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mercoledì, Novembre 13, 2024
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Cezanne a Milano

RENZO FRANCABANDERA | Nel tempo, al crescere della consapevolezza del linguaggio artistico, il frequentatore di mostre, il conoscitore dell’arte diventa sempre meno appassionato alla fruizione individuale farcita della sindrome di Sandhal di fronte al grande capolavoro, e sempre più interessato a conoscere i percorsi, la formazione, il momento della crescita.
E’ per questo che negli anni abbiamo cercato di segnalare in modo più attento le mostre che aiutavano non solo a capire i fulgori, ma anche lo sviluppo dei linguaggi. Il perchè di questa scelta risiede nel fatto che episodi della storia dell’arte e le vite di artisti come Picasso, Dalì, Schiele, Lautrec, talenti precocissimi, sono in genere una rarità, mentre la maggior parte dei percorsi creativi si sviluppa con la consapevolezza, la maturità, la fatica e la tenacia, come in tutte le cose umane.
E’ per questo che fa sempre quasi tenerezza osservare i primi lavori di un Van Gogh incerto e incapace, alla soglia dei trentacinque anni, di disegnare i volumi e le forme in movimento, o le opere che compongono la prima sezione del percorso della mostra di Palazzo Reale di Milano su Cezanne, con i quadri (quasi venti dei cinquanta) del periodo anagrafico fra i venti e i trentacinque-quarant’anni.
Opere che non possono essere definite minori, ma di formazione, opere che fanno parte di quel complesso di codici di passaggio che portano poi alla definizione dello stile personale, della tavolozza soggettiva, del timbro e del segno del pittore.
Al di là del celeberrimo autoritratto realizzato intorno ai quarant’anni che accoglie il visitatore e che raccoglie, superandole, le lezioni dei maestri Delacroix e Ingres e le suggestioni impressionistiche, i “capolavori” esposti in questa mostra sono nelle ultime stanze, quelle della maturità, dove appaiono i boschi, le inestricabili foreste, veri e propri muri di colore dove l’ostacolo diventava siepe leopardiana oltre la quale immaginare l’infinito.
Lì, nella natura selvaggia delle montagne di Provenza intorno ad Aix, alle pendici del monte Sainte Victoire, tante volte immortalato in ogni condizione di luce, Cezanne passava giorni a dipingere in solitudine, isolato eppure mai ignaro dei fermenti parigini, dove l’agio familiare lo conduceva con una certa frequenza e assiduità di confronto. Ecco perchè, all’arrivare del suo successo in età assai matura, intorno ai sessant’anni, fu chiaro a tutti, quando ormai il nuovo secolo, il Novecento, si approssimava, che il pittore Cezanne si proponeva come unico vero, grandissimo e luminoso anello di congiunzione e ponte verso il nuovo che protentemente bussava alle porte.
Gli ultimi disegni, i trasparenti acquerelli su carta come il mulino sul fiume della penultima stanza, sono chiare anticipazioni degli studi sul movimento del futurismo, e le nature delle ultime due stanze, tanto nelle loro quasi finte luminosità quanto nelle opacità terrene, anticipazioni delle suggestioni su colore e volumi del cubismo di Picasso e Braque. Eppure commuove, in queste ultime stanze, trovare un maestro che ancora si esercita, che copia drappeggi e tende o nature morte con afflato verista e con il tentativo di riuscire a definire il reale con la trasparenza, quasi con la materia del supporto, come il pittore di Oceano mare di Baricco, che tracciava sulla tela infinitezze con la sola acqua di mare.
E’ lì la lezione vera di un Cezanne che dice a sè e a chi lo osserva che non si smette mai davvero di imparare e che per diventare grandi è importante non dismettere mai i panni dell’umiltà. E’ per questo che la mostra va vista da chi davvero è appassionato di profondo sentimento artistico e poetico. Perchè traspare l’umanità di un uomo che, lontano dai clamori, ha creduto più di tutto in quello che aveva dentro, e che, come dichiarò ormai anziano, volle morire dipingendo.
Un video sulla mostra
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Kapusvetki

RENZO FRANCABANDERA | Ad inizio c’è un signore, dall’aspetto rubicondo e amichevole che racconta come a Vienna o giù di lì nei secoli le usanze funerarie siano state contraddistinte da talmente tante vicende paradossali e grottesche da divenire piuttosto oggetto di riso e raccapriccio che di pietas per il defunto.
Alle sue spalle alcune diapo scattate in contesti cimiteriali della capitale austriaca, dove, si dice, i morti vengano seppelliti senza testa. O dove ci sia l’usanza di lasciare una targhetta con il numero di telefono del defunto per chiamate nell’aldilà. O dove a fine ottocento era stato avviato un progetto per lo spostamento pneumatico delle salme dalla città al cimitero, che si trovava in un sobborgo ad alcuni km di distanza.
Poco dopo a fare l’ingresso sul palco, preannunciato da un importante numero di sedie vuote, ecco l’intero gruppo bandistico di una cittadina sperduta della Lettonia, con tanto di maestro. Si accomodano e quello che era in origine un racconto per voce sola diventa un piccolo concertino polifonico, nel senso che a raccontare di storie comiche legate al rito funerario ci si mettono praticamente tutti.
Il lavoro che Alvis Hermanis presenta per l’edizione 2011 di VIE è un lavoro dal tratto leggero, per la gran parte ironico, che vuole guardare non solo alla morte e al rito religioso che l’accompagna, ma attraverso il rito funebre e il culto dei morti raccontare un popolo.
Kapusvētki reca come sottotitolo Graveyard Party. E’ la celebrazione dei defunti, il Graveyard Party appunto, che ricorre nei mesi estivi di Luglio e Agosto, giorni in cui il cimitero si trasforma in un giardino fiorito cui viene riservata una speciale cura da parte dei parenti dei defunti che vi si riuniscono mangiando, cantando canzoni religiose e facendo musica, spesso improvvisata.
Andato in scena nello scorso fine settimana al Teatro Storchi per l’edizione 2011 di VIE, Kapusvētki è un prodotto del premiato connubio fra Alvis Hermanis e il New Riga Theatre, su un testo scritto dallo stesso Hermanis con l’ensemble del Jaunais Rīgas Teātris. VIE ospita il regista per l’ennesima volta dopo i grandissimi successi di Sonja e By Gorkij, e poi con la coproduzione proprio di Emilia Romagna Teatro Fondazione de Le signorine di Wilko. Quello che propone Heramnis per questo lavoro è un tipo di narrazione abbastanza tipico della modalità narrativa ironica esteuropea, ma occidentalizzato quel tanto basta a rendere il prodotto spettacolare il linea con un gusto più occidentale, magari meno avvezzo ad asperità narrative balcaniche.
Dello spettacolo è parte centrale anche l’apparato fotografico di assoluto pregio, realizzato dal fotografo Mārtiņš Grauds, che ha raccolto un’ampia documentazione non solo nella sua terra ma in giro per il mondo di riti funebri.
Sotto la guida del maestro e insegnante di musica Ansis Nikolovskis alcuni interpreti del teatro hanno impartato alcune delle partiture classiche che le bande di paese suonano in occasione delle cerimonie che in quella terra, come detto, sono momenti altissimi di socialità, tanto che il camposanto diventa non di rado, a margine della ritualità commemorativa, luogo per incontri, pic nic e finanche flirt. E un piccolo pic nic ricorre anche nella partitura drammaturgica, con i suonatori che tirano fuori insalate, salsicciotti e uova sode.
Insomma si diventa tutti parte di un rito che viene inframmezzato da piccole esecuzioni musicali.
Il finale non manca di introdurre una piccola nota di pathos emotivo, scendendo pian piano dentro una personalizzazione del dolore che rimane però leggera, nello stesso momento in cui il racconto dei riti funerari si allarga a tutto il mondoe continuano a scorrere dietro la banda le oltre 500 foto scattate da Mārtiņš Grauds che registrano le celebrazioni avvenute nel cimitero di Riga, capitale della Lettonia ma anche in Messico e altre terre.
Leggera rimane tutta la creazione, anche se flette nell’intensità nell’ultima parte, per via di un’atmosfera sospesa che non arriva però al cambio di passo e a sviluppare a fondo la bella idea del rito corale. Pare che allo spettacolo manchi qualcosa, un colpo di coda, una trovata risolutiva e ulteriore che porti il tutto oltre l’intreccio facile e oltre la ripetizione di un modulo testo musica testo che invece continua per tutto il tempo fino alla fine. Appunto.

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Venezia e l'Egitto

ELENA SCOLARI| Al Palazzo Ducale di Venezia è stata inaugurata da pochi giorni un’importante mostra che racconta per la prima volta i rapporti tra la Serenissima e l’Egitto con oltre 300 opere. Aperta fino al 22 gennaio 2012. Catalogo Skira.

Venezia è l’unica città europea che fin dall’anno Mille ha anche un nome arabo distinto da quello italiano: “al-bunduqiyya”. Una traccia italiana di questo nome è in “Sirat al-bunduqiyya” di Hugo Pratt, traduzione di “La favola di Venezia”.

Ricordiamo l’artista veneziano che ha ambientato in laguna più d’una tra le avventure di Corto Maltese, perché entrare in questa mostra significa davvero attraversare una porta immaginaria, proprio come quelle nascoste tra calli e campielli che introducono il marinaio in mondi fantastici: la porta dell’oriente, la porta dell’oro, del mare…

La nostra è la porta dell’Africa, e ci conduce in Egitto. Il visitatore la attraversa dopo aver potuto sbirciare il cortile di Palazzo Ducale, alla fine dello scalone che porta al primo piano si raggiunge la Sala dello Scrutinio, qui due grandi pannelli ci consentono di scegliere quale direzione prendere: da una parte il percorso più coerente che parte proprio da Venezia e dall’altra un colpo da macchina del tempo dello spazio ci catapulta direttamente tra le sabbie egiziane.

L’allestimento è molto ordinato e consente di seguire senza intoppi il senso dell’esposizione, questo metodo non è particolarmente creativo ma è apprezzabile per funzionalità e semplicità (meglio una linearità pulita che un ardire confuso).

Si passa attraverso nove sezioni tematiche: viaggi, scoperte, archeologia, , i commerci, l’Egitto immaginato ecc. Questi temi ci guidano in due millenni di rapporti tra la Repubblica della Serenissima e l’Egitto, dal trasporto della salma di San Marco da Alessandria nell’828, alle avventure ottocentesche di esploratori come Giambattista Belzoni, uno dei padri dell’archeologia italiana, e Giovanni Miani; dalle peripezie di mercanti e diplomatici all’inseguimento di merci, tesori e terre, alle curiosità di umanisti e scienziati alle prese con i misteri dei geroglifici, delle piramidi e dell’antica scienza dei faraoni.

Ogni sezione è corredata da un video, breve, che illustra il nocciolo del tema, mentre esposti vediamo quadri dei più grandi maestri: Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Tiepolo, Amigoni, Strozzi, fino ad una particolare raccolta di disegni di Piranesi che ha “immaginato” il paese esotico cui la mostra è dedicata.

La giusta attenzione va anche dedicata allo stupefacente spazio che fa da cornice a “Venezia e l’Egitto”, la sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale è un luogo spettacolare di per sé: una parete laterale è quasi interamente è occupata dal gigantesco dipinto “La battaglia di Lepanto”, tanto vivace da frastornare, e il fondo ospita invece uno spaventoso “Giudizio universale”, entrambi di Palma il giovane.

Se in questa visita accetteremo di diventare esploratori potremo illuderci di imbarcarci su una splendida galea in legno e seguire il corpo di San Marco, ci aggireremo con torce nel buio dei templi abitati da statue altissime e maestose, potremo bere dalla caraffa di Artaserse, re persiano d’Egitto, incontreremo qualche mummia riccamente addobbata, sentiremo monete che ancora tintinnano dopo due millenni, impareremo forse a decifrare un piccolo geroglifico e sicuramente saremo affascinati dal codice di gesti manuali che indicavano tutte le cifre, un alfabeto commerciale che animava il mercanteggiare di pietre, stoffe, broccati e spezie.

Assisteremo alla costruzione del Canale di Suez e alla tessitura di un enorme tappeto.

E potremo tornare a casa con quello, se  riusciremo a farlo volare.

"Ombre di guerra" per immaginare le luci della pace

L_OMBRE_DE_LA_GUERREMARIA CRISTINA SERRA | L’essenziale funzione dei fotoreporter dal fronte spagnolo ai recenti conflitti è messa a fuoco dalla mostra alla Maison Européenne de la Photographie, che chiude in questo fine settimana. Ma le loro immagini restano icone impresse nella memoria storica dell’umanità

“Una fotografia non può costringere – scriveva Susan Sontag- non può svolgere il lavoro morale al posto del nostro. Ma ci può mettere sulla buona strada”. Novanta fotografie (esposte alla MEP), bellissime e terribili nella loro crudezza “istantanea”, che hanno documentato 70 anni di conflitti nel mondo, dalla Guerra civile in Spagna nel 1936, al Vietnam, alle guerre etniche nei Balcani, ai conflitti senza sosta in Medio Oriente, fino al 2007, ne descrivono l’inutile violenza, per riflettere sul potere simbolico delle immagini, spesso diventate icone, conservate nella nostra memoria collettiva.
“La tragedia, la miseria, la sofferenza, che vedevo in guerra mi hanno consumato”, racconta il fotografo inglese Don McCullinn, che nella sua lunga carriera ha attraversato i fronti di guerra degli ultimi decenni del Novecento.

Il soldato americano, che con lo sguardo perso nel vuoto, atterrito, stringe con entrambe le mani la canna del fucile, come un estremo appiglio, è l’inizio di un viaggio nel dolore, che prosegue con le altre immagini del Vietnam che hanno fatto la storia. La celebre istantanea di Nick Ut (gli valse il Premio Pulitzer nel ’72) della piccola vietnamita Kim Phuc in fuga, nuda, il corpo ustionato, in preda al terrore, dal suo villaggio colpito dai bombardamenti americani al napalm, costrinse il mondo in quegli anni a non voltare lo sguardo davanti alla violenza, che si abbatteva sui civili inermi. Quelle popolazioni che, ieri come oggi, pagano sempre il prezzo più alto all’irragionevolezza umana.

Lo scatto agghiacciante di Eddie Adams, che nel ’68 riprende l’istante in cui il prigioniero vietgong viene ucciso con un colpo alla tempia da un generale del Sud Vietnam, sembra un pugno nello stomaco sferrato all’osservatore, mentre segue il movimento accennato dalla dinamica dello sparo. Un documento unico che attraverso l’attimo fuggente riassume un intero capitolo della storia recente, senza veli inutili di pietà, perché i fatti accaduti non li contemplavano.

La guerra è una faccenda sporca e per documentarla e farne conoscere gli orrori è necessario sporcarsi le mani, avere coraggio, accettare le sfide dei rischi che implica. E la mostra è anche un’occasione per ricordare i tanti fotoreporter morti sui campi di battaglia, impegnati nella missione per raccontare al mondo la verità dalla “prima linea”. Dalle più recenti di Tim Hetherington e Chris Hondros, a Misurata in Libia, a quelle passate. Michel Laurent (Premio Pulitzer 1972 per gli scatti sulle esecuzioni a sangue freddo nello stadio di Dacca in Bangladesh) fu l’ultimo fotogiornalista ucciso in Vietnam, tre giorni prima che le truppe del generale Giap entrassero a Saigon. Vent’anni prima, il 25 maggio 1954, durante una “tregua” della guerra dei trent’anni per l’indipendenza indocinese (tra la fase coloniale francese e quella americana), Robert Capa venne dilaniato da una mina.

La sua compagna, Gerda Taro, era stata già uccisa il 26 luglio del 1936, mentre documentava la battaglia di Brunete fra le milizie di Franco e le Brigate Internazionali. Un amore il loro, esploso tra le fila dei rifugiati politici che si riunivano nei circoli antifascisti del Quartiere Latino parigino negli anni ’30. Lei, Gerta Pohorylle, ebrea tedesca di grande fascino e personalità, in cerca di identità e indipendenza, lui Endre Erno Friedman, originario di Budapest, fotografo agli esordi.
Dotata di grande intuito e comunicativa, sarà lei a modificare i loro nomi e a imporre alle agenzie la sigla Taro-Capa. L’apprendistato alla Alliance Photo le fece fiutare in anticipo che il mercato si stava trasformando, pur mantenendo la personale autonomia. Il golpe militare in Spagna del 18 luglio ‘36 e la guerra civile che ne seguì sconvolse le loro vite, cementandone la passione politica. “Il miliziano morente” di Capa è un omaggio senza tempo al coraggio; mentre l’istantanea del D-Day in Normandia, resta uno storico “fuori fuoco”, dovuto all’emozione di assistere all’alba che stava mutando il corso della storia.

E’ invece dell’estate del ‘36 lo splendido ritratto, scattato dalla Taro, della combattente repubblicana, che si esercita sul litorale di Barcellona. La figura di profilo, protesa in avanti, la pistola puntata, le scarpe col tacco, fatta con una Rolleiflex, pur tradendo uno stile “militante” è di grande suggestione. Di lì a poco con la più duttile Laika registrerà la tragica escalation con i bombardamenti, il fronte, i feriti, i rifugiati, la resistenza.
Una luce accecante avvolge l’entrata di un bunker antiaereo in Spagna e fa da cornice ai bambini ammassati che attendono il” cessato allarme”. Il suo autore, David Saymur, morì nel 1956 durante la guerra lampo fra Egitto e Israele nel ’56.

Le “fosse comuni ” in Bosnia di Gilles Peress sono una ragnatela di morte. Sembra una deposizione caravaggesca il dolore delle donne musulmane intorno al giaciglio del loro caro di Georges Merillon: i rossi, i senapi, i grigi e i marroni accentuano una sofferenza antica come il mondo. Sembra un quadro realista dell’800 la marcia faticosa sulla neve dei soldati che in Cecenia trascinano il corpo del compagno senza vita, riposto dentro un lenzuolo rosso. Thomas Dworzak avvolge la scena con una coltre di nebbia, come per pudore. Lo strazio del corpo appeso all’ingiù di un agente della polizia segreta contro cui si accaniscono gli insorti ungheresi nel ’56, è reso con magistrale realismo da Mario de Blasi. I palazzi sventrati in Libano di Gabriele Basilico sono il simbolo della distruzione. Con uno sguardo penetrante e fuggitivo Paolo Pellegrin fissa la cattura di un nemico da parte dei soldati israeliani, con forti e sapienti contrasti bianco/nero, fra luci e ombre.

La normalità apparente annuncia l’orrore in Alexandra Boulat. Con la sensibilità che ha contraddistinto la sua carriera di grande fotogiornalista di guerra (interrotta con la morte improvvisa nell’ottobre del 2007 per un aneurisma ) ci spiega con uno sguardo “occidentale” la complessità e la scala valoriale di una tradizione diversa dalla nostra tra il Kosovo, il Pakistan e l’Afghanistan. Come un degrado di forme, ordinatamente allineate, alcuni proiettili fanno mostra di sé su di una mensola, fra loro campeggia un tulipano di carta, “innocente” evasione tra simboli di morte in una giornata qualunque a Quetta (Pakistan 2001), per rammentarci che alla guerra e alla sua ordinaria follia non ci si deve abituare mai.

Poesia fra i rifiuti

RENZO FRANCABANDERA | Liberamente ispirato ad un testo di Tiziano Scarpa, ha debuttato nei giorni scorsi il poetico e immaginifico “Scatorchio Blues”, interpretato da Luca Marchiori, accompagnato da due musicisti in scena e prodotto dalla compagnia lombarda Ilinx
Sono lì, in tre, fra bustoni di rifiuti, biciclette rottamate, scatole rotte e oggetti vintage recuperati in discarica. Cala il buio e uno dei due musicisti, con la maschera antigas, trae, sfiorando con un pestello di legno un posacenere di metallo di forma tonda, un suono quasi tibetano, ascetico, mentre l’altro intona un lamento figlio della più classica teatralità millenaria occidentale.
Al centro della scena, fra i rifiuti, un cassonetto. Dal cassonetto una voce. Una voce che inizia a raccontare in una lingua meridionale, ma di derivazione territoriale indefinibile, la storia di un amore di paese: Scatorchio per riconquistare la sua amata Sirocchia e sottrarla alle insidie del rivale che continua a fare “lo schiaccianoci” agli occhi di lei facendo il capopopolo in una sollevazione di paese, decide di appoggiare la scelta del sindaco corrotto di ospitare una discarica in cambio dell’installazione di un ripetitore televisivo. Perderà l’amore e la dignità di uomo e di cittadino.
E’ questa “in cinque righe”, come avrebbe richiesto C.F. Russo, storico direttore di Belfagor, la trama ricavata da Groppi d’amore nella scuraglia, testo assai ispirato, scritto alcuni anni fa da Tiziano Scarpa.
La libera rilettura ricavatane per Scatorchio Blues, serpeggiando nel testo con una non sequenziale sinuosità (scelta interessante e teatralmente opportuna, operata da Marchiori con l’ausilio di Maria Rosa Criniti e Nicola Castelli, che firmano la regia), rende merito non solo al meridionalese in cui Scarpa volle scrivere, ma soprattutto ai vertici poetici di quel testo, ai quali il gruppo ha saputo avvicinarsi con profondo e immaginifico rispetto, per ricavarne un esito dal tratto originale e tagliente.
Il duo di musicisti in scena insieme a Marchiori, composto da Tia Airoldi e Luca Piazza, ribattezzato “SurciPantecani” in omaggio alle creature bestiali cui Scarpa dedica i suoi intermezzi letterari in Groppi, regala un’ulteriore e icastica texture musicale, ricavata esclusivamente da oggetti di recupero, come quasi tutto quello che è in scena.
Marchiori emerge dal suo contenitore e racconta con bravura attorale la storia di Scatorchio, abitando in ogni forma il microcosmo cassonetto; e, anche quando se ne porta fuori, rimane sollevato da terra, come a raccontare un’esistenza sospesa in un mondo immaginario, a sfidare la drammaticamente plumbea materialità in cui tutta la storia si svolge.
La maggior poesia si raggiunge nelle preghiere-imprecazioni che Scatorchio rivolge al Dio dei brutti, sporchi e cattivi, così simile alle sue creature da rimanere silenzioso e assente, da lasciare i disperati nella loro condizione di suicida ignoranza. In quel momento l’attore, aiutato solo dalle luci algide di Andrea Morarelli, raggiunge una capacità di compenetrazione con il messaggio profondo del letterario sottostante, rara da vedere in scena.
La passata condivisione di un progetto artistico con Marchiori ci porta per onestà a confessare una possibile distorisione in questa valutazione, ma con ancor maggior gioia sentiamo di poter dire, con altrettanta limpidezza, che questo punto di vista ha robustezza non solo nel nostro pensiero, ma anche in quello del pubblico che ha seguito il debutto di Scatorchio Blues a Cassano d’Adda, in apertura della rassegna Tagadà, organizzata da Ilinx, compagnia appartenente alla Rete delle Residenze Etre – Lombardia, che con coraggio produce Scatorchio Blues.
C’è da essere davvero contenti per questo gruppo di giovanissimi (tutti sotto i trent’anni) e per la loro prova d’arte teatrale così matura e ben riuscita, interpertata con giovanile e magistrale incoscienza e scandita da tempi e ritmi perfetti: senza ombra di dubbio, la miglior trasposizione scenica di un testo di Scarpa, fra le diverse proposte in questi ultimi anni. Da vedere assolutamente, con la speranza di una lunga tournèe.

Not for sale. Quando i galleristi non vogliono vendere

not for saleMARIA CRISTINA SERRA | Un’insolita rassegna raggruppa opere simboliche delle più importanti gallerie d’arte parigine, sfidando il paradosso che “non tutto è in vendita” e svelando la sottile complicità che lega l’artista al suo mercante

Ci sono cose da cui per nessuna ragione ci separeremmo, perché in esse ci rispecchiamo, o riviviamo momenti significativi della nostra vita, o perché in loro abita una parte segreta di noi, che solo il nostro sguardo sa riconoscere in tutta la sua unicità.

All’inizio dell’estate, Jacqueline Frydman, direttrice del centro espositivo Passage de Retz, scrisse una lettera a 164 galleristi parigini, chiedendo loro di prestare fino alla fine di Settembre un’opera “speciale”, non in vendita, che rivelasse “tutto il rapporto di intimità che voi avete con essa e la consapevolezza e il piacere di condividerla per il periodo estivo con il pubblico”. Hanno risposto affermativamente 90 galleristi e ne è venuta fuori una mostra animata da una vitalità vibrante ed insolita.

Artisti tanto diversi tra loro hanno inconsapevolmente formato una trama di coincidenze, in grado di distinguere e riunire, senza barriere, stili, luoghi e periodi con emozioni di comune intensità. Una generosità “eclettica, aperta e impegnata”, confida Jacqueline Frydman, “che ha favorito una riflessione sulle diversità del nostro presente e a comprendere cha l’equazione arte=vendita non è la sola definizione che sta al fondo del commercio. Sapete come me che si acquista sempre anche un po’ dello spirito dell’opera e del suo autore”. Il cortile segreto del seicentesco Hotel particulier de Retz, che nella discreta stradina di Rue Charlot, nello storico quartiere del Marais, accoglie l’entrata alla mostra, appare già come il luogo ideale cui affidare in custodia un bene prezioso che racconta implicitamente di noi. E allora i percorsi da seguire diventano due, che intrecciano le loro convergenze e ci sfidano a trovare le nostre, raccogliendo il tracciato lasciato dagli artisti alle loro spalle come segmenti di una continuità, sempre nuova, e quello dei galleristi che accompagnano con le loro motivazioni e sentimenti i loro autori “del cuore”.

Le ariose, limpide pennellate, i delicati toni azzurri e rossi di Paul Signac (1931) di un incantevole acquarello della serie “I porti di Francia”, è un esempio di come spesso nel cuore “del gallerista il mestiere del mercante convive con la passione del collezionista”. Nuvole di polvere, sollevate dai Cavalieri arabi in corsa (di Adolphe Schreyer, 1880) si stagliano nell’ocra del paesaggio selvaggio, mentre un cielo denso all’orizzonte delinea i confini. Spirito cartesiano e delicate armonie sono racchiusi nel “Pont des Arts”, il primo ponte in ferro di Parigi, di Jean-Jacques René (2009). Dense e forti sono i colori stesi da Kirill Zdanevitch in piena rivoluzione russa. Il suo “Composition” del 1918, unisce forme curve e cubiche, delineando i grigi, i blu, i verdi e i mattoni dalle sfumature cipria con lucidi contorni neri. Va all’essenziale Albert Marquet (1910) con “Paris”, che allude al silenzio di un paesaggio industriale avvolto nelle nebbie, ma ricco di spazialità e d’interrogativi esistenziali, “contrariamente al suo grande amico Matisse, che ricercava il decorativo”.

La spiritualità della natura che si fonde con l’interiorità umana emerge nel groviglio di lampi rossi aranciati, lacerati dai chiari e immersi nei neri e nei blu cobalto di Wang Yan Cheng (2006) in “Derniers flux du soleil”. Il “Desert plat” (1946), luminoso contrasto di aranci, neri, verdi in sottofondo ocra di Man Ray è un “meraviglioso regalo”. Sembra alludere al mistero della vita e della morte lo studio per “La partie de cartes” di Balthus (1947). E’ un inno all’amore e alla gioia l’opera di Pierre & Gilles “Te souviens – tu d’un soir d’eté…”, per celebrare nel 2004 i dieci anni di attività dello “Spazio de Retz”, un luogo di incontri e confronti fra arte e culture, mai convenzionale o rituale. Il grande dipinto di Jurg Kreienbuhl che ritrae “Maurice e Boulon” seduti nella cucina della loro baracca con i toni rossi e cubi di un moderno fiammingo (fine anni ’60), è uno straordinario “pugno nello stomaco”, che racconta più di mille inutili parole l’alienazione della povertà e la vita estrema delle bidonville. “Dove collocare quest’opera?”, si domanda il gallerista Alain Blondel, “in un salotto, nella hall di una banca, di una multinazionale? Meglio attendere che un museo d’arte moderna la richieda anche fra cento anni! Allora si potrebbe venderla”.

Le evanescenti ombre pastello che raffigurano “La morte del duca di Guisa “, dipinto negli anni ’50 da Marie-Laure de Noailles, sembrano illustrazioni di una storia di Enry James, con quei toni che attribuiscono alle figure e alle illusioni una luce, che rende irrilevante il vero dal falso: un “portafortuna insostituibile” per i suoi proprietari. Il mistero e il senso di abbandono in cerca delle emozioni perdute emergono dalla grande tela di Wu Xiaohai: “24 hours daylight” (2008) ha il rigore del disegno in bianco/nero e la classicità delle forme. Un grande letto occupa lo spazio, tre figure vi si appoggiano, distanti, assorte “una luce laterale viene dalla finestra, come da una pittura antica”, che sia “gioco, riposo o amore? O semplicemente voglia di oblio?”. Il Pop astratto di Fiona Rae del 1997 in “Tomb Raider” unisce la cultura dei Manga alla pubblicità e al fumetto, in un sofisticato montaggio barocco che sprigiona sonorità. Il periodo realista/espressionista di Felix Del Marle con “La Yelouga” (1931) è di dissacrante ironia: l’informe ballerina, dalle rotondità rosa pesca, si esibisce in una danza futurista, nello scenario geometrico di immobili figure scure.

Arte e artigianato si fondono nelle figure, come archetipi di arte precolombiana, con la “Bucolique” (1982) di Roberto Matta. Non si sottrae ai dolori della vita e li accoglie, trasformandoli in impegno Joan Mirò che con “Aidez l’Espagne”, serigrafia del 1937 lancia il grido contro la dittatura imminente franchista. Ma vale anche per le minacce presenti e ci rammenta che uno dei compiti dell’arte è di farci spalancare gli occhi sulla verità.

India, un universo di complessità e fascinazione

 MARIA CRISTINA SERRA | Un ponte culturale unisce Delhi con Parigi al Centro Pompidou. Fino al 19 settembre una mostra getta uno sguardo penetrante sulla più grande democrazia del mondo, i suoi fermenti e i continui mutamenti. Una rivisitazione della globalizzazione che mette in luce la profonda spiritualità e l’integrità estetica indiana dalle radici antiche

L’India del nostro immaginario, con i suoi incantesimi e le sue contraddizioni, la beatitudine e la dannazione; i colori accesi e suadenti, gli odori penetranti e i suoni avvolgenti, una realtà “altra” dalla nostra misura occidentale, ma essenziale e illuminante per cogliere le distorsioni e le ambiguità del nostro presente, ci sembra più vicina dall’alto della terrazza al sesto piano del Centro G. Pompidou, dove è allestita la mostra “sperimentale” “Paris-Delhi-Bombay”.Sullo sfondo di un luminoso cielo azzurro di un’estate ancora piena, le guglie delle cattedrali e la siluette della Tour Eiffel delineano un orizzonte senza confini che invita al dialogo e alla comprensione. Le opere di 30 artisti indiani e 17 francesi indagano la contemporaneità di questa “terra di contrasti” attraverso 6 tematiche: la politica, l’urbanizzazione, la religione, l’identità, l’artigianato, il privato e i rapporti familiari, con un continuo alternarsi di argomenti e di visuali che ripercorrono la memoria storica.

Dal passato coloniale alla conquista dell’indipendenza, all’accelerazione di un liberalismo economico, sovrapposto ad arcaici rapporti sociali e culturali, basati sul sistema delle caste. Basta varcare la porta a vetri che immette alle sale della mostra per entrare nel tempio circolare di “Tara”, blu-arancio: realizzazione pop-artigianale dall’aspetto spettacolare e dalle armoniose proporzioni di Ravinder Reddy. Al centro della pedana, una monumentale testa di donna, dipinta in oro è un omaggio alle donne indiane, elevate a rango di Dea, le labbra carminio, gli occhi bistrati in nero che non cercano risposte, ma pongono interrogativi, i capelli intrecciati con fiori: è una perfetta sintesi fra scultura religiosa classica e immaginazione popolare. All’esterno, pannelli con foto,documenti, e didascalie, raccontano la cronologia politico-sociale dell’India dal 1947 ai giorni nostri, indicando così le possibili direzioni da scegliere per iniziare il percorso espositivo.

La stanza di “Alì Baba” è piena di lucenti utensili e batterie da cucina di infinite forme e grandezze, in acciaio inox, che ricoprono in ordinate file le pareti e pendono dal soffitto. Un paradosso di perfezione e opulenza monocroma, contrapposta al colore e al disordine della quotidianità, resa in forma straziante e poetica da Hema Upadhyay, che interpreta la Bidonville di Dharavi a Bombay, la più grande e fatiscente dell’Asia. “Think left, think right, think low, think tight” crea nel visitatore un senso di oppressione realistico. evocando le disumane atmosfere di vita dei suoi abitanti, che sono anche riusciti a ricreare un’economia parallela, come forma di sopravvivenza.

E’ un labirinto inaccessibile di architettura arabesca e argentata l’installazione “Six Cages” di Sudarshan Shetty, ispirata all’arte mongola: sei portali, finemente intagliati, collegati fra loro da specchi che riflettono i peccati capitali, ci invitano a riflettere sul senso profondo dell’esistenza. Come una rivisitazione della galleria degli specchi di Versailles, Bharti Kher con “Reveal the secrets that your seek” decora le pareti della sua “stanza” con 24 specchi scheggiati, dalle cornici dorate in stile, ricoperti da centinaia di minuscoli “Bindi” (il terzo occhio delle donne maritate), collegati fra loro da fili regolari e paralleli, che formano un velo nero di suggestiva bellezza. Il riflesso offuscato rimette ironicamente in discussione lo scorrere del tempo e il rapporto tra l’individuo e la società.

Tradizione e industrializzazione convivono con le loro discrepanze, per Sokshi Cupta. Il suo tappeto scuro di gomma e metallo, “Freedom is Everythings”, riproduce motivi decorativi dei tappeti tradizionali, attraverso materiali di recupero. La libertà sessuale costituisce ancora un tabù nella società indiana e Thukral & Tagra la demistificano, riscrivendo con la delicatezza dei rosa e verdi pastello una scena erotica, ispirata alle sculture dell’antico tempio di Khajuraho. Il tema della comunità ancestrale trasgender Hijras, con la precarietà della loro esistenza a cui fa da contrappunto il loro ruolo augurale che svolgono nelle cerimonie, ispira a Kader Attia un filmato che spazia anche sui rapporti fra tradizione e modernità. “Silenzio” suggeriscono le tre leggiadre sculture rosse, composte da ossa umane, “Morbid trinkets”, di Anita Dube, quasi dei talismani erotici, adornati da paillettes, perle e merletti, che sottintendono una sottile tensione politica e poetica.

Di grande fascino è lo sguardo indiscreto “Le regard” in una camera da letto borghese, tipicamente parigina: letto a baldacchino, caminetto, tende di taffetà che incorniciano la grande finestra, che si affaccia sulla strada. Leandro Erlich fa scorrere un filmato della folla vociante di una via di Bombay oltre il vetro. L’individuo è così “uno fra tanti”, in ogni luogo: lo spazio privato si sovrappone a quello pubblico, il reale e l’immaginazione si confondono con effetti stupefacenti. “Please do not touch”, dietro l’aspetto innocente si nasconde il pericolo. Le tre ghirlande tradizionali, usate nelle cerimonie indù, appese al muro e appoggiate su una sedia bianca da Sunil Gawde sono formate da sottili lamelle di rasoio, dipinte in color sangue, a rievocare la tragicità della violenza del fondamentalismo religioso e l’assassinio di Rajiv Gandhi.

E’ emozionante il filmato di Camille Henrot, “Le songe de Poliphile”, che esplora i miti e gli archetipi comuni tra Oriente e Occidente. Suoni acuti e spezzati, rulli di tamburi e sirene, fanno da sottofondo ai colori densi e ai bianco-neri. Folle pressanti e asettici laboratori di ricerca, danze tribali e templi, in un montaggio strepitoso di immagini che si susseguono veloci, legate fra loro dalla “simbologia del Serpente”, fra paure reali e inconsce, malattie e guarigioni, magie e medicina.

L’ironia e la gioiosità onirica di Pierre & Gilles riempiono con una fantasmagoria di colori il loro spazio. Una ventina di opere che ripercorrono il fascino e l’estetica della cultura popolare indiana, la cinematografia di “Bollywood” e la ritualità delle cerimonie religiose, svolgono il racconto delle tante facce dell’India, sospesa fra tradizione e innovazione.

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Short Theatre: breve ma intenso

RENZO FRANCABANDERA | I luoghi della rassegna sono il Macro a Testaccio dal 5 al 7, e poi dall’8 al 18 settembre ci si sposta al Teatro India, sempre a Roma, per il grosso degli spettacoli. Short Theatre è una rassegna che da alcuni anni ospita spettacoli di teatro e danza, eventi performativi e musicali, dibattiti, presentazioni di iniziative culturali o editoriali di una comunità composita di attori, registi, performer, spettatori, operatori, studiosi.
Fuori dalla specificità di un tema legante, il collante di tutto è nel diritto di cittadinanza temporanea, spesso negata, che la direzione artistica (affidata a Fabrizio Arcuri, fra i promotori del sodalizio de Gli Artefatti) concede a percorsi artistici legati alla drammaturgia contemporanea e alle sue derive
Ne parliamo proprio con Arcuri.
Quali sono le linee guida che hanno indirizzato la programmazione dell’edizione 2011 di Short Theatre?
La linea guida che anima short theatre è da sempre quella di formulare un’ipotesi di programmazione che mescoli i generi e le generazioni e che abbia un occhio di riguardo sulla drammturgia contemporanea e sui nuovi linguaggi.
La comunicazione ufficiale del festival e ovviamente la direzione artistica tengono a precisare che
Short theatre non vuol essere in realtà un festival ma un’occasione di incontro e confronto. Su quale terreno avviene questo incontro e quale è il patto che si vuole stipulato fra programmatori culturali e fruitori?
Il territorio di confronto e di incontro è naturalmente quello dei linguaggi in primo luogo. Ma Short Theatre coltiva il desiderio di suggerire uno spazio adatto alla rigenerazione di una comunità che si riconosce nel pensiero, non quindi negli stili nè nei generi.
Il patto è dunque che a Short theatre ognuno cerca e trova quello che vuole, compresa la possibilità di incontrare persone, sostare in un luogo per conversare e dunque quello di restituire quanto possibile un valore di socialità all’arte.
Come sono andate le scorse edizioni della rassegna e cosa ci si aspetta da questa?
Le scorse edizioni sono andate ad alterne fortune con l’amministrazione e con le istituzioni, per tanto ogni anno abbiamo dovuto riformulare tempi e modi, ma il pubblico che è la vera anima di short theatre ha risposto con crescente interesse e partecipazione, dimostrando di accettare e condividerne l’essenza e quindi il patto di cui sopra.
Quest’anno ci aspettiamo che gli operatori culturali e l’amministrazione di questa città convengano che per coinvolgere i giovani e avvicinarli alla cultura e al teatro bisogna tentare di parlare il loro linguaggio e tentare di proporre qualcosa che li rappresenti.

Come ha inciso il taglio all’economia dello spettacolo sulla fase di programmazione?
Noi non siamo finanziati dal ministero quindi il paventato taglio non ha inficiato direttamente, siamo piuttosto in balia
del Comune di Roma e della Regione che hanno dei tempi poco consoni a chi intende la cultura come una progettualità. Il Teatro di Roma e Zetema progetto cultura sostenendoci a vari livelli ci consentono quanto meno una base su cui inizare a ideare.
Qual è il tuo punto di vista sul fermento artistico in Italia e in particolare su Roma, in quest’ultimo periodo? La crisi sta portando ad un risveglio anche della creatività o la situazione rimane sempre un po’ bloccata?
Ci sono crisi che fomentano la creativita’ e situazioni di stallo che la annichiliscono: credo purtroppo che stiamo entrando a pie’ pari in questa seconda fase.
Vuoi dare appuntamento ai nostri lettori presentandoci gli eventi in programmazione nei primi giorni di Festival?
Sicuramente non perderei le performance del collettivo di artisti Black Market International, che si alterneranno nei primi tre giorni al macro offrendo un occasione davvero rara dello stato della performance mondiale. L’evento davvero eccezionale è oltretutto gratuito, come altre cose all’interno della programmazione e poi al Teatro India dall’8 al 18 farei davvero fatica a nominare qualcuno a scapito di altri…

In Sardegna fra Festival e spettacoli in strada

RENZO FRANCABANDERA | L’estate volge al termine ma, complice il bel clima, in Sardegna sono numerosissimi gli appuntamenti fra fine agosto e inizio settembre. Festival e spettacoli teatrali che raccontano di compagnie storiche e riconosciute anche a livello internazionale.
C’è bellezza nel ritrovare un cantastorie popolare che dietro l’abside di una chiesetta in pietra dedicata a S. Pietro, in un paese che dal santo prende il nome, e in una sera calda, ne narra la vita a duecento persone all’uso di De Andrè, intessendo il percorso narrativo fra vangeli ufficiali e apocrifi, e parlando di un santo dal volto umano e di un uomo dal volto santo.
C’è bellezza nel vedere in un giardino pubblico della periferia di Cagliari centinaia di bambini ascoltare la storia del gatto con gli stivali, sovrastati da palazzoni ma rinfrancati dal suono di un’orchestra popolare e di una disegnatrice, mentre il narratore indossa stivali di plastica viola fosforescente, cappello e occhiali da sole.
C’è bellezza, ancora, nel piccolo Festival sull’isola di Carloforte, isola dell’isola della nostra penisola, che da quindici anni mescola le arti nella maniera più bella e aperta, con piccoli spettacoli di arte teatrale, in un’umanità tutta aperta e non costruita.
La Sardegna vive e si racconta in un fine estate che, sfollato del turismo più sbraitante e volgare, guarda a se stessa e ai più tenaci cultori dell’arte fuori dai circuiti del caos. E’ così che ci sono sembrati Gianluca Medas e Andrea Congia, che con semplicità ma grande efficacia e forza comunicativa, hanno ricostruito in forma piena la dimensione del teatro popolare che non disdegna di raccontare le stesse storie dei santi davanti al Papa e qualche mese dopo davanti a duecento abitanti di un piccolo borgo della costa sud di Cagliari. La Famiglia Medas è la più antica (e unica) famiglia di teatranti presente in Sardegna. Gianluca Medas, dal 1985 raccoglie il testimone di famiglia mescolando collaborazioni illustri a un impegno nel farsi anello di tramite per la cultura popolare, come nel caso del progetto Paddori, l’ipotesi di una maschera sarda, che coinvolge tra tutti Fabio Mangolini, docente di Commedia dell’Arte all’Accademia di Recitazione di Madrid e Donato Sartori del Centro Internazionale delle Maschere. Questa della vita di San Pietro è una forma spettacolare di narrazione accompagnata (ottimamente occorre dire) da musica cui Medas si dedica dal 1989: i Contos, narrazioni su canovaccio, con più di un migliaio di repliche, sono parte della tradizione non solo sarda, ovviamente, che pur nell’era dei nuovi media, trova sempre spazi per resistere e portarsi avanti. Dai Piripicchio degli anni ’30 in Puglia, ai cantastorie nella piazza di Marrakech, la tradizione orale ha una potenza dirompente difficile da arginare. E’ un fiume. Medas lo sa, ed esercita la sua arte con misura e attenta costruzione. E portando in giro moltissimi spettacoli contemporaneamente, con uno sforzo di memoria non banale.
Da un esperimento artistico totalmente autoctono ad altri nati dalla contaminazione con stimoli e arrivi dall’esterno come nel caso di Cada Die Teatro, sodalizio d’arte nato dopo l’arrivo in Sardegna di Giancarlo Biffi, che con Pierpaolo Piludu ed altri artisti ha creato un esperimento vivo e presente, che opera dal teatro ragazzi al teatro di narrazione con una continuità di progetti e proposte sempre interessante, raccogliendo consensi e interessi non solo in Sardegna ma anche fuori. Ne sono testimonianza la recente partecipazione Sabato 27 e Domenica 28 agosto al Festival Internazionale di Narrazione di Arzo, in Svizzera, con lo spettacolo “Le magiche pietre”, e quella nel prossimo fine settimana, Sabato 3 e Domenica 4 settembre al Festival L’ultima luna d’estate, nella Brianza lecchese, con due spettacoli storici come “Milano da bruciare!” e “Rosmarino e il frigorifero che parla”, spettacolo per ragazzi, quest’ultimo, come per ragazzi era nell’ambito della manifestazione “Quartu colora l’estate”, Mercoledì 24 agosto al Parco Europa di Pitz’e Serra lo spettacolo “Il Gatto con gli stivali”, fiaba musicale, liberamente ispirata ad uno dei più bei racconti della tradizione popolare.
Una co-produzione Cada die Teatro e Banda Comunale Giuseppe Verdi di Sinnai con musiche originali e adattamento del testo di Angelo Sormani e del direttore Maestro Lorenzo Pusceddu, sul palco nella veste di narratore Silvestro Ziccardi, e i disegni eseguiti dal vivo da Marilena Pittiu.
Ci piace segnalare l’importanza dell’esperimento delle scuole publbiche di musica, un’iniziativa tutta sarda che ha permesso in moltissimi paesi di creare bande e altre aggregazioni artistiche, e che ha dato a moltissimi la gioia di esprimersi con il linguaggio musicale. A loro, alla simpatia con cui queste persone si sono messe in gioco, e alla creativa professionalità messa in campo anche per questa occasione un plauso. Tutto davvero godibile e ben fatto.
Ultima segnalazione, ma non ultima per intensità emotiva, quella del festival organizzato dall’associazione Botti du Shcoggiu a Carloforte da fine agosto al 4 Settembre.
“Dall’isola, dell’isola, di una penisola”, questo il titolo dell’edizione di quest’anno del Festival Internazionale di teatro, musica, cinema, danza e nuovo circo, che si svolgerà nella magnifica cornice di Carloforte. Dal Digerseltz di Elvira Frosini al Bella Tutta di Elena Guerrini, passando per il Ciclope di Enzo e Francesco Siciliano, e poi concerti jazz (Scaccia e altri ensemble stranieri), burattini (Beppe Rizzo), i Camillocromo, i Malu Circo e ancora altri nomi, a cercare un percorso sul tema che ci pare sottilmente essere sulle altre bellezze possibili. Uno sguardo sensibile, come quello della pistoiese di origini ma sarda d’adozione Susanna Mannelli, che insieme a Riziero Moretti, da anni conduce gli spettatori attraverso i carrugi dell’isola fra percorsi mentali e di calore d’animo. Una dimostrazione di come con pochissimo si possa creare un’occasione di incontro e di racconto di un’altra umanità possibile.

L'ultima luna d'estate 2011

RENZO FRANCABANDERA |  Avrà luogo, come da quattordici anni a questa parte, nel lecchese il piccolo ma tenace Festival del teatro popolare di ricerca, che porta artisti di primo livello in luoghi magici della Lombardia meno conosciuta
E siamo a quattordici! Il Festival teatrale L’ultima luna d’estate compie 14 anni, è un adolescente e, come tale, è in un’età conflittuale: il tema portante dell’edizione 2011 è infatti “Conflitti”.
Eppure devo dire, raccontando della mia esperienza personale, che tutt’altro che conflittuale è stato alcuni anni fa il mio confronto con questa offerta culturale, quando in una serata di inizio settembre
2008, per una serata con Moni Ovadia e il maestro Carlo Boccadoro, mi inerpicai fra i boschi per giungere nello splendido cascinale di proprietà nobiliare nel cui parco si svolse quell’evento.
Mi parve una Lombardia sconosciuta. Audace nella proposta e gentile e intrigante nei modi. Un evento che faceva scoprire, a chi avesse avuto voglia di prendersi la briga di fare una quarantina di minuti in macchina, dei panorami davvero incredibili della Brianza possibile, fra boschi, laghi, natura incontaminata. La Lombardia fuori dallo stereotipo.
E un po’ L’Ultima luna è così. Teatro Invito, promotore della manifestazione, affronta, nell’edizione di quest’anno la ricorrenza del decennale dall’attentato alle Twin Towers di New York con un programma ricco di spettacoli coraggiosi, con artisti che hanno scelto di usare lo strumento del teatro per la sua funzione originaria: comunicare e far riflettere su ciò che accade intorno a noi, lontano e vicino. Il teatro come mezzo per rendere “res publica” i fatti del mondo, soprattutto quelli scomodi e dolorosi. Aprirà il cartellone venerdì 26 agosto a Casatenovo Licia Maglietta con “Vasta è la prigione”, testo dell’algerina Assia Djebar, racconto sofferto di una donna in una terra che può essere ostile.
Tra gli altri, il Festival ospiterà poi la compagnia Alma Rosè con “Come mi batte forte il tuo cuore”, dal libro di Benedetta Tobagi sul padre giornalista ucciso negli anni del terrorismo; Roberta Biagiarelli e il suo “A come Srebrenica”; Simone Cristicchi in veste di attore con “Li romani in Russia”, racconto in ottave classiche della tragica ritirata di Russia, con la partecipazione straordinaria del Coro Grigna di Lecco; e ancora Teatro dell’Orsa con la storia dei Fratelli Cervi “Cuori di terra”. Chiuderà Maddalena Crippa con un omaggio all’America: un recital accompagnato da musiche dal vivo dai testi di Raymond Carver.
Una scelta artistica affidata alla sapiente e appassionata mano di Luca Radaelli, e al lavoro tenace di pochissimi, fra cui l’onnipresente Elena Scolari.
Uno sforzo generoso per regalare ad un territorio così straordinario un’offerta culturale di primo piano ma fuori dagli schemi del già visto, del già conosciuto, del teatro impellicciato e all’odore di naftalina.
Tutto questo nei magnifici spazi del Parco di Montevecchia: giardini, ville, parchi, fienili, chiesine, chiostri… teatro nei luoghi meno tradizionali della Brianza lecchese. Un Festival con quasi trenta appuntamenti, per tenere viva la mente, gli occhi e il senso critico.