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giovedì, Novembre 14, 2024
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L’Argot Studio apre le porte alle nuove compagnie

BRUNA MONACO | Tiziano Panici e Francesco Frangipane: entrambi attori, registi e direttori artistici dell’Argot Studio. A loro è affidata anche la direzione artistica della rassegna di drammaturgia contemporanea intitolata “Argot Off” e che si terrà tra maggio e giugno proprio al teatro Argot Studio. Si tratta di un bando aperto a compagnie appena nate o di recente formazione, composte da giovani (età massima 35 anni) che vogliano mettere in scena il testo di un drammaturgo anche lui giovane e sconosciuto.
È una vecchia vocazione questa dell’Argot Studio, che ha da sempre un occhio di riguardo verso la nuova drammaturgia. Basta guardare il programma della presente e delle passate stagioni per rendersene conto. E contare gli anni di vita della rassegna “Argot Off”: ben quattro, e il segno più tangibile della sua crescita è il numero sempre maggiore di partner che la sostengono, collaborano alla sua realizzazione, credono nel progetto.
Quest’anno fra i partner c’è anche Roma Capitale, e la neonata Casa dello Spettatore (http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=19527) presieduta da Giorgio Testa, che si occuperà di organizzare una giuria popolare che valuti gli spettacoli in concorso e abitui gli artisti, già dai primissimi passi, a dare importanza alle impressioni e reazioni del pubblico, quello vero, dei non addetti ai lavori, quello che va a teatro per divertirsi (anche nel senso brechtiano del termine) e non per “aggiornarsi”. Oltre alla giuria popolare ce ne sarà, ovviamente, una ufficiale (composta da critici ed esperti) che designerà i cinque vincitori.
Alla rassegna potranno assistere tutti, recandosi all’Argot Studio tra il 29 maggio e il 20 giugno: gli spettacoli selezionati (2 spettacoli a settimana per 3 settimane) andranno a formare una vera e propria stagione OFF che farà da appendice alla stagione ufficiale del Teatro.
Per i cinque vincitori, poi, l’avventura proseguirà a Orvieto, al Teatro Mancinelli, dove i lavori saranno valutati da una terza giuria che selezionerà il vincitore finale, il cui spettacolo verrà inserito nella programmazione della stagione 2012/2013 del Teatro Argot Studio.
Insomma, in un momento così difficile per la cultura e in particolare per i giovani, quella che offre il Teatro Argot Studio è un’opportunità reale che le giovani compagnie italiane non possono farsi sfuggire.

Cianciana di Esiba Teatro

cianciana esibaRENZO FRANCABANDERA | La macina ideologica del secondo dopoguerra e tanto parlarsi addosso degli anni Settanta ha probabilmente contribuito a distruggere il valore di molte parole, e la parola proletario è fra queste. Le epoche, le mode, sono indissolubilmente legate all’uso di alcuni vocaboli, di una moda, di certe acconciature. Parrà finanche banale, ma guardare una foto di famiglia di Settant’anni fa riconduce subito ad un altro tempo: magari i baffi e i capelli lunghi dello zio in girocollo, o quelli a spazzola della sorella post punk. O le Timberland del cugino.
Solo i poveri assomigliano sempre a se stessi. La terra, la sua bassezza, che costringe l’uomo a piegarsi, a incurvarsi, a tornare animale, è la vera livella dell’umanità. La terra fa sudare, rovina le mani, ha un profumo e un colore inconfondibili, diversa a seconda che sia secca, bagnata, arida, fiorita, coltivata, incolta.
Cianciana, paesino agricolo di una Sicilia ormai spopolata, è il luogo che la compagnia Esiba sceglie per raccontare la sua storia. Il nostro preambolo vale ad ambientarla e a creare anche un presupposto logico rispetto a quello che, probabilmente, è lo scopo ultimo della creazione artistica. Lo spettacolo incomincia con i tre interpreti in canottiera, proletari che raccontano storie di paese, porgendo la dura storia al pubblico dapprima in modalità frontale, fermi, frammentando il racconto l’uno nella voce dell’altro. Poi la sequenza passa a descrivere il tempo del lavoro: siamo nella campagna Siciliana in un periodo intorno al secondo dopo guerra, alla ricerca dei motivi per l’atavica arretratezza di una terra incapace di ribellarsi. E’ qui che questo manipolo di nullatenenti prova a pensare una rivolta per riprendersi la dignità. Tutto monta, cresce, fino alla repressione durissima.
E’ proprio il postulato che lo spettacolo vuole porre in discussione: in Sicilia la protesta c’è stata. I tempi della riforma fondiaria hanno conosciuto sommosse, occupazioni, scioperi affondati nel sangue, schiacciati nella morsa letale stretta fra proprietà latifondista, la nascente criminalità organizzata e quell’intreccio di interessi gattopardeschi che ha prevalso non per l’ignavia di tutti, ma per la tragica sconfitta dei deboli. Placido Rizzotto e Portella della Ginestra sono forse solo i nomi più conosciuti, quelli che la cronaca e la storia “mediatizzata” ci hanno tramandato. Ma tanti altri sono i nomi, le vite spezzate, chiuse come luminosi ombrelli al termine di una pioggia di repressione.
E’ questo che Esiba Teatro racconta allo spettatore, alternando la cadenza tragica a quella comica con un complessivo equilibrio che si regge su un testo valido (drammaturgia di Milena Viscardi, testi Tommaso Di Dio, Milena Viscardi) e su tre interpretazioni all’altezza. Gli attori/registi Angelo Abela, Marco Pisano ed Eugenio Vaccaro sanno essere di volta in volta parola e gesto con grande naturalezza, intreccio narrato ed inflessione di paese; ricamano tutto attorno a parola ed immagine, accogliendo, in una struttura tutto sommato tradizionale di narrazione, alcuni interessanti inserti di physical theatre.
La trama evita di aprire parentesi scontate e gioca a lambire, regalandoci nel seguito dello spettacolo, le storie borderline degli emarginati costretti ad emigrare. La loro vita, le loro storie. L’industrializzazione, che a Cianciana non arriva, spinge gli ultimi fino alle periferie del nord. E’ lì che, numerosi, li ritroviamo ora con famiglia e figli, altri sono emarginati, dediti agli espedienti che sono a mala pena sopravvivenza. Dura da usare la parola proletario. Ma se la condizione è poco più che quella, e la povertà torna a mordere, forse l’impianto di analisi economica che ne aveva giustificato l’avvento sulla scena delle categorie sociali non deve essere poi tanto obsoleto come in questi ultimi anni si è fatto credere. A coloro a cui, anche oggi, a mala pena restano come ricchezza i figli, la cui forza è nelle braccia, a quegli uomini che Pellizza da Volpedo aveva così chiaramente ritratto, a costoro che nome si può dare?
Ora, e parliamo della realtà, non più della scena, ora che la finta ricchezza degli anni Ottanta e Novanta, che il delirante sogno fuori misura di quell’infame ventennio di illusioni sperequate si dissolve facendo tornare con più chiarezza ad affiorare l’affresco in cui i poveri son poveri e i ricchi son ricchi, ora questo spettacolo parla al pubblico senza sembrare retorica. Anzi, forse il più grande merito di questa onesta e ben costruita prova teatrale è proprio il riuscire a toccare argomenti che hanno a che fare con ciò che è più profondamente e semplicemente tradizione, origine, terra di provenienza, senza ammiccare, senza cercare la lacrimuccia, alternando in modo equilibrato i toni per arrivare a comporre un affresco che è di una terra, della sua gente e pian piano di una nazione, costruita per la gran parte più sulla disintegrazione che sull’integrazione.

Un video promo dello spettacolo
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Viaggio al termine della notte

BRUNA MONACO | Elio Germano, Teho Teardo, Viaggio al termine della notte: una star del cinema e della musica si incontrano per raccontare un capolavoro della letteratura di tutti i tempi. Lo spazio fisico deputato a questo promettente incontro è il teatro, benché il Viaggio al termine della notte di Germano/Teardo, basato sull’omonimo romanzo di Loius Ferdinand Céline, proprio teatro non sia. Lettura scenica musicata dal vivo è la definizione che forse meglio si adatta a questo spettacolo. Gli artisti in scena sono tre: Germano alla lettura, Teardo chitarra e sintetizzatori, e Martina Bertoni al violoncello.
Non ci sono elementi scenografici sul palco, nessuna creazione illuminotecnica, solo i tre interpreti: Elio Germano è sulla destra del palco, seduto dietro una scrivania. Una luce da tavolo si accende quando parla. Quando tocca alla musica e la lettura si arresta, si spegne. Accanto a lui, su una sedia al centro della scena, Teho Teardo, (oltre che interprete, creatore delle splendide musiche). A chiudere il terzetto in riga, la violoncellista Bertoni. Da un punto di vista visivo lo spettacolo è statico, anche più di un concerto. Poco più di quaranta i minuti e nemmeno uno slancio verso il teatro, verso il movimento. Elio Germano di tanto in tanto alza le braccia nell’enfasi della lettura o scaraventa via un foglio dopo averlo accartocciato, ma la carica dello spettacolo è tutta concentrata sul sonoro, voce e musica. E qualche silenzio. A forte discapito della parte visiva.
Si sente la mancanza di una regia, di uno sguardo esterno che avrebbe potuto rendere questa lettura con musica uno spettacolo a tutti gli effetti, riequilibrando le istanze sonore e visive e dando più in generale omogeneità alla performance che, nonostante qualche momento di integrazione fra gli elementi, resta per lo più affossata in un’alternanza tra musica e parlato. Sottolineata e scandita in modo un po’ scolastico dalla luce da tavolo che non può concedere sfumature: o è accesa, o spenta.
La sintesi tra musica e letteratura attraverso il teatro, insomma, è riuscita solo a metà: il sentimento generale del pubblico all’uscita è di aver assistito a un buon concerto. E il capolavoro caustico, folle e contraddittorio di Céline sembra un pretesto, la musa ispiratrice delle musiche di Teardo. Forse perché le pochissime pagine estrapolate sono le più famose e nemmeno le più significative. Oppure perché, per quanto Elio Germano sia bravo, la sua non è certo la voce di Carmelo Bene e nemmeno quella di Roberto Latini. Non riesce ad andare oltre la lettura, una buona lettura, certo. Non penetra le parole, non le disossa fino a trasformarle in qualcosa di simile alla musica. Non si fa, insomma, connettore tra Céline e Teardo e garante di quella omogeneità che manca allo spettacolo.

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Una fabbrica teatrale

ELENA SCOLARI |  Settimo, l’ultima produzione del Piccolo Teatro per la regia e drammaturgia  di Serena Sinigaglia, è dedicato alla fabbrica Pirelli di Settimo Torinese, è stato in scena al Teatro Studio Expo di Milano.

Poche parole, proiettate su un grande schermo nero, ci informano ad inizio spettacolo che le parole che sentiremo sono state tutte pronunciate da operai, tecnici e ingegneri della fabbrica Pirelli di Settimo Torinese nelle interviste raccolte  fino al Gennaio 2011.

Questa dichiarazione crea delle aspettative: ci immaginiamo di assistere ad un affresco molto vivo, pieno dell’esperienza annosa di uomini che hanno vissuto in una realtà di lavoro che ormai poco conosciamo. Invece no. Lo spettacolo gode, soprattutto, di una scenografia molto bella (di Maria Spazzi) che soffoca la sostanza di quello che, a nostro parere, doveva essere il fulcro incontrastato del lavoro: la vita in fabbrica, i problemi degli operai, l’evoluzione di un mondo che in quarant’anni è molto cambiato.

La struttura è quella di una discesa agli inferi dantesca (forse non troppo originale, no?), una coppia modello Dante-Virgilio è la costante di questo viaggio: un’impiegata (una brava Beatrice Schiros) accompagna un giovane (Ivan Aloisio), candidato lavoratore, nei vari settori della Pirelli, qui incontrano gli operai che spiegano, in maniera molto accennata, i vari processi di lavorazione degli pneumatici, come in tante stazioni di una via crucis in fabbrica.

La regia di Sinigaglia è attenta ai movimenti corali, crea quasi una coreografia per queste tute bianche-narratori, ma proprio questa attenzione risulta eccessiva, c’è troppa costruzione, la mano che dirige si sente tanto da non rendere più credibili i personaggi, toglie loro l’autenticità che ci aspettavamo ricomparisse nelle loro parole,  purtroppo invece finiscono per dire cose banali.

Noi non conosciamo il materiale originale da cui il testo di Settimo è stato tratto, può darsi che tutto quanto è detto sia stato effettivamente pronunciato, ma manca il passaggio successivo che un drammaturgo dovrebbe fare in un caso come questo: montare, adattare e plasmare le interviste perché esca ciò che di più interessante c’è e che deve essere evidenziato con sapienza, non basta essere fedeli se si vuole rendere un servizio utile. Non c’è una riflessione, ciò che invece doveva essere lo scopo di uno spettacolo sul lavoro, sulla gente che ha dedicato la propria vita al lavoro, con sofferenza e abnegazione, come oggi non capita quasi più.

Noi spettatori abbiamo, alla fine, l’impressione di un contesto dove sono privilegiati gli aspetti positivi della fabbrica: la solidarietà tra i lavoratori, l’affetto fortissimo che nasce tra persone che passano la maggior parte del loro tempo insieme, la dedizione a svolgere meglio che si può la propria mansione. Sospettiamo, ma è un sospetto terribilmente maligno, che la sponsorizzazione dello spettacolo da parte della Pirelli stessa, abbia condizionato il tono complessivo.

(Sul programma di sala c’è anche un testo di Tronchetti Provera).

Gli attori sono tutti equilibrati su un buon livello recitativo, spinto forse un po’ troppo sopra le righe. Spiccano senz’altro Aram Kian e Beatrice Schiros ma tutti si muovono con disinvoltura in questo mondo nero di gomme e fumi e fuochi.

In una sola ora e venti il tema è trattato un po’ a volo d’uccello, usciamo dal teatro senza sapere molto più di quando siamo entrati, peccato.

L'ultimo raggio di luce e il dolore di vivere

7fdb516f41efe75cf1748633aac859a7_XLBRUNA MONACO | Sui muri della piccola sala dell’Argot Studio le gigantografie degli autoritratti di Munch, guardano la scena e gli spettatori. Quei colori scuri, l’espressione cupa, profonda, dei volti, profetizzano la catastrofe imminente. Lo spazio scenico è ampio e inghiotte le due file di posti che fanno da spalti: lo spettatore è senza appello catapultato nel dramma e non può che esserne avvinto: lucida la regia, misurata la recitazione, impeccabili le luci. Mobilia fin de siècle, divano, poltrona, tavolo con sedie e una porta mobile che divide la scena (la casa) in stanze quando non ci pensa Javier Delle Monache alle luci, mettendo in ombra le zone della casa in cui non avviene l’azione.
Siamo agli inizi del Novecento in un paesino del nord Italia sperduto fra le Alpi. Non sono i fiordi norvegesi e le lunghe giornate senza sole dell’inverno boreale a fare da sfondo a questa riscrittura di “Spettri”. Non c’è il pastore Manders con le sue ottuse reprimende morali, al suo posto Giovanna, una sorta di pastoressa luterana (interpretata dalla brava Rossana Mortara) amica d’infanzia di Luisa Danzi (la signora Alving per Ibsen, interpretata da Liliana Massari). Manca anche il falegname Engstrand, l’ubriacone padre putativo della cameriera che Ibsen chiama Regine e Gili trasforma in Cristina (Vanessa Scalera). L’unico uomo della famiglia è Lorenzo (Osvald) interpretato da Pierpaolo De Mejo.
La trama de “L’ultimo raggio di luce” è quella di “Spettri”: in occasione dell’inaugurazione di un asilo in onore del padre morto, un giovane figlio pittore e malato, torna alla casa materna dopo aver vissuto all’estero per vent’anni. Scoprirà la verità sulla sua famiglia e l’origine della malattia che lo porterà in breve alla morte. Di questo intreccio Ibsen si serve per creare uno dei drammi più intensi e sottili di sempre, in cui denuncia l’ipocrisia della società borghese e della religione fondate entrambe su un’idea di famiglia che non ha più riscontro nella realtà. E che molto probabilmente mai lo ha avuto.
Parla della faticosa lotta per l’emancipazione contro il potere conservatore, maschile, corporativo. Come un muro di gomma. Parla della gioia di vivere, di quanto sia difficile comprenderla e darle seguito. E di una colpa nuova, di cui nessuno prima aveva parlato. Non quella di chi commette un’efferatezza, ma di chi per connivenza o debolezza non la impedisce. È la colpa del pastore Menders, che pur conoscendo le sregolatezze del ciambellano Alving, padre di Osvald, obbliga di fatto la signora Alving a restare accanto al marito brandendo lo stendardo del dovere. E la colpa della signora Alving che in nome del dovere coniugale si rende complice del marito, e poi, per difendere il figlio dal contagio del padre, lo allontana venendo meno al dovere/piacere di crescerlo in casa propria. Ma “Spettri” di Ibsen è ancora di più, è l’ultima tappa di un cammino iniziato centinaia di anni prima da Eschilo con l'”Orestea”, e che ha avuto come principale tappa intermedia l'”Amleto” di Shakespeare: il discorso sulle colpe dei padri che ricadono sui figli. E la vendetta.
Materia densissima, insomma, su cui Gili, nel suo adattamento drammaturgico sorvola: eliminando i personaggi maschili, e con loro tutto ciò che rappresentano, eliminando scene e dialoghi acutissimi, zeppi di vita e verità. Quello che rimane è la trama, di cui si serve come d’un filo d’Arianna per arrivare al punto che per lui è nodale, su cui vuole condensare la tensione e l’attenzione drammatica: il finale. Lorenzo stremato dalla malattia ereditata dal padre (che ne “L’ultimo raggio di luce”, a differenza di “Spettri”, è esplicitata come la sifilide) chiede alla madre di aiutarlo a morire. La malattia che ha contratto è degenerativa: meglio morire che vivere come un vegetale. Che a volte essere sia peggio che non essere, e dunque il suicidio una salvezza, la morte un rifugio, Gili lo aveva già detto, magistralmente, in “Prima di andar via” che nacque come film e divenne poi lo spettacolo teatrale di cui Gili ha firmato non la regia ma la drammaturgia. Una drammaturgia impeccabile: come quelli di Ibsen i dialoghi di “Prima di andar via” erano carichi di vita e verità, sotto la superficie apparentemente anodina delle chiacchiere quotidiane. E d’altronde l’autore si era preso tutto il tempo necessario affinché la verità venisse fuori dalle battute: quasi un’ora e mezza per raccontare una cena di famiglia. Al contrario, qui Gili semplifica la ragnatela di parole refrattarie, e dunque di silenzi, ordita da Ibsen, dimenticando che, spesso, come diceva Joyce, è proprio dietro il paravento delle parole che si cela il dolore che nessuna trama, nessuna macchina narrativa, per quanto ben congegnata, può restituire.

Una fiera austera

ELENA SCOLARI|  Artefiera – Art first 2012, la trentaseiesima edizione della fiera dell’arte di Bologna ha da poco chiuso i battenti e ha lasciato la precisa sensazione di una kermesse indissolubilmente legata alla crisi che tutti conosciamo.

Silvia Evangelisti, direttrice della fiera dell’arte di Bologna, ha fatto il meglio che poteva fare in questa edizione 2012? Proviamo a dire che cosa ci ha convinto e cosa ci ha lasciato perplessi all’uscita di questa visita nella contemporaneità dell’arte.

La prima consistente caratteristica di Artefiera 2012 è l’estensione: molto ridotta rispetto ai faraonici ultimi anni, quaranta gallerie in meno, un quarto degli espositori ha rinunciato alla fiera per via della quota obbligatoria di partecipazione, quest’anno giudicata non sostenibile. Già, perché forse non tutti sanno che le gallerie devono pagare il loro accesso alla manifestazione, in una proporzione economica legata alla grandezza dello stand, e quest’anno più che mai, in molti hanno giudicato che la spesa non valesse la resa, anche alcune tra le più note gallerie milanesi come Giò Marconi, Raffella Cortese, Amedeo Porro.

Questo ha reso la visita decisamente più a misura d’uomo, non troppo sfiancante, una mezza giornata piena è stata più che sufficiente per vedere tutto senza correre. L’esposizione occupava un solo piano del quartiere fieristico, da visitatori abituali abbiamo apprezzato la quasi assoluta mancanza di video (finalmente!), la scarsa presenza di installazioni “spiritose” ma effimere e quasi solo decorative, nel migliore dei casi.

Buona la qualità media degli artisti presenti, un ruolo sostanziale, nel mood rigoroso generale, hanno giocato gli artisti più che consolidati, soprattutto del Novecento e quindi del cosiddetto Moderno: Fontana, Alighiero Boetti, Giorgio Morandi, Castellani, Pistoletto, Bonalumi. Opere di questi artisti sono veri e propri beni rifugio che i collezionisti possono ritenere intramontabili e non suscettibili di discese nel mercato dell’arte. Accanto ai grandi presenti citati non si è potuto non notare l’assenza di altri big tanto discussi come Hirst e Cattelan. La scelta della direttrice Silvia Evangelisti ha premiato gallerie senza fronzoli, le cui scuderie artistiche sono spesso inappuntabili anche se non molto coraggiose. L’austerità e la sobrietà giuste, dovute in un periodo come questo potevano però essere l’occasione per dare maggior risalto alle gallerie giovani, con proposte nuove e ancora da rodare, con il vantaggio di essere economicamente affrontabili anche da collezionisti non troppo facoltosi e che cominciano ad affacciarsi su questo mercato.

Alcuni passi in questa direzione sono stati fatto: è stata eliminata la divisione spaziale tra le gallerie considerate affermate e quelle giovani, anche le metrature degli stand erano molto più equilibrate, ma una scelta ancora più decisa, in favore della novità, avrebbe forse potuto sopperire ad un certo eccesso di prevedibilità.

Non ci siamo stupiti, ahinoi, non ci sono state sorprese, abbiamo ratificato opinioni che già avevamo su molti degli artisti presenti, i nomi del contemporaneo “forte” che circolano sono ancora gli stessi: Peter Halley, Serrano, Shirin Neshat…

Menzioniamo però, ancora con sincera approvazione, l’impegno a rendere la città di Bologna davvero aperta, artisticamente parlando, durante i giorni della fiera. È stato possibile visitare gratuitamente, fino a mezzanotte, il Museo Morandi, il Mambo (che ospita ancora un’interessante mostra del belga Marcel Broodthaers), una bella biblioteca allestita in una chiesa sconsacrata, piccoli luoghi-gioiello da fiaba come il Museo degli strumenti musicali, sconosciuti anche ai bolognesi.

Ce ne andiamo da Bologna con un paio di consigli: impariamo ad apprezzare gli artisti che non appassiscono e convinciamoci che alla vitalità artistica deve essere dato respiro, senza paura.

W. Benjamin: le costellazioni del pensiero

walter-benjaminMARIA CRISTINA SERRA | Walter Benjamin (1892-1940) amava le piccole cose che, dentro la concentrazione minuscola delle forme, racchiudevano come uno scrigno segreto la complessità e l’autenticità del pensiero. Gli piaceva collezionare (attività “rivoluzionaria”, perché liberava gli oggetti dalla loro utilità) giocattoli, cartoline, libri illustrati per l’infanzia, fotografie, con la passione dell’intenditore che coglieva l’unicità di ciò che ai più appariva banale, per attribuirne il valore nascosto e il loro senso di “redenzione”.

Era solito archiviare la sua corrispondenza e i temi dei futuri saggi; conservava decine di quaderni e piccoli taccuini, fitti di scrittura in miniatura, ritagli di giornali sui quali annotava minuziose osservazioni. Adorava incastonare le parole, tracciate su foglietti occasionali, con disegni e schemi grafici, per visualizzare i suoi acrobatici passaggi della mente e i frammenti degli eclettici pensieri; li scomponeva e ricomponeva in ordine sparso come un incastro dalle sequenze variabili, interrotte da “citazioni” senza gerarchie di valori, ma funzionali ad introdurre dubbi, interrompere certezze, riformulare ipotesi e interpretazioni. Giocava a scacchi e leggeva romanzi polizieschi; lo intrigava Simenon. Benjamin era un uomo gentile, dai modi signorili, credeva nel valore dell’amicizia e nella capacità di amare. Le tre donne della sua vita lo “trasformarono” in tre uomini diversi fra loro, scrisse all’amico Sholem.

Aveva un profondo legame con Parigi, che definiva “Capitale del XX° Secolo”, città privilegiata per analizzare le trasformazioni della tecnica, ammantate da finalità artistiche, il mescolarsi dell’attività estetica con la produzione industriale, luogo di svelamento della fantasmagoria, mentre indisturbata la dialettica della poesia percorreva i suoi sentieri con i versi sotterranei di Baudelaire, i silenzi “formicolanti” di Hugo, il tempo perduto di Proust.

Una mostra al Musée d’Art et d’Histoire du Judaisme (fino al 15 febbraio) e un prezioso catalogo (“Walter Benjamin, Archives”, edito da Klincksieck) ricostruiscono con passione le sue “visioni” cariche di rimandi, tutti quei Passages di luoghi e di saperi, che completano la sua Filosofia critica e una lettura dello svolgersi “omogeneo e vuoto del tempo” della Storia che deve cogliere “la chance rivoluzionaria per farsi profilo di sensatezza”. Perché “anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”: testamento morale, alla vigilia del suicidio per sfuggire alla Gestapo (a Portbou il 26 settembre del ‘40 ad un passo dalla libertà) e illuminazione per il nostro presente.

E poi le foto della sua infanzia, la giovinezza, gli amori, gli amici che accompagneranno le tappe della sua vita (dalla Germania alla Francia, passando per Ibiza, Berna e Mosca): G. Scholem, Gretel e Theodor Adorno, H. Arendt, B. Brecht, Giséle Freund, Asja Lacis; le immagini della normalità, quando ancora non era “condannato a leggere i giornali come una sentenza e cogliere in ogni trasmissione radiofonica un messaggio di sventura”. Le feste di Natale, i carnevali, il figlio Stefan e la moglie Dora.
Un pannello blu riproduce la pianta di Parigi e i riferimenti di Benjamin: una fitta rete di indirizzi e di luoghi, di percorsi reali e interiori, di vita e di lavoro, di emozioni dell’anima, tracciate con parole sobrie, dense e leggere su quaderni esposti in bacheche di legno grezzo. “Per qualcuno i cui scritti sono dispersi come i miei e a cui le circostanze storiche non consentono più l’illusione di vederli un giorno riuniti, è una vera soddisfazione sapere che un lettore si sia sentito a casa sua in mezzo a questi miei scarabocchi”, scrive Benjamin con parole profetiche. Le sue recensioni ridonano verità al testo, “tonalità affettiva alle parole” e autenticità alla traduzione, come se si trattasse di ricomporre i cocci di un vaso in dettagli non somiglianti, “frammenti di una lingua più grande”.

Le pagine su Kafka esprimono la profondità del suo metodo, volutamente sospeso in una soglia fra opposti, nella penombra fra buio e luce. “Ebreo errante”, estraneo al mondo dei professionisti della filosofia nella Berlino degli anni ’20, esule fra gli esuli nella Parigi degli anni ’30, in perenne lotta per il sostentamento economico, Benjamin vive come il suo “angelo malato” la solitudine e lo sradicamento degli ebrei tedeschi della sua epoca. Le riflessioni su Kafka lo conducono “ad un crocevia” senza fine. Lo descrive bambino, triste, imbalsamato in un abito di trine e velluto, tra tendaggi e rami di palme. Estraneo a se stesso, fragile e predestinato alla sconfitta; grande nell’enigmaticità di una scrittura piena di dettagli, che rendono “ogni gesto un evento. Si potrebbe quasi dire: un dramma in sé”.
Su un foglio con la pubblicità in rosso dell’acqua San Pellegrino accenna alla scomparsa dell’Aura, come alone esclusivo, irripetibile dell’opera d’arte, che deve uscire dalle cattedrali “per essere accolta nello studio di un amatore d’arte”. Cos’è Aura? “Una trama singolare di spazio e di tempo: l’unica apparizione di un lontano, così vicino”. Arte e letteratura si alternano ai rendez-vous nei bar di Saint Germain e a passeggiate in cerca di libri d’occasione lungo la Senna, “il grande specchio” in cui si riflettono Parigi e i suoi quais. Proust è il grande poeta delle metafore, capace di donare uno spessore magnifico a ciò che sembra futile, trasformando il giorno in notte “per non lasciarsi sfuggire nessuno degli intricati arabeschi” strappati alla provvisorietà dell’istante. Il passato è il suo rifugio. Invece, per il Benjamin di “Infanzia berlinese” è il passaggio verso il futuro, attraverso delicati affreschi di oggetti, strade, persone. Le istantanee del bambino vissuto nel bozzolo protettivo della ricca borghesia ebraica già si fermavano su presagi di sventure. L’antologia di “Uomini tedeschi” pubblicata nel ‘36 sotto lo pseudonimo di Detlef Holz è la parabola del declino della borghesia tedesca: bellissime pagine che anticipano la consapevolezza storica che il progresso è entrato nella tempesta.

Una foto di Giséle Freund lo ritrae nel ’39 a Pontigny, sull’argine della Senna, assorto, curvo, con un fiore in mano. E’ il tempo in cui il “marxista sui generis”, come affettuosamente lo definiva la Arendt, “che si tuffava come un pescatore di perle negli abissi” per riportare in superficie ciò che di prezioso vi giaceva cristallizzato, si dedicava alla stesura definitiva delle “Tesi di Filosofia della Storia”. La catastrofe incombe, la socialdemocrazia tedesca e francese hanno fallito: il progresso un inganno che ha corrotto la classe operaia. L’Angelo della storia, come l’Angelus Novus, l’acquarello di Klee da cui Benjamin non si separò mai, “ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese”, volge le spalle, contemplando le macerie, mentre la tempesta lo spinge verso un futuro incerto.

Conferenza di Florent Perrier, Consigliere del Musée d’art et d’histoire du Judaïsme per la mostra Walter Benjamin Archives
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Il Giappone visto dall'Europa, secondo Cherkaoui

TeZukA-107-800x600-1BRUNA MONACO | Anche quest’anno è Sidi Larbi Cherkaoui ad aprire la rassegna “Equilibrio, Festival della nuova danza” che da otto anni si tiene al Parco della Musica di Roma. Il suo ultimo spettacolo, “TeZukA”, è un omaggio all’inventore dei manga e un po’ a tutto il Giappone.
Se Osamu Tezuka non fosse esistito, forse i manga non avrebbero conosciuto la fama internazionale di cui godono oggi. “Dio dei manga” lo ribattezzarono i suoi connazionali.
Classe 1928, da giovanissimo Tezuka si appassionò a Charlie Chaplin, a Walt Disney e agli insetti. Metterà a profitto queste grandi passioni studiando medicina da una parte, e diventando dall’altra il padre dei manga moderni. E in qualche modo anche degli anime: con il suo “Tetsuwan Atom” (da noi noto come “Astro Boy”) è nata l’industria moderna dell’animazione giapponese. Si potrebbe quasi dire che senza Osamu Tezuka non ci sarebbero stati Holly e Benji, Candy Candy e Lady Oscar. Niente occhioni che luccicano, sequenze immobili su pensieri infiniti in voce off. Generazioni intere di bambini e genitori del mondo civilizzato, sarebbero state private di quelle balie sottocosto che sono i cartoni animati, nel bene e nel male.
Con il suo ultimo spettacolo Sidi Larbi Cherkaoui, vuole colmare il debito che i bambini occidentali delle ultime quattro generazioni hanno contratto con il grande artista nipponico. Omaggio e pubblicità al contempo perché, se è vero che i cartoni animati giapponesi li abbiamo visti e amati tutti, è vero anche che in pochissimi sanno chi sia Osamu Tezuka.
Peccato che, come spesso accade agli omaggi, “TeZukA” di Cherkaoui non sia uno spettacolo pienamente riuscito. E non è l’eccesso di retorica a depotenziarlo, come spesso accade agli omaggi, ma l’eccesso tout court. Uno spettacolo di danza in cui la danza si perde nell’esuberanza degli elementi che lo compongono. Il palcoscenico brulica di performer: tredici danzatori, quattro musicisti, un calligrafo a cui si aggiunge una scenografia che dovrebbe essere leggera: è un telo bianco, che cala sulla scena e si fa schermo. Ma è pesantissima perché le immagini proiettate saturano lo spazio. Sono strisce tratte dai manga di Osamu Tezuka, o riquadri vuoti che un video artista disegna e muove in diretta, linea dopo linea, come bordi di una vignetta che i danzatori inseguono, occupano. Oppure sono ideogrammi giapponesi che sembrano nascere dal movimento di un danzatore sul telo-schermo, ma sono sempre opera del video artista in regia. La dialettica tra l’immagine disegnata bidimensionale e i corpi tridimensionali e veri dei danzatori sembra essere una sottotraccia dello spettacolo, che di suo ha già più tracce dichiarate che si intrecciano e si sovrappongono di continuo contribuendo alla ridondanza di questo spettacolo. Parlando di Osamu Tezuka, Cherkaoui vuole parlare di tutto il Giappone. Il padre dei manga moderni è così testo e pretesto di uno spettacolo in cui non si parla solo di manga, insetti e medicina (lunghe sequenze di “TeZukA” sono monologhi in inglese, francese e giapponese, a una o più voci, sui batteri e le loro forme di comunicazione…), ma anche di Fukushima, del contesto giapponese post-atomico. Cherkaoui parla di tutto ciò utilizzando linguaggi il più possibile giapponesi. “TeZukA” trasuda “giapponesità”, quindi non è in nulla autentico. Non c’è spazio per culture schock. Il pubblico è proprio agio davanti a una messa in mostra del Giappone in tutto aderente alle attese: manga, ideogrammi, musica tradizionale (la parte migliore dello spettacolo). Disastri atomici. Qualche combattimento fra samurai, qualche rimando al bunraku. Pretendere di parlare di un paese intero e di una nazione nel brevissimo spazio di uno spettacolo, è quanto meno un’ambizione troppo alta, se non proprio un brutto vizio post coloniale.
D’altronde questo procedere per accumulazione è un modus operandi non estraneo al coreografo belga di origini marocchine. La sua sete di melange culturali e contaminazioni artistiche spesso non trovano equilibrio e sintesi nei suoi spettacoli e restano una sequenza di elementi o parti giustapposte. Lo stesso difetto lo aveva “Play”, con cui si è aperta l’edizione passata del festival Equilibrio. In quell’occasione Cherkaoui era, oltre che coreografo, danzatore in duetto con la bravissima Shantala Shivalingappa. Eppure, altri spettacoli di Cherkaoui brillano per semplicità ed eleganza. È come se la sua estetica oscillasse tra due estremi che non riescono a sintetizzarsi.
Comunque, a dover stabilire quale sia la forma artistica protagonista di questo “TeZukA”, si dovrebbe escludere la danza e votare per la calligrafia. Le lettere giapponesi sono onnipresenti nello spettacolo e anche i movimenti di danza non sono altro che la messa in forma corporea di ideogrammi. Significanti senza significato, decorazioni. Parti principali di uno spettacolo folkloristico, decorativo.

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Morganti e La Ruina: i grandi al CRT

RENZO FRANCABANDERA | II CRT resiste. Nelle difficoltà di una Milano che stringe la cinghia e si copre dal freddo, lo storico teatro continua ad ospitare interessanti realtà della scena nazionale con un programma, che pur sotto la scure dei tagli di bilancio, continua a proporre grandi spettacoli. Nelle ultime settimane è stato il caso di Claudio Morganti e Saverio La Ruina, con le loro più recenti produzioni.

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Al centro del palcoscenico una struttura cubica ricoperta su tre lati da carta bianca. Oltre questo, null’altro. Ombre Wozzeck è una scatola e il suo esterno, la casa e la strada, l’intimo della storia e il volgare della piazza, l’esclusivo del tragico e lo sguaiato del comico, ma anche il leggero dissolversi dell’uno nell’altro.
Per sfuggire ad alcunché di preordinato e meccanicistico, l’artista decide di contrapporre due areeconcettuali della pièce: quella delle ombre che avviene all’interno della magic box e quella all’esterno in cui l’attore/mattatore racconta la storia e fa da mediatore con lo spettatore rispetto a quello che guarda. La sezione dello spettacolo basata sulla narrazione per mezzo delle ombre all’interno della struttura, con l’uso di poche ma ben congegnate fonti di luce, fra le quali una lavagna luminosa che aiuta a creare effetti cromatici mai invasivi e interessanti è calibrata al millimetro; tanto è registrata e precisa la parte “interna”, tanto è apparentemente improvvisata e basata sull’estro di uno stand up comedian la seconda, affidata a Morganti stesso che, come un cantastorie d’altri tempi, con bastone e scimmietta, irretisce un pubblico che deve vivere continuamente questo dentro e fuori crudele, non potendosi mai appassionare a nessuna delle due metà della mela, dovendo ondeggiare, come una barca in marea, fra un’onda e quella seguente.
Gli attori li conosciamo per tutto il tempo attraverso le loro silhouette, e raccontano di un soldato umile e onesto, di un capo stolido e volgare, di una moglie inconsapevole e troppo fragile al condizionamento. Si stagliano con criminale nettezza in controluce i due orecchini che il graduato le regala come pegno, e che il povero marito Woyzeck non comprende: cerca di spiegarli prima di tutto a se stesso, al suo essere strumento curvo, inconsapevole, affaticato sotto il peso della semplicità. Tutto avviene in modo assai preciso, con una resa scenica che, pur nella semplice alternanza di ombre e luci, riesce ad essere espressionista grazie ad ambientazioni proiettate di sapore futurista all’interno delle quali si muovono gli esseri umani con le loro fragilità.
Solo Morganti supera questa bidimensione, come un moderno Orfeo che riesce ad entrare nel regno delle ombre; in realtà ci riescono lui e la sua scimmia nel finale dello spettacolo, uomo animale, fragile, che rompe il giocattolo lacerando la carta. Un’epifania forse inutile ai fini del bilancio emotivo di un lavoro che non deve spiegare il dentro e il fuori meglio di come già faccia con più eleganza il fantastico passaggio di luce in cui Morganti, seduto ad una sedia e illuminato, si fa radere dall’ombra di Woyzeck; poi pian piano la luce che lo illumina in primo piano dirada e l’attore diventa ombra, passa nell’al di là del racconto, trasale la dimensione del reale, se mai il teatro reale è.
Dopo aver declinato la sua vocalità in ogni direzione possibile, Morganti sceglie ancora il Woyzeck per continuare la sua indagine sul teatro, tanto da lasciar pensare che ormai l’opera sia un pretesto, e che più di tutto prevalga l’operazione artistico-concettuale, il suo contenuto poetico, la leggenda del palcoscenico.
Da vedere.

Un video di Ombre Wozzeck realizzato da CRT
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Saverio la Ruina e una sedia. Ormai siamo abituati a vederlo così, lui e i suoi personaggi dall’incedere impedito. Chi fermo, inchiodato al suo stato, chi azzoppato nella sua condizione umana dal destino, chi dalla vita. Italianesi è una storia che come tutte le altre nasce al sud, trova ispirazione in quei numerosi paesi di cultura arbresh, albanese, che popolano l’entroterra calabrese, che secoli fa, durante le avanzate delle armate ottomane nella penisola balcanica, ospitarono gli esuli della terra delle aquile. Ma come sempre accade esistono anche i casi contrari, le storie degli italiani che, dopo che sull’Europa calò la cortina di ferro, rimasero prigionieri dall’altro lato dell’Adriatico, e che ritrovarono la libertà solo con la caduta del regime comunista. Il paradosso per loro fu che da quel momento in poi rimasero italiani per gli albanesi e albanesi per gli italiani: sono gli Italianesi di cui l’artista ci parla.
Quella che La Ruina racconta è la storia di una famiglia di italiani in Albania che al sopravvenire del regime comunista viene divisa, con il padre rimandato forzatamente in Italia e moglie e figlio che restano in Albania, finendo in un campo di concentramento. Vittima delle ritorsioni e delle violenze del regime, il ragazzo sopravvive con l’ingenua fantasia del bambino che costruisce un microcosmo salvifico che nell’età adulta si trasforma in capacità di abbinare e scegliere i colori, dote che profonderà in una delle più tradizionali e semplici forme artigianali, il mestiere del sarto. Azzoppato dalle percosse delle guardie, con la caduta dei muri che separavano l’Europa, l’uomo cerca ad inizio anni Novanta di ritrovare il genitore che rintraccia in uno sperduto paesino del nuorese. Il viaggio verso il padre Leone, insieme al primogenito dell’uomo che porta il nome del nonno mai conosciuto, è in realtà il viaggio verso la sua terra tanto amata, verso l’idea, il pensiero che lo aveva tenuto in vita nei momenti più duri.
Ma le cose non andranno come l’uomo spera, l’incontro con questo padre strappato nell’infanzia e ritrovato dopo quarant’anni sarà una cesura definitiva con l’universo del sogno salvifico, in un racconto che fra flashback, storie d’amore, viaggi e migrazioni, scandaglia con profondissimo senso del dolore e amore per la patria lontana il rapporto fra genitori e figli.
La Ruina è, anche in questo personaggio, grandioso interprete dell’epopea degli ultimi, dimostra come narrare significhi dover ricercare, costruire drammaturgia con pazienza e sapienza, non fermarsi alle approssimazioni ma andare a svitare i bulloni che inchiodano il senso del pudore per raccontare le tragedie con la leggerezza delle favole e le favole con l’epica drammaticità delle tragedie.
Ecco perché non serve null’altro che una sedia a questo teatro, e la cognizione del dolore e il senso di appartenenza che l’interprete restituisce ancor più si fanno grandiosi pensando ai giorni in cui questo lavoro è andato per la prima volta in scena, nelle settimane che hanno preceduto la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, in cui il postribolo del potere infangava con il suo puzzo il senso della memoria di quei molti che, anche se analfabeti, nullatenenti e sparsi per il mondo, da Ellis Island ai campi di concentramento albanesi, hanno continuato, ovunque fossero, a sentirsi “taliani”.

L’inizio di Italianesi di Saverio La Ruina
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Pro patria: se grazie al terrorismo succede un quarantotto

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BRUNA MONACO | L’ultimo spettacolo di Ascanio Celestini “Pro patria, senza prigioni, senza processi” vede la Repubblica Romana, la resistenza e la lotta armata a confronto. Ed è in scena al Teatro Palladium di Roma, dal 31 gennaio al 12 febbraio.
Ascanio Celestini è solo in scena, come sempre. Uno sgabello rosso al centro di una pedana di pochi metri quadrati, dei cartelloni chiudono lo spazio dietro di lui. Ma questa volta non interpreta se stesso (come in “Scemo di guerra”) né presta la propria voce a personaggi reali di cui narra la storia (come in “Fabbrica”). Questa volta sul palco c’è un autentico personaggio teatrale o almeno la proiezione di un autentico personaggio teatrale: Celestini è un terrorista, e i pochi metri in cui si muove non sono solo il luogo fisico deputato alla narrazione, ma un luogo teatrale: la cella di un carcere italiano dei nostri giorni.
Da teatro di narrazione a monologo teatrale, eppure l’approccio è pressoché immutato. Un monologo solo nella forma, poi, perché nella realtà scenica il carcerato Celestini dialoga con un fantasma, Giuseppe Mazzini, per mantenere la promessa fatta al padre anni addietro: non cominciare mai a parlare da solo.
Rivolgendosi a Mazzini, Celestini ripercorre la storia della Repubblica Romana dal suo particolare punto di vista, quello di un delinquentello che, a furia di leggere Pisacane, ha aderito alla lotta armata degli anni di piombo. Il filo conduttore di “pro patria, senza prigioni, senza processi”, è la messa a punto di un discorso che il carcerato Celestini vuole tenere ai giudici ma che ascolterà solo un secondino. Un discorso in cui espone la propria teoria sui tre risorgimenti italiani. Il primo è quello che conosciamo tutti, quello del 1848 che troverà nella Repubblica Romana il suo momento di maggiore forza. Dopo quasi un secolo il secondo, la resistenza partigiana al fascismo durante la seconda guerra mondiale. L’ultimo risorgimento italiano, per Celestini, l’hanno fatto i ragazzi degli anni di piombo. Tre risorgimenti, altrettante sconfitte.
Le digressioni sono tante e, come ricami, danno alla tessitura drammaturgica l’aspetto di una trina raffinatissima. Celestini parla di controvertigine, di matti-negri-africani, di Pio XI, Garibaldi, ex rivoluzionari che o muoiono o diventano parlamentari. Della galera come sequestro legalizzato e simbolo nefasto del potere. Dei ladri di mele e della lingua dei carcerati. A un ritmo come sempre incalzante, da mille informazioni al minuto.
Alla realtà storica certificata da nomi e date, si mischiano situazioni e personaggi inventati. Gli interlocutori immaginari aumentano: Wittgenstein, Mameli, il padre morto. E il racconto si adagia in una zona liminare, in cui la realtà si trasfigura in poesia. Il “realismo magico” di Celestini ricorda l’Elsa Morante de “Il mondo salvato dai ragazzini”. Come pure il suo romano poetico e popolare, paragonabile forse solo a quello di Antigone ne “La serata a Colono” il testo teatrale che la Morante ha inserito appunto ne “Il mondo salvato dai ragazzini”. Ma, debiti a parte, la lingua di Celestini è ormai un marchio di fabbrica, che subisce variazioni minime a ogni spettacolo.
Il pubblico invece, quello è cambiato, rinnovato, eterogeneo come di rado a teatro. Onore al merito: il pubblico di Celestini è sempre stato popolare, composto cioè da cittadini normali e non solo da teatrofili e addetti ai lavori. Prima (e forse ancora oggi) quella fetta di pubblico altrimenti estranea al teatro la rubava alle piazze, a suon di spettacoli gratuiti. Il pubblico di queste sere al Palladium è, invece, in gran parte rubato alla tv. E anche questo è un merito non da poco. Se poi gli si parla di abolizioni delle carceri, di bombe contro Napoleone III e di brigatisti come eroi risorgimentali, il merito aumenta. La provocazione è forte, l’operazione interessante: con “pro patria” Celestini inserisce un argomento imprevisto nell’agenda degli spettatori, di norma definita dalla tv.
E proprio in quest’ottica la provocazione diviene leggibile. Perché è chiaro che il paragone tra le bombe contro Luigi Napoleone e l’omicidio di Biagi, è quanto meno discutibile. Ed è vero anche che delle terrorismo rosso si può dire tutto il male del mondo. Però è anche vero che nel grande gioco teatrale che è la repubblica, con le sue dinamiche di rappresentazione-rappresentanza e anonimato, noi cittadini siamo il pubblico: invisibili stiamo a guardare e possiamo solo scegliere da chi farci rappresentare. Con chi immedesimarci. È sulla base di questo principio primordiale del teatro, che Berlusconi ha governato per vent’anni l’Italia. E allora se per giocare a questo gioco, con qualcuno che sta al potere o al contro-potere, bisogna immedesimarsi, ci sarà chi, mettendo da parte tutte le contraddizioni, sceglierà i terroristi. Quantomeno per difetto di personaggi sovversivi. Perché gli altri, quelli al potere, ci rappresentano davvero troppo poco, ci somigliano troppo poco. Hanno il potere, e tutti i giorni ci schiacciano, umiliano. Dicono che con la cultura non si mangia, o che il posto fisso è noioso. Forti dei loro venticinquemila euro al mese.
Insomma, se si eccettuano le elezioni, tutto il resto del tempo, per i cittadini, la repubblica è solo un gioco teatrale. E per gioco tutto è concesso, perfino immedesimarsi con i terroristi. E anche nel teatro, quello vero, tutto è concesso. Non è un saggio di storia “Pro patria”, e Celestini può paragonare il risorgimento alla resistenza e al terrorismo rosso, se riesce a scuoterci dal torpore a cui il potere vorrebbe costringerci.

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