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giovedì, Novembre 14, 2024
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Alcesti mon amour: farsa o tragedia?

0126121218alcesti-okBRUNA MONACO | Admeto, re di Fere, deve morire, ma qualcuno di molto potente gli è affezionato: Apollo, che convince le Moire a risparmiare l’amico. A patto che qualcuno si sacrifichi per lui. Si rifiuta Ferete, il vecchio padre. E la madre. Solo la moglie, Alcesti, accetta. Poi Tanathos fa il suo. Eracle, ignaro della tragedia, proprio quel giorno chiede asilo al re di Fere, e lui non sa rifiutarlo: l’ospitalità non solo è sacra, ma anche conveniente se si rivolge a dei e semidei. Infatti scoprendo d’aver banchettato in una casa in lutto, Eracle, per scusarsi, vince Tanathos e riporta Alcesti all’amico Admeto.
Questa la trama, per un’ora e cinquanta di spettacolo: giusto il tempo che serve agli attori per portare i 1163 versi dell’Alcesti euripidea alle orecchie del pubblico. Non un verso di più, appena qualche parola in meno. La linea registica di Walter Pagliaro è chiara: il testo va rispettato, nessun adattamento. E va rispettata, a grandi linee, anche la consuetudine scenica dell’epoca: a due soli attori in maschera il compito di interpretare i ruoli dei protagonisti.
Micaela Esdra e Luigi Ottoni sono poliedrici, supportati dai costumi appariscenti, ai limiti del kitsch, e appunto dalle maschere di Giuseppe Andolfo. Maschere sgargianti, dai tratti deformati, inumani: se simboleggiano le anime dei personaggi, allora accusano tutti di essere marci, nessuno si salva. Neppure Alcesti. Neppure il coro degli abitanti di Fere, che in questa versione di Pagliaro è ridimensionato, ridotto a due sole voci.
In “Alcesti mon amour” il coro è sempre in tiro, sempre pieno di pathos, si fatica a seguirlo nonostante la bellezza del testo. Peccato: il coro dovrebbe essere il doppio del pubblico, amplificarne le emozioni, parteggiare per uno o l’altro personaggio, farsi delle idee su cosa sia giusto e cosa no. È un coro vestito con costumi sobri, color sabbia. All’opposto i protagonisti: per Micaela Esdra e Luigi Ottoni non solo le maschere e i costumi sono eccessivi, saturi di colore. Satura è anche la recitazione. Esasperata fino a essere fastidiosa. La tragedia di Alcesti prende le sembianze di una farsa. Del resto non è una scelta causale, mandare la tragedia alla deriva: c’è chi ritiene che l’Alcesti di Euripide sia in realtà un dramma satiresco. Occupava infatti la quarta posizione nella tetralogia che valse a Euripide il secondo premio nel 438 a.C., la posizione dei drammi satireschi. Protosatiresca, così tendono a definirla i critici contemporanei.
La versione di Pagliaro, però, puntando tutto sul grottesco schiaccia i personaggi, li rende bidimensionali. Operazione non convincente con un drammaturgo come Euripide in grado di creare personaggi carichi di contraddizioni, sfaccettature, desideri contrastanti. Nessuno dei tanti temi sollevati da Euripide spicca in modo netto in questo “Alcesti mon amour”, il regista sceglie di non esaltarne nessuno. Certo, così si preserva l’ampiezza tematica del testo, ma tutto finisce un po’ col confondersi. Non emerge la diatriba tra i rapporti elettivi e di sangue. Non la questione sul potere, su cos’era essere donne, schiavi, o uomini liberi. Lo spettacolo sconta insomma la mancanza di una lettura critica, una posizione forte.
Al di là delle maschere e dei costumi contemporanei, Pagliaro, che pure è stato assistente di quel maestro della regia critica che era Strelher, ripropone Alcesti senza interventi forti, come se fosse ovvio mettere in scena oggi un testo di duemila e cinquecento anni fa. Come se tra il pubblico della Grecia del IV secolo a.C. e il pubblico italiano di oggi non ci fossero poi enormi differenze. Come se anche noi andassimo a teatro con in testa un chiassoso universo mitologico, durante il tempo della festa, a spese di un nostro illustre concittadino, disposti a sedere sulla pietra e all’aria aperta per ore dopo un anno intero passato senza quel miracolo che ancora non sappiamo spiegarci bene: vedere gente che si innamora, combatte e muore, e dopo si leva la maschera e torna alla vita di sempre.

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Nora alla prova

nora_alla_provaRENZO FRANCABANDERA | La rilettura che Luca Ronconi ha fornito l’anno scorso del classico di Ibsen “Casa di bambola” ha proprio in questi giorni ripreso la sua tournèe che porterà lo spettacolo a metà febbraio a tornare al Piccolo Teatro di Milano, mentre la settimana passata ha fatto registrare praticamente il tutto esaurito al Donizetti di Bergamo, programmata all’interno di una stagione ricca, che proprio oggi ospita “La belle joyeuse” con Anna Bonaiuto.
Prodotta dallo Stabile di Genova e poi in scena al Teatro Strehler dal 14 al 26 febbraio 2012, la pièce si poggia sull’idea di far vivere allo spettatore la sensazione delle prove di uno spettacolo, dove la drammaturgia non ha sempre un esito lineare ma viene interrotta, ripresa, alterata, in un frammentato gioco di sequenze. La seconda idea portante è l’affidare all’interprete principale, Mariangela Melato, la possibilità di “incarnare” il femminile ibseniano a tutto tondo: nel ritorno dell’attrice alla collaborazione con Luca Ronconi alla stessa è attribuito il compito assai teatrale di
sdoppiarsi e dar corpo ai personaggi femminili di Nora e di Kristine Linde, l’amica di Nora. In una logica scenica che potremmo definire con un termine moderno, speriamo icastico, di “avatar” scenico, alle altre attrici Barbara Moselli (Nora) e Orietta Notari (Kristine) viene chiesto di dare materia ai due personaggi, che poi di volta in volta verranno, con uno sdoppiamento di identità soggettiva fra persona e personaggio, ripresi su di sé da Mariangela Melato, che dopo alcune battute pronunciate dall’alter ego, ne prosegue l’interpretazione.
Un gioco in cui l’attrice, vestita in abiti moderni, prende il posto del proprio avatar ottocentesco, in un tentativo chiaro di riportare l’azione scenica e il suo epistemologico doppio binario fra significante e significato in avanti con le lancette, per approfondire la modernità di questo dramma che comunque, a distanza di oltre un secolo, continua ad essere tagliente e vivo. Quale morale è quella più vera, più alta? Quella delle necessità familiari e del tutto è bene quel che si mette a tacere, o quella della moglie del direttore di banca Thorvald Helmer (Luciano Roman, che ha preso il posto di Paolo Pierobon), che quasi la reclude in un universo immutabile di borghesissime dolcezze familiari, finchè un dipendente del marito (Riccardo Bini), che aveva prestato alla donna una somma anni prima all’insaputa ma proprio a beneficio del marito, non mette sotto scacco queste certezze, ricattando la donna pur di non essere licenziato da Thorvald? Come è noto, infatti, l’esito tragico non è infatti nel conflitto principale del plot, quello fra il marito e il dipendente senza scrupoli, ma quello che, proprio in subordine alle scelte del marito, si aprirà fra lui e la moglie, portando la donna alla scelta non convenzionale per quel tempo ma in realtà anche per il nostro di abbandonare di punto in bianco marito e figli, non potendo più reggere il peso dell’ipocrisia.
Ronconi nella deframmentazione drammaturgica che viene studiata per questo spettacolo, ripropone non solo questo finale (del 1879), ma anche quello che dovette pensare per le repliche in Germania, dove la contestazione e la polemica furono così forti (e anche da questo punto di vista duole rilevare che gli anni, anzi i secoli passano senza che il rapporto fra arte e morale si modifichino…) da costringere Ibsen ad un esito più tranquillizzante per la morale pubblica, in cui Nora non abbandona la sua casetta di bambole. La scena, studiata da Margherita Palli, estranea totalmente la pièce dall’ambiente teatro, portando le prove in una sorta di freddo garage illuminato da lampade alogene. Pochi oggetti di scena, semoventi, ed una pedana girevole che sembra voler alludere a come i punti di vista possano cambiare, a seconda di come si guardano i fatti. E’ comunque, almeno nella prima mezz’ora, davvero una prova teatrale, con gli attori che si suggeriscono battute, che le porgono in forma anonima e distaccata, in molti casi senza enfasi, in fretta, entrando e uscendo dal palcoscenico con la stessa facilità con cui entrano ed escono dai personaggi.
Forse non c’è Brecht (su cui pure Ronconi è in procinto di tornare con S. Giovanna dei Macelli), ma di certo l’intento è creare una sorta di separè emotivo fra pubblico e scena, ricorrendo appunto ad un recitato non recitato, ad una frammentazione drammaturgica e al continuo ricorso all’avatar del personaggio. Queste scelte connotano in particolare la prima parte dello spettacolo, si diceva, mentre nel seguito questa scelta viene poi nella sostanza accantonata per mantenere alto il respiro e la tensione dell’opera di Ibsen. Così se la prima parte risulta straniante e fredda, la seconda è capace di recuperare tutta la tensione e il pathos, come un giocatore che sonnecchia per tutto l’incontro e poi, quando arriva il momento chiave, sfodera le giocate necessarie alla vittoria. Inutile dunque chiedersi il profondissimo perché di questa scelta registica che con l’andare dello spettacolo risulta poi quasi staccata e supplementare al seguito, perché alla fine l’esito è vincente, e riesce a restituirci un universo di emozioni, in buona parte affidato alla cifra recitativa di Mariangela Melato, che non a caso ha fruttato all’attrice l’Ubu 2011.

Un video promo dello spettacolo
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"La casa dello spettatore" l'altra faccia del teatro

imagesBRUNA MONACO | Nasce a Roma, sulle spoglie del CTE (Centro Teatro Educazione), la “Casa dello Spettatore”, grazie all’appoggio di “Agita” e forte del lavoro di un’équipe che da anni si occupa di formazione del pubblico. Ne parliamo con Giorgio Testa.

E’ un progetto che mira ad aiutare gli spettatori a fruire degli spettacoli dal vivo. Ma che aspetto avrà questa “Casa dello Spettatore”? Sarà un luogo fisico o metaforico? Ce lo ha spiegato Giorgio Testa, promotore del progetto, pedagogo, spettatore professionista e formatore di spettatori.
Partiamo dal principio, che cos’è la Casa dello Spettatore?

“L’idea è di creare un’organizzazione di spettatori, fare in modo che gli spettatori possano incontrarsi, andare a teatro insieme, magari in gruppi coordinati da un mediatore teatrale, così da migliorare il proprio rapporto con il teatro, capirne le poetiche e le logiche, e quindi appropriarsi fino in fondo del proprio ruolo, quello di spettatori, ruolo senza il quale il teatro non è possibile. Il teatro senza pubblico non c’è e questo pubblico troppo spesso è visto più come cliente che come destinatario della comunicazione. Noi della Casa dello Spettatore pensiamo che il pubblico possa essere una comunità che si struttura come tale intorno all’andare a teatro.”

Ma anche i teatranti vedono il pubblico come un cliente?

“Per i teatranti il discorso è diverso, spesso danno l’impressione di interessarsi più all’applauso e al numero di spettatori che alle loro reazioni profonde. E inoltre vorrebbero uno spettatore militante, per
così dire. Ma lo spettatore non è come l’artista che ha scelto la sua poetica. In uno spettatore sono compresenti più desideri, più gusti, più modalità di essere spettatore. Io penso che se i teatranti
avessero come interlocutori non il critico, che ovviamente è sempre legato a delle sottili relazioni di potere e di vicinanza, ma il loro vero destinatario, cioè il pubblico nella sua varietà, e avessero con
lui un dialogo continuo, ne avrebbero molto da guadagnare. Si parla di necessità del teatro, se ne parla tanto, e non c’è dubbio che non si dà arte teatrale senza una necessità espressiva. Ma questa necessità deve incontrarsi anche con quella delle persone che il teatro lo vanno a vedere, che si spostano da casa perché evidentemente hanno bisogno di vedere rappresentato qualcosa che gli sta a cuore”.

Cosa farà, nel concreto, la Casa dello Spettatore?

“Farà più azioni diversificate, a seconda dei destinatari, organizzeremo gruppi di visione con dei percorsi comprendenti più spettacoli, oppure focus su spettacoli con un tema forte, focus su spettacoli dedicati alla cultura classica, alla nuova drammaturgia, attraverso una didattica della visione affinata in anni di esperienza. Raduneremo gruppi formati da spettatori eterogenei, o gruppi di spettatori che hanno in comune un background culturale o sociale. E poi ci saranno i gruppi di lavoro nelle scuole, con gli insegnanti e con i ragazzi. Oltre agli spettatori, i nostri interlocutori saranno i teatri stessi, quelli che vorranno iniziare un lavoro meditato sul pubblico”.

Dove si trova, questa Casa dello Spettatore?

“Al momento è una struttura volante, a causa della vacanza, speriamo non eterna, delle istituzioni. Ma certo avere uno spazio di incontro reale, una sede per la Casa dello Spettatore, sarebbe fondamentale, gli spettatori vi potrebbero incontrare tutti i mediatori, anche critici e studiosi. E naturalmente sarebbe un luogo in cui anche l’artista potrebbe incontrare il proprio destinatario…”

Ma cos’è uno spettatore?

“Il problema è appunto questo. In realtà noi siamo spettatori di tantissime cose. Da quando c’è la televisione noi siamo spettatori specializzati di quello schermo video. Nella Casa dello Spettatore ci
si interroga anche su analogie e differenze fra le varie postazioni di spettatore. Le differenze e analogie tra uno che vede una fiction, una diretta, un talk show, un reality show, un concerto, uno
spettacolo di prosa… Ogni persona vede più cose, e allora che cos’è che le unifica? E quindi che cos’è un “vedere”, oggi? Cos’è il “vedere dal vivo” rispetto all’altro “vedere”? Tutto questo non può essere solo oggetto di studio, nel senso in cui se lo pone uno specialista, ma deve essere un confronto. L’artista, a suo modo, quando fa uno spettacolo ha sempre in mente uno spettatore ideale, però sarebbe bello se uno spettatore reale potesse essergli vicino anche nel momento in cui si sta formando nell’artista l’idea di uno spettacolo”.

Dunque, si tratta anche di studiare l’altra faccia del teatro, capire le dinamiche degli spettatori…

“Già dai tempi del CTE abbiamo messo a punto una metodologia di osservazione dello spettatore dall’esterno che abbiamo chiamato “Veder vedere”. L’abbiamo sperimentata varie volte, con risultati importanti. Gli artisti vedono soltanto il finale, gli applausi, ma cosa succede durante tutto lo spettacolo nello spettatore? Un grande attore, lo sa per istinto. Alla Casa dello Spettatore, vogliamo saperlo in modo un po’ più dettagliato, ecco. Faccio un esempio: si cita e si ricita la storia di Averroè che leggendo la Poetica di Aristotele guarda i bambini che giocano fuori dalla finestra, e non si accorge che da quel gioco potrebbe capire ciò che Aristotele dice del teatro. Mi chiedo: teatranti e amanti del teatro sanno ora come giocano i bambini? Certo anche per loro sarebbe istruttivo occuparsi davvero della cosa. Dei bambini che giocano e, aggiungo, degli insegnanti che se ne occupano, che fanno tanto teatro con loro e che tanto contribuiscono a educare al teatro proprio per questo. I teatranti, ma non solo loro, onestamente, tendono invece a considerare gli insegnanti degli intellettuali di serie b, e non si rendono conto che sono la colonna portante della formazione del cittadino e quindi interlocutori ineludibili di chiunque operi nella cultura. La Casa dello Spettatore sarà, per questa ragione, anche un luogo di mediazione tra scuola e teatro, un punto di osservazione sull’infanzia, non solo per interessare i ragazzi al teatro, ma anche per offrire ai teatranti l’occasione di seguire come nasce lo spettatore”.

P.S. La Casa dello Spettatore ha già iniziato la sua attività, mettendo a fuoco cinque percorsi spettacolari. Ogni percorso coinvolgerà cinque spettacoli (più uno jolly a sorpresa) individuati
nella programmazione di alcuni teatri romani e verrà accompagnato da momenti formativi e materiali appositamente predisposti. Chi voglia approfondire l’argomento e conoscere i percorsi può farlo contattando: nipia.br@gmail.com

Padri forti, scacchi assurdi e brigatisti rossi

ELENA SCOLARI | I volti della povertà, ultima produzione del Teatro dell’Officina su Padre Turoldo in scena il 5/6 febbraio 2012, l’antologica di Teatrino Giullare appena conclusa e Aldomorto, il nuovo lavoro di Daniele Timpano al Teatro i confermano la validità delle programmazioni dei piccoli teatri milanesi.

Abbiamo assistito nelle ultime settimane ad alcuni spettacoli in due piccoli teatri milanesi: Teatro dell’Officina e Teatro i, e ne parliamo per ribadire la vivacità del contesto teatrale meno noto ma ricco di proposte interessanti.

I volti della povertà è l’ultima produzione del Teatro dell’Officina, creata in occasione del ventennale della morte di Padre David Maria Turoldo, figura unica nella storia dei preti scomodi e anticonvenzionali. Massimo De Vita e Daniela Airoldi Bianchi firmano la regia di uno spettacolo forte e coraggioso per i contenuti, rispettoso e delicato per la forma. De Vita è in scena ad interpretare un Padre Turoldo poeta e attento ai poveri, agli ultimi, il vero volto di Dio. Una scenografia spoglia e un’accurata scelta di testi di Turoldo stesso, insieme alle parole di altri autori come Alex Zanotelli e Virginio Colmegna contribuiscono a rendere un tono “solenne” alla semplicità  profonda di ciò che Padre David diceva: non rifiutare il dolore, affrontarlo e condidere anche quello degli altri. Punti forti dello spettacolo sono il prorompente talento di Stefano Grignani che insieme a Irene Quartana e Eleonora Sacchi rappresenta l’energia giovane che alimenta l’umana speranza di miglioramento e il toccante monologo di Mavis Castellanos: una cronaca commovente e insieme raccapricciante di un cosiddetto viaggio della speranza su un barcone di emigranti, costretti a situazioni umilianti e davvero oltre limite di ciò che possiamo immaginare. Il punto debole è invece l’assenza del carattere combattivo di Padre Turoldo, un guerriero friulano nato da famiglia poverissima, osteggiato, a volte, dalla Chiesa proprio perché non assoggettato e sempre libero nel suo pensiero e nelle sue azioni. La scelta registica privilegia forse l’atteggiamento degli ultimi anni di quest’uomo, affaticato dalla malattia, e sembra voler suggerire una certa rassegnazione, che non crediamo però sia un tratto caratterizzante del religioso.

Il Teatro Officina compie 40 anni nel 2012, vogliamo ricordare l’importanza della sua presenza nell’ambito milanese: narrazioni sociali, storie di stranieri, storie di anziani e di operai che hanno accompagnato e raccontato la comunità. Il ruolo di un teatro come questo non deve essere dimenticato dalle amministrazioni nemmeno in tempi di guai economici. Turoldo sarebbe d’accordo.

Teatrino Giullare di Bologna è stato ospitato dal Teatro i con un’antologica dei suoi spettacoli: Lotta di negro e cani di Koltès, Alla meta di T. Bernhard, La stanza di Pinter, e Finale di partita di Beckett. Ci dedichiamo qui a quest’ultimo: due attori con un berretto e una maschera di cuoio, seduti, muovono Hamm e Clov su un piccolo tavolo-scacchiera. I personaggi sono statuine di legno, i due pezzi rimasti per questo finale di partita, mossi da mani umane che notiamo sempre meno nel fluire dello spettacolo come se pian piano si animassero di vita propria, le voci dei due attori diventano le voci dei protagonisti, l’uno costretto su una sedia a rotelle e l’altro, il servo, condannato a non sedersi mai. Ci sono anche i due vecchi genitori di Hamm, chiusi in due bidoncini della spazzatura, a margine della scacchiera, ne escono in forma di scheletri per dire le loro folli battute, le loro richieste di confetti e biscottini. L’effetto inquietante della scena è pienamente riuscito e la cura ironica dei particolari ci fa sorridere con la giusta amarezza. Nonostante i tagli, il testo di Beckett arriva al pubblico con la forza della sua sgradevolezza, con il cinismo dell’inutilità e lo humour irresistibile del non-sense. La piccolezza dei personaggi è sia nelle dimensioni fisiche sia nell’impotenza di movimento proprio, una bella chiave di lettura di un teatro assurdo perché incredibile.

Aldomorto – tragedia. Daniele Timpano firma il suo spettacolo più maturo dopo Ecce robot, Dux in scatola, Risorgimento pop. Aldomorto è un lavoro denso di riflessioni e di domande, vestite con la consueta e straniante leggerezza, un bel testo graffiante per parlare di un avvenimento che chi è nato, come l’autore, negli anni ’70, non ricorda con consapevolezza ma con la memoria esterna costruita da ciò che se ne è sentito dire nei decenni successivi. Timpano rispetta, con distacco, il dramma dell’assassinio ma ne irride tutti gli aspetti retorici e “bassi”: la prosopopea roboante e velleitaria dei terroristi, le teorie confuse sul significato della stella a 5 punte, la deriva letteraria opportunistica dei leader estremisti. Una Faranda in parrucca e occhialoni seventies è una travolgente parodia della mitologia dei brigatisti, un giornalista impacciato si aggira tra i cadaveri di via Fani come in un Cluedo  stile C.S.I. de’ noantri. Timpano non è indulgente, sorrisi e serietà sono gli uni funzionali all’altra, le citazioni di Claudio Lolli e le canzoni dell’orgoglio proletario ci mostrano l’incredulità dei quasi quarantenni di oggi che, come anche chi scrive, rimangono perplessi di fronte alla forza distruttiva che teorie folli hanno raggiunto negli anni di piombo.

La piccola Renault telecomandata che scorrazza in scena è perfetto simbolo del ricordo collettivo della tragedia e figurina sfuggente di un fatto storico che ancora si cerca di spiegare.

Il sogno dell’Elfo, il Romeo e Giulietta di Autelli

RENZO FRANCABANDERA | La compagnia del Teatro dell’Elfo sta riportando in scena (fino al 22 gennaio) la rilettura del Sogno di una notte di mezza estate nello storico allestimento che dieci anni fa vide in scena, tra gli altri Antonio Latella con Ferdinando Bruni a fare Puck. Gli anni passano e Bruni sceglie per sé il ruolo Oberon/Teseo, mentre nuovi attori, molti di scuola meneghina, fanno rivivere le vicende di una delle opere più celebri del Bardo: la sostanza e la forza di questo allestimento non cambiano.
Al debutto nel Festival shakespeariano di Verona del 1997 l’adattamento raccolse una calda accoglienza di pubblico e critica, dando argomenti sia a chi, come Palazzi, vi leggeva la capacità di inglobare le suggestioni dell’estetica post punk che ricordavano il Rocky Horror, sia a chi, come Oliviero Ponte di Pino, vi vedeva una capacità di parlare delle classi sociali e del cambiamento in essere, ma con sfumature tenui e briose.
La regia di Elio De Capitani rimane non solo attualissima ma anche capace di divertire senza sosta, in un sentimento di otium che il teatro spesso oggi perde a vantaggio di intellettualismi nocivi.

Le belle scene di Carlo Sala e i costumi di Ferdinando Bruni portano lo spettatore in un ambiente favolistico ma concreto, monumentale ma metropolitano, agitato da singulti di eteree presenze che si affacciano, ora indossando maliziosi occhiali da sole, ora vesti da messa in scena tradizionale.
Ma attenzione: nessuna distonia! La macchina va in un’unica direzione, sempre chiara e leggibile, quella di dare prima di tutto spazio all’intreccio, perché la parola di Shakespeare continui a rivelare tutta la sua attualità emotiva, la consistenza intrinseca del doppio. Il sogno è bellissimo per questo: è un viaggio in ciò che tutti sogniamo di essere bassamente di essere; l’umanità, si sa, è fatta per la gran parte di Bottom-cloni, gradassi so-tutto con la parlata di paese, che cercano di convincerti di esser sempre buoni per qualsiasi cosa, per qualsiasi ruolo. Quel sogno, che trova milioni di incarnazioni dalla politica alle aziende, dal pianerottolo fino alle derive più tragiche dell’incoscienza umana, un sogno pagliaccesco, trova in Elio de Capitani la tragicomica incarnazione, che lo vede progressivamente trasformarsi in un triste Charlot, ma non prima di aver goduto appunto dell’ebrezza del sogno dei mediocri: essere (rimanere) asini ma al contempo avere una straordinaria musa disposta ad appagare ogni tuo desiderio, strigliandoti per bene a forza di biada, carote ed eros.

Cosa volere di più? Tutti sul palcoscenico girano ad orologeria, i giovani interpreti sono veramente tutti sopra la linea. E’ già raro trovare uno spettacolo in cui anche solo i protagonisti recitino per bene, quando a recitare bene sono poi tutti, il miracolo è servito: con Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani sono in scena Corinna Agustoni, Luca Toracca, Sara Borsarelli, Carolina Cametti (fino al 18 dicembre), la potentissima e in gran forma Clio Cipolletta (dal 26 dicembre), reduce dalla già convincentissima prova nel Sarabanda di Luconi, che oppone la sua magra e rurale spigolosità alle morbidezze equilibristiche di Sarah Nicolucci, Giuseppe Amato è un convincente e sardonico Puck, e bene anche Vincenzo Giordano, Loris Fabiani, Andrea Germani, Marco Bonadei e Federica Sandrini.
Dire delle luci di Nando Frigerio non è superfluo: si adagiano plasticamente sia sulla scenografia classica, sia dando corpo e struttura ad ambienti più immateriali, a quelle variazioni tonali dal sentimento acidamente goticheggiante, che trasportano le certezze di noi esseri umani nel filtro distorsore della dimensione onirica. Ancora pochi giorni per gustarlo.

* * *

E’ andato in scena nell’ultimo squarcio di dicembre il Romeo e Giulietta prodotto da Fondazione Pontedera Teatro e LITTA_produzioni. Il regista, Claudio Autelli, aveva fatto un interessante allestimento di Otello alcuni anni fa, complice un Francesco Villano in grande forma e alcune idee chiare sulla direzione registica e scenica da dare al tutto: un’ambientazione irreale, vuota e al contempo piena, ma non priva di suggestioni, affidate, tra l’altro e per la gran parte, a musica e luci. Bisogna quindi pensare che questa di lasciar dire all’atmosfera sia un codice di creazione, un sistema progressivo di strutturazione e alimentazione dell’invaso scenico che Autelli ha nei suoi desideri.

Questo Romeo e Giulietta è opera che nasce intorno al lavoro con un gruppo di ragazzi molto giovani, Francesco Meola, Andrea Pinna, Camillo Rossi Barattini, Michele Schiano di Cola, Giulia Viana e forse alcuni esiti in termini attorali che riportano ai recenti studi del regista con il maestro russo Vasiliev.
Si respira il desiderio di cercare qualcosa di nuovo. E i tentativi si muovono in diverse direzioni. Innanzitutto l’ambientazione: buia, cupa, di aria immobile, di condizione sospesa. Non è la favola dell’amore impossibile ma una sorta di incubo fatto di figure che intorno a questi due giovani dal tratto adolescenziale assumono sembianze ora mostruose ora grottesche.

Il nugolo dei personaggi che fanno della celebre opera, poi, un affresco corale capace anche di raccontare un’epoca, una società se desiderato dal regista, viene qui completamente azzerato. Sopravvivono le figure minori, il frate, la balia. Restano mostruosi e sullo sfondo i genitori della ragazza, mentre gli interpreti, tranne i due protagonisti Meola e Viana, danno corpo ad un paio di personaggi ciascuno. La drammaturgia viene asciugata fino all’essenziale, fino a coincidere quasi con la trama, e lo spettacolo si risolve in molti casi nel succedersi di piani emotivi affidati all’ambiente scenico, alle luci e alla musica.
La scena è spoglia se si fa eccezione per la geniale trovata delle strutture semipiramidali e composte da assi orizzontali di legno create dalla brillante fantasia di Maria Paola Di Francesco, una scenografa che siamo sicuri dirà e darà molto al teatro italiano.

Succede però che proprio queste strutture, che di fatto creano il luogo, la dimensione, l’ambiente e in alcuni casi sono addirittura il corpo dei personaggi finiscono per essere un elemento condizionante per la regia che appiattisce la dinamica attorale nel movimento intorno a queste strutture e di queste strutture, indugiando su questo piuttosto che sull’approfondimento necessario di altre questioni non di minor rilevanza, come l’afonia della protagonista e la forza evocativa del recitato. Prova di questa tensione non costante è l’emblematico e brillante episodio in cui il frate picchia Romeo, togliendosi la barba posticcia (che è assai multi funzione nell’impianto della mutazione dei personaggi) e percuotendolo con quella. L’idea è così brillante e originale che finisce per stagliarsi come una delle poche cose veramente fuori dagli schemi di questo allestimento, e al contempo lascia la sensazione che su questo binario creativo molto molto più avrebbe potuto essere fatto, magari lasciando in qualche scena sullo sfondo piramidi e luci e concentrandosi ancor di più sul lavoro con gli attori e sul testo.

In alcune scene l’amalgama funziona, come nell’amore dei ragazzi che giocano in un vedo non vedo facilitato da queste colonne di luce led di cui si fa un uso interessante, ma restano irrisolti altri passaggi, come il finale, che se non conoscessimo per la notorietà della trama, sarebbe onestamente sfuggente e non concluso. C’è ancora da lavorare molto, riprendendo e ridando innanzitutto dignità al testo che un po’ scompare dietro giochi di luci e i troppi (e spesso inutili) inserti musicali.
La sensazione alla fine era quella dell’episodio de Il vecchio e il mare in cui dopo la grande fatica della cattura il pescatore vede divorato il suo grande pesce, legato alla barca, da altri pesci (come in questo caso lo spettacolo fagocitato dai suoi stessi espedienti scenici), e alla fine invece che portare in porto il frutto della pesca, si ritrova a riva con lo scheletro scarnificato. Il prezzo che infatti Autelli paga è nel fatto che a tradirlo sia proprio l’intonazione desiderata, il tentativo di forzare una lettura troppo decisa su un testo che è grande proprio per la sua pluralità di sfumature.

Video de Il Sogno del Teatro dell’Elfo
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Estetismo inglese e radicalità francese

Aventure SteinMARIA CRISTINA SERRA | Londra e Parigi a confronto sulla strade dell’arte. Rive Gauche e Rive Droite si specchiano nelle acque della Senna con due importanti mostre in contemporanea (fino al 18 gennaio): “Beauté morale et volupté” nell’Inghilterra di Wilde al Musée d’Orsay, e “L’aventure des Stein” al Grand Palais (da febbraio a giugno al Fine Arts Museum di San Francisco e al Met di New York). Matisse, Cezanne, Picasso, Renoir risplendono nei saloni del Palais, sullo sfondo della vita artistica e bohémienne della Parigi al debutto del XX° secolo e della saga familiare dei fratelli Leo, Gertrude e Michael Stein e di sua moglie Sarah.

Famiglia borghese cosmopolita di origine ebraica, benestante, intellettuale per vocazione, rigorosa per scelta di vita, tutta dedita all’arte, sostenuta da una sensibilità e un’intuizione speciali, per scorgere la genialità moderna nelle opere di artisti ancora sconosciuti.

Il loro salotto al numero 27 di Rue de Fleurus, vicino Saint Germain, si trasformava ogni sabato sera nel centro d’avanguardia letteraria ed artistica più stimolante della “ville lumiére”. Gli arredi modesti ospitavano le conversazioni delle maggiori intelligenze del momento, e il confronto acceso delle idee non convenzionali aveva come cornice una preziosa collezione (per lo più autori ancora poco noti) di quadri appesi senza una logica apparente, con stimolante disordine, in ogni angolo della casa. “Abbiamo cercato di rintracciare la cronologia delle acquisizioni, gli spostamenti delle opere attraverso gli anni, che vanno dal 1902, con l’arrivo di Leo a Parigi, al 1946 con la morte di Gertrude”, spiega una delle curatrici, Laurence Caillaud.

L’itinerario in otto sezioni racconta la passione per l’arte e le ambizioni culturali degli Stein, documentate dalle foto private della famiglia, che era solita registrare con meticolosa precisione ogni acquisizione e la vivace vita di relazione, con una sorta di spontaneo sguardo pieno di curiosità per i fermenti parigini. Una mostra nella mostra attraverso un laboratorio unico e irripetibile di approccio all’arte moderna, partendo dalle private stanze, in cui si sono dipanate le strade dell’arte del ’900.

I “Four Big”, come Leo chiamava Cezanne, Monet, Degas e Renoir, sono le pietre miliari della collezione e danno l’incipit al percorso. Alla morbidezza perlacea della “Bagneuse assise”, di Renoir fanno da contrappunto i colori pieni di sostanza di Cezanne. I corpi delle sue “Cinq bagneurs”, concretezze che si proiettano all’assoluto, sono “materia viva” inserita nella natura, come elementi complementari ad una costruzione in cui “il paesaggio si riflette in me”, diceva il pittore, “ed io divento la sua coscienza”. Il suo profondo realismo che trascende le apparenze, ci introduce al visibile, sempre difficile da afferrare se non si hanno occhi fatti di cuore e mente, riformulando la geometria e la distanza fra le cose.

Il ritratto di “Madame Cezanne col ventaglio”, acquistato da Leo nel 1904, sarà una rivelazione agli occhi di Gertrude: “Cezanne mi fece comprendere che in una composizione ogni cosa ha la sua fondamentale importanza ai fini dell’armonia”, scriverà nelle sue memorie, “e indirizzò tutta la mia visione di letterata”.

I girasoli sulla sedia di Gauguin brillano di calda luce propria. Il bianco-nero, vellutato di Manet nella “Scena del ballo” getta una luce inquietante e un’ombra rassicurante sulla realtà. Sui canapè rossi vellutati del “Salon” di Toulouse-Lautrec le prostitute, modelle ideali prive di artifici, attendono pazientemente composte i loro clienti. Struggente, dignitosa umanità tratteggiata con linee sinuose e sicure. I disegni di Degas catturano il faticoso lavoro delle ballerine. C’è tutta la naturalezza dell’intimità svelata nella sensuale “Siesta” di Paul Bonnard. La sua donna con il corpo carezzevole di pelle lucente, sottile, si allunga nuda, supina, sul letto sfatto, incastonato nei motivi floreali dai colori pastello della carta da parete che accentuano il calore e la profondità lirica della scena.

L’esplosione squillante di colori innaturali della “Femme au chapeau” di Matisse, ritratto “scabroso” della moglie Amelie, quasi una cancellazione di femminilità, con lei seduta obliqua, mentre un raggio verde le attraversa verticale il viso, inaugurerà la stagione “fauviste” e caratterizzerà l’avventura degli Stein, scopritori e mecenati di talenti.

Il giovanissimo, impacciato Pablo Picasso fu introdotto nel salotto buono dell’arte nella primavera del 1905. Fra la massiccia, intelligente Gertrude e il sanguigno, ambizioso Picasso fu subito colpo di fulmine, suggellato da un ritratto ieratico, severo, scolpito, anticipando così la nuova percezione “mentale” della realtà: “brutta”, rivoluzionaria, scomposta, così come appare nelle “Madamoiselle d’Avignon”, il manifesto del Cubismo, che poi spezzerà ulteriormente in schegge senza tempo e deformazioni prospettiche dello spazio. I quadri “Blu” di Picasso e i “Rosa” ci avvicinano alla sua arte “non cercata, ma trovata”. “Non mi occupo di meditazioni né di sperimentazioni”, affermava. L’essenzialità delle sue prime, malinconie monocromatiche dalle infinite sfumature, si alternano con le nubi colorate che si liberano sconfinate e colme di gioia di vivere nelle tele di Matisse. Sempre rivali i due: armonia delle forme e vitalismo senza limiti ancora oggi a confronto.

In Inghilterra, invece, la ricerca della modernità e l’antagonismo verso la tradizione e il puritanesimo vittoriano, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, assunse le sembianze di un edonismo che aspirava a fare dell’esistenza stessa un’opera d’arte. “Di fronte alla durezza della vita operaia, ben descritta da C. Dickens, la società inglese restava essenzialmente aristocratica e rigida”, spiega Yves Badetz, curatore di “Beauté, morale et volupté en Angleterre”. Il personaggio controverso di Oscar Wilde, per la sua acutezza e per la tragica vicenda umana ed artistica “illustra bene lo spirito dell’epoca. Il Movimento Estetico sottintende una forma di apertura sociale nella struttura monarchica solidificata, nella quale gli artisti rimanevano ai margini”. Recupereranno il loro ruolo, estendendo la loro visione della realtà centrata sulla bellezza verso ogni direzione. La mostra dell’Orsay racconta questo percorso, iniziando dalle opere degli artisti “preraffaelliti”, come Burne Jones, Rossetti, McNeill Whistler, Leighton, Moore, per proseguire nella descrizione della Rivoluzione tranquilla, che cambiò modi di vita, gusti, arredi, all’insegna “dell’Arte per l’arte”.

Se l’atmosfera degli interni decorati dalle esotiche tappezzerie di W. Morris rendono il gusto liberty dell’epoca, le sedie, i tavoli, le credenze, dalle leggere essenzialità di E. W. Godwin e l’oggettistica d’avanguardia di C. Dresser dall’eleganza visionaria anticipano l’estetica del Novecento e il moderno designer. La nozione di “house beautiful” diventa la norma della vita culturale, il culto e la rilettura dell’arte giapponese un nuovo codice sintetico cui ispirarsi.

Quando Wilde, negli anni Ottanta, assume il ruolo di “Esteta fra gli esteti”, portavoce del movimento, coniando con grande modernità slogan, che si impongono nell’opinione pubblica, l’Estetismo ha già percorso gran parte del suo cammino e ormai saturo di eccessi è in dirittura d’arrivo: le accuse di “condotta immorale” e i processi distruggeranno Wilde e segneranno il definitivo declino del movimento.

Il video ufficiale della mostra al Museo d’Orsay

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Il servizio sulla mostra L’aventure des Stein al Grand Palais di Galerie Musées con intervista a Cecile Debray curatrice della mostra
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Una mostra per regalo

giacometti e  gli etruschiMARIA CRISTINA SERRA | Sono molte le proposte in questo rigoroso e austero inverno e ci invitano ad attraversare i quartieri da una riva all’altra della Senna, seguendo il filo dei nostri vissuti, per tracciare un itinerario artistico a seconda delle suggestioni del momento. A Place de la Madeleine, salotto buono dei buongustai con le ricche boutique-gourmet, addobbate a festa, il magnetismo del manifesto “Alberto Giacometti e gli Etruschi” c’invita ad entrare nella Pinacothèque de Paris, dove fino al 15 gennaio si potranno ammirare le ascetiche sculture del maestro del Novecento, che idealmente si confronta con un’arte e con un popolo depositario di segreti ancora da scoprire. Una sapiente illuminazione evidenzia l’empatia fra i reperti archeologici, provenienti dal Museo Guarnacci di Volterra e le opere dello scultore che riuscì a plasmare con la materia i temi della filosofia esistenzialista. Appropriati pannelli esplicativi spiegano al pubblico tutta la complessità estetica e culturale di una mostra, che si propone con grande ambizione di tracciare una linea formale e filosofica fra due mondi disgiunti fra loro da 2.500 anni. “L’ombra della sera”, la splendida statuetta longilinea del III° secolo a. C. si confronta con la “Grande femme” del 1960 dai contorni frantumati. “L’homme qui marche” esplora con i suoi lunghi passi l’infinitezza dello spazio. Le terrecotte etrusche, finemente decorate, si confrontano con gli ascetici “Trois hommes” filiformi. E’ un continuo alternarsi di figure e forme, dai significati misteriosi che fissano un insolito punto di incontro fra mitologia e surrealismo, arte primitiva e avanguardia, tanto da far osservare a Marc Rastellini, direttore della Pinacothèque, che forse Giacometti stesso “è stato l’ultimo degli Etruschi”.

Ma a Natale si diventa tutti un po’ bambini, almeno per qualche ora, per evadere e cercare riparo dai propri affanni, tuffandosi nel mondo dei giocattoli. “Des jouets et des Hommes” è una insolita mostra sull’importanza dei giochi “prima iniziazione all’arte”, come diceva Baudelaire, o addirittura “la forma più elevata della ricerca”, come osservava Einstein. Nelle sale del Grand Palais, fino all’11 Gennaio, un migliaio di giocattoli, dall’antichità ai nostri giorni, accompagnati dalle geniali installazioni dell’artista Pierrick Sorin, ci illustrano attraverso più sezioni tematiche l’importanza degli oggetti che mettono in relazione i bambini con le loro emozioni e con l’universo degli adulti. “Simboli evocativi che ci permettono di incrociare una moltitudine di campi del Sapere: storia, antropologia, psicologia, sociologia, economia”, spiega Bruno Girveau, commissario dell’esposizione insieme a Dorothée Charles, che sottolinea come proprio attraverso i giocattoli si evidenzi che “i modelli e gli stereotipi femminili e maschili, ancora oggi, stabiliscono ruoli separati e vincolanti per i bambini”, difficili da sovvertire.

Bambole di pezza, di porcellana, di celluloide, o longilinee Barbie “vintage” degli anni Sessanta, raccontano l’evolversi dei costumi nell’immaginario infantile. Gli esemplari di “bambole meccaniche” di fabbricazione tedesca, inglese e francese dei primi del Novecento dimostrano una tecnologia d’avanguardia. La “poupée chantante” del 1893 per la Maison Jumeau è un gioiellino d’inventiva. I pelouche hanno un grande potere consolatorio, e l’orso tedesco “Steiff” del 1907 vendette in quell’anno un milione di esemplari. E’ ricchissima la sezione dedicata agli animali, così come quella dei soldatini di piombo e di plastica, di trenini, automobiline, battelli e carrozze, che segnano e delineano epoche e modi di vivere. L’aeroplano meccanico di Babbo Natale con i doni, esposto nel 1925 nelle vetrine del Bazar de l’Hotel de Ville (il grande magazzino BHV, ancora oggi il più frequentato dai parigini, con il suo incomparabile reparto di Bricolage), stupisce ancora per sue animazioni, un inno all’incanto per bambini e adulti.

La grande fotografa Giséle Freund è visibile fino al 29 Gennaio alla Fondazione Yves St. Laurent. L’artista tedesca, di origine ebraica (emigrante a Parigi durante le persecuzioni razziali) è in scena con “L’oeil frontière – Paris 19933/1940”, un percorso affascinante nella storia letteraria ed artistica del Novecento e del fotogiornalismo d’autore. “La fotografia è un linguaggio universale, comprensibile a tutti, mi ha permesso di esprimermi”, scriveva ne “Il Mondo è il mio obiettivo”, mentre traduceva per noi con la sua Leica lo spirito più intimo ed autentico dei personaggi. Il suo occhio sensibile coglie la fragilità impenetrabile di Virginia Woolf, fuggiasca dai demoni che l’assillano, ma anche “illuminata da una luce interiore, sincera, visionaria”. Così come la penna di Virginia Woolf era riuscita a registrare la fluidità del tempo in un perenne presente, cogliendo le dinamiche dell’anima e i flussi di coscienza delle sue figure attraverso folgorazioni fugaci, in grado di penetrare “in un cuore di tenebre cuneiformi, invisibili agli altri”, per ritrovare l’essenza della realtà. Il flusso della Storia, attraversata in una sintesi unitaria di esistenza privata e avventura collettiva, traspare dal viso severo, disteso, di solida “ragazza per bene” di Simone de Beauvoir. Immagini a colori netti, forti come il suo pensiero, coerente, lucido, esente da smarrimenti, radicato nelle contraddizioni concrete della vita. J. P. Sartre è il filosofo ”engagé”, “condannato ad essere libero”, impegnato nella realizzazione di una solidarietà di classe, qui circondato dagli oggetti del suo quotidiano: i libri e la pipa. E’ di sfida l’atteggiamento di A. Malraux, ripreso nel 1935 sul terrazzo della sua abitazione. “C’era vento, lui si tirava indietro i capelli con mano nervosa”, racconta la Freund, “senza accorgersi che avevo scattato più volte, mentre parlava”. Colette, autrice di successo, ha i gesti studiati “di attrice nata, non le importava essere bella in fotografia, amava l’obiettivo e ne capiva le esigenze”. Aristocratico, distaccato, formale, immerso nella realtà della sua giornata, lo scrittore irlandese J. Joyce. Racchiuso nell’atmosfera surrealista della sua casa, J. Cocteau, le dita sottili, nodose, da teatrante, che stringono la sigaretta. A. Gide è pensieroso: alle sue spalle, appesa alla boiserie, la maschera di Leopardi.

E’ come lo immaginiamo, chino fra i suoi libri, i suoi manoscritti, concentrato a ricomporre i mille frammenti illuminanti della sua mente, il filosofo e critico tedesco W. Benjamin.

“La fotografia deve leggere un viso come si legge la pagina di un libro, essere capace di decifrare anche quello che è scritto fra le righe”, è l’imperativo della Freund, “non si chiede ad un fotografo di creare le forme, ma di riprenderle, come un buon traduttore, che a sua volta deve essere capace di scrivere”.

Intervista a Dorothée Charles curatrice della mostra al Grand Palais
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Un video di BFM TV sulla mostra
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Le bugie con le gambe lunghe di De Filippo e Cinema Cielo di Manfredini

RENZO FRANCABANDERA | Scriviamo in questo articolo di due spettacoli, Le bugie con le gambe lunghe di De Filippo visto al Donizetti di Bergamo e Cinema Cielo di Manfredini visto al Franco Parenti di Milano.

Cinema Cielo è una bella signora matura con le rughe. Una signora che indossa i suoi anni con eleganza, non ha voglia di nasconderli, e racconta sé e il suo vissuto.

Nella bella stagione del Teatro Franco Parenti, fra le più interessanti a Milano quest’anno, grazie alla volontà della direzione artistica, Danio Manfredini sta riproponendo i suoi lavori storici, quelli che hanno portato al successo non solo l’attore, ma anche il drammaturgo e l’artista a tutto tondo. La coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Santarcangelo dei Teatri ritorna così a vivere e il successo di pubblico è stato eclatante. La prima ha fatto registrare praticamente il tutto esaurito: in scena va il degrado da periferia di città, le vicende del suo sottoproletariato fatto di giovani disoccupati, anziani, immigrati arrivati al check point con il mondo ricco al quale non avranno mai accesso.

Manfredini, come gli altri attori, interpreta diversi personaggi, ad iniziare dalla prostituta che passeggia in cerca di clienti davanti al vecchio cinema: una foto proiettata gigantesca su un velo che presto si squarcia per portarci proprio dentro il cinema. La visione dell’interno del cinema, quasi speculare a quella da cui gli spettatori guardano lo spettacolo, con le poltroncine rosse, non può lasciare indifferenti nel profondo.

Quanto questi due mondi che per tutta la pièce si guardano in un dialogo mai diretto sono realmente in contatto fra loro. Quanto la piccolo e medio borghese platea che assiste alla replica si confronta con quell’universo portato in scena? Quanto lo accetta? Quanto lo sente parte di sé? Sono questi gli interrogativi più profondi e drammatici dello spettacolo di Danio Manfredini, quelli che ancora oggi, a distanza di quasi 10 anni, restano vivi e potenti. Allora lo spettacolo valse all’artista il Premio Ubu per la miglior regia. La messa in scena aveva ed ha un sapore comunque corale, di cui sono parte integrante, sempre viva e presente, gli altri interpreti Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro. La platea è riempita da altre presenze che, come ne La classe morta di Kantor, sono burattini inanimati, riproduzioni a grandezza naturale di esseri viventi, a simboleggiare figure al limite, il cui stato in vita è forse più spesso sulla carta che nei fatti. Manfredini aveva già fatto ricorso a queste figure in altri suoi spettacoli, e in alcune scene, come quella della piccola orgia che avviene fra le squallide poltrone del cinema, la presenza dei manichini è viva e reale, con effetti tragicomici che non sfuggono allo spettatore.

Cinema Cielo, nel nostro profondo e anche nel decennio di distanza che ci separa dalla sua elaborazione concettuale, più di tutto, oltre all’insita bellezza in se stesso, spiega anche moltissimo della scena teatrale italiana degli ultimi quattro cinque anni. A volte si ha l’impressione che l’attenzione al periferico, a ciò che è borderline o semplicemente in posizione di volontaria o costretta incomunicabilità con la maggioranza crassa e silenziosa sia invenzione di nuovi geniali registi. Cinema Cielo ci ricorda di quanto la paternità, volontaria o involontaria, sia chiara nelle ricerche di chi quei bordi li ha vissuti e indagati per anni come certamente Manfredini ha fatto.

E’ uno spettacolo che, ove se ne avesse ulteriore possibilità, va visto. Perché ha segnato un passo, è una pietra. E’ elaborazione di quanto lo aveva preceduto, e impasto per quello che gli è succeduto. Come sempre il teatro è. Nessun genio improvviso nasce fuori dal suo tempo, senza respirare quello che lo circonda, le finte ricchezze e le vere miserie che sono l’unica, vera costante della vicenda umana. Gli spettatori del film porno nella saletta del Cinema Cielo guardano a noi, in sala. Siamo noi la vera pornografia, gli interpreti di quel “Nostra signora dei fiori” che rimane per tutto l’allestimento alterità spaziale e spettacolare esterna e quasi sempre silenziosa. Proprio come fuori dal cinema. E dal teatro. Come dieci anni fa, come oggi. Il dentro e il fuori. Noi e loro per dirla con i Pink Floyd di the dark side of the moon che Manfredini sceglie come colonna sonora.

Alcune immagini di Cinema Cielo

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Luca de Filippo grazie alla eredità familiare, che lo lega in filo diretto a tutto il teatro di prosa del Novecento napoletano da Scarpetta a suo padre Eduardo, continua con instancabile tenacia a portare in giro l’immenso patrimonio intangibile di famiglia, fatto di opere che anche allo spettatore più distratto continuano a comunicare la loro attualità ed eterno legame con la vicenda umana. Non è un caso che le commedie di Eduardo siano, nel teatro amatoriale del centro sud Italia, quelle di gran lunga più rappresentate, a significare un legame con la società sempre vivo e resistente.

Le bugie con le gambe lunghe è opera del dicembre 1946, rappresentata un anno dopo a causa del successo dello spettacolo precedente, quel Filumena Marturano che Luca ha portato in giro di recente con l’interpretazione di Lina Sastri, successo che provocò una serie continua di rinvii nel debutto della drammaturgia successiva. Gli spettacoli di quegli anni, come Filumena, Le voci di dentro e anche Le bugie con le gambe lunghe sono imperniate intorno al tema del vero, della convenzione, di ciò che è giusto mostrare al consesso sociale e ciò che invece è decoroso e borghese nascondere. Così la fame e la povertà vengono chiuse in credenza mentre i vicini fanno visita, in un’amarezza che però centra il suo fulcro sulla misera come condizione dell’animo più che su quella materiale. Eduardo mostra così una radicale attenzione alla necessità della sospensione di giudizio sul dramma della condizione disagiata, ponendo invece l’accento su come la miseria porti alla distorsione della morale intesa come insieme di norme condivise nel consesso sociale.

Questa lettura rimane tal quale, sostanzialmente, nello spettacolo che Luca de Filippo propone, e con cui si è aperta la stagione del Donizetti di Bergamo. Come nel Pirandello de Il piacere dell’onestà e di altre opere coeve, Le bugie è opera incentrata sull’ossimoro fra la figura sincera e dal tratto ingenuo ma dignitoso del protagonista Libero Incoronato, e un condominio abitato da vicini che lo coinvolgono, senza mai riuscirci, nelle loro squallide vite fatte di menzogne che la convenzione sociale richiede vengano mantenute in piedi e continuino a camminare a lungo (di qui il titolo della pièce). La scenografia di Gianmaurizio Fercioni con i fondali di Giacomo Costa è come sempre negli spettacoli di De Filippo assai sontuosa, ricca al limite del didascalico, ricordando il classico interno napoletano sommerso da palazzi l’uno sull’altro, grigi di un grigiore che non dà respiro.

E’ in una casa che non vede la luce del cielo che abitano Libero e sua sorella, in una condizione tale da suggerire alla zitella di prendere marito quale che sia, pur di aver sulla tavola qualcosa in più che un uovo e un misero brodino. La produzione è della Compagnia di Teatro di Luca De Filippo e nelle 2 ore e 40 minuti di spettacolo (con intervallo) il pubblico ha esattamente quello che si aspetta: da Luca De Filippo (nel bene e nel male) pare impossibile avere sorprese, in una costante proposta non solo di un corpus di opere ma anche di un codice che vuol mantenere un impianto tradizionale, che prevede ammiccamenti e trovate recitative d’antan, appoggiate qui e lì sulle spalle degli attori dei personaggi minori, spinti al limite del macchiettistico, in gag che sono pensate volutamente in forma esagerata, come ad esempio le crisi isteriche della vicina di pianerottolo che cerca di coinvolgere l’impassibile Libero nella copertura, a sua insaputa, di una tresca.

Lo spettacolo è godibile, sia chiaro, ma ci piacerebbe poter pensare di assistere prima o poi a qualche lettura audace di Eduardo, che lo riporti in vita, che continui a far battere il cuore: magari con minor dispendio di energie “scenografiche” e maggior ricerca degli ambienti umani interiori, che tanto furono del modo rigoroso di pensare parterno, fuor di eccessi, in un teatro che ritrovi misurata povertà e profonda adesione al reale, per testi che continuano, nonostante tutto, a respirare attualità.

Un video dello spettacolo di De Filippo
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La Cina è vicina… a Parigi

ArtisticinesiaParigi_PangXunquinMARIA CRISTINA SERRA | Il Museo Cernuschi è la cornice suggestiva per godere le opere degli “Artisti cinesi a Parigi” (fino al 31 dicembre), che fra le due guerre mondiali, come viaggiatori speciali, hanno superato le frontiere di due mondi lontani, per tracciare attraverso la pittura una sintesi artistica fra Oriente e Occidente

Il verde severo degli abeti, ancora spogli di decori, riempie i marciapiedi antistanti le botteghe dei fiorai. Le vetrine degli alimentari sono decorate da bacche cremisi, finti fiocchi di neve e Babbi Natale di cioccolata. Lungo gli Champs Elysèes si susseguono gli chalet di legno del tradizionale “mercato di Natale”. Nell’aria fredda si diffondono i profumi speziati del vino caldo e delle frittelle. La notte si accende di magia con le luminarie, per lo più le stesse dell’anno passato.

La crisi è tangibile! Qui, come ovunque le “ragioni” delle élites sono inconciliabili con quelle dei cittadini: incertezze, contraddizioni, interrogativi sospesi sul futuro formano un’ombra palpabile. Con qualche scintilla di speranza, che ci appare lontana anni luce dalle “certezze” inique e inutili dei distinti “professori nostrani”, suggellate da zuccherose lacrimucce. Quando le inquietudini prendono il sopravvento è bene prendere le distanze, gettare uno sguardo in luoghi che riescono ancora a custodire l’equilibrio cuore-mente, come il Parc Monceau nell’8° arrondissement, nei cui spazi (progettati a metà del 1.700 dall’architetto Carmontelle, per dare l’illusione di un paese senza confini né temporali né di stili) sono visibili le sculture di artisti cinesi contemporanei, riuniti intorno al tema “Secondo natura”. E’ un parco, questo, con una sua particolarità, non solo perché collocato fuori dagli itinerari più consueti, ma per il suo incanto fermo nel tempo e l’armonioso disordine architettonico, delimitato da discrete e prestigiose dimore “fin de siècle”, che rivelano inaspettate magnificenze oltre i loro portoni.

Il Musée Nissim de Camondo è uno di queste. Racconta di una saga familiare di banchieri ebrei mecenati, partita da Costantinopoli nell’Ottocento, poi sterminata ad Auschwitz, e di una preziosa collezione di arredi, dipinti e porcellane. A breve distanza, il Museo Cernuschi raccoglie una sofisticata raccolta di arte cinese e giapponese, oltre ai segreti dell’avventurosa vita di Enrico Cernuschi, finanziere dalle misteriose fortune (forse all’ombra della potente fratellanza massonica) e amante d’arte orientale.

La mostra sugli “Artisti cinesi a Parigi” ci introduce storicamente alla comprensione dell’avventura parigina di una generazione di artisti di diverso orientamento e temperamento, che fra il 1920 e il 1958 rivoluzionarono i loro tradizionali canoni di pittura, per riportarli poi, rinnovati di contaminazioni, al loro ritorno in Cina, con l’obiettivo di contribuire al rinnovamento artistico del loro paese.
Già dalla metà del XIX° Secolo, le migrazioni intellettuali verso l’Occidente di pittori avevano accompagnato le profonde modificazioni che la decadenza dell’Impero e il dominio degli interessi commerciali dell’Imperialismo europeo avevano inferto alle tradizioni millenarie. Lacerazioni che gli artisti in cerca di ispirazioni a Parigi cercarono di rimarginare, reinterpretando le avanguardie del Novecento, alla luce delle loro antichi canoni, costruendo così un originale ponte ideale e stilistico fra due civiltà e una nuova coscienza della loro identità. Più ancora della rappresentazione della natura, quella del corpo nudo femminile permettono di cogliere le differenze fra le due diverse sensibilità.

In Pan Yuliang, la figura carica di erotismo mantiene una dimensione scultorea dai tratti sensibili e modulati attraverso la tecnica tradizionale del “Baimiao” (una pittura ad inchiostro monocromo), alternanta con colori ad olio. Il “Nudo seduto”, con la testa raccolta fra braccia e gambe sembra custodire il segreto della morbidezza e della femminilità. La “Belle Dame” di Lin Fengmion (che fra il 1965 e il 1972 fu imprigionato, subì persecuzioni e interdizioni a dipingere) ha le forme sinuose e i colori a olio netti e forti assumono la leggerezza dei fiori di loto, grazie ai contorni bianchi e straordinariamente trasparenti dei veli, che ricoprono pudicamente il corpo. Le composizioni floreali e i nudi di Samyu rendono un senso grandioso dello spazio, che si esalta nella “pienezza” del vuoto. Un perfetto senso di armonia, che si equilibra sull’incompiuto. Ci appare una meraviglia “Il paesaggio con neve” di Liu Haisu dai colori bruni e chiari, pastosi, grumosi, stesi con minute pennellate, che ne esaltano i rilievi, mentre un chiarore solare penetra a tratti fra un cielo carico e minaccioso.

Il ritratto di Shana, la bambina-icona della mostra, realizzato da Chang Shuhong, offre l’esempio di una sintesi tecnica fra tradizione cinese ed europea, associando la frontalità della figura e la verticalità della scrittura ai contrasti dei colori del soggetto più propriamente occidentale. E’ una pittura naturalistica quella di Xu Beihong, che soggiornò fra gli anni Venti e Trenta a Parigi e a Berlino, più orientato versi i maestri del passato che all’avanguardia.

Tutti i confini sembrano superati e sublimati nello splendido paesaggio di montagna di Zao-Won Ki, in cui le forme sembrano confondersi con la vita e con la luminosità dei desideri. Sottili tratti di pennello nero e chiaro, indicano i rami che flessuosi tagliano montagne e orizzonti, che si confondono con inverosimili sfumature di celesti e turchesi. La presenza umana è indicata solo dai tetti inclinati delle case illuminate dall’interno, saldamente sospese, in bilico fra terra e cielo: naturalezza e irrealtà, duplicità di ogni pensiero. Una mostra che scalda i cuori e testimonia come l’arte possa anticipare gli incontri tra le culture, molto più della politica, della diplomazia e degli scambi commerciali, fornendo una lettura “consolatoria” della realtà.

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"Il giardino dei ciliegi" di Paolo Magelli e "Il Teatro dei fratelli Scomparso" di Andrea Meloni

RENZO FRANCABANDERA | Scriviamo in questo articolo di due spettacoli, “Il giardino dei ciliegi” con la regia di Magelli, coproduzione Metastasio di Prato e Stabile di Sardegna, e della riproposizione al piccolo e vivace Teatro Alkestis de “Il Teatro dei fratelli Scomparso”, di Andrea Meloni.

“Il giardino dei ciliegi” di Magelli è una coproduzione Metastasio/Stabile di Sardegna che vede coinvolto un importante numero di attori, tecnici e personale, quello che si potrebbe a giusta ragione chiamare un grande allestimento, se non fosse per la povertà assoluta della scenografia, che nasce per sottrazione, sventrando il palcoscenico di ogni struttura per mostrare le nude pareti del teatro. E’ in questa spoliazione che si ambienta il dramma della distratta decadenza, di quel sentimento di fine impero, con feste e bagordi, proprio mentre il Titanic affonda.
E’ questa la metafora di tutto il primo e dell’inizio del secondo atto del capolavoro cecoviano, che Magelli rilegge al gusto della Mitteleuropa. Gli attori infatti sono per tutto il primo atto impegnati in una corsa frenetica, alla snervante ricerca di qualcosa che ovviamente non trovano, perché è tipico delle caste consolidate non capire il cambiamento, la frana che sta per travolgerle. Entrano ed escono dal luogo teatro, attraverso le porte di accesso diretto al palcoscenico, di solito riservate alle maestranze.
Il sapore della Mitteleuropa che Magelli porta in eredità dai suoi trascorsi alla scuola della Bausch e di altri grandi nomi della grande regia continentale si assapora nella nessuna o scarsissima indulgenza sui costumi, nel ritorno di fiamma per la biomeccanica e dalle nuances espressioniste che marcano i personaggi, caratterizzati quasi come prototipi di questo o quel difetto, come nella commedia dell’arte.

E che in fondo il giardino sia scheggia neanche troppo omeopatica della Commedia della vita e i suoi personaggi, riflesso di opaca luminescenza dell’eterno gioco del contrasto fra classi di privilegio e classi di lavoro, dell’ottundente crapula senza misura contrapposta al trionfo dell’ignorante e insensibile ascesa della classe media, è un fatto che non sfugge alla regia, che affida proprio allo spasmo del movimento corporeo il compito di trasmettere questo disagio.
Qualcosa però non si irradia nella giusta direzione, e qualche scelta appare macchinosa e artefatta. Facciamo un esempio per tutti: al termine del primo atto, una prima frazione di spettacolo marcata, diremmo marchiata, dal vorticoso movimento dei protagonisti, a tratti in onestà quasi inspiegabile, gli stessi si ritrovano a comporre una sorta coreografia a forma di stella a dieci, dodici punte, un cerchio di cui gli attori sono limite della circonferenza, seduti in terra a guardarsi e ad escludersi dalle rispettive forze di comunicazione. Il fatto è che questa così accurata composizione è totalmente estranea alla logica di movimento che fino a quel momento si è avuta in scena, tanto che alcuni attori devono andare a comporre questa coreografia lasciando la posizione fino a quel momento occupata in scena, il che è ovvia riprova dell’innaturalezza di quel movimento, che diventa più omaggio ad una ricerca a sè stante che un gesto necessario, figlio e concatenazione vivente rispetto a quanto fino a quel momento visto. Questa medesima sensazione ricorre a più riprese nella fruizione della pièce, a sostanziare ulteriormente l’idea di uno sforzo intenso ma freddo, quasi preordinato e incapace di spogliarsi dei petali superflui, fiore che soffoca della sua esuberante inflorescenza, senza arrivare a godere di quella temperatura emotiva necessaria al massimo sviluppo. E’ questo che invece che far lievitare, sgonfia per buona parte lo spettacolo e l’idea del giardino di Magelli, che invece in alcuni tratti è capace di tenere alta l’attenzione e la tensione. Le scelte registiche forzano le interpretazioni di attori di consolidata esperienza a vestire maschere tanto grottesche da finire per essere irreali e distanti, accorciando il fiato di uno spettacolo che, se invece trovasse la giusta misura e sfrondasse i suoi barocchismi apriori, potrebbe dire qualcosa di utile e di nuovo.
Un bambino di nove anni che mi era seduto di fianco ha riservato grande attenzione all’allestimento per tutta la sua durata, a testimonianza che qualcosa di ingenuo e primitivo che lega tutto (oltre al testo, ovviamente) nello spettacolo c’è, ma che, come spesso accade, la sovrastruttura prova a dire con così tanta addizione di particolari, da far perdere lo stesso gusto animale agli spettatori adulti. Il bambino ha confessato poi di essere stato fulminato dall’interpretazione di Mauro Malinverno, tanto che ad inizio del secondo atto, mentre ha luogo il ballo concomitante con l’asta per la vendita del giardino, mi ha guardato preoccupato chiedendomi dove fosse finito Leonida. Ed è la stessa cosa che, per tutt’altre ragioni, che abbiamo cercato di spiegare, ci siamo chiesti anche noi.

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Presso il Teatro Alkestis di Cagliari, struttura con una tradizione di scuola e presenza sul territorio, è terminata in questi giorni una mini rassegna che ha tenuto banco per tutto il mese di Dicembre.
A chiudere la parte del 2011 della stagione teatrale di questo piccolo e grazioso teatro, il ritorno di Andrea Meloni su un testo da lui scritto e interpretato, “Il teatro dei fratelli Scomparso”, riproposto in una versione composita e rinnovata, radicalmente diversa da quella che era girata alcuni anni fa. Meloni, attivo nella pratica del teatro presso strutture di ricovero per persone con disagio psichico aveva maturato nel 2006 un testo assai pregnante e poetico che aveva portato in scena in una prima versione, con il supporto dell’Associazione Circo Calumet.

Il rapporto fra lo spettacolo fruito in questi giorni e quello originario è necessario per spiegare le scelte operate dalla regia nella revisione dello spettacolo. Il primo era una pièce che, pur con le ovvie mitigazioni necessarie per la generalità del termine, era ascrivibile al genere della narrazione. L’attore rendeva il pubblico edotto circa la vicenda di Alfredo Scomparso e della sua prossimità di disagiati, vicenda che finisce nel ventre di una balena che diventa antro della pazzia, anfratto di un’umanità dal tratto instabile e sperduto. Il tentativo era quello di un progressivo coinvolgimento degli spettatori in questo numero di sperduti, tanto che nella vecchia versione gli stessi a fine replica venivano invitati ad un banchetto povero, nel palcoscenico-ventre della balena. Ad aprire e chiudere quella recita era, con il suo megafono, Simone Dulcis, artista polivalente, attento tanto alle arti figurative quanto a quelle musicali, che era incaricato di piccoli ed essenziali puntelli ad un testo evocativo, poetico, portato in scena con plastica vivacità dal suo autore.

Alcuni anni dopo la compagnia ha avvertito la necessità di riproporre il lavoro, concentrando la ricerca sulla deframmentazione del testo, sull’incapacità del nostro tempo di proporre messaggi unitari, aggreganti. L’intento è quello di mettere a nudo un disagio ricreato tramite una polisemica che si irradia su tutte le forme del teatrale, da quella fisica, a quella vocale, fino a quella musicale. Il sapore di fondo è quello di una ballata brechtiana: non mancano le fisarmoniche e alcune interpretazioni di marcato sapore espressionista, in particolare quelle delle due interpreti femminili che si sono aggiunte al duo storico.

Il cuore della questione è che la nuova proposta, centrata sulla deframmentazione, quasi performativa in un certo senso, della testualità originaria fa perdere quasi del tutto la poesia del bel testo, che si respira solo a tratti qui e lì, a scapito di inserti ora musicali, ora di movimento, ora vocali, spesso inutilmente lunghi e non di rado incoerenti con una grammatica scenica che a fine spettacolo resta per lo più indefinita. Le fisarmoniche si alternano a sequenze elettroniche, le piccole e a suo tempo icastiche acrobazie del protagonista a mimare il beccheggiare di una vita in balia dei marosi, diventano esplorazione di un ambiente ostile che comunica sì inquietudine, ma per il suo non chiudere il cerchio. Molte tracce restano quindi irrisolte e il percorso rimane in forma troppo aperta.

Se dunque alcune fratture nella composizione scenica sono giustificabili proprio per rendere l’idea della follia che incombe sull’umanità, altre restano più solipsisitiche e autoreferenziali, in un agglomerato di arti forse più intento a parlare a se stesso. I motivi di questa implosione sono forse nella reale impossibilità del testo originario di dar corpo ad una polifonia senza che lo stesso perda la sua forza evocativa, o forse semplicemente nell’aver voluto mettere insieme troppo, aggiungendo presenze sceniche che agiscono loro malgrado da forza centrifuga invece che centripeta, rispetto al focus artistico dello spettacolo. Più d’uno spettatore che aveva fruito la prima e ora la seconda versione delle vicende di Alfredo Scomparso, non riuscivano a spiegare questo nuovo esito penalizzato “causa sui”. Insomma Alfredo in questa versione pare veramente scomparso, e lo spettatore se ne chiede a giusta ragione i motivi.