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domenica, Novembre 10, 2024
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Michaela Spiegel. Lo sguardo dissacrante di una viennese-parigina

Micaela spiegel_doppia_de_beuavoir[1]MARIA CRISTINA SERRA | Una continua ricerca artistica, capace di mantenere distanza ironica da eventi e difformità sociali e politiche. Fascinazioni del mondo femminile, nella cornice vintage, in un continuo viaggio tra Parigi e Vienna (fino al 13 novembre all’Albertina Contemporary), con una sosta ad Artissima Torino dal 4 al 6.
L’universo creativo dell’artista viennese Michaela Spiegel si schiude in tutta la sua complessità attraverso la porta di legno della sua casa-atelier, che si affaccia su una piccola corte fiorita, nel cuore più autentico del Marais.
Nel suo charme di artista moderna e dissacrante, capace di allietare i sensi e l’anima, affiora lo spirito della “Grande Vienna” inizio Novecento, attraversata da quei rinnovamenti ideali e culturali che la resero la capitale intellettuale dell’Europa. Erano gli anni della nascita della psicanalisi con Freud, dei fermenti artistici della “Secessione” con Klimt, Schiele, Moser, e della grande letteratura di Schnitzler, Musil e Roth. Radici importanti e determinanti. I sentimenti dell’animo umano, la vacuità del potere, la ricchezza della creatività femminile, i sogni, la sessualità, i pregiudizi, “i vizi privati e le pubbliche virtù” sono i temi che ricorrono nelle opere di questa raffinata, rigorosa ed originale artista, che con “metodo dadaista” associa le parole alle immagini, mescolando tra loro pittura, fotografia, grafica, collage e video, per disvelare con sottile ironia le sfaccettature dell’intimo femminile, libero da stereotipi. Ci si può fare un’idea dell’opera dell’artista viennese sfogliando il suo “catalogo virtuale”, con cui ha scelto di comunicare la sua arte, affidandosi al WEB.

Nel video, “Schulungshefte” (in fondo a questa pagina), lei illustra un divertente manuale di “anatomia e lussuria” per signore del secolo scorso, e non solo. In un altro video “Institut Fur Heil und Sonderpadagogik”( nome dell’omonimo Istituto di ricerca creativo da lei fondato nel ’95) le immagini si susseguono velocemente, sintetizzando un percorso artistico iniziato nell’82 all’Università di Arti Applicate di Vienna e proseguito alla Scuola di Belle arti di Parigi. “Le donne”, spiega Michaela Spiegel, “devono essere in grado di scegliere da sole i loro propri ruoli-simboli. Essere riconosciute donne artiste al giorno d’oggi è possibile solo se almeno una volta nella vita si è state anoressiche”, è la sua provocazione di “artista politicamente non corretta”.

Una metafora di un viaggio introspettivo doloroso, per riportare a galla quei luoghi sotterranei dell’anima, che le ossa spolpate dalla carne possono rilevare senza pietà, come nella serie “ANNO…REX…IE”. Corpi aggraziati e fragili di donne nude decorano, in sequenze cariche di ambiguità, piatti di porcellana: un insolito cibo per indurre la mente ad una decodificazione fra l’immagine conforme agli standard mediatici dominanti e quella del proprio vissuto più profondo. I sex-symbol imposti dalla società degli uomini, costringono le donne ad assumere le sembianze di una caricatura di se stesse. E questo non avviene solo nella TV italiana”, precisa la Spiegel, che già nel 2006, nella sua geniale serie “Catastrophies sexuelles”, surreale galleria di ritratti, aveva inserito fra le celebrità coinvolte in scandali sessuali anche un compiaciuto Berlusconi. Scandalosa, tanto da censurarla, creando un caso diplomatico con Vienna, fu considerata la sua installazione “Reagenzglaser/Test Tubes”, alla mostra “Arthur Schnitzler/Amore e affetti” a Trieste nel 2008: le delicate sculture in vetro di Murano evocanti preservativi, insolito tributo all’erotismo letterario dell’autore di “Doppio sogno”, furono rimosse.

Alcuni suoi disegni, attualmente esposti alla Albertina Conteporary, della serie “MADIZYNISCHES NACHSCHLAGWERK”, sono collegati da un gioco di parole che sottintende la complessa relazione psicosessuale delle cosiddette “ragazze ciniche”. Il gusto per l’assurdo, il contraddittorio, il bello, il coreografico, convivono in un ordine mai casuale nei suoi lavori, avvolti ogni tanto da un filtro sognante, che ci ricordano quei souvenir “boule-à-neige” con i panorami innevati e incantati.

Il passaggio alla mostra internazionale “Artissima” di Torino (“che si appresta ad accendere Le luci dell’Arte su piazze e musei), appuntamento immancabile di arte contemporanea, è un’occasione ideale per godere della sua creatività e anche un gesto riparatore al grave sgarbo istituzionale ricevuto a Trieste.

La sua scelta del vintage come sfondo su cui dipingere (broccati e sete) o adornare i suoi lavori (foto, cartoline, oggetti), è per centrare il cuore dei temi, rivelando le storie segrete, nascoste dietro le apparenze, anche attraverso giochi di parole liberamente associate. Così il “doppio ritratto” di Simone de Beauvoir, nuda, senza falsi pudori, nella mostra “Le deuxieme sexe et autres” alla School Gallery di Parigi è una presa di coscienza sulla forza travolgente del pensiero liberato dai tabù. Arabeschi damascati circondano il viso di Rosa Luxemburg, genio politico e anima gentile. Il colletto di pizzo e il fondo di seta preziosa evidenziano lo sguardo volitivo di Bertha Pappenheim, antesignana del femminismo, e della rivoluzionaria Alexandra Kollontay. Wallis Simpson è circondata dai suoi carlini con la zampina alzata nel saluto hitleriano. La “cattiva ragazza” Ulrike Meinhof sorridente e con le treccine è accompagnata da bambine in trine e fiocchi: l’innocenza perduta nella ricerca ossessiva di un’indipendenza fuori dall’ordine sociale. Mentre l’imperatrice Sissi (come le debuttanti al Gran ballo) è imprigionata da una corona di diamanti che si trasforma in un diadema di spine. Medaglioni celano sotto vetro la “Raccolta di peli pubici di Marie Bonaparte”, allieva di Freud che ricercò i segreti della sessualità femminile. In un elegante cofanetto di raso, come un “laboratorio sperimentale portatile”, alcune “ampolline della delicatezza femminile” contengono discretamente gli indicatori dell’eccitazione sessuale.

“L’arte per me è un indicatore dello stato d’animo della società”, spiega la Spiegel, “come un termometro culturale, a seconda del tipo e del modo di usarlo. Io personalmente preferisco quelli moderni, digitali, che si posano sulla fronte e si possono leggere in qualsiasi lingua, piuttosto che quelli più folcloristici che si usavano una volta. Ma riconosco che quest’ultimi misurano perfettamente gli incantesimi musicali di certi affabulatori populisti”.

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Sardegna in scena

RENZO FRANCABANDERA | Hanno da poco preso il via la stagione del Massimo di Cagliari e quella del Cada Die Teatro, istituzione teatrale fra le più attive sull’isola. Nomi di spicco, da Ottavia Piccolo al Teatro delle Albe, passando per Giulio Cavalli e tanti altri.

E’ un teatro vivo, che raccoglie pubblico e organizza stagioni con forse non grandissimi mezzi ma con industriosità e fantasia, facendo leva su contatti e relazioni.
E’ un quadro positivo, pur nella difficoltà, quello che viene fuori dando un occhiata alle stagioni del teatro in Sardegna e in particolare nella zona di Cagliari.
Il teatro Massimo ha aperto la stagione con Ascanio Celestini e il suo Pro Patria, seguito dall’esordio del primo atto di un’operazione culturale ancora più spessa, ovvero un ciclo sul teatro russo, che si allungherà dentro tutta la stagione, passando a Dicembre per Il giardino dei ciliegi e per finire a Marzo con I fratelli Karamazov. Regista in senso stretto e in senso lato dell’operazione Russia è Guido de Monticelli, alla direzione artistica dello Stabile di Sardegna.
Con la Russia, anche se in forma diversa, ha a che fare anche lo spettacolo che andrà in scena in questo fine settimana, da stasera a Domenica 5, interpretato da Ottavia Piccolo: “Donna non rieducabile” è il monologo scritto dal drammaturgo toscano Stefanno Massini che recupera testi e diari della grande giornalista Anna Politkovskajaha, il cui assassinio ha segnato una delle pagine più oscure e truci della recente storia dell’informazione in Russia. Un testo sulla verità, sulla scelta di vita della giornalista, scelta abbracciata tanto da Massini nella restituzione dei testi quanto dalla Piccolo, che in una dimensione quasi anti-attorale, ripropone parole e integrità morale della persona.
Un’operazione sul sentimento più vero della verità, identica pur nei distinguo stilistici e di impostazione teatrale, a quella che trova declinazione, sempre al bordo fra arte, storia e politica, nello spettacolo “L’innocenza di Giulio: Andreotti non è stato assolto”, che Giulio Cavalli sta portando in questi giorni sull’isola grazie a Cada Die teatro nell’ambito dell’ottava edizione de La Sardegna dei teatri – circuito di teatro contemporaneo diretto dal Cada die teatro di Cagliari in collaborazione con Bocheteatro di Nuoro, La Maschera di San Sperate, Rossolevante di Tortolì e Sinenomine teathrum di Serramanna. E’ un sodalizio fra compagnie dal nord al sud dell’isola, che consente una circuitazione popolare con lo scopo di portare il teatro dove difficilmente arriva: nove comuni, in una rete che passa per Cagliari, Dorgali, Lanusei, Orosei, San Sperate, Serramanna, Serrenti, Tortolì e Ulassai.
Giulio Cavalli termina il suo giro proprio sabato 5 alla Vetreria di Cagliari. La rassegna a Novembre ospiterà a Cagliari e non solo gli ottimi Babilonia Teatri, e La colonna infame e Vaglia per E.E. di Teatro Invito.

Fra i nomi più di richiamo ospitati nella stagione di Cada Die il Teatro delle Albe, che ha portato in scena lo scorso fine settimana La canzone degli F.P. e degli I.M., riadattamento di una sorta di poemetto che Elsa Morante incluse nella sua raccolta Il mondo salvato dai ragazzini. Interpreti dello spettacolo Alessandro Argnani, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Alessandro Renda su ideazione e regia di Marco Martinelli. La produzione Ravenna Teatro mette le parole della Morante in bocca ad una figura dal tratto clownesco, che in pochi istanti si scoprirà essere uno squilibrato, internato in una struttura manicomiale.
Un’idea, quella della traslazione dal mondo della verità al mondo della pazzia che esalta la dimensione profetica di un testo bellissimo ma quasi obliato, a vent’anni dalla morte della grande scrittrice.
La previsione della grande omologazione che il regno degli “Infelici Molti” ha portato nelle nostre società è uno dei tratti più alti del sensibile dell’autrice che parla (e mai come in questi giorni le parole suonano concordi con quello di cui anche sul medium televisivo si parla) della necessità in ogni luogo e in ogni possibile contesto di una rivoluzione culturale. E’ questa una “premura rivoluzionaria” che sta a cuore non solo al Teatro delle Albe ma anche a Cada Die, uniti, come ha sottolineato Giancarlo Biffi del teatro sardo in apertura di una delle repliche, proprio da un progetto, da un’idea del teatro come militanza culturale.
Lo spettacolo, attraverso la straniante dimidiazione fra realtà ottusa e follia profetica, scambia i piani e asseconda l’intento della regia che proprio a questo mira, a risvegliare nel pubblico la sensazione di essere finiti dal lato sbagliato della Storia, di aver indirizzato la vita verso un percorso senza sorriso, senza felicità, senza futuro. Il risveglio delle coscienze è sempre possibile, anche quando le speranze sembrano svanire.

Un video dello spettacolo delle Albe
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Have I none

RENZO FRANCABANDERA | Al Teatro dell’Elfo di Milano Fibre Parallele, giovane compagnia pugliese, ha portato in scena, con buon successo di pubblico e operatori, il testo del drammaturgo Edward Bond, che (forse) racconta di rapporti familiari in un mondo senza memoria.
E’ un biennio di crescita e cambiamento quello che sta affrontando Fibre Parallele, il collettivo artistico di cui sono promotori i pugliesi Licia Lanera e Riccardo Spagnulo. In questi giorni ospite della rassegna di realtà pugliesi al Teatro Elfo Puccini a Milano, la giovane compagnia propone “Have I none”, una drammaturgia di Edward Bond che avevano presentato l’anno scorso a Roma per poi tenerla in standby a favore di Duramadre, lo spettacolo di recente presentato a Bassano e Terni.
La traduzione del testo di Ilaria Staino e la regia di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo proiettano lo spettatore in un futuro inquietante, orwelliano, dove la memoria è una stimmata dell’inconscio, flebile lascito di fotografie e tracce, che affoga in un presente angosciante e surreale.
Questa dimensione psicotica e sardonica al contempo riesce bene agli interpreti, che, indossando tute che rendono l’umanità indistinta e indistinguibile, neutralizzano l’effetto della specificità individuale.
La trama è semplice: un uomo, James, provocatoriamente e intelligentemente interpretato da Licia Lanera, lavora come “ripulitore” di segni e memorie in una città dal tratto chirurgico, dove ogni traccia di presenza della Storia deve essere rimossa.
Di questa persona Bond racconta il vissuto domestico con la compagna Sarah, di fatto rinchiusa prigioniera in un ambiente casalingo che sa di gelida prigione. Riscaldati e di fatto illuminati da stufe, questi personaggi al confine fra la vita e la morte sviluppano una dimensione comunicativa surreale, che in alcune sequenze dialogiche ricorda lo Ionesco di Delirio a due. La Lanera proietta questa normalità paradossale addosso ad un operaio della classe popolare, che racconta dei suoi litigi col collega De Biase. Ma attenzione: questa dimensione di scarto sul reale non è una forzatura da teatro dilettantesco, ma un’interessante trovata della compagnia, per acuire il senso di straniamento che invece via via la storia trasmette.
Entra nella trama da subito una terza figura che si presenta come il fratello di lei, come un affresco strappato dalle pareti di una memoria che non ne riconosce più l’immagine. Questa figura, in realtà non è risolutiva rispetto al plot, che si sviluppa per irrisolti e dubbi, e finisce per essere un finto deus ex machina a tratti giustiziere, come il soldato di Blasted della Kane, a tratti giustiziato, come spesso capita nelle drammaturgie anglosassoni.
Pur non essendo il miglior testo di Bond, i due promotori di Fibre Parallele riescono a declinarlo con misura e intelligenza. Non può tacersi la prova d’attore della Lanera e l’allestimento fatto di alcuni interessanti simboli e poche ma forti immagini da psicanalisi dei rapporti familiari, in un gruppo umano che rimane in una eterna dimensione d’infanzia. Have I none è nel complesso un buon lavoro con gli indubbi pregi di cui abbiamo fatto menzione e qualche aggiustamento possibile in questa fase di ritorno e rodaggio sulla drammaturgia; come nel testo, così ovviamente nello spettacolo, manca a nostro avviso, nel cuore della pièce, un piccolo ganglo logico-emotivo: non qualcosa che spieghi l’inspiegabile o che lo banalizzi, ma che colleghi sul piano artistico la lettura concreta e quella onirica.
Forse si tratta di un’immagine o un passaggio di scena, forse di qualche battuta di cui il testo paga la mancanza: tutte cose di cui, con acume, la compagnia può sistemare la puntualizzazione, il classico bullone che, quando registrato, permette al motore di andare a pieni giri.

Un video dello spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Zm2awsXG5zY&w=560&h=315]

L'idiota leggero

ELENA SCOLARI| Si è appena concluso l’importante appuntamento con il grande teatro russo: L’idiota per la regia di Eimuntas Nekrosius è andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano con tre serate di tutto esaurito nei giorni 21-22-23 Novembre.

Sei ore sei di Dostoevskij in lituano. Il Principe Myskin arriva a Milano e Paneacqua c’era!

Bisogna amare molto il teatro, amare molto la letteratura russa e amare molto Eimuntas Nekrosius. Siamo orgogliosi di aver assistito a questo Idiota, una prova faticosa per gli attori, impegnativa per gli spettatori, sì,  ma una grande lezione di teatro, realizzato con una professionalità rara.

L’Italia teatrale conosce il regista lituano da circa un decennio, da Milano e Venezia sono passati i suoi tre magnifici Shakespeare: Otelas, Makbetas e Amletas, un Ivanohe e un Faust indimenticabile. Le regie shakespeareane si fecero notare per la loro forza emotiva e per l’impatto visivo straordinario, Nekrosius è riuscito a spogliare i classici dell’autore inglese da qualunque orpello, li ha resi scabri, rudi, e proprio per questo è arrivato a colpire profondamente.

L’ostacolo della lingua è stato superato (oltre che dai sottotitoli in italiano) dalla potenza dei sentimenti e delle emozioni umane più elementari. Ricordiamo solo alcune delle magnifiche invenzioni sceniche di questi spettacoli: la lotta tra Desdemona e Otello che diventa una struggente danza della morte, il lampadario di ghiaccio che si scioglie lentamente sopra la testa di Amleto e accompagna il gelo della sua anima, Macbeth che si trascina sulle spalle un albero, presagio della maledizione della foresta, il pentolone delle streghe che sprigiona fuoco.

Il teatro di Nekrosius è sempre stato teatro della materia: legno, fuoco, ghiaccio, elementi primordiali  che rappresentano la spinta inarrestabile dei desideri dell’uomo.

Ne L’idiota la materia è il sentimento. Il testo del romanzo di Dostoevskij, tutto basato sulla complessa psicologia dei personaggi, consente forse meno invenzioni teatrali, il regista sceglie quindi di mostrare il tormento interiore dei protagonisti, bruciati dalle loro passioni e dalle loro incapacità fino alla distruzione di sé. Gli interpreti sono tutti profondamente intrisi di sofferenza e dotati di un’espressività non comune, danno la forte impressione di sapere sempre esattamente cosa fare sul palco, non hanno mai indecisioni e la loro fisicità occupa lo spazio della scena come le continue emozioni occupano lo spazio del testo e quindi delle loro azioni.

Una grande porta basculante è il punto di contatto tra il mondo del romanzo e tutto ciò che ne rimane fuori, da lì i personaggi entreranno e usciranno, dal dramma e dalla vita.

Il Principe Myskin è un idiota leggero, di corporatura minuta e gli altri personaggi lo fanno spesso svolazzare, come un farfalla,  muovono e manipolano il suo corpo come influenzano il suo comportamento. Myskin è in balia di una invincibile tensione verso il bene che lo porta inevitabilmente a provocare danni irreparabili. Non è idiota affatto, il giovane angelico che torna in Russia da una clinica svizzera dove è stato per curare l’epilessia, è un uomo sensibile e coraggioso, fragile e pericoloso proprio per la sua incrollabile sincerità. Subisce i pregiudizi, in una bellissima scena tutti gli girano attorno trascinando sedie bianche ospedaliere e sussurrando “Idiota… idiota…”, in uno spietato girotondo che stordisce e ferisce.

L’incantevole Nastassja Filippovna, sfrontata, ingabbiata nella sua bellezza, soffre forse più di tutti, riconosce la purezza di Myskin e nonostante le richieste del Principe (che l’ama ma di un amore pieno di compassione) non vuole infliggergli la condanna della sua eterna insoddisfazione, è attirata coma una calamita dal rozzo Rogozin e gli si concede, cosciente che sarà l’artefice della sua fine.

La giovane Aglaja è nervosa, insicura e innamorata del Principe, non irresistibile e tormentata come la Filippovna, i movimenti dell’attrice rendono perfettamente i suoi tentennamenti di carattere.

Lo spettacolo avanza facendoci entrare sempre più in contatto con i colori, i suoni della Russia e della sua gente.

Quattro atti, primo e quarto più corali, secondo e terzo più incentrati sulle figure centrali già citate.

In sei ore qualche affaticamento c’è stato, pur avendo ridotto il romanzo, lo sviluppo è comunque lungo, la scrittura di Dostoevskij non è immediata: è fatta di rivoli psicologici sottili che si dipanano con le interminabili riflessioni dei personaggi, che occupano gran parte del loro tempo con i pensieri. Ne L’idiota i protagonisti si rovinano l’esistenza seguendo solo i loro sentimenti, le passioni e le relazioni riempiono il loro tempo e il loro spazio, del resto “Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più ” (Fedor Dostoevskij).

Lewis Hine. Il grande maestro della fotografia sociale

lewis_hine_affiche_exposition_fondation_cartier_bressonMARIA CRISTINA SERRA  | Lewis Hine. Il grande maestro della fotografia sociale Fotografia Straordinaria sintesi espositiva per comprendere la storia del lavoro e dello sfruttamento capitalistico nelle foto del pioniere dei reportage di denuncia e di lotta politica agli inizi del Novecento negli Stati Uniti. Da lui presero ispirazioni i grandi fotografi, a partire da Cartier Bresson, la cui Fondazione ne ospita la retrospettiva

In un mondo assuefatto ad una incessante anestesia sociale, che diluisce in particelle evanescenti l’Etica e impone come bene primario l’avidità dei consumi e un immaginario estetico stereotipato, la “fotografia sociale”, svincolata dal sensazionalismo, è ormai relegata in una nicchia per specialisti. Eppure, fin dai suoi esordi, la fotografia ha puntato i suoi obiettivi verso le tematiche sociali, acceso la luce laddove covavano soltanto ombre, svelato i drammi nascosti del vivere quotidiano, senza enfasi né deformazioni, quando i discorsi spesso sono insufficienti e sfilacciati a rappresentare la realtà e le storie dei destini umani.

Agli inizi del secolo scorso, Lewis W. Hine (1874 – 1940), di professione sociologo, decise di appendere al chiodo la forza delle parole, imparate all’Ethical Culture School, per impugnare una “Graflex 4×5” e immortalare con sguardo nitido le immagini impietose della realtà senza mediazioni, raccontando le storie dell’immigrazione, la povertà, lo sfruttamento minorile e le dure condizioni degli operai, in un’America allora terra di frontiera e di speranza. Un’occasione preziosa per rivivere la storia di quei primi anni del Novecento, dagli sbarchi ad Ellis Island, a meno di un kilometro dalla statua della libertà di New York, agli effetti devastanti della Grande Depressione del ’29, cui seguì il New Deal roosveltiano, attraverso uno sguardo “più reale della realtà stessa”, come Hine sosteneva, e comprendere molto del nostro presente, è offerto dalla preziosa mostra “Lewis Hine” alla Fondazione Henri Cartier Bresson, fino al 18 dicembre.

Volti e sguardi di un’umanità che viaggiando in terza classe abbandonava i paesi di origini, tradizioni e culture della “vecchia” Europa per cercare fortuna e riscatto sociale nel “Nuovo Mondo”, sono immortalati da Hine con poetica empatia. Sembra porgere la fotocamera ai suoi protagonisti a mo’ di quaderno in bianco su cui ognuno avrebbe potuto disegnare emozioni, dolori, dignità, senza mai sfociare nel melodramma. Ne esce un documento storico di enorme valore narrativo, che pur con i limiti tecnici dell’epoca non trascura nessun dettaglio umano e simbolico. C’è il “decoro” della povertà nelle foto d’interni delle mamme con bambini a Chicago e a New York. Le miserie si somigliano: i panni stesi vicino alla stufa a legna, il disordine che dà calore e intimità, i letti accatastati, i bambini che si stringono tra loro sorridenti, malgrado l’indigenza. Intuisce che la foto può essere un potente strumento di denuncia dello sfruttamento minorile e per conto del National Child Labor Committee, nel 1907, inizia un viaggio negli Stati Uniti per denunciarlo. I suoi reportage contribuirono anche all’approvazione della prima legge sul lavoro minorile.

Come in un racconto di Dickens un bambino malato, le spalle incassate, viene ripreso con i riccioli scomposti che gli incorniciano il visetto grinzoso, quasi da vecchio; una giacchetta stretta e logora copre appena l’adolescente con la gamba fasciata, che attende l’apertura della mensa pubblica in un sobborgo di Chicago. Il piccolo lustrascarpe chinato a lucidare lo stivale, che sembra quasi superarlo in altezza, ha uno sguardo ironico da adulto navigato. La piccola Annie sbuca dal corridoio disadorno dell’orfanatrofio di Pittsburgh con un abitino cencioso e lo sguardo incerto. Sembrano felici i figli dei minatori slavi, che in una pausa del lavoro suonano la fisarmonica. La nettezza della prospettiva frontale evidenzia i piccoli minatori di South Pit Stone, nel 1912, in Pennsylvania, accovacciati sulle rotaie, infagottati nelle divise e illuminati da una lampada che getta una luce sinistra sulle loro facce nere di carbone. Numerose le foto delle bambine occupate nelle fabbriche tessili degli stati del Sud con le loro figure sovrastate dagli enormi telai in un gioco di chiaro-scuro. Si intravede un tavolo apparecchiato, dietro l’uscio della baracca dei raccoglitori di cotone a Tifton, in Georgia, nel 1909 e davanti, scarmigliati e scalzi, nove bambini posano fieramente insieme alla madre. File di panni stesi ad asciugare delimitano come una quinta teatrale i giochi dei bambini in un cortile a Boston; i più grandi al centro, i più piccoli ai lati, altri arrampicati su un carretto. La prospettiva a campo lungo conferisce un movimento cinematografico alla scena.

“C’è bisogno della luce, della luce forte”, diceva Hine, per raccontare i volti della sofferenza e dello sfruttamento degli esseri umani. I bambini “strilloni” sul ponte di Brooklyn con fasci di giornali si mettono in posa orgogliosi, mostrando i loro visi vissuti di chi è abituato alla strada. Si intravede nelle sue foto-racconto la tradizione della grande pittura olandese, alla Rembrandt, cui si ispirò per evidenziare la “teatralità” dei poveri in cerca di un futuro. La famiglia italiana, appena sbarcata ad Ellis Island nel 1905, ha la valigia di cartone chiusa con lo spago e i fagotti sulle spalle, ma le più piccole hanno gli abiti della festa e le cuffiette con i merletti.

Convinto che “i beni materiali non sono solo il prodotto di una catena di montaggio, azionata da robot”, per Hine il progresso industriale è il prodotto di un rapporto simbiotico tra l’uomo e le macchine. “Ho voluto mostrare – sosteneva – ciò che doveva essere corretto e ciò che doveva essere apprezzato”. I muscoli tesi delle braccia in primo piano del giovane meccanico che gira i bulloni di un motore a turbina in una centrale elettrica, anticipa una delle scene cult del capolavoro di Chaplin “Tempi moderni”, così come la foto del “monello” di strada. Gli operai che costruiscono l’ Empire State Building a New York sospesi nel vuoto del centesimo piano, lungo una fune o a cavalcioni fra le travi, sono diventati icone senza tempo, di perfetto rigore formale, nonché suggerimento ancor oggi per la pubblicità. Fu un “visionario” del realismo fotografico, che visse in prima persona e sulla sua pelle le vicende drammatiche che lui stesso aveva documentato.

Requie all'anima soja

RENZO FRANCABANDERA | In scena in questi giorni al Tieffe di Milano, in Via Ciro Menotti dove un tempo era il Teatro dell’Elfo, due atti unici di Eduardo de Filippo scelti da Alfonso Santagata.
E’ lui. E’ sempre lui, leggero e pesante insieme, contadino e poeta. La rilettura (finalmente una non machiettistica e imitativa delle cose più superficiali di De Filippo) dei due atti unici “I morti non fanno paura” e “Il cilindro” in questi giorni in scena al Tieffe Teatro di Milano ci parla di un rapporto riuscito di Santagata con testo e scena, con ritmi spettacolari e tradizione del maestro napoletano.
Il tema chiave sotteso è quello della morte, delle sue declinazioni paradossali nel vivere quotidiano, attraverso il filtro delle miserie e degli egoismi.
Le due drammaturgie risolvono nella apparente semplicità la forza del messaggio. “I morti non fanno paura” racconta di un condominio alle prese con un lutto. Nella casa del defunto risiede di tanto in tanto un ospite occasionale cui è concessa in affitto una stanza, in cui è stato alloggiato il feretro prima della cerimonia funebre. Sarà lui a catalizzare ansie e paure, attese e scongiuri. Un finale aperto ad ogni lettura.
“Il cilindro” è invece la storia di una truffa. Per pagare il fitto a un vecchio e sua moglie che vivono di espedienti, un uomo spinge la sua giovane compagna a fingersi prostituta. Gli addescati al momento del dunque vengono però messi di fronte al fatto che la compagna apra la stanza da letto mostrando il adavere del maritino appena (fintamente) morto. Tutto va bene finchè un vecchietto raggirato non si accorge della truffa e mette sul piatto una cifra imbarazzante per ottenere le grazie della donna. A quel punto gli interessi di ciascuno si separano ed esplodono gli opportunismi.
Entrambi i lavori la morte è ovviamente pretesto per raccontare altro, e bene riesce Santagata e anche il suo gruppo di validi attori a declinare uno switch logico senza togliere mai nulla ad una teatralità robusta, tradizionale, dove le maestrie di gesto e di esperienza trovano compiutezza costantemente.
Ho riso di gusto, come da tempo non mi succedeva. E ho guardato con accondiscendenza alle scaltrezze e alle piccole maestrie di un teatro purtroppo raro da vedere, dove il semplice resta semplice incorporando il complesso con naturalezza. Dove l’esperienza è lì senza crogiolarsi di se stessa e messa al servizio di un pubblico che prova un piacere antico, svuotato di intellettualismi ma non banale.
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Cezanne a Milano

RENZO FRANCABANDERA | Nel tempo, al crescere della consapevolezza del linguaggio artistico, il frequentatore di mostre, il conoscitore dell’arte diventa sempre meno appassionato alla fruizione individuale farcita della sindrome di Sandhal di fronte al grande capolavoro, e sempre più interessato a conoscere i percorsi, la formazione, il momento della crescita.
E’ per questo che negli anni abbiamo cercato di segnalare in modo più attento le mostre che aiutavano non solo a capire i fulgori, ma anche lo sviluppo dei linguaggi. Il perchè di questa scelta risiede nel fatto che episodi della storia dell’arte e le vite di artisti come Picasso, Dalì, Schiele, Lautrec, talenti precocissimi, sono in genere una rarità, mentre la maggior parte dei percorsi creativi si sviluppa con la consapevolezza, la maturità, la fatica e la tenacia, come in tutte le cose umane.
E’ per questo che fa sempre quasi tenerezza osservare i primi lavori di un Van Gogh incerto e incapace, alla soglia dei trentacinque anni, di disegnare i volumi e le forme in movimento, o le opere che compongono la prima sezione del percorso della mostra di Palazzo Reale di Milano su Cezanne, con i quadri (quasi venti dei cinquanta) del periodo anagrafico fra i venti e i trentacinque-quarant’anni.
Opere che non possono essere definite minori, ma di formazione, opere che fanno parte di quel complesso di codici di passaggio che portano poi alla definizione dello stile personale, della tavolozza soggettiva, del timbro e del segno del pittore.
Al di là del celeberrimo autoritratto realizzato intorno ai quarant’anni che accoglie il visitatore e che raccoglie, superandole, le lezioni dei maestri Delacroix e Ingres e le suggestioni impressionistiche, i “capolavori” esposti in questa mostra sono nelle ultime stanze, quelle della maturità, dove appaiono i boschi, le inestricabili foreste, veri e propri muri di colore dove l’ostacolo diventava siepe leopardiana oltre la quale immaginare l’infinito.
Lì, nella natura selvaggia delle montagne di Provenza intorno ad Aix, alle pendici del monte Sainte Victoire, tante volte immortalato in ogni condizione di luce, Cezanne passava giorni a dipingere in solitudine, isolato eppure mai ignaro dei fermenti parigini, dove l’agio familiare lo conduceva con una certa frequenza e assiduità di confronto. Ecco perchè, all’arrivare del suo successo in età assai matura, intorno ai sessant’anni, fu chiaro a tutti, quando ormai il nuovo secolo, il Novecento, si approssimava, che il pittore Cezanne si proponeva come unico vero, grandissimo e luminoso anello di congiunzione e ponte verso il nuovo che protentemente bussava alle porte.
Gli ultimi disegni, i trasparenti acquerelli su carta come il mulino sul fiume della penultima stanza, sono chiare anticipazioni degli studi sul movimento del futurismo, e le nature delle ultime due stanze, tanto nelle loro quasi finte luminosità quanto nelle opacità terrene, anticipazioni delle suggestioni su colore e volumi del cubismo di Picasso e Braque. Eppure commuove, in queste ultime stanze, trovare un maestro che ancora si esercita, che copia drappeggi e tende o nature morte con afflato verista e con il tentativo di riuscire a definire il reale con la trasparenza, quasi con la materia del supporto, come il pittore di Oceano mare di Baricco, che tracciava sulla tela infinitezze con la sola acqua di mare.
E’ lì la lezione vera di un Cezanne che dice a sè e a chi lo osserva che non si smette mai davvero di imparare e che per diventare grandi è importante non dismettere mai i panni dell’umiltà. E’ per questo che la mostra va vista da chi davvero è appassionato di profondo sentimento artistico e poetico. Perchè traspare l’umanità di un uomo che, lontano dai clamori, ha creduto più di tutto in quello che aveva dentro, e che, come dichiarò ormai anziano, volle morire dipingendo.
Un video sulla mostra
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Kapusvetki

RENZO FRANCABANDERA | Ad inizio c’è un signore, dall’aspetto rubicondo e amichevole che racconta come a Vienna o giù di lì nei secoli le usanze funerarie siano state contraddistinte da talmente tante vicende paradossali e grottesche da divenire piuttosto oggetto di riso e raccapriccio che di pietas per il defunto.
Alle sue spalle alcune diapo scattate in contesti cimiteriali della capitale austriaca, dove, si dice, i morti vengano seppelliti senza testa. O dove ci sia l’usanza di lasciare una targhetta con il numero di telefono del defunto per chiamate nell’aldilà. O dove a fine ottocento era stato avviato un progetto per lo spostamento pneumatico delle salme dalla città al cimitero, che si trovava in un sobborgo ad alcuni km di distanza.
Poco dopo a fare l’ingresso sul palco, preannunciato da un importante numero di sedie vuote, ecco l’intero gruppo bandistico di una cittadina sperduta della Lettonia, con tanto di maestro. Si accomodano e quello che era in origine un racconto per voce sola diventa un piccolo concertino polifonico, nel senso che a raccontare di storie comiche legate al rito funerario ci si mettono praticamente tutti.
Il lavoro che Alvis Hermanis presenta per l’edizione 2011 di VIE è un lavoro dal tratto leggero, per la gran parte ironico, che vuole guardare non solo alla morte e al rito religioso che l’accompagna, ma attraverso il rito funebre e il culto dei morti raccontare un popolo.
Kapusvētki reca come sottotitolo Graveyard Party. E’ la celebrazione dei defunti, il Graveyard Party appunto, che ricorre nei mesi estivi di Luglio e Agosto, giorni in cui il cimitero si trasforma in un giardino fiorito cui viene riservata una speciale cura da parte dei parenti dei defunti che vi si riuniscono mangiando, cantando canzoni religiose e facendo musica, spesso improvvisata.
Andato in scena nello scorso fine settimana al Teatro Storchi per l’edizione 2011 di VIE, Kapusvētki è un prodotto del premiato connubio fra Alvis Hermanis e il New Riga Theatre, su un testo scritto dallo stesso Hermanis con l’ensemble del Jaunais Rīgas Teātris. VIE ospita il regista per l’ennesima volta dopo i grandissimi successi di Sonja e By Gorkij, e poi con la coproduzione proprio di Emilia Romagna Teatro Fondazione de Le signorine di Wilko. Quello che propone Heramnis per questo lavoro è un tipo di narrazione abbastanza tipico della modalità narrativa ironica esteuropea, ma occidentalizzato quel tanto basta a rendere il prodotto spettacolare il linea con un gusto più occidentale, magari meno avvezzo ad asperità narrative balcaniche.
Dello spettacolo è parte centrale anche l’apparato fotografico di assoluto pregio, realizzato dal fotografo Mārtiņš Grauds, che ha raccolto un’ampia documentazione non solo nella sua terra ma in giro per il mondo di riti funebri.
Sotto la guida del maestro e insegnante di musica Ansis Nikolovskis alcuni interpreti del teatro hanno impartato alcune delle partiture classiche che le bande di paese suonano in occasione delle cerimonie che in quella terra, come detto, sono momenti altissimi di socialità, tanto che il camposanto diventa non di rado, a margine della ritualità commemorativa, luogo per incontri, pic nic e finanche flirt. E un piccolo pic nic ricorre anche nella partitura drammaturgica, con i suonatori che tirano fuori insalate, salsicciotti e uova sode.
Insomma si diventa tutti parte di un rito che viene inframmezzato da piccole esecuzioni musicali.
Il finale non manca di introdurre una piccola nota di pathos emotivo, scendendo pian piano dentro una personalizzazione del dolore che rimane però leggera, nello stesso momento in cui il racconto dei riti funerari si allarga a tutto il mondoe continuano a scorrere dietro la banda le oltre 500 foto scattate da Mārtiņš Grauds che registrano le celebrazioni avvenute nel cimitero di Riga, capitale della Lettonia ma anche in Messico e altre terre.
Leggera rimane tutta la creazione, anche se flette nell’intensità nell’ultima parte, per via di un’atmosfera sospesa che non arriva però al cambio di passo e a sviluppare a fondo la bella idea del rito corale. Pare che allo spettacolo manchi qualcosa, un colpo di coda, una trovata risolutiva e ulteriore che porti il tutto oltre l’intreccio facile e oltre la ripetizione di un modulo testo musica testo che invece continua per tutto il tempo fino alla fine. Appunto.

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Venezia e l'Egitto

ELENA SCOLARI| Al Palazzo Ducale di Venezia è stata inaugurata da pochi giorni un’importante mostra che racconta per la prima volta i rapporti tra la Serenissima e l’Egitto con oltre 300 opere. Aperta fino al 22 gennaio 2012. Catalogo Skira.

Venezia è l’unica città europea che fin dall’anno Mille ha anche un nome arabo distinto da quello italiano: “al-bunduqiyya”. Una traccia italiana di questo nome è in “Sirat al-bunduqiyya” di Hugo Pratt, traduzione di “La favola di Venezia”.

Ricordiamo l’artista veneziano che ha ambientato in laguna più d’una tra le avventure di Corto Maltese, perché entrare in questa mostra significa davvero attraversare una porta immaginaria, proprio come quelle nascoste tra calli e campielli che introducono il marinaio in mondi fantastici: la porta dell’oriente, la porta dell’oro, del mare…

La nostra è la porta dell’Africa, e ci conduce in Egitto. Il visitatore la attraversa dopo aver potuto sbirciare il cortile di Palazzo Ducale, alla fine dello scalone che porta al primo piano si raggiunge la Sala dello Scrutinio, qui due grandi pannelli ci consentono di scegliere quale direzione prendere: da una parte il percorso più coerente che parte proprio da Venezia e dall’altra un colpo da macchina del tempo dello spazio ci catapulta direttamente tra le sabbie egiziane.

L’allestimento è molto ordinato e consente di seguire senza intoppi il senso dell’esposizione, questo metodo non è particolarmente creativo ma è apprezzabile per funzionalità e semplicità (meglio una linearità pulita che un ardire confuso).

Si passa attraverso nove sezioni tematiche: viaggi, scoperte, archeologia, , i commerci, l’Egitto immaginato ecc. Questi temi ci guidano in due millenni di rapporti tra la Repubblica della Serenissima e l’Egitto, dal trasporto della salma di San Marco da Alessandria nell’828, alle avventure ottocentesche di esploratori come Giambattista Belzoni, uno dei padri dell’archeologia italiana, e Giovanni Miani; dalle peripezie di mercanti e diplomatici all’inseguimento di merci, tesori e terre, alle curiosità di umanisti e scienziati alle prese con i misteri dei geroglifici, delle piramidi e dell’antica scienza dei faraoni.

Ogni sezione è corredata da un video, breve, che illustra il nocciolo del tema, mentre esposti vediamo quadri dei più grandi maestri: Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Tiepolo, Amigoni, Strozzi, fino ad una particolare raccolta di disegni di Piranesi che ha “immaginato” il paese esotico cui la mostra è dedicata.

La giusta attenzione va anche dedicata allo stupefacente spazio che fa da cornice a “Venezia e l’Egitto”, la sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale è un luogo spettacolare di per sé: una parete laterale è quasi interamente è occupata dal gigantesco dipinto “La battaglia di Lepanto”, tanto vivace da frastornare, e il fondo ospita invece uno spaventoso “Giudizio universale”, entrambi di Palma il giovane.

Se in questa visita accetteremo di diventare esploratori potremo illuderci di imbarcarci su una splendida galea in legno e seguire il corpo di San Marco, ci aggireremo con torce nel buio dei templi abitati da statue altissime e maestose, potremo bere dalla caraffa di Artaserse, re persiano d’Egitto, incontreremo qualche mummia riccamente addobbata, sentiremo monete che ancora tintinnano dopo due millenni, impareremo forse a decifrare un piccolo geroglifico e sicuramente saremo affascinati dal codice di gesti manuali che indicavano tutte le cifre, un alfabeto commerciale che animava il mercanteggiare di pietre, stoffe, broccati e spezie.

Assisteremo alla costruzione del Canale di Suez e alla tessitura di un enorme tappeto.

E potremo tornare a casa con quello, se  riusciremo a farlo volare.

"Ombre di guerra" per immaginare le luci della pace

L_OMBRE_DE_LA_GUERREMARIA CRISTINA SERRA | L’essenziale funzione dei fotoreporter dal fronte spagnolo ai recenti conflitti è messa a fuoco dalla mostra alla Maison Européenne de la Photographie, che chiude in questo fine settimana. Ma le loro immagini restano icone impresse nella memoria storica dell’umanità

“Una fotografia non può costringere – scriveva Susan Sontag- non può svolgere il lavoro morale al posto del nostro. Ma ci può mettere sulla buona strada”. Novanta fotografie (esposte alla MEP), bellissime e terribili nella loro crudezza “istantanea”, che hanno documentato 70 anni di conflitti nel mondo, dalla Guerra civile in Spagna nel 1936, al Vietnam, alle guerre etniche nei Balcani, ai conflitti senza sosta in Medio Oriente, fino al 2007, ne descrivono l’inutile violenza, per riflettere sul potere simbolico delle immagini, spesso diventate icone, conservate nella nostra memoria collettiva.
“La tragedia, la miseria, la sofferenza, che vedevo in guerra mi hanno consumato”, racconta il fotografo inglese Don McCullinn, che nella sua lunga carriera ha attraversato i fronti di guerra degli ultimi decenni del Novecento.

Il soldato americano, che con lo sguardo perso nel vuoto, atterrito, stringe con entrambe le mani la canna del fucile, come un estremo appiglio, è l’inizio di un viaggio nel dolore, che prosegue con le altre immagini del Vietnam che hanno fatto la storia. La celebre istantanea di Nick Ut (gli valse il Premio Pulitzer nel ’72) della piccola vietnamita Kim Phuc in fuga, nuda, il corpo ustionato, in preda al terrore, dal suo villaggio colpito dai bombardamenti americani al napalm, costrinse il mondo in quegli anni a non voltare lo sguardo davanti alla violenza, che si abbatteva sui civili inermi. Quelle popolazioni che, ieri come oggi, pagano sempre il prezzo più alto all’irragionevolezza umana.

Lo scatto agghiacciante di Eddie Adams, che nel ’68 riprende l’istante in cui il prigioniero vietgong viene ucciso con un colpo alla tempia da un generale del Sud Vietnam, sembra un pugno nello stomaco sferrato all’osservatore, mentre segue il movimento accennato dalla dinamica dello sparo. Un documento unico che attraverso l’attimo fuggente riassume un intero capitolo della storia recente, senza veli inutili di pietà, perché i fatti accaduti non li contemplavano.

La guerra è una faccenda sporca e per documentarla e farne conoscere gli orrori è necessario sporcarsi le mani, avere coraggio, accettare le sfide dei rischi che implica. E la mostra è anche un’occasione per ricordare i tanti fotoreporter morti sui campi di battaglia, impegnati nella missione per raccontare al mondo la verità dalla “prima linea”. Dalle più recenti di Tim Hetherington e Chris Hondros, a Misurata in Libia, a quelle passate. Michel Laurent (Premio Pulitzer 1972 per gli scatti sulle esecuzioni a sangue freddo nello stadio di Dacca in Bangladesh) fu l’ultimo fotogiornalista ucciso in Vietnam, tre giorni prima che le truppe del generale Giap entrassero a Saigon. Vent’anni prima, il 25 maggio 1954, durante una “tregua” della guerra dei trent’anni per l’indipendenza indocinese (tra la fase coloniale francese e quella americana), Robert Capa venne dilaniato da una mina.

La sua compagna, Gerda Taro, era stata già uccisa il 26 luglio del 1936, mentre documentava la battaglia di Brunete fra le milizie di Franco e le Brigate Internazionali. Un amore il loro, esploso tra le fila dei rifugiati politici che si riunivano nei circoli antifascisti del Quartiere Latino parigino negli anni ’30. Lei, Gerta Pohorylle, ebrea tedesca di grande fascino e personalità, in cerca di identità e indipendenza, lui Endre Erno Friedman, originario di Budapest, fotografo agli esordi.
Dotata di grande intuito e comunicativa, sarà lei a modificare i loro nomi e a imporre alle agenzie la sigla Taro-Capa. L’apprendistato alla Alliance Photo le fece fiutare in anticipo che il mercato si stava trasformando, pur mantenendo la personale autonomia. Il golpe militare in Spagna del 18 luglio ‘36 e la guerra civile che ne seguì sconvolse le loro vite, cementandone la passione politica. “Il miliziano morente” di Capa è un omaggio senza tempo al coraggio; mentre l’istantanea del D-Day in Normandia, resta uno storico “fuori fuoco”, dovuto all’emozione di assistere all’alba che stava mutando il corso della storia.

E’ invece dell’estate del ‘36 lo splendido ritratto, scattato dalla Taro, della combattente repubblicana, che si esercita sul litorale di Barcellona. La figura di profilo, protesa in avanti, la pistola puntata, le scarpe col tacco, fatta con una Rolleiflex, pur tradendo uno stile “militante” è di grande suggestione. Di lì a poco con la più duttile Laika registrerà la tragica escalation con i bombardamenti, il fronte, i feriti, i rifugiati, la resistenza.
Una luce accecante avvolge l’entrata di un bunker antiaereo in Spagna e fa da cornice ai bambini ammassati che attendono il” cessato allarme”. Il suo autore, David Saymur, morì nel 1956 durante la guerra lampo fra Egitto e Israele nel ’56.

Le “fosse comuni ” in Bosnia di Gilles Peress sono una ragnatela di morte. Sembra una deposizione caravaggesca il dolore delle donne musulmane intorno al giaciglio del loro caro di Georges Merillon: i rossi, i senapi, i grigi e i marroni accentuano una sofferenza antica come il mondo. Sembra un quadro realista dell’800 la marcia faticosa sulla neve dei soldati che in Cecenia trascinano il corpo del compagno senza vita, riposto dentro un lenzuolo rosso. Thomas Dworzak avvolge la scena con una coltre di nebbia, come per pudore. Lo strazio del corpo appeso all’ingiù di un agente della polizia segreta contro cui si accaniscono gli insorti ungheresi nel ’56, è reso con magistrale realismo da Mario de Blasi. I palazzi sventrati in Libano di Gabriele Basilico sono il simbolo della distruzione. Con uno sguardo penetrante e fuggitivo Paolo Pellegrin fissa la cattura di un nemico da parte dei soldati israeliani, con forti e sapienti contrasti bianco/nero, fra luci e ombre.

La normalità apparente annuncia l’orrore in Alexandra Boulat. Con la sensibilità che ha contraddistinto la sua carriera di grande fotogiornalista di guerra (interrotta con la morte improvvisa nell’ottobre del 2007 per un aneurisma ) ci spiega con uno sguardo “occidentale” la complessità e la scala valoriale di una tradizione diversa dalla nostra tra il Kosovo, il Pakistan e l’Afghanistan. Come un degrado di forme, ordinatamente allineate, alcuni proiettili fanno mostra di sé su di una mensola, fra loro campeggia un tulipano di carta, “innocente” evasione tra simboli di morte in una giornata qualunque a Quetta (Pakistan 2001), per rammentarci che alla guerra e alla sua ordinaria follia non ci si deve abituare mai.