescolano il mitologico e il vissuto quotidiano, si trasferiscono nei dodecametri e nei versi da tredici sillabe con cui fa parlare i suoi personaggi, ammantandoli di un’aura tragica putrescente, sporca, sfregio e omaggio insieme alla purezza del trimetro giambico o del tetrametro trocaico, poesia irregolare e sconnessa, ma al contempo solido e durevole ponte fra Euripide e il nostro presente.

Un video dello spettacolo
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La danza e i suoi modi d'essere contemporanea

BRUNA MONACO | Che il contemporaneo (in arte, musica, danza o teatro) sia irriconducibile a uno stile unico e omogeneo, è cosa ormai nota. Ma quanti e quali siano i “modi di essere contemporaneo”, al di là dei generi di appartenenza (che per la musica e forse per l’arte sono facili da individuare, ma per danza e teatro?) è impossibile stabilirlo. D’altronde una classificazione non renderebbe giustizia a delle arti che per vocazione e anagrafe si vogliono multiformi, pluridisciplinari, inclassificabili, appunto. Dei 21 spettacoli visti al festival Equilibrio ne abbiamo scelti tre che fossero fra loro il più lontani possibile: tre modi d’essere danza contemporanea a confronto. Tre spettacoli così diversi che basta giustapporli perché le differenze balzino agli occhi. Le similitudini sono invece poche, da cercare col lanternino o con piglio di studioso. L’unica evidente, che risalta insieme alle differenze, è il punto di partenza: tutti e tre stanno sotto lo stesso cappello, danza contemporanea.
È dal Giappone, dal Burkina Fasu e dalla Spagna che vengono i nostri tre spettacoli: “Inter-mezzo” del maestro di Butoh Ko Murobushi, “Kohkuma 7º sud” di Serge–Aimé Coulibaly per la compagnia Faso Danse Théâtre, e “(espérame despierto)” di Juan Kruz Díaz de Garaio Esnaola.
Partiamo dalla fine, dallo spettacolo con cui si è concluso il festival, quello a noi più vicino, geograficamente e non solo: “(espérame despierto)” è una performance minimal per due interpreti che danzano senza musica. Uno spettacolo che parte in sordina con un gioco di sguardi. Lei suona un violino, male, ma ci prova. Dopo un po’ lui si sperimenta in un organetto a due bassi. “(espérame despierto)” non ha grandi pretese, né si fa portavoce di messaggi importanti, è uno spettacolo intimo che mette in danza una controversa vita di coppia. E lo fa bene perché i due interpreti (Eloísa Cantón e Juan Luís Matilla) sono bravi e sanno piegare il proprio corpo alle esigenze della drammaturgia: si intrecciano, si fondono, si prestano l’un l’altro braccia, gambe, spalle. E, anche se alle volte è prevedibile e non troppo incisivo, resta gradevole, poetico: intrattenimento di ottima qualità.
“Kohkuma 7º sud” del coreografo Serge–Aimé Coulibaly è invece uno spettacolo denso di elementi in cui si mischiano le simbologie, gli stili di danza e i linguaggi. I corpi dei danzatori (Yiphun Chiem, Lacina Coulibaly, Adonis Nébié e Sayouba Sigué) passano violentemente dalla rilassatezza agli spasmi, sembrano compiere una lotta interiore dura e solitaria. Sono compresenti sul palco, ma si esibiscono in degli aspri assolo. I momenti d’ensemble sembrano accadere malgrado loro. D’altronde quello in cui si muovono gli interpreti di “Kohkuma 7º sud” è un luogo di incontro ma anche di segregazione: un campo nomadi, dove si sta insieme per forza, non per scelta. Si convive senza condividere nulla, senza dialogare. “Kohkuma 7º sud” di contemporaneo, oltre alla commistione dei linguaggi, ha la denuncia della società contemporanea. Tutti gli elementi sono ben equilibrati: la danza, le immagini proiettate, la musica dal vivo di Sana Seydou, sorta di griot in questa fiaba per la scena che sembra fuori dal tempo, sebbene i tanti riferimenti scenografici la calino in contesto ben individuabile.
Il maestro Ko Murobushi sceglie ancora un’altra via per accedere al contemporaneo. Una linea retta che parte dalla tradizione e si ritrova, mutata, nel presente. La qualità dei suoi movimenti è quella del butoh: il suo corpo è una fascia di nervi e muscoli, controllati fino all’ultima fibra. Ko Murobushi si serve di quel linguaggio antico per dire delle cose nuove, anche se non sempre ciò che dice è davvero leggibile. Almeno non nel caso di “Inter-mezzo”, spettacolo creato ad hoc per il festival Equilibrio, da cui oltre a qualche immagine evocativa e all’ammirabile corpo scolpito che si muove quasi restando fermo, non trapela molto altro.
Insomma, al di là dei risultati, non sempre entusiasmanti, i 21 spettacoli scelti da Sidi Larbi Cherkaoui per questa VIII edizione di Equilibrio restano dei modi interessanti di declinare l’aggettivo contemporaneo. Ma il rischio che la varietà di linguaggi e modalità del contemporaneo (nella danza come nel teatro) si porta dietro è proprio questo: che l’“effetto sorpresa e novità” dei primi minuti incanti pubblico e programmatori, e poi quasi non ci si accorge che di lì alla fine dello spettacolo sulla scena accade poco e niente. E alle volte sembra che, anziché uno spettacolo, gli artisti si ripropongano di creare solo un linguaggio (il più possibile) nuovo.