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domenica, Dicembre 22, 2024
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Iodice, un’Italia di genitore in figlio

iodice-smallRENZO FRANCABANDERA | Se esiste una questione cruciale per chi indaga sul teatro, essa pertiene eminentemente all’ambito della solitudine. Questo sentimento è uno di quelli cui il critico maggiormente deve farsi avvezzo, in ragione dell’ovvia e in fondo anche naturale propensione dell’uomo a stabilire rapporti che possano minare l’indipendenza di giudizio.
Non è raro “prendere a cuore”, in quel senso etimologico che riguarda il voler bene, lo sviluppo di un momento empatico con chi fa arte, e in modo precipuo con chi lo fa in modo serio, con accanimento quasi animale, la cui ragione profonda non risiede né solo nell’indole nell’artista né nella sua intelligenza creativa, ma in quel sistema di ricambio emotivo che spesse volte finisce per indurre una sorta di distorsione visiva, una propensione a calibrare in forma imprecisa il proprio giudizio.
Davide Iodice è artista che nella Napoli dell’impegno teatrale, del rapporto non “raccomandato” ma vivo, militante, con il fare scena, è riconosciuto come intelligenza capace di spunti di creatività e innovazione sul linguaggio non banali, e comunque mai superficiali.
Mi accosto dunque con serietà al sentimento non solo di distacco ma anche di dissenso che invece in me ha generato la creazione artistica che Iodice ha proposto durante il Napoli Teatro Festival, cercando anche di capire le ragioni per le quali diversi colleghi con cui pure mi sono a lunghissimo, e con un calore raro, confrontato su quello che ho visto, si sono detti invece colpiti positivamente da quanto visto.
“Un giorno tutto questo sarà tuo”, proposto al San Ferdinando nel primo week end del festival, è un lavoro che vuole indagare la storia d’Italia, o forse meglio la società italiana dell’ultimo secolo, senza nessuna velleità di completezza ma cercando di portare in maggior definizione quei fili, quei legami che infatti non a caso a più riprese ricorrono proprio materialmente in scena, ricercandone i bandoli, fra grandi balzi nei decenni, in alcuni episodi e momenti chiave della vicenda collettiva.
Iodice sceglie così l’Italia che si fa unita, quella delle guerre mondiali, della migrazione, del Sessantotto, di Piazza Fontana, quella delle lotte operaie, e quella gravida di speranze per un futuro incerto, che deve ritrovare pace, spesso senza riuscirci. Iodice affida la chiusa dello spettacolo alla figura di Carlo Giuliani e a quel sentimento di protesta che serpeggia nel nostro tempo e che, dal nostro punto di vista, legge la realtà ma non centra l’obiettivo perché si fa protesta dal piglio estremo, finanche solitario, perché continua a scegliere, forse, la via della violenza, dello scontro.
La successione fra epoche è raccolta nell’intimo del rapporto filiale, cui questo lavoro concede il massimo spazio, portando in scena le madri e i padri degli attori, esito di un laboratorio sul passaggio generazionale. Questo esperimento di teatro-realtà in fin dei conti riesce, non trasforma il condensato scenico della ricerca in episodi banali dal sapore catodico.
Ma se questo rischio viene abilmente evitato, e così pure tutte le sue più spiacevoli e banalizzanti conseguenze, il lavoro mostra invece più debolezza in alcuni contrappunti didascalici, in scelte di immagine che non trovano vera e profonda spiegazione.
Se emblema del legame filiale è proprio il filo che annoda le vicende, questo elemento viene declinato in tutte le sue possibili forme e se alcune risultano di un certo interesse, altre sono totalmente superflue e pertengono all’ambito dell’inutile scenico, se non in alcuni casi e con il nostro metro estetico, del brutto.
Così anche questa sorta di mamma Italia, che piange sul cadavere di Carlo Giuliani che viene ricordato negli ultimi istanti dello spettacolo per la sua sfortunata fine durante le manifestazioni per il G8 di Genova, non convince.
Si, il rapporto conflittuale fra genitori e figli può trovare sicuramente in quell’elemento di contestazione una sua lettura, ma onestamente mentre tutti gli altri passaggi storici vengono letti dall’esterno, in forma mediata, raccontata, quest’ultimo episodio, ricordato invece con il suo risvolto più mediatico e televisivo, impoverisce, fa didascalia.
La sensazione di questo spettacolo è che in diversi momenti Iodice avrebbe potuto fermarsi prima, alleggerire, dire meno. Invece, in questa impossibile tensione di onnicomprendere e far sintesi di una vicenda nazionale, la semplificazione per un verso e l’horror vacui dall’altro finiscono per nuocere in modo a tratti feroce. E’ vero che leggere il presente è arte difficile, ma come diceva Calvino, raccontare bene in sintesi è molto più difficile che farlo in modo analitico. Iodice su questo lavoro, che è ancora in forma di studio, ha da alleggerire le ali del poetico, che rischia diversamente di non riuscire a prendere il volo.

Disegno di Renzo Francabandera

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Il teatro educa: incontri del fare e del pensare

Report-Teatro-Educazione_2-300x235ANDREA CIOMMIENTO | Nei maggiori centri teatrali europei l’Educational Theatre (o EduTheatre) si fa garante istituzionale di percorsi formativi, focus group propedeutici alla visione, esperienze laboratoriali e allestimenti teatrali con vocazione pedagogica (solo per citarne alcuni: il Globe Theatre e il National Theatredi Londra, lo Schaubühne di Berlino, ilThéâtre de la Ville di Parigi).

Il loro punto di partenza e di arrivo non è solamente il destinatario bambino o ragazzo ma una più articolata idea di educazione contaminata alle espressioni artistiche. Da tempo ci chiedevamo quale fosse l’istantanea panoramica di un teatro concesso all’educazione nel nostro Paese. Così, motivati dalla ricerca di azioni sceniche portatrici di senso, abbiamo seguito le tre giornate sul Teatro del Fare e del Pensare a Cascina (vicino Pisa)un’occasione propizia per riflettere sul legame tra teatro e arcipelaghi educativi attraverso il coinvolgimento di artisti, docenti, educatori, operatori sociali e culturali. La Fondazione Sipario Toscana, ente promotore dell’iniziativa, ha proposto una ricca programmazione d’incontri e workshop tra cui Sguardi sulla visione e la bellezza insieme a Fabrizio Cassanelli (regista e attore/Fondazione Sipario Toscana), Giorgio Testa (pedagogista) e Renzo Boldrini (regista e attore/Giallo Mare Minimal Teatro); Interazioni sulla trasformazione non–violenta del conflitto interculturale con Gigi Gherzi (regista e attore) ed Enrico Euli (filosofo e psicologo/Università di Cagliari); Emozioni sulla creatività e poetica del corpo con Chiara Pistoia (attrice/danzatrice), Serena Gatti (attrice), Piera Principe (danzatrice) e Mario Piatti (pedagogista). La Fondazione ha comunicato il rilancio nazionale della regione Toscana come laboratorio esperienziale del teatro per le nuove generazioni, rimettendo nuovamente al centro il confronto sulle metodologie e le pratiche teatrali per l’educazione, la ricerca di una relazione autentica tra teatro e ambienti socio-educativi e la costruzione di un orizzonte culturale e progettuale condiviso.

Per stabilire la nostra riflessione, qui e ora, sentiamo la necessità di ricordare quel che unisce pedagogia e teatro ripartendo dall’inizio, seppur in forma sinottica. Il secolo delle ansie pedagogiche (il Novecento) ha fatto evolvere memeticamente il teatro e l’educazione grazie ad artisti e pedagoghi come Copeau, Stanislavskij, Mejerchol’d, Decroux, Laban, Grotowski, Brook, Dewey, Montessori, Rodari, Piaget. Tra questi, lo studio di Célestin Freinet ha portato alla nascita del Movimento Cooperazione Educativa (1951), ottenendo risonanze italiane attraverso le ricerche sulla soggettività di Mario Lodi e le attività parascolastiche di Bruno Ciari fino all’approccio educativo connesso alla maieutica socratica (l’arte del tirar fuori) portato avanti da Danilo Dolci. Saranno gli anni Settanta i veri testimoni del congiungimento ufficiale tra pedagogia progressista e rinnovamento teatrale con la scoperta di teatri al di fuori del teatro stesso (in spazi nuovi e aperti) e la conseguente nascita del movimento torinese dell’animazione teatrale (animation théâtrale) grazie alle iniziali visioni profetiche di Franco Passatore, Gianrenzo Morteo e Remo Rostagno. S’intravede un teatro pronto ad uscire dalla scena e ad entrare nella vita sviluppando una pedagogia e una didattica dell’educazione come attività creativa di gruppo e uso attivo del proprio corpo (contro un’educazione rigida e nozionistica che non vede l’integralità della persona). Una corsa a ostacoli, certamente, sorretta dalla voglia di dare un senso a questa complessità, una scoperta pioneristica fondata sulla progettazione, documentazione e ricerca di ogni spazio abitato dai ragazzi: dalle palestre sorde agli androni delle scuole fino ai cortili della città urbana e suburbana. Un traguardo raggiunto con il riconoscimento dei teatri stabili d’innovazione per le nuove generazioni, un protocollo d’intesa ministeriale e la creazione di un Centro di Teatro Educazione promosso dall’Ente Teatrale Italiano (ETI) del Ministero della Pubblica Istruzione, con specifico interesse a tre principali aspetti educativi: la pratica teatrale nella fase dello sviluppo evolutivo nella scuola, il significato dell’essere spettatore e la metodologia della didattica della visione (sviluppata negli ultimi quindici anni a Roma, a Firenze e in Friuli). Un’alleanza amputata istituzionalmente con la soppressione dell’ETI nel 2010 e la conseguente dissoluzione del CTE. E adesso, come costruire il futuro o quantomeno immaginarlo?

Le tre giornate di Cascina hanno ristabilito la profondità del punto focale: recuperare la sirena degli anni costruiti insieme pensando al teatro come a un servizio pubblico, a stretto contatto con gli insegnanti e gli ambienti socio-educativi. Un’eredità che serve, probabilmente, per fare chiarezza: pedagogia, teatro, animazione sociale e teatrale, insegnamento, didattica della visione, esperienza laboratoriale, metodologia, rigenerazione della scuola, legittimità istituzionale, metodi attivi… Consideriamo questi giorni un prezioso momento di condivisione e crescita, non d’inizio ma di proseguimento, con la speranza che il Teatro Educativo (Educational Theatre) non diventi un’ulteriore etichetta di mercato ad autocombustione pronta a cadere giù nella fossa, rigurgitando se stessa o nel migliore dei casi i suoi gemelli omozigoti. Auspichiamo altresì un’attuazione autentica non solo basata sulla logica dello scambio di spettacoli e di progetti stantii tra centri di settore ma piuttosto sulla garanzia di una contaminazione e di un’educazione rivolta all’ascolto reale del contemporaneo (senza troppe congetture teoriche di origine sociologica), avendo certamente a cuore la responsabilità educativa (paritetica) nei confronti delle nuove generazioni.

Vi presentiamo i due contributi video pubblicati sul canale web Arte&Culture Live :

Il teatro educa con interventi di Fabrizio Cassanelli, Loredana Perissinotto, Giorgio Testa, Enrico Euli, Guido Castiglia, Gigi Gherzi, Mario Bianchi, Piera Principe.
Link: http://www.youtube.com/watch?v=oToOdSRgMWM

Intervista a Donatella Diamanti, nuovo direttore della Fondazione Sipario Toscana – Teatro Stabile d’Innovazione, Cascina (PI)
Link: http://www.youtube.com/watch?v=tbjb198TMgw&feature=plcp

Si ringrazia per il supporto ai contenuti scritti: Fabrizio Cassanelli, Giorgio Testa, Mario Bianchi, Loredana Perissinotto.

Il teatro educa: incontri del fare e del pensare (Fondazione Sipario Toscana)

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Donatella Diamanti, direttore Fondazione Sipario Toscana

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Se a scuola il teatro greco non è solo sulla carta

BRUNA MONACO | Si è da poco concluso a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il XVIII Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani che, insieme alla stagione del teatro greco di Siracusa, è un asse portante dell’attività della fondazione Inda. Novantadue le scuole che quest’anno sono state coinvolte nel progetto, per lo più secondarie superiori, ma anche qualche classe elementare. E ben quattordici venivano dall’estero: Francia, Belgio, Russia, Lituania, Grecia e altre.
Gli attesissimi Inni bacchici e danze tribali dei ragazzi della Tanzania non hanno purtroppo lasciato l’Africa per problemi burocratici, ma per l’anno prossimo sono previste scuole e spettacoli da oltre oceano. Una festa di portata internazionale in espansione, quindi, e non solo geografica: dai sei giorni della prima edizione nel 1991, si è passati oggi a quasi un mese di festival: dal 9 maggio al 4 giugno. E il ritmo è sostenuto: tre, quattro, a volte cinque spettacoli al giorno, in un teatro antico, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, che non ha nulla da invidiare a quello di Siracusa.

Una grande esperienza per questi giovanissimi appassionati di classicità e teatro che, dopo un anno di laboratorio e ore di prove rubate non alla scuola ma al proprio tempo libero, possono infine mostrare le proprie creazioni davanti a un pubblico di quasi professionisti: coetanei e “colleghi” con cui condividono ansie e, soprattutto, passione. Qui non si tratta del saggio finale davanti a parenti e amici, si tratta di misurarsi con estranei – studenti, turisti, operatori – e con la monumentalità del teatro classico. Per scoprire che, dietro la patina di noia e distanza che ricopre tragedie e commedie, c’è il gioco dei giochi: il teatro. E che quel gioco aggrega e accresce come nient’altro, è scuola nel senso più alto del termine: un luogo di crescita e condivisione.
Nei vari spettacoli, gli approcci pedagogici e artistici si intrecciano secondo le più diverse combinazioni e con risultati a volte sorprendenti. La qualità media è infatti molto alta e in alcuni casi, addirittura, le proposte non sfigurerebbero sulle scene di norma calcate dai professionisti. Peccato che il passaggio dall’essere attori a spettatori è senza mediazione, e sia mancato un momento, uno spazio in cui i giovani si potessero riunire e riflettere insieme sull’intercambiabilità del ruoli del teatro: dalla scena alla platea, in ogni caso parte essenziale dell’opera teatrale. Al gioco, insomma, è mancata la sua controparte fondamentale: la riflessione sul gioco stesso, i modi di attuarlo e di assistervi.
Resta però che il Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani e le iniziative analoghe meriterebbero più attenzione da parte degli addetti ai lavori, di studiosi e ricercatori. Da una realtà teatrale considerata marginale, come appunto è quella del teatro nelle scuole, c’è tanto da imparare. Per esempio, che l’arte non è detto che nasca sempre dove la si aspetta, ovvero dove si afferma di produrla. E che l’innovazione è impossibile senza vitalità e desiderio di rivolta, qualità facili da perdere nella vischiosità del sistema, eppure ancora intatte in quei ragazzini che per la Morante avrebbero salvato il mondo. Sarebbe salutare uscire un po’ dall’asfissia, dal gioco di specchi artisti-produttori-critici, e tornare alla fonte: al rapporto col pubblico. E quale pubblico migliore degli studenti che, se anche ci ostiniamo a non considerare come attori sulla scena del presente, lo saranno di sicuro su quella di domani?

Luca Dini (Pontedera Teatro)

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

L’Hamlet di Lenz Rifrazioni

ofelia lenz hamletRENZO FRANCABANDERA | La ripresa dell’Hamlet di Lenz Rifrazioni è a suo modo un evento. Dopo gli allestimenti alla Rocca dei Rossi di San Secondo (2010) e alla Reggia di Colorno (2011), Lenz ha riproposto la sua rilettura del classico di Shakespeare diretta da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, nell’ultima settimana di maggio all’interno della stupenda cornice del Teatro Farnese di Parma. Con cadenza annuale, dunque, questo itinerario esperienziale porta gli spettatori all’interno di un percorso-confronto con l’altro da sé e con il sé fragile che con più difficoltà accettiamo. Il cuore di questo lavoro, persino della stesura drammaturgica e della più profonda intimità che l’allestimento emana, è dovuto alla partecipazione, in qualità di attori, di alcuni degli ospiti della Comunità Terapeutico Riabilitativa, per un’esperienza iniziata oltre dieci anni fa in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Parma.
Gli attori “sensibili” sono Liliana Bertè, Franck Berzieri, Giovanni Carnevale, Guglielmo Gazzelli, Paolo Maccini, Luigi Moia, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Varoli, Barbara Voghera.
Fin dalla scalinata d’ingresso lo spettatore viene condotto fra video installazioni e momenti recitati attraverso una sorta di amletica via crucis, dove perfino la crocifissione trova esplicita menzione. Il Teatro Farnese, i suoi anfratti, le bellissime sale del palazzo che lo ospita, sono un luogo all’interno del quale il recitato riesce a sospendersi in epifanie dell’irrisolto, dove mai quello cui si assiste chiude o completa alcun concetto, lasciando un sentimento di sospensione onirica, tanto che l’essere o non essere arriva alla fine, quasi a confermare lo stadio intermedio, il dormiveglia dell’anima cui tutto si ispira, quel momento ipnotico capace, a volte, di regalare intuizioni, premonizioni, a farsi deposito di saggezza ancor più assoluta, proprio in quanto non decodificata con il sistema di valori del consesso sociale, ma al bordo del sensibile umano, in quel limitare che a volte si avvicina a ciascuno di noi in forma pericolosamente chiara e leggibile.
Il confronto dialettico fra Amleto e Ofelia, prima del suicidio di quest’ultima, è perfetto da questopunto di vista: i due personaggi non sono più emanazione shakespeariana ma per il tramite dei personaggi portano in scena il loro vissuto, le loro solitudini, con lui che, nel condannarla a una vita senza amore con parole “da matti”, risolve il dialogo in una delle vette comiche dello spettacolo, una comicità che nasce proprio dalla constatazione dello stato di emarginazione in cui chi troppo ama, chi troppo sente, finisce per trovarsi, con una beckettiana e comica rassegnazione. L’Hamlet, proprio perché affidato a sensibilità ulteriori, vive la sua forza nei momenti in cui questo concetto diventa cristallino, distillato, in cui la spontaneità non viene incanalata in una volontà d’ordine troppo sovrastrutturato.
Cerchiamo di snodare questo punto in modo il più dettagliato possibile, perché in questo si risolve il nostro giudizio di merito sull’operazione artistica. Concettualmente la stessa è intrinsecamente legata ad una lettura quasi platonica, che prende solo a pretesto il testo shakespeariano. Supponiamo che l’obiettivo dell’operazione sia proprio quello di indagare forza e fragilità del vivere per il tramite dell’opera teatrale, capace di farsi incarnato nel corpo di una persona con sensibilità psichica più accentuata. Maria Federica Maestri e Francesco Pititto paiono, infatti, voler spingere chi percorre questa simbolica processione, dallo stato di coscienza all’incoscienza del sè, ricorrendo a quella sorta dottrina della reminiscenza di cui Platone parla nel Menone, per arrivare a un interrogativo più dilaniante sul senso del vivere, del morire e del transito di sentimenti che ci attraversa.
L’imperfezione con cui, fin dall’inizio dello spettacolo, siamo costretti a confrontarci, diventa quasi rovesciamento di un ideale estetico e di ragionamento, che è quello del mondo “fuori”, ma in grandissima parte anche di quel mondo all’interno del quale la rappresentazione stessa viene svolta, la Pilotta, appunto. In non poche scene, come quella ai piedi della statua antica, infatti, il tema della reminiscenza dell’assoluto e della sovversione dell’ideale estetico trovano estrinsecazione. Sono i punti in cui l’imagoturgia di Pititto risolve meglio il dilemma di Amleto che cerca l’idea di un sé oltre la pazzia, come possibile condizione di sonno, del sogno. L’assoluto pare qui essere nella coincidenza degli opposti, come quando ai piedi della statua di prassitelica ispirazione, quasi si addormenta uno degli interpreti della casa di ricovero, con il suo fisico imbelle, dilaniato dall’adagiarsi giorno dopo giorno sulle palpebre del peso del farmaco sedante.
E’ quando lo stridore, l’incrocio concettuale, viene più naturale che il percorso iniziatico dello spettatore trova i suoi momenti più alti, quando il chiasmo lega mondo reale e universo del sonno/sogno con ideale estetico e sentimento dell’imperfezione. Quando invece ricerca lo stesso risultato con mezzi più artefatti, come nell’insistito di dialogo con i video da parte degli attori (a volte con l’artificio del fuori sincrono), l’operazione, proprio perché si spinge alla ricerca di una sublimazione estetizzante del termine imperfetto del chiasmo, sbilancia il delicatissimo equilibrio della struttura ad X, dove ogni polo dell’incrocio concettuale deve essere puro, assoluto, incontaminato.
Capita così di avvertire il peso di una certa lunghezza, di una costrizione ad alcuni momenti fruitivi che potevano essere risolti in maniera più sintetica. Invece la sosta, la stasi, la stazione della via crucis, trasformano in alcuni momenti l’Hamlet da operazione di risveglio platonico in ricerca di un liturgico teatrale neo-pitagorico e accessibile a pochi, di cui non sono più incarnazione gli interpreti e la loro imperfetta e al contempo assoluta elementare saggezza, ma i registi, con la loro costruzione sovrastrutturale.
E se è normale che questo in fondo un po’ avvenga in ogni creazione d’arte, è pur vero che, nel meno, questo lavoro potrebbe trovare ancor di più, con qualche accortezza maggiore dal punto di vista tecnico sull’impianto di amplificazione sonora non sempre all’altezza nella regolazione dei volumi e delle distorsioni, e dal punto di vista concettuale attraverso l’eliminazione di barocchismi artistici, laddove il livello base è già capace, ha già la potenza di impatto per risvegliare.
Esemplifichiamo, anche in questo caso, con un episodio estrapolato dallo spettacolo, che è proprio quello della morte di Ofelia. L’evento segue l’irresistibile dialogo cui si faceva menzione prima, dialogo di naturalissima e al contempo antinaturalistica semplicità, giocato al bivio fra vero e falso, sulla condizione del disagiato psichico, talmente capace di amare, da rimanere vittima di questo sentimento così distillato. La scena si svolge sul palco del teatro Farnese. Il pubblico è anch’esso sul palco, spalle alla sala. Poi Ofelia, questa anziana attrice, recitando una sorta di straziante Miserere popolato di incubi e creature bestiali, inizia a percorrere la sua lentissima camminata verso il destino, procedendo a piccoli e incerti passi sulla lunga passerella che dal palco la porta in una platea vuota, sgombera di sedie, fin verso l’uscita di scena, che avviene proprio dalla porta di ingresso in platea. Provate a immaginare questa piccolissima figura, sovrastata dal barocco del teatro, con il pubblico che la segue con lo sguardo allontanarsi, mentre la sua voce amplificata continua a portarci nelle orecchie la paura del buio, dei coccodrilli. Ecco, in questo, già di suo, ricchissimo e potente insieme di simboli, lo spettatore deve distogliere il suo visus dalla vicenda, richiamato da proiezioni che in fondo nulla tolgono e nulla aggiungono a quanto già di suo, fortemente sta avendo luogo.
L’Hamlet può trovare un più fecondo terreno di approfondimento per i prossimi allestimenti, ove, a nostro avviso la regia fosse capace di riequilibrare il chiasma, lasciando all’imperfetto di mostrare la sua immensa potenza nell’incerta camminata, senza costringere a vederla e rivederla ripresa da altri obiettivi e proiettata con dispositivi tecnologici finanche alle nostre spalle. In questo horror vacui risiede una debolezza ancora irrisolta dell’impianto artistico nella sua attuale versione. Di fronte alla potenza dell’imperfetto, che deve introdurci al sogno e innescare il percorso della reminiscenza, per trovare l’assoluto attraverso la perdita di coscienza del sé istituzionale, guidata dal passo malfermo di un essere fragile e spaesato, è ovvio che distogliere in quello stesso momento l’attenzione dal processo di abbandono del nostro inconscio con il ricorso a mezzi sofisticati e tecnologici può finire per essere un’infrazione grave di quell’ideale prassitelico di misura che trovava nel motto «nulla di troppo» (medén ágan) la sua sintesi perfetta.

Disegno Renzo Francabandera

Claude Debussy, in mostra a Parigi fra suoni e visioni

manifesto-mostra DebussyMARIA CRISTINA SERRA | La musicalità infinita delle iridescenti Ninfee di Monet, pregne di luce riflessa nella superficie a specchio degli stagni, è lo sfondo sublime nel quale immergersi, accompagnati dalla fluidità delle note di Claude Debussy. Un viaggio attraverso una rassegna che ci svela l’intreccio fra percezione visiva e uditiva, in un’unica trama, senza confini di luoghi e di tempi, allestita al Musée de L’Orangerie (fino al 16 Giugno).

Per il 150° anniversario della nascita del “più francese” dei compositori, la mostra “Debussy, la musica e le arti”, curata in maniera strutturalista da Guy Cogeval, Jean-Michel Nectoux e Xavier Rey, restituisce il complesso itinerario artistico del grande musicista, legandolo a quello dei numerosi esponenti dell’arte con cui venne in contatto. Si è, inoltre, ricreata l’atmosfera estetica di un’epoca nella quale si respirava l’aria di transizione fra lo stato d’animo impressionista e quello simbolista, la fascinazione dell’Art Nouveau e l’amore per l’Oriente e il Giapponesismo: scenario sfaccettato in cui si libera l‘immaginario del musicista innovatore del ‘900.

Una rassegna di grande seduzione che accosta (in un ambiente tinteggiato di blu profondo e illuminato da luci sapienti e soffuse, in contrasto con la luminosità del Museo) affinità e discordanze, arte e letteratura, accompagnate dal sottofondo melodico di un “sogno a cui sono stati tolti i veli”, inseguito per tutta la vita da Debussy, pervaso dal desiderio di catturare un presente inafferrabile.

Il percorso, attraverso un andamento ad arabesque, è segnato dalle opere di Monet, Manet, Degas, Renoir, Turner, Denis, Bonnard, Redon , Rossetti, Moreau, Klimt, Munch, Gauguin, Hokusai, Whistler, Kandisky; dalle sculture di Camille Claudel che riusciva a trasformare in materia l’anima; dai contributi letterari di Mallarmé, Villon, Valéry,
E. A. Poe e Baudelaire; dalle coreografie del ballerino Nijinsky, che aveva rubato agli uccelli il segreto della leggerezza. Il tutto intervallato con un’alchimia perfetta fra immagini e suoni, con documenti, oggetti, suppellettili, carteggi, spartiti e foto d’epoca, preziosi per ricreare lo scenario storico della Bell’Epoque.

E’un rapporto empatico quello che Debussy stringe con la natura, liberandola dalla staticità delle forme, innalzandola a principio ispiratore, intuendo “la possibilità di una musica costruita appositamente per l’aria aperta, fatta tutta di grandi linee, di audacia vocale e strumentale, che gioca nell’aria libera e plana gioiosamente sulle cime degli alberi”.

Il linguaggio del vento e dell’acqua è colto nelle sue misteriose analogie con le asimmetrie della struttura musicale, rivelando e nascondendo assonanze e dissonanze armoniche, cariche di ovattate sonorità senza regole prestabilite. “Gli accordi devono essere incompleti, fluttuanti, in modo che, sfumando, il tono possa sempre finire dove si vuole, uscire e rientrare dalla parte che si percepisce”, diceva il musicista. E’ nella libertà che la disciplina deve costruire le sue fondamenta, ”sforzandosi”, spiegava Debussy, “di conservare ad ogni timbro la sua purezza, di metterlo al suo vero posto”.

“Dialogue du vent et de la mer”, “Le jet d’eau, “Refletts dans l’eau”, “La mer”, “L’après-midi d’un faune”, suggestivi titoli di alcune sue composizioni, sono la chiave di lettura per penetrare nei tanti mondi sommersi, o in quelli luminosi, al pari delle vetrate delle cattedrali gotiche, e che fanno da eco alle suggestioni evocate dai dipinti in mostra. L’intensità e le molteplici sensazioni, evocate dal mare, sono raffigurate dalle leggere pennellate di Monet, intonate sulle sfumature di bianchi velati di grigio-azzurri e rosa, sotto le cui trasparenze emergono gli spezzoni brunastri delle rocce.
La ”Marina” quieta di Degas scopre un infinito mare immobile: solo un filo netto di azzurro separa il cielo punteggiato di nuvole. La “Baia nascosta tra le dune”, dipinta da Turner nel 1845, avvolta dall’abbagliante luce solare che mischia le forme con dorate evanescenze, scopre grovigli di arbusti che si allungano indistinti, fondendosi con la luce dell’orizzonte.

I colori impastati di luminosità sollecitano Debussy ad allontanarsi dalla scrittura musicale classica, per modellare un nuovo linguaggio secondo un ordine cromatico. L’esotismo e l’audacia di Hokusai gli suggeriscono turbamenti improvvisi come “L’Onda” che si innalza brutale verso il cielo calmo: l’eterna contrapposizione fra lo Yin e lo Yang. Il fragore è riassorbito dal silenzio, dalle pause, dagli accordi slegati, sussurrati. Il “non detto” è cercato da Debussy come “mezzo di espressione per far volare l’emozione di una frase “.
L’impalpabile indefinito che si fa finito nella zona di mezzo fra notte e giorno di Redon, mentre intinge il suo pennello nei colori del silenzio, è speculare ai preludi per pianoforte. La “Notte stellare” di Munch dalle forme incerte, dinamiche, visionarie, si specchia nella scomposizione stilistica di alcuni suoi brani. La “Sala della musica” di Vuillard, satura di colori e di elementi sovrapposti, è una metafora della fluidità melodica nel tessuto orchestrale. Il notturno danzante di H. Winslow della “Notte d’estate” ci lascia una sensazione di vertigine, come se onde sonore riempissero la notte. La bellissima “Marina con vacca” di Gauguin, priva di valori spaziali e ricca di
tinte forti, evoca interruzioni improvvise di armonie, ricomposte in una stesura musicale dalle infinite variazioni. E’ una sinfonia in verde e rosa quella evocata dai “Roseti sotto gli alberi”di Klimt. “Il più ricco insegnamento viene dalla musica”, scriveva Kandisky nel suo saggio “Lo spirituale nell’arte”: “nasce da qui l’attuale ricerca di un ritmo pittorico, di una costruzione matematica astratta; il valore che si da alla ripetizione della tonalità cromatica, al dinamismo dei colori”, che nel “Parco di Saint-Cloud” si diffondono con idilliaca grazia, contrastati ma fluidamente legati tra loro. “Le spiagge dorate” di H. E. Cross, che penetrano in un crescendo di riflessi rosati nel mare di un sereno azzurro, si dischiudono alle sensazioni oniriche, come trasportate dalle note de “La mer”. Al centro di una parete divisoria, fra due ali di capolavori, l’enigmatica “Fanciulla eletta” di G. Rossetti, dallo ieratico erotismo, giocato sui cromatismi degli ocra e dei neri, irradiati di bianco, rimanda al poema lirico che alla fine dell’Ottocento rivelò il temperamento di Debussy. Come l’intermittenza del cuore, di una “Sérénade interrompue”, che lascia sospesi i sentimenti, per decrescere improvvisamente, “La Valse” di Camille Claudel, che nel bronzo insieme ai corpi avviluppati fondeva il suo genio artistico, il vortice della passione disperata per Rodin, il dolore per una “pazzia indotta”, ci appaiono come l’allegoria di un’epoca dorata sotto la quale covavano le contraddizioni di una società, che si stava avviando inesorabilmente verso la catastrofe della Prima guerra mondiale.

Un contributo in francese sulla mostra

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La musica di Debussy
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Il teatro classico oggi a Siracusa

BRUNA MONACO | La fondazione Inda (Istituto Nazionale del Dramma Antico), a un passo dal compiere un secolo di d’età, offre ancora all’accanito e fedele pubblico siracusano, ai turisti e agli amatori, due mesi di teatro classico. Lo scenario è quello splendido del Teatro Greco di Siracusa in cui due tragedie, il Prometeo Incatenato e le Baccanti si alternano tutti i giorni dall’11 maggio al 30 giugno. Tranne i lunedì, in cui è Uccelli, la commedia di Aristofane, ad andare in scena.
Anche la scenografia quest’anno è suggestiva: semplice e imponente, ideata dal vincitore del Pritzker Architecture Prize del 2000, l’inglese Rem Koolhaas. Un enorme disco di legno, a gradinate, uguale per forma e dimensioni all’orchestra, la lambisce obliquamente: i due dischi si guardano come i gusci di una conchiglia aperta che al suo interno, anziché una perla, custodisce lo spettacolo.

Per le Baccanti la scenografia è drammaturgicamente significativa: come in un gioco di specchi, i gradini antichi su cui siede il pubblico del teatro greco di Siracusa si riflettono in questi lignei e moderni pensati da Koolhaas. E fanno eco alle parole famose che Dioniso, fingendo di non essere un dio, pronuncerà nel dialogo con Penteo “io lo vedevo e lui vedeva me”, il momento più meta-teatrale del testo di Euripide, in cui l’autore evoca la relazione fra attore e spettatore, omaggiando il Dioniso cantato dalle baccanti, inventore dell’arte del teatro. Poi la gradinata si apre al centro e un carro carnevalesco che trasporta Dioniso e le sue seguaci esce su un tappeto musicale orientaleggiante che suggerisce il cammino fin qui compiuto dal dio: la Lidia, la Persia e l’Arabia Felice hanno conosciuto le danze e i misteri di Bacco giunto a Tebe, terra natia, per rivelarsi dio agli uomini. La Martha Graham Dance Company è il coro di baccanti. Sono vestite di nero, velate, a lutto un coro muto di prefiche. Dioniso (Maurizio Donadoni), pure coperto di nero da un velo, dà le spalle al pubblico, una maschera sulla nuca, e con voce profonda declama il prologo di Euripide e si presenta. E quando Dioniso (proprio come il dio cristiano) si fa uomo per diffondere il suo culto a Tebe che gli è ostile, Donadoni toglie maschera e velo e ne fa una marionetta che, come un fantasma, aleggia sulla testa del Dioniso-uomo e sulle sue baccanti. Interessante gioco dei contrari: l’uomo manipola il dio e di nuovo richiama simbolicamente al teatro. Calenda tiene fede al testo eppure non lo fa esplodere. La carica omo-erotica e l’effeminatezza che con potenza emergono nell’ultimo dialogo fra Penteo e il dio è qui schiacciata. Lo spettacolo è rispettoso, ma meno viscerale del testo.
Anche l’inizio del Prometeo diretto da Claudio Longhi è molto potente: in abiti irreali, militari oltre il tempo e lo spazio (i costumi sono di Gianluca Sbicca), avanzano Efesto, Kratos e Bia. Due sodati trascinano Prometeo. Gli attori sono bravi, il dialogo è serrato e le musiche, suonate dal vivo, danno un’andatura inquietante, sospesa: una campana scandisce il ritmo, lento, e preannuncia il suono del martello che si abbatterà sulle catene del dio amico degli uomini e odiato dagli dei. Massimo Popolizio, nelle vesti del protagonista, è all’altezza dell’impresa: nel testo eschileo (ma l’attribuzione è dibattuta) la narrazione del mito è preponderante rispetto al conflitto drammatico. Non c’è sangue, né la fanghiglia morale che, nelle altre opere eschilee, raccontano la violenza e la carnalità dell’epoca precedente alla civiltà greca più di questo Prometeo statico, simile a un Cristo che i fedeli vanno a adorare. Rispetto al Prometeo Incatenato è difficile posizionarsi perché è la seconda parte di una trilogia di cui ci mancano l’inizio e la fine. E poi perché è il manifesto di una società nascente, un mito di fondazione. E per questo, forse più di ogni altra opera antica, contestuale al periodo che lo ha generato e difficile da rendere oggi. Che con Prometeo nasca la civiltà anche Longhi lo sostiene, e si serve un’immagine che fa da prologo allo spettacolo: mentre il pubblico cerca posto sul palco c’è un vecchio tornio a pedali e un uomo sporco di terra, dai vestiti stracciati, modella un tocco d’argilla.
Uccelli di Roberta Torre con Mauro Avogadro e Sergio Mancinelli nei ruoli di Pisetero ed Evelpide, è un parziale adattamento della commedia composta nel 414 a.C. da Aristofane che da un lato critica la corruzione della democrazia ateniese, dall’altro mette in ridicolo (e in parte esalta) la volontà di potenza dell’uomo (maschio) che non teme di sfidare neppure il potere degli dei. Come spesso accade alle messe in scena contemporanee di commedie classiche, per attualizzare l’opera o sottolineare come nulla da allora sia cambiato, tanti i riferimenti espliciti alla politica di oggi. E questo, in genere, il pubblico lo gradisce, si sente coinvolto nella vita scenica. Ride, applaude. E, serenamente, dimentica.

La pedagogia del Théâtre du Soleil di Parigi

Soleil_OcchielloANDREA CIOMMIENTO | Superato il confine francese tornano le immagini di un’Italia imbrattata e compressa artificialmente in un incubatore di falsate idee culturali arrese da tempo alla luce mediatica del main-stream. Un buffo bagliore abbacinante ed effimero agli occhi di un artista come Duccio Bellugi Vannuccini, da oltre trent’anni alla ricerca di una verità scenica personale fatta di incontri autentici ed esperienze formative importanti (Pina Bausch,  Marcel Marceau, Étienne Decroux) fino alla convivenza professionale nella casa di Arianne Mnouchkine al Théâtre du Soleil di Parigi. Una comunità teatrale composta da decine di attori e tecnici provenienti da tutto il mondo, dediti alla cura dei propri spettatori e degli spazi della Cartoucherie. Il nostro confronto inizia nel primo pomeriggio, in una pausa del laboratorio sull’uso pedagogico della maschera all’interno del progetto Teatro Comunità di Torino (un percorso ambizioso che avremo modo di approfondire sulle nostre pagine in tempi opportuni). Questo senso di degrado pubblico nel vivere contemporaneo stringe ogni sentimento sul nostro Paese; all’arrivo italiano dell’attore quel che rimane impressa è una panoramica apparentemente distante dal fatto teatrale: la constatazione di una spiazzante “differenza tra una toilette francese e una italiana, pubblica o privata che sia. Qui in Italia già nel primo posto che vai, trovi uno schifo”…

In Francia anche i bagni sono l’eccezione? (Ride) Sappiamo che i francesi tengono molto all’exception, alimentano la cultura nonostante i tagli generali ma il sistema continua ad esserci con solidità. Pensi solamente al sistema d’intermittenza, vale a dire il sussidio di disoccupazione per gli artisti. Questo permette alle compagnie di avere il tempo per fare delle prove, per fare ricerca. In Italia percepisco altro: qui si pensa “facciamo lo spettacolo che venda il più possibile così il Comune ha il suo grande fascio di luce e ci finanzia”, senza ricerca artistica, magari con l’attore o il gruppo più famoso. Così non si alimenta la cultura, non c’è il tempo per rimetterla in questione, non ci si pone delle domande…

Di chi è la colpa? Non credo che la colpa sia dei grandi o piccoli enti di politiche culturali. La colpa è in buona parte degli artisti stessi che non si pongono più domande.

In che modo si è avvicinato al Soleil di Parigi? Ero molto giovane, studiavo nella scuola di Pina Bausch. Avevo un problema al ginocchio e per un periodo non potevo più danzare. Ho saputo che Arianne Mnouchkine dava uno stage, avevo da poco visto lo spettacolo Sihanouk, roi du Cambodge. Lo stage diventò audizione e lì entrai in compagnia.

Arianne Mnouchkine ha inciso molto nella sua ricerca? Il lavoro che Arianne fa al Soleil è in gran parte un lavoro pedagogico di formazione con i giovani attori. Avevo avuto esperienze di formazione artistica con Marcel Marceau, Étienne Decroux, oltre a Pina Baush, esperienze del corpo. Cercavo qualcosa di più teatrale. Il Soleil era ed è una grande scuola di pensiero e di azione nella quale creare un rapporto con il pubblico, un’attenzione al pubblico essenziale per fare teatro. Il lavoro che da anni cerchiamo di fare è quello di riflettere coinvolgendo tutti gli spettatori, senza per questo abbassare il livello a una dimensione televisiva.

La Cartoucherie è la casa del Soleil e di altri sette teatri parigini. Il vostro è un luogo di convivenza comunitaria che si riversa anche nel confronto poetico? In verità il confronto poetico non c’è con gli altri teatri, siamo uniti per far fronte alla città di Parigi che è il “proprietario” del luogo. Noi del Soleil siamo una settantina di persone (circa trenta attori), ci occupiamo di diverse mansioni per tenere in piedi questa grande struttura.

Una struttura enorme… Effettivamente enorme, sì. Non appaltiamo le pulizie a una società. È tutto nostro: noi attori facciamo da mangiare per il pubblico, facciamo le pulizie… È una vera casa per la nostra poetica.

Vi prendete cura in prima persona degli spazi che vivete, questo è chiaro anche nel laboratorio condotto in questi giorni. Si respira una sacralità dello spazio… È un dare valore alle cose e alle persone che vivono il laboratorio. Se uno spazio si lascia trasandato, anche le persone saranno trasandate.

Questa sacralità è alla base della pedagogia che da anni ricercate. Un metodo che segue la stessa profondità di altre esperienze: Bausch, Brook,GrotowskiQueste sono famiglie teatrali: Mnouchkine, Bausch, Brook… Cercano le stesse verità, cercano la stessa poesia in maniera differente e con forme diverse. Con Arianne ho fatto un percorso formativo molto profondo. Questo traspare nel mio modo di condurre un laboratorio: saper ascoltare, avere gli “occhi puliti”, non attraversare la scena senza un senso di sacralità fuori e dentro lo spazio stesso. Certo è più faticoso: ricercare la verità è uno sforzo più grande confrontato alla ricerca di una forma artificiosa. Una voce impostata la troviamo dopo il secondo corso teatrale che facciamo. La ricerca della verità no.

In questa ricerca l’uso della maschera sembra fondamentale… La maschera è come una lente d’ingrandimento. Senza maschera, alla fine di un esercizio puoi dire: “io sentivo questo, sentivo quell’altro”. Invece la maschera o vive o non vive. Tutti quelli che hanno un occhio benevolo lo capiscono subito. Gli altri no.

Come mai? Perché è difficile ammettere che forse “mi hanno detto delle cavolate fino ad ora o forse mi sono sbagliato”. Tutti quelli che hanno l’occhio benevolo, invece, vedono quando esiste o non esiste qualcosa in scena, quando c’è una verità o non c’è. È difficile per tutti, anche per noi. È una fatica quotidiana: dobbiamo trovare la verità per fare arrivare l’altro. Un certo tipo di teatro pensa soltanto alla bella presenza dell’attore. Mi fa piacere ma in scena non voglio vedere questo: voglio vedere Amleto, Agamennone, Tartufo, Pantalone.

La maschera affina l’ascolto e la propria presenza scenica… Ti avvicina al saper ricevere e ascoltare non soltanto un blablabla ma con quale emozione questoblablabla viene detto. È una cosa difficile, solitamente non si fa. Basta andare in un dibattito politico per vedere come ognuno mette la sua pedina senza ricevere e ascoltare. Innanzitutto serve comprendere quale sia il cammino che ognuno può intraprendere. In questo ci aiuta il divertimento: abbiamo la fortuna di lavorare con maschere di commedia. Già solo questo: se metà delle persone lo capisse sarebbe una grande cosa.