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lunedì, Settembre 16, 2024
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TRE CAMERE CON VISTA

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Vedere questa Trilogia significa essere tre volte assorbiti da pezzi di vita.
Lo spettacolo si compone di tre singoli capitoli, autonomi ma legati fra loro dal fuoco su persone ai margini, persone accomunate da tre diversi modi di “non vedere”, simbolici. Tre sono anche i temi centrali di ognuno dei pezzi: povertà, malattia e vecchiaia, argomenti saldamente uniti dal filo poetico che si ritrova forte in tutto il lavoro.
Il mozzo “ ‘o Spicchiato” di Acquasanta sa vedere solo il mare e non la terraferma, che non ama e non conosce. Simone, ne Il castello della Zisa, vive in un incanto immobile e non vede chi e cosa gli succede intorno. I due vecchi de I ballarini vedono solo il loro passato.
Nel primo capitolo, Acquasanta, con le nostre lenti di spettatori, vediamo un mozzo straccione sulla scena, occhialuto, sulla prua di una nave immaginaria. E’ stato lasciato a terra, nel mondo fermo, e il suo modo di vedere gli suggerisce di inscenare una tempesta, nella quale mostra il buffo coraggio di marinaio esperto, e ci stordisce con un’agitata danza tra le voci del capitano e della ciurma che dall’età di 15 anni sono state la sua unica realtà. Sopra di lui un piccolo firmamento di timer da cucina che ticchettano il tempo del ricordo.
L’attore, il bravo Carmine Maringola è legato a tre ancore sospese su una struttura metallica che rovesciano l’alto e il basso di cielo e acqua.
Come un burattino il mozzo è mosso dalla passione sfrenata per le onde e al tempo stesso tira i fili dei personaggi cui dà vita. Ci racconta le meraviglie che ha visto in mare: o’ pesce palla ca dintra d’isso teneva futuro e passato, il polpo arlecchino coi tentacoli ‘i tutti i colori e n’iceberg, ca si scioglieva in lacrime di cristallo dint’all’abisso
‘O Spicchiato canta Maruzzella a squarciagola sulla prua della nave ideale, e la dedica al suo grande amore: il mare. E per non lasciarlo mai si trasformerà in una statua, come una polena.
C’è un po’ di ripetitività nei movimenti del protagonista, un po’ Pulcinella un po’ Totò, una certa insistenza nel continuo balletto tra i personaggi.
Ma c’è tanta poesia.  Quanta ce n’è nel mare.
Anche ne Il castello della Zisa, capitolo dedicato alla malattia, c’è un problema di vista: Simone (Onofrio Zummo), nel suo pigiama azzurro pieno di buchi, è immobile. Sta seduto sopra una seggiola, indifferente a qualsiasi stimolo esterno, anche il più strano. Non vede al di fuori dei suoi sogni.
E’ curato, accudito, lavato, da due suore (Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier) che non ci parlano ma comunicano fra loro in un continuo e concitato sussurro volutamente inintelligibile e perfettamente in sincronia. Le due attrici si muovono all’unisono con la perfezione di una partitura fatta per i corpi.
Mentre una luce di taglio illumina quattro croci bianche che pendono dall’alto, ognuna appesa ad un nastro ritorto, che si srotolano rapidissime, girando vorticose come ali di colibrì, Simone improvvisamente si sveglia e assistiamo al suo ritorno alla vita. Dalle poche parole di questo racconto capiamo che si è “incantato” quando l’hanno spodestato dal suo quartiere, la Zisa. Lì difendeva il castello e proteggeva le principesse con maschere di drago.
Il risveglio di Simone è gioioso, vitale, incontenibile, confuso, ironico e anche doloroso, sentiamo il suo urlo eccitato fino a quando la melodia di due bambole rosse che girano piano su loro stesse lo riporta dentro al suo sonno.
La lentezza del sonno è la stessa della vecchiaia, tema dell’ultimo pezzo teatrale, I ballarini, forse il più compiuto dei tre.
Una coppia di vecchi, lui alto e magro, lei bassa e curva, festeggiano un capodanno con la ridicola tristezza di un unico piccolo petardo e di una trombetta colorata. Si ride molto in questa scena, i tempi comici di Elena Borgogni e Sabino Civilleri sono ben misurati.
Come per le prime due parti, anche qui i ritmi sono alternati: si parte piano, tra i gesti quotidiani di una vita comune, colpi di tosse, pillole da prendere e poi lei si avvicina ad un baule, unico oggetto in scena, in cerca di vecchi oggetti, e trova un carillon, che suona una musica ricordo di gioventù.  Da qui, i due ripercorrono, senza parlare, la loro vita a ritroso, ballando a perdifiato sulle mille musiche del loro passato (Il ballo del mattone, Fatti mandare dalla mamma, I vatussi…), si spogliano un po’ per volta dei loro abiti da anziani per rivestire i leggeri prendisole di ragazza e le sgargianti camicie da giovinotto, fino al velo da sposa. La donna, poi, finita la musica, lo ripone nel baule, riprende la lentezza e la maschera della vecchiaia e mentre il marito scompare lei rimane sola. Seduta su quel baule.
C’è malinconia nel finale, ma la vita dei due “ballarini” è stata la più musicale, la più ricca, la più divertente.
Emma Dante stavolta ha abbandonato i temi foschi delle violenze familiari, la cupezza cruda della vita sopraffatta dal bisogno. Si sente prepotente la forza dei corpi, in questo spettacolo, che diventano strumento vivo e spontaneo di narrazione.
La poesia del corpo si è vista anche nell’emozione un po’ tremebonda della Dante, uscita sul palco a ringraziare pubblicamente Sisto Dalla Palma, figura tanto importante per la sua carriera.
Nella Trilogia la regista siciliana ha messo vita, allegria, forza. Poche parole. E molti sogni.

Sabina Guzzanti (Draquila/L'Italia che trema)

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

"La paura siCura", regia di Gabriele Vacis

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Wonderland: Matthew Lenton (Le Nouvelle Ecole des Maîtres)

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Paolo Rossi e la Fiat di Pomigliano

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Contemporanei scenari

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Videointervista a cura di Erica Bernardi e Francesca Sacco

Speciale Mittelfest 2010: Muta Imago

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Speciale Mittelfest 2010: Delitto e Castigo con Diego De Brea

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Speciale Mittelfest 2010: Pino Petruzzelli

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Willy Ronis. Il fotografo-poeta "umanista e comunista"

willy-ronisMARIA CRISTINA SERRA | “La fotografia è l’emozione. Io ho la memoria di tutte le mie foto. Loro formano la trama della mia vita e talvolta mi danno il senso del trascorrere degli anni”. Così diceva il fotografo “umanista” Willy Ronis, cui il Museo della Monnaie di Parigi, sul lungo Senna, a due passi da Saint Germain des Près, dedica una retrospettiva

E’ “uscito di scena” proprio l’anno prima che la sua Francia gli dedicasse, come regalo di compleanno, una grande mostra retrospettiva per i suoi 100 anni. Se n’è andato discretamente, come aveva vissuto, chiudendo per sempre la tendina del suo obiettivo magico sul mondo, sulla realtà della gente semplice che sapeva vivere delle piccole gioie, che soffriva anche, ma lottava e sognava un futuro migliore. Un tuffo nel passato, questa mostra dedicata al “poeta dell’impegno”, il fotografo “umanista” Willy Ronis, al Museo della Monnaie di Parigi, sul lungo Senna a due passi da Saint Germani des Près, per riflettere sul presente, attraverso uno “sguardo” che sapientemente sa cogliere il sublime e l’imprevisto che la quotidianità nasconde.

Piccoli racconti di ogni giorno, che svelano significati esistenziali universali raccontati con semplicità, ma con perfetta geometria, la fusione delle ragioni del cuore con l’armonia del rigore stilistico.

“La fotografia è l’emozione”, diceva Ronis, scomparso a 99 anni l’11 settembre del 2009. Ed emozione, stupore, senso di appartenenza ad una memoria collettiva senza tempo, sono le sensazioni che si avvertono, percorrendo le piccole sale della Monnaie, che ha voluto onorare la lunghissima carriera artistica di questo “suo figlio”, nato il 14 agosto del 1910 da una famiglia di immigrati dall’Europa dell’Est, rifugiata a Parigi per scampare ai pogrom contro le comunità ebraiche.

La mostra dedicata ad uno dei rappresentanti più significativi della cosiddetta “fotografia umanista” (resterà aperta fino al 22 agosto), rappresenta una parte minima dell’immenso lascito di negativi, documenti, album e stampe, che Ronis donò allo Stato francese, frutto di 70 anni di attività. In 150 foto, suddivise per 5 sezioni, si possono conoscere i temi ricorrenti nella vita professionale di Ronis come: la vita di strada (soprattutto a Parigi), il mondo del lavoro e le sue lotte sindacali, i viaggi, i nudi femminili, l’intimità della vita familiare ed amicale.

“Io ho la memoria di tutte le mie foto. Loro formano la trama della mia vita e talvolta mi danno il senso del trascorrere degli anni”, raccontava Willy Ronis e sosteneva che “loro si rispondono, conversano, tessono i loro segreti”.

Figlio di un fotografo, che gestiva un piccolo studio a Montmartre, e di una pianista che arrotondava il modesto menage familiare impartendo lezioni di musica, Willy crebbe in una stimolante atmosfera artistica. Deciso a diventare violinista, studia musica fino al 1932, quando a causa di un’improvvisa malattia del padre deve sospendere gli studi per mandare avanti la “bottega” di fotografo. Diventa così un fotografo per “necessità, per un caso della vita”, come amava ricordare.

Ma la passione per la musica, il suo innato senso del ritmo e della composizione armonica guideranno il suo occhio dietro l’obiettivo a trovare sempre un’immagine “che sia un accordo riuscito”, creando delle vere e proprie “melodie per immagini”. Spiegava, infatti, Ronis che una delle sue fonti d’ispirazione costante era J.S. Bach per il rigore quasi matematico delle sue composizioni, l’arte della “fuga” e quel del “contrappunto”.

La celebre foto del 1959 delle Fondamenta Nuove a Venezia, scattata per la rivista Vogue, e che ritrae una bambina mentre attraversa leggera una sottile passerella, quasi sospesa sull’acqua, appena appoggiata sulla sponda, con i paletti in controluce e le architetture sullo sfondo, appare come una partitura musicale. Gli Amanti sul Pont Neuf di Parigi, del 1955, stretti l’uno all’altra, sembrano un canto a due voci. E così ancora la foto degli Amanti del Pont des Arts, del 1957, ripresi stretti in un tenero abbraccio, sotto la luce bianca dell’inverno, adagiati a bordo di una barchetta ormeggiata alla banchina della Senna, con il ponte che traccia un arco sullo sfondo, dà la sensazione di una lieve melodia da sottofondo.

Più potenti, invece, le note che accompagnano l’immagine degli Innamorati della Bastille (1957), in primo piano, appoggiati alla balaustra con i tetti di Parigi ai loro piedi, che abbinano l’amore al senso di vertigini. Come fosse di una suonatrice d’arpa è l’immagine che trapela dal ritratto del 1950 di un’operaia tessile, in una fabbrica dell’Alsazia (Haut Rhin), chinata davanti al telaio meccanico, intenta con delicatezza a riannodare un filo che si era staccato dal’immensa matassa bianca. “Era molto bella e il suo gesto pieno di grazia”, scriveva a questo proposito W. Ronis, ” e io pensai immediatamente ad un’arpista davanti al suo strumento”. Il mondo delle fabbriche, del lavoro, delle lotte operaie, dei minatori e delle condizioni disumane cui erano sottoposti, è ampiamente rappresentato nell’esposizione.

Non c’è mai pietà o commiserazione, anche nelle immagini più crude, come quella del minatore affetto da silicosi, foto del 1951, ritratto dietro ad un vetro col viso emaciato, gli occhi lucidi e lo sguardo perso, rivolto verso un infinito interiore, l’ennesima sigaretta in mano. Un “vecchio” di appena 47 anni, che si avvia con dignità e rassegnazione a morire da lì a pochi mesi. Il rispetto dell’umanità e la volontà di documentare guidano sempre l’occhio attento del grande fotografo “umanista e comunista” Willy Ronis, come lui stesso amava definirsi: ” Non ho mai resistito all’appello delle persone che vivono penosamente del loro lavoro. Ho frequentato molto l’ambiente e le associazioni operaie e, poco a poco, mi è venuta una coscienza politica. Senza dubbio le mie convinzioni trasparivano dalle mie foto”.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=d7mdFiSrY9Q]