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mercoledì, Novembre 13, 2024
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La Mandragola di Chiti e il Cabaret emotivo di Laura Pazzola

RENZO FRANCABANDERA | In tempi di sperimentazioni, ma meno estreme, con la crisi che morde e la gente in cerca di certezze, torna forte il fascino del teatro di tradizione, quello che in trent’anni è cambiato senza cambiare.
mandragola_0Devo dire di avere una personale attenzione e simpatia per le regie di Ugo Chiti e il lavoro che sempre con puntualità L’Arca Azzurra Teatro porta a compimento senza sbraitanti clamori. Eppure un po’ di spocchia potrebbero permettersela, alle soglie proprio dei trent’anni che ricorreranno nel 2013, da quel famoso laboratorio che Chiti condusse con gli allora ragazzi del gruppo. Di lì in avanti, lui ha continuato ad essere il punto di riferimento registico della compagnia, di cui ha firmato tutti gli spettacoli e loro il braccio armato di un modo di fare scena pulito, senza fronzoli, attento a quel voler far teatro in lingua toscana che era uno dei postulati di partenza, sfruttando appieno l’enorme comunicativa sonora e gestuale della lingua regionale, ma superando derive folclorico-vernacolari da casa del popolo.
E’ così che sono nati sia spettacoli attenti all’evolversi del territorio, come “Allegretto (perbene… ma non troppo)”, “La provincia di Jimmy” e “Paesaggio con figure”, sia spettacoli tratti da drammaturgie della Toscana classica e letteraria. “Ci sono appuntamenti che si possono rimandare a lungo, che si può per anni far finta di non dover onorare, ma arriva prima o poi il momento che quell’incontro diventa irrinunciabile e ti si presenta con l’urgenza che merita, come una necessità, un passo irrimandabile.” E’ con queste parole che loro stessi, Chiti e l’Arca Azzurra, raccontano di questa produzione di tre anni fa che continua tanquillamente a replicare e che abbiamo visto qualche giorno fa a Bergamo, ad inaugurare la stagione Altri Percorsi del Teatro Donizetti. Questa è la Mandragola di Niccolò Machiavelli per l’Arca Azzurra, un incontro che si sapeva di non poter eludere eppure sempre rimandato, sempre spostato più in là nel tempo, finché appena doppiata la boa dei venticinque anni di attività, ecco la compagnia alle prese con la “Commedia perfetta”.
Il piccolo intervento sulle parti più descrittive nel senso della scorrevolezza, aiuta lo spettacolo ad avere un ritmo interno ben ponderato sulle spalle degli interpreti, Giuliana Colzi (autrice anche dei costumi di scena di gran pregio), Andrea Costagli, Dimitri Frosali (impeccabile il suo Nicia tronfio e ignorante allo stesso tempo), e i puntuali Massimo Salvianti, Lucia Socci, Lorenzo Carmagnini, Giulia Rupi e Paolo Ciotti. La scena ha una pedana centrale e attraverso il ricorso ad una decina di piccoli cubi e pochi bastoni che fungono di tempo in tempo da pedane, rialzi, oggetti di altra natura, gli attori riescono a creare ambienti, case, conventi, partizioni delle dinamiche di gruppo, con un allestimento giocoso e canzonatorio che non può non ricordare il Decamerone prodotto l’anno prima.
In onestà, più di tutto restano nella mente proprio la regia e la pulizia dell’allestimento e la prova d’attore di Frosali, che pare veramente perfetto nel personaggio. Il Donizetti è andato tutto esaurito, con un pubblico che ha risposto talmente entusiasta e numeroso, che la direzione artistica forse si è mangiata un po’ le mani per non aver previsto una seconda data. Moltissimi giovani, anche studenti, a far considerare come a volte il tradizionale possa tranquillamente ancora riempire grandi teatri senza problemi, restituendo la sensazione di aver visto un buon lavoro, creativo, equilibrato, corale, che lasciava allo spettatore il giusto margine di fantasia col quale completare l’invisibile di scena.

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Cabaret emotivo, per la regia della giovane artista sarda Laura Pazzola, autrice anche della drammaturgia insieme a Luca Rastello, è un lavoro di gruppo costruito in occasione di un bando di concorso per giovani creatività, promosso dallo Stabile della Sardegna. Insieme alla Pazzola in scena c’è un energico gruppo di attori, musicisti, costumisti e tecnici, di fatto forse alla prima prova di navigazione in mare aperto con uno spettacolo pensto e realizzato “in house”, eccezion fatta per il contributo alla drammaturgia di Luca Rastello, giornalista a Repubblica, redattore e poi direttore de L’Indice dei Libri del Mese, Narcomafie e L’Indice.

Lo spettacolo è un cabaret à la Lecoq, dove i giovanissimi interpreti fanno incontrare il pubblico con un giovane guru e motivatore di dinamiche interpersonali e studioso di comportamenti e gesti, Bob (Robert Kelly). E’ questo conferenziere dal tratto sicuro e aitante che, con il supporto di quattro giovani “dottoresse” (Virginie Maillard, Hélène Morzuch, la stessa Laura Pazzola ed Elisabetta Spaggiari) ci mostra non il “perchè ma il come” delle nostre ossessioni quotidiane, delle dipendenze, e quali possono essere le determinanti per il loro superamento.
La logica narrativa è quella dello sketch, attraverso il cui ripetersi, il gruppo può raccontare un’umanità varia e fragile, dove ciascuno diventa portatore sano di ansie e logiche comportamentali che il nostro guru ci aiuterà a decifrare: dall’interpretazione dei gesti e del non verbale, fino all’analisi delle comunicazioni in contesti plurali, lo spettacolo oscilla, con sufficiente equilibrio, fra la lezione e il cabaret, fornendo spunti di interesse. Come nella miglior tradizione del Teatro del gesto del grande maestro francese della cui scuola molti fra gli attori sono allievi, lo spettacolo parte proprio da quel percepire le leggi che organizzano la vita, a partire dall’osservazione del quotidiano, di cui Lecoq fu fra i massimi fautori nella dinamica pedagogica.
Partendo dal movimento e dal gesto, il gruppo ha lavorato con un marchio di fabbrica inconfondibile attorno ad un’idea forse non pariteticamente sviluppata nella componente drammaturgica. Non c’è pretesa di spiegare motivazioni profonde dei comportamenti, c’è una divertita tassonomia di alcune forme di dipendenza, da quella dell’esercizio fisico a quella emotiva giusto per citarne alcune, eppure alla fine ci resta la sensazione che non si sia arrivati davvero da qualche parte, lasciando che a farsi spazio sia soprattutto il metodo recitativo, che a volte più che il mezzo diventa un po’ il fine, a cui la parola è asservita. Anche se nella logica della lezione sui comportamenti gli sketch sono vere e proprie sequenze a scopo didattico e didascalico, le sequenze sembrano un po’ ingenue e così l’impianto narrativo generale soffre di una mancanza di punto di fuoco, quella sorta di orizzonte del pensiero a cui lo spettacolo dovrebbe tendere, e quindi come tutto quello che veleggia senza un direzione univoca, finisce per sembrare lungo.
Come in tutti i cabaret che si rispettino non manca la musica, che è non solo ben pensata, ma finisce per diventare una delle colonne portanti dello spettacolo, quella su cui non occorre metter mani per modifiche di sorta: i tre musicisti sono jazzisti di buon livello, che sorreggono in più punti l’andamento del recitato, facendo non solo da cotrappunto ma non di rado da traino e da tappeto ironico.
Da registrare il rapporto con lo spazio e in generale l’allestimento dal punto di vista scenico, che vuole sembrare povero ma non rinuncia del tutto a qualche vezzo che alla fine risulta superfluo, come l’impalcatura che funge da macchina scenica la cui presenza è soverchia e a tratti distubante. Su questo è chiaro che le inesperienze risultano più evidenti.
Bene i costumi di Roberta Serra, adattabili e capaci di modificare destinazione d’uso nel corso della rappresentazione. Ospitato all’interno della sala Minimax del Massimo di Cagliari, lo spettacolo ha avuto nelle repliche dal 29 novembre all’11 dicembre un buon riscontro di pubblico, ad incoraggiare l’opera prima e a spingere i giovani attori a continuare a provarci e a mantenere alta la
tensione e l’impegno. Il nostro augurio è quello di conservare la conoscenza degli strumenti didattici ma di tanto in tanto di dimenticarli, di lasciarli un attimo da parte per cercare la ragione del fare in uno stimolo che tenti, con l’audacia tipica degli artisti, di dire qualcosa di nuovo.

Un video de La Mandragola
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Wkky9ObDLCU&w=560&h=315]
Il video di Cabaret emotivo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=WTT2XLh-pII&w=560&h=315]

"Freddo" di Marco Plini ed "Elettra" di Nicola Russo

RENZO FRANCABANDERA | Parliamo in questo contributo di due spettacoli, visti al Teatro dell’Elfo di Milano: “Freddo” di Lars Norèn per la regia di Marco Plini e il commovente “Elettra”, di Nicola Russo – Compagnia Monstera

Freddo: ovvero quando viene difficile applaudire uno spettacolo ben fatto. In scena in questi giorni all’Elfo di Milano, il testo di Lars Norèn diretto da Marco Plini e interpretato da un gruppo di validi e giovani interpreti, non lascia molto spazio a fantasie di sorta.

Un gruppo di tre ragazzi di periferia, espressione di un sottoproletariato senza diritti e speranze, come spesso accade nelle nazioni ricche, vive la propria emarginazione affidando il disagio al credo del nazionalismo di matrice nazista, che nel Nord Europa continua a mietere vittime innocenti: una lunga serie di incidenti e violenze, l’ultima delle quali, proprio nella penisola scandinava, per mano di una persona dal tratto mitomane e squilibrato che ha però causato la morte di decine di giovanissimi attivisti, riuniti in festa su un isoletta.

La drammaturgia, dicevamo, non lascia spazio all’immaginazione: come già per il 20 Novembre portato in scena da Fausto Russo Alesi due anni fa, questo testo va a scavare proprio in quello che abbiamo sotto gli occhi e non vogliamo vedere, quel disagio violento, quella solitudine disperata, quel vuoto consumistico e di niente le cui metastasi sono proprio le forme di violenza estrema in cui la tensione sociale e la disperazione individuale trovano sfogo.

La squadra di attori si muove perfetta, ad orologeria, con uno spirito di fondo che in fermi immagine fotografici stile Hopper, finisce per fissare nella mente dello spettatore una serie di istantanee che vanno a fondo e lasciano un graffio di profondissima inquietudine.

Come nella storia del bombarolo di De Andrè, nessuno può dirsi assolto o estraneo: queste derive della società sono responsabilità della società stessa, della distanza che il mondo ricco e borghese traccia e segna. In fondo la vittima del terzetto di naziskin, incolpevole nei fatti, rimane colpevole nella sostanza di un’estraneità al tessuto sociale povero, di cui rimane vittima. Nessuno di noi si sente responsabile ad esempio del riscaldamento globale, o delle violenze e del degrado sociale, ma ognuno di noi ne è profondamente e intimamente causa, in quell’indifferenza e in quella disattenzione quotidiana, che continua a volgere lo sguardo altrove. Norèn ci sbatte in faccia questa realtà e ci costringe a farci i conti.

Plini, in questa produzione ERT, legge bene il testo, lo porta in scena con millimetrica precisione e, grazie alle notevolissime interpretazioni cui riesce a portare gli attori Angelo Di Genio, Michele Di Giacomo, Alessandro Lussiana e Federico Manfredi, non lascia scampo agli spettatori. Belle le scene e i costumi di Claudia Calvaresi e le luci surreali e davvero gelide di Robert John Resteghini.

La cosa più dura della messa in scena è veder tornare, a fine replica, semplici e sorridenti persone comuni questi ragazzi che fino a qualche istante prima erano belve narcotizzate in preda a deliri etilico-nazistoidi. Una rassicurazione che ancor di più esalta le interpretazioni, perfette e faticosissime, degli attori. Mai come in questi casi il meritatissimo applauso viene difficile da fare. Ma questo, forse, vuol dire che l’operazione artistica ha raggiunto il suo scopo.

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Elettra, biografia di una persona comune, è la prova d’autore con cui il giovane e talentuoso Nicola Russo ci porta nella storia e nella vita di Elettra Romani. Russo è in scena con Sara Borsarelli, in uno spettacolo che definire povero è un eufemismo, ma che con piccoli interessanti accorgimenti, affidati a video, scene, costumi e immagini di Giovanni De Francesco restituisce in forma di estrema tridimensionalità e palpitante partecipazione la vita di una soubrette di provincia, Elettra Romani appunto, della quale sotto i nostri (e anche i suoi stessi occhi) scorre la vicenda umana.

Lo spettacolo potrebbe appartenere, volendo dar spazio alla senescente tassonomia teatrale, alla famiglia del teatro di narrazione. Russo ha lungamente intervistato l’attrice ormai anziana, ripercorrendo con lei non solo la vita artistica, ma anche e soprattutto la durissima vicenda privata, costellata di incredibili sfortune, che parevano combinarsi con una vita passata sui palcoscenici di quel genere, la Rivista, ormai dimenticato, ma che è stato nei decenni degli anni Cinquanta e Sessanta, fino ad inizio anni Settanta, l’ossatura della forma spettacolare che davvero unificava, insieme al cinematografo, il tessuto e la cultura nazionale. Ci viene ricordato nello spettacolo che esistevano riviste specializzate, che nominavano ogni anno per sondaggio popolare l’interprete dell’anno, e la Romani aveva vinto per ben due volte il riconoscimento.

Lo spettacolo è una recita in mutande e paillette, trovata geniale della regia, che costringe i due giovani interpreti a passi minimali, da gemelle Kessler. Qui e lì le difficili vicende della Romani, altrimenti narrate in forma di monologo a due voci, vengono porte allo spettatore come episodi d’avanspettacolo in rima, con piccole coreografie studiate grazie all’intervento di Stefano Bontempi e alla direzione musicale di Gabriella Aiello.

Nelle sue tournèe Elettra Romani era stata ospite del palcoscenico del Puccini di Milano negli anni Settanta, e il suo ritorno su questo palcoscenico non poteva essere più caloroso e commovente, dopo quasi trent’anni. La produzione Monstera, che ha vinto anche l’edizione 2010 del E45 Napoli Fringe Festival, al netto di qualche marginalissima ingenuità dovuta ai pochi mezzi e alla giovinezza degli interpeti, sa portare lo spettatore ad una autentica e non artefatta commozione, di quelle rare da provare, che racconta di una storia umana dura ma anche dell’incredibile fascino della ribalta, i due lati della medaglia della vita di molti artisti, dedicata alla scena e che finisce per essere pagata al duro prezzo della solitudine e a tratti anche dell’oblio.

Edvard Munch. La ricerca infinita di un artista inquieto

MUnch pompidouMARIA CRISTINA SERRA | Un’emozionante mostra al Centre Pompidou (“Edvard Munch, l’oeil moderne”, fino al 9 Gennaio 2012) pone l’accento sugli aspetti meno conosciuti dell’artista norvegese, solitamente identificato come un solitario, ripiegato sull’universo interiore, ma che invece viveva pienamente la realtà che lo circondava

Edvard Munch nasce a Loten (Oslo, Norvegia) nel 1863, nell’anno in cui Manet dipinge L’Olympia”, tela icona della modernità, e muore ad Ekely nel 1944, appena in tempo per assistere ai primi colpi del crollo del regime nazista, che nel 1937 aveva dichiarato la sua arte “degenerata” e l’aveva bandita dai musei tedeschi. Già nel 1892, la sua storica mostra a Berlino aveva suscitato scandalo, ma allora la forza espressiva della sua pittura “intima”, a tratti indefinita, che scavava nel primordiale per far affiorare la sostanza morale dell’individualità, fu poi accettata come innovatrice visione espressionista della realtà e il suo audace linguaggio un’ anticipazione della Secessione.

La sua vita, fatta di frammentarietà e di tensioni, evoca una fragile corda lanciata in aria, che per caso si intreccia con i processi tortuosi della Storia, condividendone ombre, inganni, dissoluzioni e visioni, in un tentativo incessante di riunire i tasselli scomposti di un autobiografico mosaico interiore, lacerato fra pulsioni di amore e morte. Il bisogno di “tirare fuori le impressioni, che agitavano la mia interiorità” lo spinsero verso un’estrema condizione esistenziale, in cui ogni “impossibilità” diventa rivelazione universale, un varco tra le fessure incolori della quotidianità, per far affiorare la consapevolezza cosmica del dolore e smascherare l’inerzia e l’ipocrisia che schiacciano il “corpo sociale”.

“La mia pittura è autoconfessione”, confidava, “un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza e di aiutare gli altri a vedere chiaro”, immagini soggettive che si riempiono di oggettività.L’interesse alle trasformazioni sociali e alle difficoltà della vita quotidiana degli umili e del mondo operaio occupano un’intera sezione della mostra. Sono una rivelazione i suoi Lavoratori “fra la neve” e quelli che “tornano a casa”, plumbei cromatismi e dinamismo cinematografico, che quasi li spinge fuori dalla tela. Oltre che sulla modernità del suo peculiare Espressionismo, che evolverà nell’Informale, la mostra è una indagine attenta anche alla dimensione più sperimentale della sua arte, negli ultimi anni indirizzata verso la fotografia, il cinema, il teatro e la stampa, in perfetta armonia con le sollecitazioni e lo spirito del tempo. Le parole dell’artista “che cosa è l’arte in realtà? L’espressione di un’insoddisfazione nella vita; il segno di un desiderio vitale di creazione; l’eterno scorrere della vita; la cristallizzazione” ci accompagnano attraverso le 9 sezioni tematiche, che evidenziano gli elementi di continuità di questo alchimista di immagini, capace di coniugare il consueto con lo straordinario, l’aneddotico con il metafisico, e le evoluzioni successive, in un intenso percorso teso a realizzare la sinteticità delle forme.

Così i temi del passato e quelli del presente si raggomitolano come i fili di un’unica matassa a cui non serve incontrarsi in un centro statico, perché si riannodano e si estendono in un contrasto visionario e dinamico. “Il bacio degli amanti”, possibile punto di partenza per comprendere la sua poetica, riconferma negli anni la scelta stilistica delle linee curve, sinuose, continue, proprie dell’Art Nouveau e il senso circolare del tempo, che rifugge dalle strettoie della linearità. I colori caldi e pastosi avvolgono le figure, mentre i visi degli amanti si confondono simbolicamente in un’unica anima, tradendo la paura per la perdita dell’individualità. “Il tavolo dell’operazione” è una spietata trasposizione della nudità interiore, Il corpo spoglio e inerte nel freddo bianco del lenzuolo arrossato dal sangue, circondato dall’indifferenza dei presenti, taglia in diagonale lo spazio psicologico, creando un vortice destabilizzante in chi guarda, accentuato dalla stesura piatta e distaccata del colore.

Non serve decorazione per descrivere l’alienazione, la figura si integra nel suo sfondo annullando ogni gerarchia. “La malattia, la follia e la morte sono gli angeli neri che vegliavano sulla culla alla mia nascita”, è la pesante eredità familiare che Munch si portò dietro per tutta la vita. L’agonia della sorella Sophie può avere le tinte più intense e le forme più sintetiche degli anni della maturità o rimanere più in ombra, diluita nei contorni per lasciar correre le emozioni dipinte in gioventù, come nella tela del 1896, dai cupi grigi-marroni, “grattati”, incisi, resi drammatici dal pallore del viso diafano, perché “l’arte è il sangue del cuore umano”. L’amore per il teatro, per il quale crea manifesti e scenografie, emerge in molti quadri, nei quali ridefinisce simboli e spazi “chiusi”, come in “Gelosia” o “La camera verde”, in sintonia con le sperimentazioni del “Teatro di camera” – Kommerzspiele. L’artista collaborò intensamente con i drammaturghi Strindberg e Ibsen, che ritrasse come al centro di un palcoscenico fra drappi scuri. Da una finestra s’intravedono colorate silhouette: i paesaggi dell’anima e quelli della strada a confronto. L’interesse per la fotografia e per il cinema è travolgente per un artista della sua sensibilità, che scopre le nuove potenzialità della tecnica. Tanto che verso il 1930 un’emorragia oculare, alterando definitivamente la sua percezione visiva, lo spinse a sperimentare un nuovo linguaggio astratto per definire le coincidenze fra sé e il mondo.

Le possibilità visive erano già state ampliate dall’amore per la macchina fotografica e dall’uso del grandangolo, che era diventato il suo occhio clinico, attraverso cui catturare il tempo, rileggere la dinamica dello spazio e, soprattutto, proiettare all’esterno la sua psiche. “Non penso ciò che vedo. Penso a ciò che ho visto, le speranze che ho vissuto, quello che ho sofferto”. Gli autoscatti eseguiti durante gli otto mesi trascorsi nella clinica del Dottor Jacobsen, a Copenhagen, per curare la depressione del 1908, sono un’autobiografia lucida e commovente che. prosegue con la sezione dedicata agli autoritratti, in una dialettica vibrante fra opacità e luminosità, a scandire le tappe della sua vita: inquietudini della giovinezza, cupezza della maturità, malinconia della vecchiaia. “Abbiamo vissuto la morte fin dalla nascita. Ora non ci resta che viverre la più strana delle esperienze: la vera nascita che si chiama morte”.

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Variabili umane in trans-formazione

ELENA SCOLARI|La Compagnia Atopos, ospite al Teatro India di Roma l’11 dicembre, nella serata conclusiva del Premio Dante Cappelletti 2011, va in scena dopo essere stata all’Atir Ringhiera di Milano, con Variabili Umane – scene di ironico strazio, d’odio e d’amore, il progetto vincitore della passata edizione, per la regia di Marcela Serli.

La regista argentina Marcela Serli ha tenuto vari laboratori sull’identità di genere per indagare l’interiorità di donne e uomini eterosessuali e non, transgender, travestiti. E ha compiuto la decisione ardita di farne uno spettacolo, con quindici persone in scena, per riflettere in maniera teatrale e “pubblica” sul tema – complicatissimo – del maschile e del femminile.

Abbiamo visto “Variabili umane” in un Teatro Ringhiera pieno e caloroso nonostante la fitta nebbia che avvolgeva l’intero Gratosoglio, pubblico attento e complice, ma noi, che siamo puntigliosi per mestiere, abbiamo avuto varie perplessità.

Abbiamo apprezzato molto la scelta di presentare in maniera piuttosto sincera e diretta un argomento così complesso e delicato come l’identità di genere con le tante sfaccettature delle situazioni di vita di persone che scelgono di cambiare sesso, che stanno cambiandolo, che affrontano con coraggio la terribile difficoltà di non corrispondere, interiormente, al proprio corpo, all’ “involucro” che la natura ha dato loro. Le quindici persone in scena, la loro varietà, sono l’aspetto più interessante del lavoro: una commistione, allegra, profonda e reale, di attori professionisti, danzatori, dilettanti, persone comuni, ex prostitute, un gruppo ricco e che non può non incuriosire. La sincerità però, sfocia troppo spesso nell’ingenuità, alcune brevi riflessioni compaiono nel testo, ancora disorganico, ma non sono abbastanza approfondite, le vite di queste persone vengono presentate per accenni, anche ironici, ma di nessuno di loro riusciamo veramente a capire la difficoltà, lo strazio, la liberazione. Li intuiamo soltanto, intravediamo che esiste un mondo affollato di emozioni e di pensieri che però sono mostrati allo spettatore in maniera molto schematica, l’effetto che si ottiene è duplice: da una parte rimane la sana curiosità di capire meglio queste vite in mutazione, l’incredibile groviglio di chi si sente così a disagio con se stesso e con gli altri da sottoporsi ad un percorso incredibilmente faticoso e difficile, dall’altra si ha la fortissima impressione che sia molto comodo applaudire questo spettacolo perché tutto sembra troppo semplice, sembra addirittura banale sentirsi vicini, solidali e privi di pregiudizi, ma quando vedremo una donna transessuale di 1 metro e 90 a fare la cassiera, la commessa o l’avvocato senza dare di gomito al nostro vicino?

Dal punto di vista teatrale Variabili umane ha alcuni momenti belli, commuove la danzatrice Noemi Bresciani che progressivamente si spoglia di abiti maschili per rivelare la sua identità di femmina, danzando intorno alla ferma affettuosità di una transgender, colpisce la scena finale in cui tutti rivelano la loro nudità di persone, annullando le differenze. Non troviamo invece indovinata l’idea di confezionare il tutto come una sorta di casting per uno show, la regista-drammaturga Marcela Serli si ritaglia un personaggio esterno, fuori dalla scena, che dovrebbe guidare l’andamento ma che non riesce ad essere davvero parte dell’insieme.

In conclusione auguriamo a questo laboratorio/spettacolo, anch’esso in transizione,  di potersi sviluppare diventando più fluido e sferzante.

I burattini con l'anima dei Burambò

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BRUNA MONACO | Chi non conosce la storia di Pinocchio scagli la prima pietra, potrebbe dire un Messia che volesse star sicuro dell’ordine delle sue pietre. Tutti hanno letto il libro di Collodi e, achi non avesse dimestichezza con la lettura, ci ha pensato Walt Disney. Il bambino di legno ha attraversato tutto il mondo.

Questo di Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli della compagnia Burambò è un Pinocchio diverso. Sicuramente non è quello di Walt Disney (come precisano loro stessi prima di cominciare), ma non è neppure una riproduzione pedissequa di Collodi. La vicenda dello scrittore fiorentino è decostruita, vediamo al contempo la storia e lo sguardo sulla storia. E lo sguardo è quello di Pinocchio. In che modo un personaggio, se potesse, racconterebbe la propria storia? Cosa ometterebbe, che ordine seguirebbe? Queste le domande a cui i Burambò, attraverso questo riuscitissimo “Secondo Pinocchio”, cercano di rispondere.

“Secondo Pinocchio” inizia, il nostro protagonista di legno è a quattro zampe (è un burattino intero, ha anche le gambe). Ha un laccio intorno al collo, abbaia al cielo, il suo verso è disperato. “Pinocchio, cosa fai?”. “Sto facendo la scena in cui il contadino mi lega al palo e mi dice di fare il cane”. “Ma Pinocchio, questa scena non c’è più, l’abbiamo tolta, avevi detto che non volevi farla…”. E via una discussione su come impostare la messa in scena, come raccontare la storia, come dare ordine alla ressa dei ricordi: se del tuo passato non fai racconto, un racconto che tu possa guardare e ascoltare come uno spettatore, è difficile trarne il senso. Ma si tratta di una discussione intima, non di una diatriba intellettuale: il Pinocchio dei Burambò sembra il figlio di una famigliola felice.

I confini del baldacchino disegnano la cornice di un grazioso quadro di famiglia, mamma (Daria Paoletta, attrice e manipolatrice) e papà (Raffaele Scarimboli, creatore degli splendidi pupazzi e burattini, oltre che attore e manipolatore) che giocano a mettere in scena la vita della loro esuberante creatura. Pinocchio decide di iniziare a raccontare la sua storia dall’inizio, per bene: allora ecco apparire un ciocco di legno, un manto di neve, Geppetto. E mentre la sua storia fa i primi passi, Pinocchio, che ha ottenuto il permesso di stare a guardare, è seduto in cima al baldacchino, ciondola le gambe e si diverte come un matto. Vede il proprio alter ego in scena. Vede la sua vita, per come lui la ricorda e la interpreta, farsi teatro grazie all’aiuto dei suoi stessi manipolatori.

Come un bambino vero Pinocchio piange e ride, vibra, come scosso da un fremito autentico. A tutti, grandi e bambini, viene voglia di consolarlo, abbracciarlo, coccolarlo. Quasi ci dimentichiamo che dietro di lui c’è la bravissima Daria Paoletta. Ce ne ricordiamo solo quando si apre la tenda, e la manipolatrice/attrice viene fuori col viso arrabbiato, a sgridarlo per qualche sua monelleria. E mentre ridiamo di cuore, capiamo che in teatro un burattino può sembrare, e quindi essere, un bambino più vero del vero.

A fine spettacolo, Pinocchio non si trova più. Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli temono che sia diventato un bambino vero, e che sia scappato. Non se ne fanno una ragione, lo cercano fra i bambini del pubblico: vogliono convincerlo a tornare burattino. Perché diventare un bambino come tanti, quando può restare Pinocchio? Nel libro di Collodi, nonostante la sua carica disturbante, alla fine emerge la morale che vede nella normalità un valore: per il suo Pinocchio diventare un bambino come tutti gli altri è una conquista. Ma oggi, davanti a tanta uniformità culturale, essere eccezionali, diversi, è meglio che essere normali, omologati. Rispettando le forme esterne della narrazione, i Burambò ribaltano il senso stesso della fiaba, cioè che essere bambini sia meglio che essere un burattino. E del resto, perché mai dei teatranti dovrebbero considerare il burattino un essere inferiore e non invece il migliore dei possibili compagni di lavoro? Non è un caso che, nella versione dei Burambò come nella vicenda collodiana, la trasformazione in bambino, e dunque l’irruzione della normalità della vita, segna la fine della storia.

“Secondo Pinocchio” è uno spettacolo intelligente e caldo. Per questo è in grado di emozionare il pubblico infantile ed appassionare gli adulti. Lo svelamento del trucco che sta tanto a cuore alle nuove realtà europee di teatro di figura, qui è alla base del rapporto fra i personaggi, è l’ossatura stessa dello spettacolo. Ed è proprio rinunciando alla magia del trucco che “Secondo Pinocchio” si apre a un pubblico adulto. Pubblico a cui i Burambò mirano già da un po’ stando ad una delle loro recenti creazioni, l'”Alcesti”, creato espressamente per adolescenti e adulti. La qualità del lavoro di Daria Paoletta e Raffaele Scarimboli è indiscutibilmente alta, su tutti i piani, dalla drammaturgia, alla recitazione e manipolazione delle figure, alla regia. Ma, forse, la lezione più importante di “Secondo Pinocchio” è che per farle sembrare vere, bisogna volere bene alle proprie creature, siano esse burattini, marionette, personaggi.

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Muta Imago: quando l'immagine da sola non basta

2_2displaceBRUNA MONACO | È passato un anno da “Displace # 1 La rabbia rossa”. Era sempre il Romaeuropa Festival, sempre i Muta Imago, ma allora si trattava di uno studio, prima tappa di un progetto che si è concluso questo 25 novembre al Teatro Vascello, con la prima assoluta di “Displace”.

La voce di una cantante lirica (Ilaria Galgani) apre lo spettacolo mentre il palco è buio. Dopo un po’, le luci sapienti di Claudia Sorace (è lei i Muta Imago, insieme al drammaturgo Riccardo Fazi) svelano qualcosa della scena: un muro, sembra antico, sembra ci siano delle incisioni. Poi non sembra più un muro ma un telo. Oscilla. O è solo un gioco di luci? Sono proiettate dall’alto, dal basso, da destra, sinistra, cambiano e sono fluide. Cambiano e cambia quello che vediamo. Poi il muro si sgretola insieme all’illusione che sia un telo, in terra restano solo macerie. Su queste macerie appaiono quattro sagome umane. Si vedono a malapena, le luci sono debolissime, boicottano i loro movimenti come a volerle nascondere.

Le quattro sagome si muovono da felini, rovistano fra le macerie, le illuminano con delle torce da minatori. Subiscono gli attacchi di musiche assordanti e fari rossi, fastidiosi, che colpiscono anche il pubblico. Agitano delle fruste, rivolgono al pubblico sguardi disperati. Poi dal soffitto cascano quattro cavi, all’estremità dei ganci che le performer legano a un telo, per terra, finora invisibile. I cavi tirano su il telo che forma la prua di una nave. La nave che trasporta le schiave de Le troiane, il testo di Euripide a cui, in modo sommerso o vago, “Displace” rimanda.

È uno spettacolo tripartito. La prima parte riflette sul mondo sgretolato di cui ci affaccendiamo a raccattare pezzi. La seconda, sulla rabbia che nasce dallo stato di cattività e spaesamento in cui ci troviamo oggi. La terza intravede nella fuga l’unica e necessaria soluzione, che rischia però di assumere i contorni di una deportazione. Temi interessanti, purtroppo mal supportati dalla messa in scena, che non sembra avere approfondito in modo davvero efficace quanto di buono emergeva in quel “Displace # 1 La rabbia rossa”. Identici i punti di forza e di debolezza. Lo spettacolo si è arricchito solo in immagini, una somma quantitativa e non qualitativa, un collezionare più che un produrre senso. Il lavoro scenotecnico, seppur non impeccabile come negli altri spettacoli dei Muta Imago, è pur sempre notevole, ma le immagini non si elevano a spettacolo.

La distanza tra quello si vede e quello che i Muta Imago vogliono dire è troppa. Forse oggi, spettacoli visionari come questi hanno bisogno di un supporto intellettuale più spesso: non essendo coinvolto in un processo intellettuale stimolante, lo spettatore è in sterile attesa davanti alle immagini, le aspetta e vuole che queste lo sorprendano. Ma l’attesa non è il terreno più fertile per la sorpresa. E del resto, la sorpresa ha vita breve: bisognerebbe proporne una dopo l’altra, una più grande dell’altra.

Il punto nodale è forse legato al pensiero che presiede questo spettacolo e molti altri del nostro teatro di ricerca. I nostri artisti sono spesso bravissimi a decostruire, svelarci l’insensatezza che presiede a ogni meccanismo narrativo. Ma viene da chiedersi: e se gli spettatori sentissero l’esigenza di qualcosa di più corposo? La vita è inintelligibile, l’essere umano un’assurdità, l’unità una finzione, ogni teoria un arbitrio. Questo non lo sappiamo già? La non compattezza del reale non è l’inferno che scontiamo ogni giorno? In altre parole, è possibile che il precariato abbia spazzato via ogni dubbio sull’esistenza di un sistema ordinato e comprensibile. E allora, al teatro non chiediamo di dirci ciò che già sappiamo. Ma di immaginare la diversità.

Resistere per esistere

immagine-51BRUNA MONACO | Le compagnie invitate a Roma per inaugurare la rassegna “Corpi Resistenti” all’interno della 26° edizione del Romaeuropa Festival appartengono a scene invisibili. Non solo perché lontane, ma perché operano in contesti in cui la libertà d’espressione spesso non è garantita: Iraq, Algeria, Tunisia, Egitto. Sono corpi che per esistere sulla scena devono resistere nella vita quelli di Selma e Sofiane Ouissi, Mahmoud Rabiey (in arte Vito), Muhanad Rasheed, Fares Fettane, i cui spettacoli si sono svolti e si svolgeranno ancora tra il Palladium e l’Eliseo, tra il 7 e il 27 novembre.

La rassegna si è aperta con un artista affermato, ospite del Romaeuropa Festival per il secondo anno consecutivo: è Radhouane El-Meddeb, in scena al Teatro Palladium con “Quelqu’un va danser”. E si concluderà con un altro acclamatissimo déjà vu per il pubblico romano, e non solo: la compagnia Zimmermann & De Perrot porterà di nuovo al Teatro Eliseo “Chouf Ouchouf”, dal 23 al 27 novembre.
Fra queste due date e questi due apici di notorietà, tanti piccoli gruppi che come stelle appena nate vanno a costituire la galassia dei “Corpi Resistenti”.

Selma e Sofiane Ouissi hanno portato uno spettacolo tecnologico, in cui l’uso della tecnologia non è una scelta ma un bisogno: una è a Parigi, a Tunisi l’altro, ma vogliono lavorare insieme. Si incontrano nell’etere e danzano via skype. Una scelta obbligata, quindi, quella di skype che diventa una felice metafora della situazione generale che sta attraversando il mondo magrebino e mediorientale. Si parla di primavera araba, condotta in larga parte dai giovani, proprio grazie ai nuovi mezzi di comunicazione online.

Le altre performance sono più tradizionali, avvengono sul palco di un teatro. È il caso di “La fin ce n’est que le commencement”
 di Fares Fettane, spettacolo per due danzatori e un violino. Una coreografia semplice dai gesti reiterati, e narrativi. La sincronia è l’elemento coreografico dominante per un rapporto non dialogico né speculare. Un danzatore e una danzatrice, pronunciano le stesse frasi nello stesso momento, ma i loro due corpi sono diversi e ognuno le carica di una sfumatura distinta.

Muhanad Rasheed invece è solo sul palco, la sua performance è brevissima. “B Dream” è quasi più uno studio che uno spettacolo vero e proprio. I movimenti scoordinati delle braccia, in un agitarsi apparentemente insensato. La tunica di stoffa pesante è carica di borotalco che, non appena si muove, si disperde intorno a lui. Come una nebulosa intorno a una stella nascente, appunto.
Infine Mahmoud Rabiey ex danzatore hip hop, in scena insieme a un chitarrista e una cantante, tenta di affrontare la complessa relazione tra dio e l’uomo.

Questi tre spettacoli sono accomunati dalla scelta di temi forti, filosofici o mistici. Anche alcune immagini si riverberano di spettacolo in spettacolo. Si tratta di una simbologia a noi in parte inaccessibile, ma sottolineata, moltissimo a volte. Come i movimenti rotatori che richiamano alla mente il sufismo. Le citazioni e rimandi alla cultura di appartenenza sono presenti e importanti. La ricerca e l’urgenza comunicativa, di sicuro gli aspetti più interessanti degli spettacoli: in un modo o in un altro, tutti, sembrano aver cercato una sintesi tra l’astrazione della danza occidentale e la narratività di quella orientale. Ma la sintesi tra due concezioni così lontane della danza e della scena è difficile da raggiungere. In conclusione, gli esperimenti non sono pienamente riusciti, ma ammirevole è la scelta, chiaramente politica, di creare la rassegna “Corpi Resistenti” e dare visibilità alla primavera araba.

"Sarabanda" di Ingmar Bergman, regia Luconi e "La colonna infame" di Teatro Invito

RENZO FRANCABANDERA | Il Sarabanda di Ingmar Bergman, visto nell’ambito della bella stagione dello Stabile di Sardegna al Massimo di Cagliari, è un lavoro compatto, composto da un primo atto di calma stagnante, ed un secondo di tempesta narrativa ed emotiva. E’ l’ultima drammaturgia scritta dal regista scandinavo, in cui la maestria del narratore di vicende umane trova affilatissima summa.
Un’attempata signora (Giuliana Lojodice) torna a far visita ad un suo ex (Massimo de Francovich). Il figlio di lui (Luca Lazzareschi) ha perso la moglie e vive con la figlia (Clio Cipolletta). Dolori, addii, mancanze, condiscono un primo atto in cui gli eventi paiono scorrere privi di una struttura portante, in un fluido seguirsi di apparizioni all’interno di una scatola scenica ben congegnata, per rendere l’idea di una stagnante situazione di immobilità emotiva. Nel secondo atto tutto si stravolgerà, grazie ad una serie di colpi di scena drammaturgici costruiti con criminale abilità, a grappolo, l’uno nell’altro, per un crescendo che la regia rende con misura e sobrietà.
Proprio per l’irrespirabile calma e la compostezza recitativa esasperata del primo atto, le scelte di regia di Luconi si comprendono e si apprezzano solo a visione completata. E’ quindi il classico lavoro che richiede pazienza, come i romanzi russi, in cui bisogna superare le famose cento pagine per poi esser presi nel vortice delle vicende psicologiche e ambientali. E’ questa l’elegante forza della produzione del Metastasio Stabile della Toscana con la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato: il saper reggere alle tentazioni dello schiamazzo e della fretta e restituire l’intensità di Bergman per intero.
Le interpreti femminili sono assai ispirate, con una menzione particolare per la giovane ma già robusta Clio Cipolletta, attrice di ottimo calibro formatasi alla scuola del Piccolo Teatro che seguiamo con grande attenzione. La Lojodice, dopo il fuori pista all’interno della rassegna romana Garofano Verde con La donna dello scandalo, tratto dal romanzo di Zoe Heller su un amore lesbico fra una donna matura e una giovanissima, continua a lavorare con bravura su drammaturgie in cui si raccontano amori non convenzionali. Forse è proprio la maggior sensibilità femminile rispetto all’umanità fragile a rendere segnare la distanza con i meno ispirati Lazzareschi (a tratti svagato e fuori giri, con un paio di entrate in scena palesemente fuori tempo) e de Francovich, alle prese con un personaggio goffo e cattivo allo stesso tempo (certo l’epifania in camiciona da notte cui è costretto è obiettivamente eccessiva), in un lavoro fatto di equilibri delicatissimi che comunque la regia legge bene.
La messa in scena è ad ogni modo assai buona, lineare, coerente, capace, come una mantide, di apparire innocua per poi ghermire e non mollare più lo spettatore che nel secondo atto non si allontanerebbe dalla sua poltrona per nessun motivo.

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La colonna infame, che Teatro Invito di Lecco ha proposto nell’ambito della stagione di Cada Die Teatro alla Vetreria di Cagliari, è un allestimento ispirato al libello manzoniano, con il quale l’autore tornò sugli episodi più oscuri occorsi durante la pestilenza che nel diciassettesimo secolo flagellò Milano, sulla scorta della sinossi documentale completata in occasione della redazione de I promessi sposi.
Allora come ora, nelle difficoltà, nei tumulti di massa, la pressione giustizialista popolare costringe il potere (inteso come entità astratta), a manifestare la sua più cupa irrazionalità per sfamare la sete di sangue, di punizione, di vendetta.
Così due poveri cristi, Guglielmo Piazza (commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (barbiere), furono presi, torturati e condannati a morte sulla base di una delazione priva di prove di alcun senso.
Il processo ebbe luogo nell’estate del 1630, mandò a morte due innocenti e sulle macerie della bottega del barbiere, rasa al suolo, fu eretta la “colonna infame” a testimonianza di quanto si riteneva fosse stato commesso dai condannati. La stele, passata la peste, a distanza di un secolo divenne in realtà testimonianza dell’infamia del potere più che dei due poveretti mandati a morte, tanto che prima di Manzoni anche Pietro Verri, nel 1778, in “Osservazioni sulla tortura” si era scagliato così profondamente contro quella testimonianza di ingiustizia, da portare alla sua rimozione.
Un testo in realtà difficile da portare in scena, come testimonia anche il poco riuscito tentativo di alcuni mesi fa al CRT, nell’interpretazione Castiglioni/Villagrossi. La rilettura di Teatro Invito, patrocinata dall’Associazione Nessuno tocchi Caino, è un’opera rock in stile anni Settanta, con musiche scritte e interpretate dal vivo da Luigi Maniglia, e affidata all’interpretazione attorale di Valerio Maffioletti, che dà vivamente corpo ai condannati, e che con grande abilità attorale riesce, con un fazzoletto, ad essere di volta in volta donna, barbiere, torturato ecc.
A Luca Radaelli è affidato il compito di interpretare sia “il potere” sia il narratore, il Manzoni giudicante, che si legge fra le righe della Storia della colonna infame. Questo compito arduo di lettura dentro e fuori, dalla cui riuscita dipende anche in gran parte l’esito concettuale dello spettacolo, non scorre però privo di inciampi. Pur supportato dalla notevole partitura musicale e dalla bella prova di Maffioletti, il tentativo brechtiano di giocare al limite fra recitazione e sospensione di giudizio non riesce fino in fondo, e l’attuale finale, con i due interpreti che si portano in proscenio a dirci, con le parole di Manzoni, quanto crudele e ingiusta sappia essere la giustizia, non arriva a pungere, ma piuttosto a far atterrare (ma sempre col dito puntato) l’emotività di un lavoro che deve essere asciugato ancora di segni e simboli, oltre che di oggetti di scena, come l’inutile (e pericolosa quando fa partire un’inopportuna scarica di batteria elettronica) tastiera.
Per gli appassionati della vicenda ricordiamo che al Museo del Castello Sforzesco, chi vuole, può ancora trovare il basamento della colonna, in cui il potere di allora, tronfio, si gloriava delle torture inferte. Come i militari delle recenti missioni “di pace” alle prese con elettrodi e prigionieri inermi, ricordati con un’abile paragone nello spettacolo.

Sarabanda, alcune immagini video
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La colonna infame di teatro Invito
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=xfRVVLl5TC0]

Au revoir Mr. Brook

laflute535BRUNA MONACO | Grandissimo regista, fondatore del Théâtre des Bouffes du Nord, a 86 anni Peter Brook realizza il suo sogno e nasce “Un flauto magico”, versione molto rivista della celeberrima opera di Mozart. È il Teatro Argentina ad ospitarlo fino al 27 novembre, all’interno del Romaeuropa Festival.

Che Peter Brook abbia scelto di anteporre un modesto indeterminativo davanti al suo flauto magico, è singolare, toccante. Grandioso. È “Un flauto magico” e non “Il flauto magico” il titolo dell’ultimo spettacolo di Peter Brook. Un enorme gesto di umiltà, amplificato perché è un artista enorme più del suo gesto, a compierlo.

“Un flauto magico” si presenta al pubblico come una possibilità, non l’unica, non la migliore, non l’indiscussa e indiscutibile messa in scena teatrale dell’opera di Mozart. Dopo aver scritto un importante capitolo della storia del teatro di tutti i tempi, l’ottuagenario regista, inglese di origine e francese di adozione, dice addio al teatro un po’ come Socrate disse addio alla vita: la ricerca di Brook non si è mai fermata. Fino alla fine, la spinta alla sperimentazione e alla ricerca hanno vinto sull’autocompiacimento e su ogni desiderio di celebrazione, di dimostrazione. D’altronde nulla da dimostrare: la carriera di Peter Brook parla da sola. E parlerà a lungo.

La celeberrima opera di Mozart è modificata nella trama, nei personaggi, nei recitativi e nella partitura musicale: solo un pianoforte sul palcoscenico a compensare l’assenza di flauti, oboi, fagotti, clarinetti, trombe, tromboni, timpani, archi… l’arduo compito di adattare le musiche, Brook lo ha affidato a Frank Krawczyck, anche esecutore in scena. Dall’abbondanza all’essenza, e naturalmente non è solo la forma a essere modificata: se ne “Il flauto magico” la musica era protagonista, in “Un flauto magico” diventa accompagnamento. E quella di ridefinire il ruolo della musica in un’opera, soprattutto se parliamo di un’opera di Mozart e se ridefinire significa ridimensionare, è una scelta aggressiva. Brook prende dei rischi: per teatralizzare “Il flauto magico” pone l’accento sulla trama, e in questa opera/non opera brookina (frutto della collaborazione con Marie-Hélène Estienne, come sempre da anni, oramai), il libretto di Emanuel Schikaneder diventa più pesante delle musiche di Wolfang Amadeus Mozart.

Opera/non opera su tutti piani, infatti, sono ridotti all’essenziale, tanto il tessuto musicale, quanto i costumi e le scenografie, i marchi distintivi dell’opera stessa. Abiti semplici coprono i corpi di cantanti e attori. Qualche canna di bambù mobile e multifunzionale si trasforma, di volta in volta, in bosco, stanza/prigione, sotterranei. Opera/non opera, ma anche teatro/non teatro: “Un flauto magico” riesce a collocarsi nel centro esatto della dialettica tra teatro e opera. L’integrazione non è raggiunta, ma forse, in fondo, nemmeno ambita. Oppure, purtroppo e semplicemente, anche per un mostro sacro come Brook valgono le leggi del mercato e il tempo delle prove non è bastato a trasformare dei giovani cantanti d’opera freschi di conservatorio in cantanti/attori degni di peter Brook.

William Nadylam (che fu Amleto ne “La Tragédie d’Hamlet” di Brook del 2002) e Abdou Ouologuem sono bravissimi. Attori 100%. La loro presenza scenica è assorbente, i loro movimenti sempre giusti in direzione e intensità. Brook ha inventato per loro un ruolo che né Schikaneder, né Mozart avevano previsto: spiriti o aiutanti di scena, sono loro che si fanno più di tutto garanti della teatralità dello spettacolo. Perché poi gli altri, i cantanti, cioè i personaggi, a cui è affidato il compito di sorreggere la storia con i loro canti e recitativi, la presenza scenica di Nadylam e Ouologuem non possono eguagliarla.

Applausi scroscianti comunque, alla fine di ogni replica. Applausi di commiato, per salutare e ringraziare un grande, immenso maestro.

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I fasti pompeiani fra onori e oblii

Pompei-Musee-Maillol-locandinaMARIA CRISTINA SERRA | Fra promesse mancate e pericoli di nuovi crolli, Pompei confida nel finanziamento europeo di 105 milioni di euro, mentre la sua “Art de vivre” brilla nel suo splendore alla mostra del Museo Maillol, in collaborazione con la Sovrintendenza per i Beni archeologici di Napoli e la Fondazione Dina Vierny (fino al 21 febbraio 2012)
Un Paese, il nostro, che periodicamente si sbriciola e frana, travolto dalle devastazioni di acqua e fango, imprigionato da endemico fatalismo e storica miopia, incline a ripudiare le regole e le
responsabilità collettive in favore di interessi privati e fasulle rappresentazioni della realtà. Nei giorni in cui cala il sipario sul grottesco “Truman show” che con le sue luccicanti luci al neon ha abbagliato le menti, corrotto i cuori e sbiadito la democrazia, sul terreno rimangono rovine e detriti difficili da rimuovere. Come metafora speculare anche i ruderi del mondo antico, “tesori superflui”, abbandonati all’incuria e all’inerzia delle istituzioni, attendono una loro “ricostruzione etica”.

Nel frattempo, l’armonia e l’atmosfera di un’antica “Domus pompeiana” è ricreata con cura attraverso un percorso che si sviluppa lungo i due piani del museo Maillol e restituisce la vivacità della vita quotidiana, partendo dall’Atrium, attraversando Impluvium, Tablinium, Triclinium, Culina, Balneum, Cubicula, Peristilium, decorati da circa 200 reperti (statue, pitture, mosaici, bronzi, marmi, utensili, monili d’oro), che raccontano tutta la ricchezza e la “normalità” di una vita di provincia e la raffinatezza della sua arte nell’apogeo dell’Impero romano. Una storia artistica sociale ed economica, qui razionalmente riassunta, iniziata attorno al VI° secolo a.C., sulla foce del fiume Sarno, nel cuore di una regione fertile e crocevia dei traffici commerciali con la Grecia e l’Oriente, travolta la mattina del 24 agosto del 79 d.C., quando il boato del Vesuvio spazzò per sempre la sua quiete e la sua fiorente industria alimentare e tessile, seppellendola sotto tre metri di polvere lavica e cristallizzandola per secoli.

Una terribile distruzione che immortalò come in un’istantanea fotografica di inestimabile valore storico un’intera città e civiltà, preservando miracolosamente “per la felicità dei posteri”, come annotò Goethe, durante il suo viaggio in Italia nel 1787, “la magnificenza degli antichi romani”, non solo quella dei grandiosi monumenti o delle dimore dell’aristocrazia, ma anche quelle “delle piccole dimore” ordinarie e modeste, dotate di comodità moderne con l’acqua corrente, riscaldamento e giardini interni. Dal mito, tramandato nei secoli, alla realtà delle prime scoperte archeologica dei suoi tesori, nella metà del XVIII° secolo, Pompei ha esercitato un fascino immutato fra viaggiatori, letterati ed artisti di ogni epoca, perché lì l’emozione di “trovarsi faccia a faccia con l’antichità”, come scriveva Stendhal, è sempre stata attuale.

La mostra allestita nel museo di Saint Germain ricostruisce con eleganza, grazie alla disposizione delle opere e ai pannelli narrativi, quell’itinerario ideale ed estetico che fra il Settecento e l’Ottocento elevò l’antica città sannitica, colonizzata poi dai romani, a “modello di vita”, in grado di suggestionare l’intera cultura europea. Così l’arte e la moda del tempo ricercarono nello studio dell’antico un’ideale armonia, fondata sulla linearità geometrica, in cui gli ornamenti, la struttura architettonica e gli arredi si amalgamavano con libertà e immaginazione.

Un importante tavolo in marmo di epoca augustea sorretto da due bassorilievi, decorati con grifoni e cornucopie, simboli d’abbondanza, prerogativa delle dimore più ricche, accoglie i visitatori all’inizio del percorso espositivo. L’attenzione si concentra quindi sul “rosso pompeiano” di un frammento di affresco sul quale spicca un “Dionysos sul trono” (protettore delle mura domestiche) di colore giallo ocra avvolto in velo azzurro,una pantera sacra ai suoi piedi, mentre impugna con la mano sinistra una lancia e con la destra un calice di vino. Perfetti giochi geometrici in rilievo incastonano figure di divinità nella grande cassaforte in legno, bronzo e ferro. Sembrano anticipare di molti secoli lo stile Liberty il sofisticato porta-lampade in argento a forma di albero, decorato da ghirlande, il leggiadro Treppiedi a base quadrata sorretto da un drago, e il tavolino tondo, singolare connubio fra rigore e leggerezza. E’ ispirato ai modelli ellenistici il cratere “a calice”, ornato da scene mitologiche con base raccolta su motivi in rilievo di palmette.

Sintesi di funzionalità ed estetica la stufa cilindrica in argento e bronzo, con coperchio mobile chiuso da un tritone e sul davanti da una porticina a due battenti, sormontata da un frontone con testa di Medusa. Si rifà alla moda greca ed etrusca la bellissima anfora a forma di testa femminile in bronzo, intarsiata minuziosamente in oro e argento, la cui luminosità è accentuata dalle pupille in pasta di vetro. Ma è anche il fascino verso la cultura egizia a ispirare la varietà dell’arte pompeiana e a definirne i contorni di “città aperta” al Mar Mediterraneo. La vita quotidiana si ricava dalle suppellettili usate per la tavola e la cucina: tegami, padelle, colini, cucchiaini simili al moderno design, coppette e bicchieri in vetro dai colori brillanti, brocche e anfore di varie forme e dimensioni, alcune specifiche per il “garum”‘, salsa ottenuta dalla macerazione del pesce azzurro.

L’importanza della religione, una coabitazione di riti tradizionali, culto per gli avi e mistiche orientali, è evidente negli spezzoni di affreschi e nei due magnifici bronzetti speculari, che innalzano i loro favori dall’alto di una doppia base ottagonale e rettangolare. Tanta grazia è spezzata dalla crudezza dei calchi rappresentanti le vittime, ricavati dalla colata di gesso nelle cavità impresse dai corpi sepolti dalla cenere. Geniale invenzione dell’archeologo Giuseppe Fiorelli, patriota rivoluzionario (nel 1848 guidò i moti liberali campani, incarcerato per due anni ne trascorse dieci da vigilato speciale), che nel 1863 con rigoroso criterio scientifico rivoluzionò le tecniche di scavo e conservazione, rendendo Pompei uno dei siti archeologici più visitati al mondo, grazie al fascino di rivivere “il giorno che si fece notte senza luna”, descritto da Plinio il Giovane, “notte che sarà eterna e l’ultima del mondo”.

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