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sabato, Dicembre 21, 2024
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Joan Mirò al Chiostro del Bramante: la magia della realtà

miro-chiostro bramanteMARIA CRISTINA SERRA | Fra l’eclettismo radicato nella realtà di Pablo Picasso, permeato di coscienza oggettiva, e la visione surrealista in cui sogno e veglia, realtà e irrealtà, logica e immaginazione si compenetrano, si insinua vitale e generoso l’astrattismo “narrativo” di Joan Mirò. Il cubismo picassiano aveva spogliato di ogni residuo romantico la figura dell’artista, annullando ogni illusionismo per ricreare una bellezza fondata su accordi innovatori.

Il Surrealismo, nelle sue variegate espressioni aveva ricercato il “nuovo” e il “meraviglioso” in una comunicazione totale dell’uomo con la realtà. Mirò, con la sua leggerezza pensante, estende la profondità dell’artista nel trasmettere “il lato magico delle cose” senza censure né omissioni, con chiarezza di esposizione e naturalezza delle forme, sottraendole al loro peso materiale. E’ la terra, la materia prima della sua ispirazione. “Noi catalani pensiamo che bisogna tenere i piedi saldamente piantati al suolo, se si vuole saltare in alto”, diceva: per spiccare voli pindarici, attraversando il silenzio delle parole e la purificazione dei colori e dei suoni, che affiorano dai sotterranei del cuore, in un tempo presente dilatato all’orizzonte, riassorbendo la percezione del passato con la determinazione verso il futuro. E poi, il cielo “spettacolo che mi sconvolge, con la sua immensità, animato dal sole e da uno spicchio di luna”, che si può anche raggiungere salendo una scala colorata, come nel suo celebre olio del 1926, ”Cane che abbaia alla luna”. Terra e cielo, l’infinito e il finito, un dialogo fra opposti che lo impegnerà tutta la vita.

Così come l’attitudine e la passione per la sperimentazione che fino alla soglia dei novant’anni non l’abbandonarono mai, intento a rielaborare nuovi codici espressivi, come evidenzia la mostra “Mirò – Poesia e Luce” (fino al 10 Giugno): un itinerario in 80 opere, dalla metà degli anni ’50 in poi, con uno sguardo particolare alla sua passione per la pittura orientale e alla curiosità verso l’espressionismo americano degli anni ’70.

Si avverte appena la mancanza delle minute figure stravaganti ed evanescenti di cui sono ricche le sue tele più conosciute: stelle, lune, bruchi, pesciolini e insetti fluttuanti nel firmamento, i pistilli e i filamenti arabescati a formare una sottile tessitura musicale, sovrapposta ai fondali profondi come la notte e accoglienti come l’alba . Le costanti dell’arte di Mirò e la sua poesia sono comunque tangibili e ci orientano per non farci smarrire attraverso un insolito itinerario nella sua poetica. C’è la meditata ricerca formale della sintesi, la grazia del segno, la limpidezza dei colori, l’intuizione di una spazialità originale, oltre il naturalismo e il surrealismo.

Ci sono i suoi vuoti costruttivi, fantastici, colmi di energia. L’intensità dei dipinti monocromatici, interrotti da piccoli punti strategici che aprono le porte segrete dei desideri.

Introducono i visitatori alla mostra grandi tele dominate dal bianco e dal nero steso con grandi, energiche pennellate. Tagli di colore contrastante, orizzontali o verticali, attraversano con eleganza orientale le superfici: solo sparuti puntini rossi, gialli o blu, posizionati con disciplinata armonia, contestualizzano l’apparente staticità. “Per arrivare all’animo bisogna innanzitutto provocare una sensazione fisica”, diceva Mirò, “con emozioni libere di muoversi senza costrizioni nel vuoto accogliente. Tutto quello che è spoglio mi ha sempre profondamente impressionato”. Gli anni Sessanta furono segnati dalle importanti mostre a Kyoto e a Tokyo, dalla passione per l’Haiku, forma brevissima di componimento poetico, che ispirerà molti suoi dipinti. Il bianco pastoso del lungo pannello attraversato dalla sinuosa onda nera dai contorni polverosi, impalpabili, spezza in due il piano, e una goccia color sangue in alto a destra accresce la sensazione di profondità.

A suggellare che anche con pochissimo si può dire molto, in un gioco di equilibri a cui aspirare per progredire senza mai rinchiudersi nel già acquisito. Anche nel più nascosto filo d’erba o nel sasso abbandonato si cela la bellezza. “Ad eccezione dei giapponesi e dei primitivi, nessuno si interessa a queste cose meravigliose. Quello che mi attira è soprattutto la calligrafia degli alberi, ramo per ramo, foglia a foglia, filo d’erba per filo d’erba”. Questo è l’ideale di armonia per Mirò, qui è rinchiusa la sua grandezza, capace di riportare il linguaggio dell’arte a volare alto, a captare l’innocente silenzio delle cose e sottrarle al caos e al rumore del Nulla.

La quiete della leggerezza, espressa con sfumature cromatiche calibrate, si infiamma di colori forti, istintivi, con poche modulazioni, nei quadri graffianti degli anni Settanta.

Emozioni forti suscitano i cieli attraversati da lune nere o verdi, figure femminili primitive, quasi minacciose nelle loro forme geometriche primarie, paesaggi sommersi da una pioggia di stelle cadenti. Uccelli neri che occupano il centro della scena e vivono di vita propria con le grandi ali a bilanciare la superficie. “E’ sempre una lotta fra me e la tela, ma io sono un combattivo”. La “femme dans la rue” del ’73 ha il corpo scuro, solido al cui centro batte un irregolare cuore rosso a trapezio, e arti lunghi e sottili che sembrano lanciarsi in una danza ritmica propiziatoria, stabilendo un legame inscindibile tra vita e sessualità, come energia creativa. Gli “Oiseaux” dello stesso anno sono in equilibrio sulle lunghe zampette: uccelli inafferrabili e liberi, ma concreti, perché poggiano tra le macchie di colore sparse, simboli di radici: per non dimenticare che “ogni giorno bisogna mettere radici”. Un unico occhio centrale, una goccia rossa fra il nero delle piume, osserva inquieto, penetrante quasi a svuotare la mente da tutte le cose superflue.

Un quadro dopo l’altro si alternano lo splendore della materia e le scintille del pensiero. L’artista catalano costruisce un ponte ideale per far incontrare la vita con le idee, le piccole cose comuni e quelle più “nobili”, nel tentativo di dare un’armonia più giusta al mondo che lo circonda. L’importanza che per lui avevano l’arte popolare (“più una cosa è locale più è universale”) e quella primitiva si coglie a fondo nell’esposizione romana, come anche il suo spirito ribelle sempre in fermento, insieme al suo impegno etico, mai disatteso: “Quando avevamo la museruola, la poesia e la pittura hanno sostenuto la vitalità del nostro paese”.

Il racconto della mostra in un video di Artribunetv
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Innerscapes di Effetto Larsen e Orti Insorti di Elena Guerrini

effetto-larsen-3RENZO FRANCABANDERA | Abbiamo assistito nelle settimane passate allo spettacolo Innerscapes di Effetto Larsen, compagnia milanese diretta da Matteo Lanfranchi che propone progetti di ricerca sui linguaggi performativi, durante la rassegna milanese Danae, che da anni raccoglie con intelligenza e caparbietà interessanti episodi di arte performativa e spettacoli di natura ibrida, che incrociano arti sceniche e altre manifestazioni della creatività.
Lo spettacolo in questione, il cui progetto di 20 minuti ha vinto il premio intitolato a Lia Lapini e assegnato durante Voci di Fonte, si basa su un susseguirsi di sketches ispirati a episodi di piccola emotività sentimentale, la cui cifra rimane volutamente intiepidita attraverso la creazione di ambienti più o meno domestici che, con tecnica di stop motion e sequenza da slide show di catalogo d’architettura d’interni, fanno da sfondo, ma a volte assurgono a dimensione di protagonista, di questa riflessione sul vivere del nostro tempo.
Il vissuto è leggero fino a raccontare episodi invero banali come la caduta di unbicchiere, o un incontro casuale di due persone, per comporsi in un volutamente tragicomico inno alla leggerezza, un concetto che però nella declinazione della compagnia è assai lontano da quello decantato come valore da Calvino.
Quattro gli attori in scena, Beatrice Cevolani, Francesca Di Traglia, Lorenzo Piccolo e Marco Ripoldi due che interpretano personaggi maschili e due che interpretano personaggi femminili, con vicende anticipate da giochi di parole che prendono vita in proscenio con l’utilizzo di lettere d’alfabeto su piccoli tabellini mobili, e composti da Lanfranchi stesso, creando un effetto di ironica didascalia di ciò cui si assiste.
Fra interessanti passaggi di luce e musiche ben descrittive, fermo azioni e slittamenti analogici da una sequenza all’altra, lo spettacolo scorre senza mai segnare un passo, un momento definitivo, in quella liquidità che è proprio del nostro tempo, come ha avuto a dire più d’un pensatore contemporaneo.
La questione che emerge rilevante di questa creazione è che in questa liquidità di pensiero, nessuna delle sequenze assume mai la caratteristica (per noi ancora determinante e fondante dell’atto scenico) della necessità. Tutte le sequenze potrebbero essere spostante all’interno dello “slide show”, alcune finanche espunte, senza che l’impianto generale ne venga a soffrire.
Esiste dunque una robusta area di superfluo che la regia non è riuscita ad eliminare o su cui evidentemente il pensiero creativo non ne ha avvertito la necessità. Ma questo, a nostro avviso, crea uno scollamento fra intenzione ed esito piuttosto divergente.
Ci sono alcuni episodi divertenti, tutto è lieve, nei colori, nei piccoli mobiletti e nella miriade di oggetti che gli attori portano velocemente sul palcoscenico fra un cambio e l’altro e che con velocità impressionante riescono a creare ambienti di vita. Ma, dopo venti minuti, di fatto il gioco resta abbastanza uguale a se stesso, ed ha già detto tutto. A ben vedere anche prima dei venti minuti, forse già dopo dieci. Il problema è che il tutto dura cinquanta minuti, quindi, al netto dei dieci-quindici di declinazione dell’idea base, ne restano quaranta su cui ci sentiamo di poter dire abbastanza poco se non che, in alcuni momenti un po’ più noiosi e scontati, saremmo volentieri usciti a guadagnarci un po’ di sole di primavera.

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Orti insorti
Dopo oltre 200 repliche, Orti insorti di Elena Guerrini può ben dirsi una sorta di manifesto di forma spettacolare che si è fatta via via largo fino a portare ad un piccolo festival estivo nelle campagne del grossetano organizzato dall’attrice e a un vero e proprio movimento d’opinione.
L’idea alla base di tutto, a suo modo rivoluzionaria, è quella alla base del negotium fra artista e spettatore, e che vuole superare la tradizionale dimensione dello sbigliettaggio, per percorrere la via più interessante e originale del baratto.
Per assistere ad Orti insorti lo spettatore non paga infatti un biglietto, ma offre una bottiglia di vino, o d’olio, o una conserva, o un pezzo di formaggio. Perché l’idea alla Guerrini è venuta proprio per iniziare a riflettere su un’altra dimensione possibile di economia dello spettacolo. E questa è un’idea senz’altro meritoria, che finora non aveva avuto nessun interprete così convinto e tenace, tanto da strutturarlo in una forma così definita e strutturata.
Lo spettacolo è stato di recente replicato nella sua forma “deluxe” come la chiama lei (quella con tre persone in scena, ma la Guerrini a volte, nei contesti con più vive ristrettezze economiche, arriva da sola con un filo di lampadine) presso il Paolo Pini di Milano, all’interno di una più ampia e interessante rassegna sull’alimentazione che rientra fra gli eventi preliminari di Expo 2015.
La drammaturgia racconta storie di paese, la semplicità basica della vita di campagna, mentre un’assistente dell’attrice, in secondo piano, prepara un minestrone e un musicista trae da un flauto fatto con un rametto cavo, suoni imprevedibili. E’ un po’ una storia di famiglia, che incrocia le storture del nostro vivere, capace di bruciare molto velocemente merci e valori senza riflettere sul loro valore intrinseco.
Certo dopo 200 repliche non ha molto senso stare a dire cosa va e cosa meno di questo spettacolo. Certamente ha delle parti godibili e una capacità di dialogare in forma semplice con il pubblico che lo rende divertente e leggero.
Ci sono parti più ingenue che potrebbero essere eliminate o abbreviate. Sono quelle dal tono, se non di diretta interpretazione, di storielle da barzelletta. Sono ingenue e dopo un po’ fanno perdere forza al tentativo della Guerrini. Come pure un po’ di luoghi comuni sulla maggior o minor sensibilità ambientale del cittadino settentrionale: facendo mente a quanti scempi edilizi e ambientali sono stati perpetrati in lungo e in largo in Italia, non si può pensare almeno alla corresponsabilità di molti residenti che quegli scempi hanno permesso, autorizzato, legalizzato.
Molti abitanti dei boschi di Brianza potrebbero insegnare tecniche della biodiversità ai residenti in zone “presunte environmental friendly”.
Altre parti, che al contrario raccontano altre vite, altri esperimenti di sostenibilità più contemporanei, andrebbero invece più sviluppate, per giustificarne la prossimità con la prima parte, dal tono più intimista e di famiglia, favorendo così una maggior omogeneità del tessuto narrativo.

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Fassbinder secondo Arcuri

BRUNA MONACO | Quasi uno spettacolo italo-tedesco l’ultimo di Fabrizio Arcuri. Italo-tedesca la produzione, tedesco il debutto, italiani gli artisti. Il testo è di Rainer Fassbinder più noto come regista cinematografico che per le sue drammaturgie. Das Blut am Hals der Katze il titolo originale, tradotto letteralmente in italiano con Sangue sul collo del gatto, una sorta di non-sense per uno spettacolo che parla dell’impossibilità di comprendere il linguaggio degli altri, gli altri. È un testo del ‘68, e dunque lontano dalla recente produzione dell’Accademia degli artefatti: il capitolo della drammaturgia contemporanea inglese (Crimp, Crouch, Ravenhill) che ha segnato una tappa importante nel percorso artistico della compagnia, sembra concludersi. E l’inversione di rotta era iniziata già lo scorso anno, con la messa in scena di Orazi e Curazi di Bertold Brecht.
In Sangue sul collo del gatto la questione omosessuale, a differenza della produzione cinematografica di Fassbinder, non è dominante. È la situazione di partenza, il presupposto drammaturgico ad attirare su di sé tutta l’attenzione: un extraterrestre è inviato sulla Terra per un’indagine sulla democrazia nel nostro paese. Nulla di politicamente rilevante emergerà però dal suo studio. Politicamente e socialmente irrilevanti le azioni dei nove personaggi che si incontrano e si scontrano sulla scena, nonostante le premesse e in parte le promesse. Da questo studio, anzi, non emergerà proprio nulla: quando Phoebe Zeitgeist (questo il nome dell’aliena che in tedesco significa spirito del tempo) arriva sul nostro pianeta il primo ostacolo in cui si imbatte è il linguaggio, riesce a decifrare le parole, ad imitarne il suono, ma le resta impenetrabile il senso. Gli occhi fuori dalle orbite, un’espressione spaesata e spaventata, le stanno come una maschera in viso dall’inizio alla fine del suo viaggio, del nostro spettacolo.
L’ostacolo è insuperabile, il linguaggio umano è per lei una membrana impermeabile, le impedisce di passare dalla forma al contenuto, dalsignificante al significato, dall’apparenza all’essenza di questa strana gente che avrebbe dovuto studiare ma non può che limitarsi a sbirciare. Ed è vasto il campionario umano che ha davanti e che si muove su una pedana circolare . Alla fine Phoebe Zeitgeist, pur non penetrando il senso dei discorsi degli umani, ne ricalca la forma e sul finale dialoga con gli altri riproducendo a caso spezzoni di frasi: le parole hanno un senso e a volte sono anche pertinenti, ma il risultato non cambia ed è l’incomunicabilità. L’incomunicabilità tra i diversi.
Fassbinder ha scelto il diverso per eccellenza, diverso per tutti, da tutti. Così, paradossalmente, chiunque può immedesimarsi con lei e sperimentare la scomodità d’essere considerato diverso: rispetto a un diverso così diverso, come solo un alieno può essere, donne e uomini, neri e bianchi, atei e religiosi, siamo tutti uguali, nessuno è discriminabile. Che poi la differenza la faccia il linguaggio e non, ad esempio, le sembianze fisiche, è rilevante dato che il linguaggio è (anche) convenzione e basta non rispettare le convenzioni, non capirle, per essere fatti fuori.
Sangue sul collo del gatto di Arcuri è uno spettacolo compatto, divertito e divertente, forse non acuto come altre prove di questo regista, ma testimone della sua capacità di uscire dai propri stessi stilemi artistici e misurarsi anche con un testo non certo facile.

[vimeo http://www.vimeo.com/46292497 w=500&h=281]

DRODESERA 2012 We Folk! – ACCADEMIA DEGLI ARTEFATTI “SANGUE SUL COLLO DEL GATTO” from Centrale Fies on Vimeo.

2184 mslm

ELENA SCOLARI |  Le opere lievi dell’artista Nando Crippa in mostra alla Galleria Melesi di Lecco fino al 25 Maggio 2012.

Comincia a scricchiolare il luogo comune che in provincia succeda poco di interessante, provochiamo un’altra crepa in questo cliché parlando di Lecco e di una bella mostra vista alla Galleria Melesi: 2184 mslm, personale di Nando Crippa.

Crippa è principalmente scultore ma in mostra si possono vedere anche alcuni piccoli acrilici su cartoncino, colorati, animati dagli stessi personaggi presenti nelle terrecotte, altrettanto interessanti.

Il singolare titolo di questa mostra si riferisce ad una scultura, “LEM”, che lega l’artista al territorio lecchese e rappresenta il Bivacco Ferrrario, una specie di modulo spaziale/rifugio progettato dall’architetto Mario Cereghini di Lecco per la cima della Grignetta, a 2184 metri di altezza, luogo-simbolo della passione di Crippa per la montagna. Questa è però forse l’unica opera così strettamente correlata ad un episodio autobiografico, le altre sculture sono caratterizzate da un effetto neutro, simbolico nella loro quotidianità. I personaggi di Nando Crippa sono figurine piccole, alte meno di 30 centimetri, dotate di una leggerezza data soprattutto dal colore, attirano lo sguardo perché il primo pernsiero è che siano confortanti, possiamo dominare queste dimensioni, poi ci avviciniamo incuriositi da un mondo in miniatura che ci lascia alla fine inquieti. La sensazione più forte è la sospensione.

Gli omini e le donnine di queste terrecotte pastello hanno un’aria assente, non capiamo bene cosa guardano, se guardano qualcosa, guardano noi? Guardano il mondo? Il vuoto? Non lo possiamo capire, possiamo però sentire che creano intorno a sé una bolla, una sfera dove lo spettatore non può entrare, può solo osservare qualcosa che sta accadendo lì dentro, da fuori. L’effetto interessante di questi lavori è, a nostro parere, proprio la convivenza di un forte senso di attrazione verso figure che ci sembrano familiari, perché vestite come noi e perché modellate in maniera realistica, e la consapevolezza di una distanza che non potremo colmare mai.

La Galleria Melesi di Lecco, fondata dall’attenta Sabina Melesi nel 1991 e da lei diretta con raffinatezza e garbo, ospita questa mostra dando alle sculture uno spazio sufficiente per il respiro autonomo di ogni figura, abitanti quasi sempre singoli.

Le situazioni sono semplici, a volte riprese da foto di moda e ripulite da tutto ciò che è orpello: un uomo che stira una camicia, una donna seduta su un prato o che entra in una piscina, un signore in cima ad una scalinata. I contesti più surreali sono invece quelli che vedono più figure: bambini e papà intorno ad una torta gigante, uomini che sembrano spiare una ragazza appesi ai bordi di un cilindro.

Crippa sottolinea come sia il colore a dare carattere lieve e spirituale alle sue figurine: “Colorare mi costa molta più fatica che modellare; il modellato se sono in giornata buona lo risolvo anche in un quarto d’ora. Il colore e l’abbinamento tra le tinte invece sono sempre una sofferenza. Difficile che li imbrocchi al primo colpo”, questa attenzione al colore è quella che riesce a produrre un risultato  equilibrato tra peso ed incorporeità.

Osservare le sculture di Crippa ci ha ricordato molti altri artisti: René Magritte, David Hockney, Edward Hopper, il gruppo tedesco di street art Slinkachu… Non sappiamo se l’artista ha effettivamente pensato a loro – i riferimenti a volte sono più negli occhi dei visitatori che in quelli dell’autore – ci piace però pensare che i personaggi di questi autori facciano parte dello stesso mondo, quella dimensione ultraterrena dell’arte in cui vivono le creazioni degli artisti.

Le serve di Loris

serve Loris GenetRENZO FRANCABANDERA | Le serve di Genet, con la regia di Lorenzo Loris, interpretato da Loris stesso insieme a Elena Callegari ed Elena Ghiaurov (in questi giorni all’Out off di Milano) è una versione dell’opera filologica, coerente, rispettosa del testo e di quello spirito ambiguo che lo anima.
Nella drammaturgia, infatti, tutto si modifica, sia nella percezione dello spettatore, sia nei rapporti di forza tra i personaggi, artefici di triangoli in cui spesso uno dei vertici scompare o diventa improvvisamente cieco. Lo spettatore quindi è chiamato a giocare a tressette col morto, dovendo di volta in volta intuire non solo quello che sta succedendo, ma anche le più improbabili derive psicologiche a cui tutto dà luogo. Le due Elena interpretano le serve e, come noto, ad inizio spettacolo, giocano l’una a servire (Callegari) l’altra a fare l’altezzosa padrona assente (Ghiaurov).
La scena: un cubicolo coperto da un tessuto nero ma trasparente, che delimita un’immaginaria stanza da letto, quella della signora l’accesso alla quale, scopriremo, è una sorta di violazione del santuario. Fuori da questo piano centrale rialzato, pochi oggetti, un reggi abiti a ruote, la cornetta di un telefono appesa ad un filo e pochissimo altro.
Al di là della recitazione, tutto il resto si connota per un gusto minimale, dalla scena dove oltre al cubicolo poco altro resta, alla musica, con inserti elettronici e classici di breve durata (ma da sfumare meglio) fino alle videoproiezioni, usate in maniera quasi impercettibile, unite ad un gioco luci misurato ed efficace. Funziona assai bene il recitato e anche la notevole idea di Loris di portarsi in scena vestito da signora d’altri tempi, in mise completamente bianca, come una Wanda Osiris appena uscita, in gran fretta, da una sala televisiva.
Dalla comparsa della signora in avanti, il ritmo del narrato scenico aumenta e diventa più vivo ed interessante, mentre la prima parte soffre un po’ come di un’assenza di un’idea altrettanto forte e vigorosa, una sensazione che resta anche alla fine dello spettacolo, dove non manca qualche superflua didascalia, proprio nella scena che racconta dell’omicidio-suicidio di una delle due serve (l’una che indica le manette mentre costringe l’altra a bere il veleno).
L’idea che ci resta è quella di un lavoro che, dal punto di vista tecnico e delle interpretazioni, non ha sbavature, sa mantenersi misurato, senza essere sguaiato mai, avvertiamo la mancanza di un sussulto, di un’idea che un po’ ci lasci davvero a bocca aperta. Fra queste, in cui meglio si sviluppa l’intreccio di gioco registico, recitazione ed elementi scenici, la sequenza in cui le due serve litigano mentre arriva il trillo del telefono che preannuncia la liberazione del marito della signora finito in prigione per macchinazione delle due. Il trillo, abbinato ad un interessante cambio luci, pare proiettare le due sullo sfondo, ma di fatto si capisce che l’ombra è falsata, perché è quella di un telefono gigante.
Interessante anche l’epifania di Loris e e la grandezza attorale delle due interpreti femminili, due mattatrici di temperatura così diversa e quindi così belle da vedere vicine, nell’intrecciarsi delle loro voci, l’una più bassa e roca, l’altra più alta e impostata, ma anche la fisicità e la femminilità, che solo in apparenze sottende rapporti di forza scontati, ma che proprio nel finale troverà un esito anche concettualmente sconvolgente rispetto ai parametri di “incarnazione del potere o della forza” cui la nostra società ci abitua.
Siamo sicuri la cosa, considerando la sensibilità del regista che da anni indaga su queste sottili questioni di rapporti di dipendenza psicologica e di forza all’interno dei nuclei ristretti (si vedano le recenti e sempre interessanti messe in scena di Pinter, Beckett, ecc), non sia casuale.

Disegno di Renzo Francabandera

Un videopromo dello spettacolo

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Cartier-Bresson: l’attimo fuggente in una Leica

bresson mostraMARIA CRISTINA SERRA | La pesantezza e l’opacità dell’esistenza si ammantano di leggerezza nelle fotografie di Cartier-Bresson: la luce disegna con armonia, semplicità, senso delle proporzioni, la durezza della realtà con tratti di lieve lirismo. Ogni sua immagine si presta ad infinite riletture e divagazioni; ogni misurato contrasto di chiaroscuro definisce e ritaglia con rigore pittorico le sue composizioni. Ogni disordine e imperfezione della realtà ritrova equilibrio e ricomposizione nella sua arte, costruita sull’essenzialità e l’immediatezza, in una visione di perfetto equilibrio geometrico tra forma e sostanza. Un allineamento meraviglioso di occhio, cuore, cervello, che al centro pone sempre “il soggetto” nel suo significato più profondo, interiore ed esteriore. ”La fotografia”, scriveva, “è per me l’impulso spontaneo di un’attenzione visiva, perpetua, che capta l’istante e la sua eternità”, registrando in una frazione di secondo “l’emozione procurata dal soggetto e la sua bellezza formale, cioè una geometria svelata da quello che ci si offre”. Il maestro, cattura l’attimo splendente e fuggente per l’eternità, dando senso e concretezza alle sue visioni, grazie alla sua Leica sempre a tracolla, “occhio che l’occhio ignora, poesia dello sguardo”, intuisce Roberto Matta.

La significativa mostra “Henri Cartier-Bresson. Immagini e parole”, ospitata (fino al 6 maggio) a Palazzo Incontro, luogo ideale di sosta al riparo dagli affanni cittadini, spaziando fra le accoglienti sale della libreria-caffetteria, si presta ad essere sfogliata come uno speciale album del Novecento, con i fermo-immagini illuminati dalle parole dei tanti “compagni di strada”, artisti, scrittori, registi, fotografi, che hanno intrecciato con il maestro affinità elettive, occasionali o durature, sollecitandoci riflessioni a catena. La fotografia è “un corpo a corpo con la vita”, diceva HCB, una frase che ci accompagna lungo il percorso, un piacere dei sensi e una condivisione dell’anima, che richiede tempi lenti, distanze giuste fra noi stessi e il mondo, per essere assaporata in pienezza, come attimi di felicità inaspettati. Ogni ritratto umano è un racconto pieno di enigmi in cui ritrovare somiglianze, atmosfere, continuità di sentimenti. Per Emile Cioran, filosofo che procedeva per dubbi e amava “i pensatori che evocano dei vulcani raffreddati”, HCB è una “meravigliosa anomalia”, un uomo che ha consacrato la propria vita a “penetrare il segreto degli esseri e delle cose, adorando la loro apparenza inquietante”.

Il volto anonimo del venditore di mele, colto nell’improvviso momento di stanchezza, il capo reclinato in una coincidenza di linee, con il braccio piegato a raccoglierlo, sullo sfondo scuro un profilo disegnato col gessetto. La casualità della vita rivela qui la sua specularità e “la meravigliosa anomalia”, secondo Cioran. L’Oriente, più vissuto che attraversato, la Spagna, dilaniata dalla Guerra civile, la liberazione di Parigi, i campi profughi nella Germania del dopoguerra, il passaggio dalla Cina feudale a quella comunista, la realtà dell’Unione sovietica, i vicoli scalcinati all’ombra dei grattacieli in una New York a luci spente, ci indicano il sentiero da seguire per comprendere la Storia recente con gli occhi del nostro presente. Le donne indiane di spalle, avvolte nei loro drappeggi, mentre scrutano l’orizzonte denso di nubi gonfie, che scorre parallelo alla desolata pianura sottostante “hanno la stessa attitudine, volumetria e nobiltà delle donne dipinte da Giotto nell’Incontro della porta d’oro”, secondo Jean Clair. Le loro braccia alzate in preghiera sono un antico rituale intriso di sacralità e umile bellezza, a legittimare “la leggerezza del mondo e a svelare un tesoro di ricordi”.

I bambini ripresi fra i detriti nella cornice sventrata di un muro a Siviglia, nel 1933, “che giocano ad una guerra che ancora non conoscono”, ma che con tre anni di anticipo appare verosimile, è “una vera premonizione” osserva Leonardo Sciascia, “la capacità di cogliere in una sola fotografia la sintesi di una particolare condizione umana”.

La celebre foto dell’interrogatorio della Kapò a Dessau, nel ’45, scava nell’orrore del Male e ispira la difficile riflessione alla scrittrice Danielle Sallenave: “anche se la natura del crimine esclude il colpevole dall’umanità è attraverso il perdono che i suoi giudici riescono a tenercelo”. Il poeta Alain Jouffroy nota il vecchio eunuco, raggrinzito come un “fantasma della Storia”, che si staglia contro l’illuminata muraglia della città proibita di Pechino: una foto toccante di valore documentario, in cui tutto è espresso con autentica delicatezza e perfetta sinfonia di opposti, dentro uno spazio vuoto che si riempie con la geometrica presenza delle ombre umane. Il fascino decadente di New York è stretto fra geometrie di scuro cemento e prospettive rigorosamente stabilite. Uno spicchio di cielo investe di luce un uomo seduto per terra in compagnia di un gatto. “Il nostro occhio deve costantemente misurare, valutare, perché un soggetto appaia in tutta la sua intensità, i rapporti di forma devono essere rigorosi”, spiegava HCB: adattarsi alla composizione e saper riconoscere nella realtà “il ritmo delle superfici, le linee, i valori, l’equilibrio espressivo nel movimento”. Lo storico Eric Hobsbawn intravede in un gorgo di acqua lucente ogni forma possibile della nostra immaginazione. C’è l’attitudine “unica di Henri a cogliere in modo intuitivo l’istante esatto”.

Alberto Giacometti possiede “un intelletto al servizio della sensibilità, è un amico e basta”, ricordava il grande fotografo. E il ritratto che ne fa, ricurvo, l’impermeabile sollevato sul capo, mentre attraversa a Parigi Rue d’Alésia sotto la pioggia, che rende cangiante il tracciato pedonale, è un capolavoro di istantanea: “non serve riflettere, ma avere lume di naso, compasso nell’occhio, e la grande foto si offre spontaneamente”. Come un “obiettivo ben temperato”, mai sconfinante nel pittoresco o nel sentimentale, scrive Ferdinando Scianna. La madre messicana che regge il suo bimbo al collo, proteggendolo con un velo, “non rinuncia alla propria fiera individualità di donna: quel velo protegge anche noi dal ricatto della retorica”.

Il paesaggio di una “città ideale” è la foto dell’Aquila del ’52, “magnifica realtà artistica”, sintetizza Gae Aulenti. “Rigore e infallibilità dell’inquadratura”, ma anche umorismo, pur se a volte lui “ostenta un atteggiamento da Principe senza sorriso”, ironizza il grande maestro della fotografia umanista Robert Doisneau. “La nostra amicizia si perde nella notte dei tempi”, gli fa eco HCB: “la sua grande bontà resterà per sempre impressa nella sua opera”. Intrisa di tenerezza è una delle sue ultime foto, scattata nel 1988 a Isle-Sur Sorgue, composta come una tela impressionista.

Nell’acqua leggermente increspata si riflettono i platani in fila regolare, mentre un’anatra all’angolo di un rettangolo di luce attira la sua attenzione: “Bisogna sempre fare il punto del proprio lavoro ogni giorno, per sapere dove si è arrivati. Bene io sono qui…”.

Un veloce percorso nella mostra con lo sguardo di Massimo de Pascale

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Memorie del sottosuolo

ELENA SCOLARI |   Al CRT Salone di Milano, fino al 6 maggio 2012 il monologo di Dostoevskij nella versione di Marco Sgrosso, in collaborazione con Le belle bandiere.

In questa stagione teatrale, Dostoevskij è stato autore molto frequentato: abbiamo visto l’Idiota di Nekrosius, I fratelli Karamazov di Cesar Brie, e ora Le memorie del sottosuolo diretto e interpretato da Marco Sgrosso. Questi tre esempi ci danno modo di fare una riflessione sul rapporto tra letteratura e teatro.

I testi di Dostoevskij, romanzi o racconti, non nascono per essere messi in scena, esercitano però un fascino irresisitibile verso chi fa teatro per la complessità, l’unicità dei personaggi che li popolano. Affrontare i capolavori dell’autore russo è senz’altro rischioso, proprio per la difficoltà di rendere sul palco le profonde e acutissime riflessioni che gli uomini e le donne condividono con noi dalle pagine. Trarne uno spettacolo richiede quindi una buona dose di sapienza teatrale. Se l’Idiota e i Karamazov sono due romanzi gigante, con tanti personaggi e uno sviluppo esteso, Le memorie del sottosuolo sono invece quasi un racconto lungo, una sorta di diario introspettivo il cui autore ne è l’unico protagonista, incontra sì altre figure ma è sempre tramite i suoi occhi che il lettore li conosce.

Il testo originale è diviso in due parti: una in cui il narratore è solo e ci mette a parte delle sue strampalate e dolorose considerazioni su se stesso e sul mondo, sul suo mondo buio, e un’altra in cui esce dalla tana e continua il processo autodistruttivo proiettandolo su altri, su un gruppo di amici che lo snobbano crudelmente e in particolar modo su Liza, giovanissima prostituta con la quale intrattiene un rapporto, non proprio sereno.

Marco Sgrosso sceglie di concentrarsi sulla prima parte e sull’incontro con la donna, trascurando completamente la compagine degli altri uomini presenti nel racconto. E’ una scelta dovuta, immginiamo, in parte alla difficoltà oggettiva di rendere in teatro, da solo, avvenimenti che coinvolgono più persone ma soprattutto alla volontà di privilegiare la solitudine del protagonista e la sua volontà di annientamento, di sé e dell’unica persona che sembrava avergli mostrato tenerezza, o meglio deferenza.

Sgrosso passa gran parte dello spettacolo recitando da un lettuccio, misero, in un antro buio, il sottosuolo, appunto, accompagnato da un continuo squittio di topi. Dietro un telo di garza intravediamo un secondo attore, una specie di coscienza, che a volte raddoppia alcune delle riflessioni che ascoltiamo e a volte le disturba o le sottolinea con suoni, rumori, a nostro avviso, però il suo ruolo non risulta ben chiaro, nell’economia del racconto. Così come non ci sono sembrate utili le proiezioni fatte sul telo di garza, non sempre intelligibili e poco funzionali alla creazione di un’atmosfera, il riferimento alla neve fradicia, presente nel sottotitolo dello spettacolo, per esempio,  è ricordato solo tramite le parole.

Troviamo comunque giusta l’ambientazione, buona resa di ciò che si immagina leggendo il testo, giusto anche il tono della recitazione di Sgrosso, prima sommesso e poi esplosivo durante gli attacchi a Liza. Ma cosa manca, secondo noi, della profondità di Dostoevskij, a questo lavoro?

Manca il dubbio. Il protagonista del racconto è un continuo andirivieni di opinioni, sensazioni contrastanti, montagne russe (proprio russe!) tra l’abiezione di sé e l’esaltazione, tra autocommiserazione e improvvisa sfacciataggine. Nello spettacolo, invece, abbiamo visto troppa sicurezza. lI compiacimento della propria malvagità è componente imprescindibile, ma l’esclusione degli episodi corali del testo impedisce di vedere alcune delle sfaccettature più sgradevoli, più sofferte, più umilianti, che caratterizzano il personaggio, malvagio ma irrimediabilmente maldestro.

Mettere in scena il genio russo è un compito molto difficile, invitiamo quindi a vedere Le memorie di Sgrosso, che ci regalano comunque parole taglienti e che fa sempre bene ascoltare.

Face Nord o lo spettacolo delle relazioni umane

BRUNA MONACO | Homo homini lupus, diceva il poeta: l’uomo è il peggior nemico dell’uomo. La compagnia francese fondata da Alexandre Fray e Frédéric Arsenault fa proprio il dixit di Plauto e si battezza Un loup pour l’homme. Che i rapporti interpersonali siano il perno attorno a cui gira il lavoro drammaturgico e fisico della compagnia appare chiaro, meglio: dichiarato. E il circo, quello contemporaneo, fondato sui corpi e sulle idee, ben si presta a esplorare questo terreno. Lo spettacolo che Fray e Arsenault hanno presentato a Roma e con cui si è chiusa la rassegna Apripista, si intitola “Face nord”, espressione che in francese designa la facciata di una montagna da scalare. In scena ci sono quattro uomini e nient’altro: Alexandre Fray e Mika Lafforgue sono massicci, statuari, i due porteur, le fondamenta su cui il quartetto di acrobati innalzerà dei veri e propri edifici umani in continuo movimento, sotto gli occhi di un pubblico attento, attratto. Frédéric Arsenault e Sergi Parés sono invece snelli e flessibili, i voltigeur, ovvero le mura e i tetti di quegli edifici umani. Come tappeto sonoro il passaggio dei corpi sul suolo: passi, cadute, ma anche respiri. E delle musiche del repertorio classico che di tanto in tanto rompono il silenzio accentuando il colore delle azioni, o contrastandolo. Anche le luci di scena sono semplici, ma efficaci rispetto al senso dello spettacolo: quattro fari illuminano gli acrobati da angolature sempre diverse, fuori e dentro metafora gettano luce sui vari lati delle relazioni tra gli uomini. Uomini intesi per una volta proprio come maschi, non come umanità. La carica erotica e omo-erotica dello spettacolo è forte: tanta tenerezza nel contatto, anche nei momenti di sfida, di scontro. Homo homini lupus, eppure in “Face Nord” domina la tenerezza, l’attenzione all’altro. La parte migliore del cameratismo maschile. Anche se ci si scavalca, ci si sfugge. Anche se tutto finisce (spettacolo incluso) con l’abbandono, la solitudine.
Con “Face Nord”, Alexandre Fray, Frédéric Arsenault e il regista Pierre Déaux, cidicono che instaurare delle relazioni, vivere in società, è complicato almeno quanto scalare una montagna. Che se si cerca un vero dialogo con gli altri è necessario essere disposti a superare i propri limiti, i propri pregiudizi. Soprattutto, che nulla che abbia a che fare con gli altri è dato una volta e per sempre. Ce lo dicono in termini circensi, teatrali, non fissando lo spettacolo, ma lasciandolo libero di cambiare a ogni replica: la sequenza delle azioni è sempre la stessa, ma l’improvvisazione all’interno della partitura rende vivo lo spettacolo. E allora una sera uno dei voltigeur riuscirà a fare un salto di più di tre metri dalla schiena di un porteur all’altra, quella dopo, forse, cascherà prima, sarà schiacciato dai suoi limiti. In questo la relazione col pubblico è dinamica: gli attori (sì, Fray, Arsenault, Lafforgue e Parés oltre che grandi acrobati sono attori bravissimi) lo chiamano in causa attraverso sguardi e piccoli ammiccamenti, il pubblico contribuisce alla riuscita o meno di certe acrobazie, stando più o meno attento, più o meno in silenzio. Gli spettatori rappresentano in qualche modo “la società” che condiziona e ci condiziona nel modo di essere con gli altri. Il tutto è possibile grazie a una struttura drammaturgica forte (di Bauke Lievens) e al contempo elastica.
La coscienza dei propri limiti, la persistenza a tentare di superarli e la volontà di mostrare al pubblico la propria la fragilità, a ben vedere, sono in controtendenza rispetto al circo classico, che cerca solo di sorprendere e ammaliare lo spettatore e non accondiscende a svelare il trucco, il circo per cui il fallimento di un numero è il fallimento dello spettacolo. “Face Nord” fa invece del fallimento una tappa drammaturgica, tappa della scalata di questa montagna dissestata che è lo spettacolo, le relazioni interpersonali. Del resto proprio nella negazione della volontà di potenza e della rappresentazione come macchina per gli inganni risiede la cifra stilistica che Gigi Cristoforetti imprime alle sue direzioni artistiche. Non ci resta che sperare che l’anno prossimo Apripista ci sia ancora, e di più.

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BurenCirque: il circo che abbatte le frontiere

BRUNA MONACO | Da bambino Daniel Buren (oggi scultore e pittore francese acclamato nel mondo) incontrò il circo. Erano gli anni Quaranta, e per lui fu una di quelle rare esperienze che influenzano una vita intera: come non riconoscere nelle righe verticali che caratterizzano le sue opere i tendoni del circo dell’immaginario collettivo? Nel 1998, poi, creò una sua compagnia insieme a Dan Demuynck: il BurenCirque, appunto, che con “Nord/Sud” ha aperto la seconda edizione del Festival Apripista. A organizzare il tutto l’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Quest’anno la cornice è più circense che mai: non sono le sale dell’Auditorium a fare da sfondo agli spettacoli, ma uno chapiteau firmato Daniel Buren, che campeggia sulle rive del Tevere, proprio sotto il neonato Ponte della Musica. E, come nel circo d’una volta, lo spettacolo precede lo spettacolo: un’installazione plastica fatta di bandierine e ombrelli rovesciati, rigorosamente a righe verticali bianche e rosse, aspetta il pubblico davanti al tendone. Insieme al funambolo Didier Pasqualette che passeggia su un filo teso a dieci metri da terra e Tatiana Bongoga che, su un altro filo a qualche passo da lui, danza sulle note di Mamadou Kouyaté e Baba Kouyaté. Il pubblico si muove, sceglie dove posare lo sguardo.
Una volta dentro il tendone, di nuovo toccherà scegliere cosa guardare: lo spazio scenico, racchiuso in un velo tubolare che scende dal soffitto, è diviso all’interno da pareti di velo. Vediamo gli artisti come da dietro una coltre di nebbia. L’atmosfera è cupa, la scena nascosta, la spettacolarità del circo rovesciata, quasi negata. Con le luci basse, gli interpreti girano intorno allo spazio scenico, con circospezione, attenzione, si presentano al pubblico: Armance Brown,
Christelle Dubois, Grégoire Vissého, Hawa Sissao, Elod Trager, Alexandre Picheral, 
Baba Kouyaté, Mamadou Kouyaté, 
Zélia Rault. Vengono dalla Francia, dal Bénin, dal Burkina Fasu. Europa e Africa, Nord e Sud nello stesso spazio, lo spazio eclettico del circo. E infatti uno è giocoliere, gli altri equilibristi, acrobati. Un percussionista, una cantante. Zélia Rault suona il fagotto. Grégoire Vissého fa danzare una marionetta a fili, poi una marionetta a grandezza umana, qualcuno disegna l’aria con due ventagli rossi. Una stanza della scena è pavimentata di secchi d’acqua, a righe verdi e gialle: Christelle Dubois come una mondina vi immerge i piedi scalzi, cammina con una lentezza sacra, poi si produce in una verticale e gesticola con le gambe, indica con i piedi.
Intanto a cinque metri dalle nostre teste Didier Pasquelette e Tatiana Bogonga sono in equilibrio sul filo. Quelli di lei sono i movimenti tribali della danza africana, non leggiadri, ma terreni, sensuali, in splendido contrasto con l’aria, il filo sottile che la sorregge, il vuoto che la circonda. Le azioni sfumano le une nelle altre, a volte si sovrappongono, ma i passaggi sono sempre ben modulati, e l’impressione non è di affastellamento, ma di densità. Lo spettatore inghiotte con ingordigia la scena, vorrebbe trattenere ogni immagine. Potente collante dello spettacolo, la voce di Hawa Sissao (una star nel suo paese) che riempie lo spazio.
Poi la cortina davanti al pubblico crolla, in un movimento morbido e rapido, e la luce comincia a farsi intensa. Cadono i veli che frammentano lo spazio scenico. Cadono i muri che separano gli artisti, gli uomini, il nord dal sud, il noi dagli altri.
Uno spettacolo d’eccezione, sbarcato a Roma grazie al direttore artistico del festival, Gigi Cristoforetti, che per il secondo anno offre all’indolente pubblico romano uno squarcio del miglior circo – stavamo per dire del miglior teatro – in circolazione.

La danza-documentario di Rachid Ouramdane

BRUNA MONACO | Quando le porte della sala Petrassi si chiudono e si spengono le luci di sala, sul palco non c’è ancora l’ombra di un danzatore. Anche lì è buio, totale. Una voce francese dall’accento straniero inizia a raccontare qualcosa e il palco si illumina della luce tenue dei sopratitoli bianchi per i non francofoni in sala. Il racconto è lungo, molto, e frammentario. E per il pubblico, restare in ascolto per tutto quel tempo completamente al buio è quasi una tortura.
Voluta senza dubbio da Rachid Ouramdane, coreografo franco-algerino e ideatore di questo “Ordinary Witnesses” che parla, appunto, di tortura, di violenza. Di genocidi ed educazione all’odio e allo sterminio, di parole impronunciabili, pensieri irriconducibili a parole. Ricordi coscienti che vanno cancellati e inconsci che, purtroppo, non abbandonano mai. “Ordinary Witnesses” parla di tutto ciò in senso letterale, perché lo fa attraverso le parole registrate o videoregistrate di chi le torture le ha subite davvero, i suoi testimoni ordinari che vengono dal Brasile, dal Ruanda, dal Medio Oriente.
Per i primi venti minuti “Ordinary Witnesses” è un alternarsi di voci esitanti che riflettono sulle violenze subite, provano a trovare un senso, ma non le descrivono mai. Poi, mestamente, iniziano ad abitare il palco cinque danzatori (Jean-Baptiste André, Lora Juodkaite, Mille Lundt, Jean-Claude Nelson, Georgina Vila-Bruch). Si muovono come fantasmi, una camminata lenta, vacillante, quasi al rallentatore. Per lo più non si incrociano o ignorano l’incontro, ma quando questo avviene, basta che si sfiorino per obbligarsi ad assumere una posizione dall’aria dolorosa. Mille Lundt inarca la schiena in modo parossistico e il suo corpo, normalmente esile ed elegante, diventa deforme. Sembra una contorsionista, come anche gli altri che Rachid Ouramdane ha scelto così flessibili inseguendo una qualità di movimento che evocasse la tortura fisica senza mostrarla.
Il momento clou dello spettacolo è quando Lora Juodkaite inizia a roteare. E lo fa per un tempo che pare infinito. L’attrazione è magnetica, l’attenzione s’incaglia in quel volteggiare che nulla ha in comune con quello dei dervisci. Nessuna regolarità o estatico incontro con il divino. Il corpo di Lora Juodkaite sembra sempre sul punto di essere dilaniato dal movimento centrifugo. La testa guarda il suolo poi si inclina su un lato. I capelli sciolti e la colonna vertebrale mai perfettamente eretta deformano il suo corpo nella velocità del movimento. Alla sensazione di precarietà contribuiscono le luci di Yves Godin: in obliquo su un lato del palco, una lastra con sessanta fari sferici dalla luminosità ora intensa e abbagliante, ora calda e ambrata, che illuminano la scena o se ne fanno protagonista, alternando combinazioni sempre diverse. E le musiche di Jean-Baptiste Julien che si muovono tra un rumore di fondo disturbante ma appena udibile e una sonorità angosciante e tumultuosa, invasiva.
“Ordinary Witnesses” è una sorta di documentario con accompagnamento coreografico e musicale, puro stile Ouramdane la cui sfida sin da subito è stata quella di conciliare due tensioni, una verso l’arte l’altra di riflessione e analisi sociale, in particolare riguardo le ingiustizie e la violenza. È uno spettacolo complesso dai tempi lunghi e lenti ai limiti dello sfinimento e dai momenti di rara intensità. Uno spettacolo pieno di opposizioni. Uno spettacolo che è il contrario del godibile: non si lascia amare facilmente, non si lascia dimenticare.

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