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L'ultima luna d'estate 2011

RENZO FRANCABANDERA |  Avrà luogo, come da quattordici anni a questa parte, nel lecchese il piccolo ma tenace Festival del teatro popolare di ricerca, che porta artisti di primo livello in luoghi magici della Lombardia meno conosciuta
E siamo a quattordici! Il Festival teatrale L’ultima luna d’estate compie 14 anni, è un adolescente e, come tale, è in un’età conflittuale: il tema portante dell’edizione 2011 è infatti “Conflitti”.
Eppure devo dire, raccontando della mia esperienza personale, che tutt’altro che conflittuale è stato alcuni anni fa il mio confronto con questa offerta culturale, quando in una serata di inizio settembre
2008, per una serata con Moni Ovadia e il maestro Carlo Boccadoro, mi inerpicai fra i boschi per giungere nello splendido cascinale di proprietà nobiliare nel cui parco si svolse quell’evento.
Mi parve una Lombardia sconosciuta. Audace nella proposta e gentile e intrigante nei modi. Un evento che faceva scoprire, a chi avesse avuto voglia di prendersi la briga di fare una quarantina di minuti in macchina, dei panorami davvero incredibili della Brianza possibile, fra boschi, laghi, natura incontaminata. La Lombardia fuori dallo stereotipo.
E un po’ L’Ultima luna è così. Teatro Invito, promotore della manifestazione, affronta, nell’edizione di quest’anno la ricorrenza del decennale dall’attentato alle Twin Towers di New York con un programma ricco di spettacoli coraggiosi, con artisti che hanno scelto di usare lo strumento del teatro per la sua funzione originaria: comunicare e far riflettere su ciò che accade intorno a noi, lontano e vicino. Il teatro come mezzo per rendere “res publica” i fatti del mondo, soprattutto quelli scomodi e dolorosi. Aprirà il cartellone venerdì 26 agosto a Casatenovo Licia Maglietta con “Vasta è la prigione”, testo dell’algerina Assia Djebar, racconto sofferto di una donna in una terra che può essere ostile.
Tra gli altri, il Festival ospiterà poi la compagnia Alma Rosè con “Come mi batte forte il tuo cuore”, dal libro di Benedetta Tobagi sul padre giornalista ucciso negli anni del terrorismo; Roberta Biagiarelli e il suo “A come Srebrenica”; Simone Cristicchi in veste di attore con “Li romani in Russia”, racconto in ottave classiche della tragica ritirata di Russia, con la partecipazione straordinaria del Coro Grigna di Lecco; e ancora Teatro dell’Orsa con la storia dei Fratelli Cervi “Cuori di terra”. Chiuderà Maddalena Crippa con un omaggio all’America: un recital accompagnato da musiche dal vivo dai testi di Raymond Carver.
Una scelta artistica affidata alla sapiente e appassionata mano di Luca Radaelli, e al lavoro tenace di pochissimi, fra cui l’onnipresente Elena Scolari.
Uno sforzo generoso per regalare ad un territorio così straordinario un’offerta culturale di primo piano ma fuori dagli schemi del già visto, del già conosciuto, del teatro impellicciato e all’odore di naftalina.
Tutto questo nei magnifici spazi del Parco di Montevecchia: giardini, ville, parchi, fienili, chiesine, chiostri… teatro nei luoghi meno tradizionali della Brianza lecchese. Un Festival con quasi trenta appuntamenti, per tenere viva la mente, gli occhi e il senso critico.

Processo Eichmann. La sottile linea grigia della banalità del male

juger-eichmann-XLMARIA CRISTINA SERRA | Nel cinquantenario del processo di Gerusalemme “all’architetto della soluzione finale”, una mostra ne ripercorre le tappe del giudizio. Fu per il neonato stato d’Israele un fatto di grande impatto emotivo e simbolico, che fece rivivere gli orrori della Shoah. Al Mémorial de la Shoah fino al 28 settembre

Senza la consapevolezza della memoria storica non ci può essere civiltà. “Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”, così scriveva nel 1951 la filosofa tedesca, di origini ebraiche, Hannah Arendt nel saggio “Le origini del totalitarismo”, analizzando la “banalità del male”. Argomento che diventerà poi il filo conduttore delle sue cronache per il settimanale “The New Yorker” nel 1961, durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, a Gerusalemme. Successivamente, sviscerando le varie fasi del processo e ricomponendo le complesse interrelazioni fra le questioni morali, politiche e giuridiche, scriverà la sua famosa opera “Rapporto sulla banalità del male”.

Il caso Eichmann, che spalancò le porte della storia e gli occhi dell’umanità inconsapevole sulla Shoah, e che permise, dopo l’orrore e il silenzio assordante che ne seguì, di acquisire la piena presa di coscienza dello sterminio nazista, fa discutere ancora oggi. Convegni, mostre, pubblicazioni di libri si susseguono a Parigi, Berlino e Washington.
Il processo di Gerusalemme (il primo interamente filmato) allo zelante, meticoloso tenente colonnello, responsabile della Sezione 4 – B – 4 dell’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), è fedelmente ricostruito con imponente e sconvolgente abbondanza di documenti inediti, filmati, registrazioni sonore e foto, al Mémorial de la Shoah. Cinquant’anni dopo, l’apparente normalità del male, che volontariamente si fa scegliere anche dalle persone comuni, quando l’assenza d’immaginazione e di pensiero offusca la percezione del sottile filo che divide il Bene dal Male, è ancora di tragica attualità.
Al di là del valore storico e documentale, l’itinerario espositivo, attraverso le varie fasi dello spettacolare processo (in un’intervista a Le Monde, il presidente di Israele, Ben Gurion lo definì “la Norimberga del popolo ebraico”), è una riflessione su come le barriere contro le barbarie siano sempre insufficienti.
“Facevo solo il mio dovere, conformemente agli ordini”, si difese Eichmann al dibattimento (dall’11 aprile al 15 dicembre ’61), “ero addetto a svolgere il mio lavoro da dietro una scrivania”. L’immagine anonima del grigio funzionario dalle labbra sottili, i rari sorrisi sprezzanti, gli occhi opachi sotto le spesse lenti, al chiuso della gabbia di vetro, che si riflette nelle foto e nei filmati, assume il valore di agghiacciante icona del conformismo e del cieco asservimento alle gerarchie, che si fa strumento inesorabile di sterminio.
Né Iago né Macbeth, tanto meno un moderno Riccardo III shakespeariano, ma un burocrate della morte, uomo mediocre e dedito all’ubbidienza, un gregario per vocazione, dall’itinerario umano emblematico. L’album di famiglia ce lo mostra bambino vestito da marinaretto, ragazzo in gita con gli amici, nel giorno del matrimonio, con il figlio sulle ginocchia. Poi le foto in divisa da SS, quindi con il poncho in Argentina, fra gli agenti del Mossad, all’arrivo in Israele. Le foto-segnaletiche, le impronte digitali, le immagini in cella, le pantofole scozzesi ai piedi, lo scrittorio pieno di libri. Eichmann, l’addetto alle espulsioni e poi alla deportazione del “popolo reietto”, si sentiva “liberato da ogni colpa, sollevato per non aver avuto nulla a che fare con lo sterminio fisico. Legato al mio giuramento di obbedienza, dovevo occuparmi solo dell’organizzazione dei trasporti”.

Il criminale nazista si definiva “un rotellina del grande ingranaggio: il meccanismo della distruzione”, diceva, “dipendeva dall’Ufficio centrale per gli Affari economici e amministrativi, non era compito nostro decidere dove mandare i trasporti, io ero un piccolo ufficiale subalterno”. Giocando con l’autoconsapevolezza della sua mediocrità di grado e di posizione sociale (famiglia piccolo borghese, cristiano-nazionalista, studi e professione incerta), riscattatosi quasi per caso nel ’32, aderendo alle SS, Eichmann usa frasi fatte e parole vuote, manipola la realtà, arrivando a definirsi un’idealista kantiano, in risposta alle domande incalzanti dei giudici, che tentavano di arrivare alla Verità.
Mentre scorrono le immagini filmate e dalle cuffie si ascoltano le voci delle parti, in un crescendo di sconcerto e di emozione, ci soffermiamo sulle parole di Hannah Arendt: “Il male non è mai così radicale, ma solo estremo, non possiede né profondità né dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché quando penetra in profondità non trova nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha la profondità e può essere radicale”.
La visione di alcune significative testimonianze (furono 111) dei sopravvissuti all’Olocausto che per la prima volta, rompendo il muro di ghiaccio della diffidenza e dell’incredulità con cui l’orrore per molto tempo venne congelato dalla stessa comunità ebraica, è un momento cruciale del processo a cui la mostra conferisce il giusto risalto.

L’ex-ministro della Giustizia del Presidente Mitterrand, Robert Badinter, oggi 83enne (a lui si deve l’abolizione della ghigliottina), all’epoca avvocato del settimanale “L’Express”, assistette alle fasi salienti del processo come giurista, figlio e parente di vittime dello sterminio. Fu colpito dall’assenza di carisma dell’imputato, “uomo qualunque e affaticato, neutro, nullo, non un bulldog come il Goering di Norimberga”, e dalla monotonia, quasi asettica del procedimento, condotto con solenne ritualità. La commozione irruppe, ricorda, “con la testimonianza di Leon Wellickzon-Wells”, inserito a 18 anni nel Sonderkommando numero 1005 del campo Janowsky, in Polonia, con l’incarico di far sparire qualsiasi traccia dei massacri, filtrando al setaccio le ceneri dei cadaveri per recuperare oro e gioielli, e poi spargerle nei campi come fertilizzanti.

Non solo un contabile, senza ombra di pentimento, è l’opinione dello storico David Cesarani, autore di “A. Eichmann – anatomia di un criminale”, ma anche un complice attivo e consapevole dello sterminio. Figura chiave della “Soluzione finale” e archetipo della corruttibilità umana, di cui Cesarani ricostruisce come in un macabro mosaico i tasselli della vicenda personale, che si sovrappongono con lo scientifico azzeramento dei valori umani, operati dal nazismo, dentro cui ritagliarsi una nicchia esistenziale. Eichmann si diventa, forti di convinzioni antisemite e di disprezzo per chi si considera in qualche modo “diverso e inferiore”. Lui, Era mosso da “un’utopia: far sparire con qualsiasi mezzo, gli ebrei dalla Germania e dall’Europa, per ricreare una comunità nazionale tedesca “. Stigmatizza lo storico inglese: “Esperto d’emigrazioni, Eichmann divenne un combattente nella guerra contro gli Ebrei. La sua arma fu il genocidio. Ed è così che si diventa sterminatori”.

Danza, ideologia ed espressione

RENZO FRANCABANDERA | Il Festival di Avignone, nello spaccato della seconda settimana di spettacoli, ha proposto tre lavori di danza molto diversi fra loro ma legati ad una corporeità che nega la coreografia classica per ricercare l’essenza del messaggio in qualcos’altro, perfino nel pubblico.
Eh si, se qualcuno cercasse il cigno nero ad Avignone non c’è dubbio che resterebbe deluso. Se poi magari lo avesse, per scelta incauta, cercato fra gli spettacoli di Meg Stuart o Xavier Le Roy in cartellone, sarebbe magari uscito prima della fine urlando.
Più improntata, per esempio, a un punto di vista ideologico la proposta di Rachid Ouramdane, danzatore franco-algerino, interessato alla dimensione storica degli avvenimenti, che propone un lavoro in cui il problema coloniale di una Francia che ancora non assorbe al suo interno la dimensione del dialogo.
Sotto una luce lampione pendente, quasi gigantesca lampada da scrivania ad illuminare in rotazione il palcoscenico, l’artista propone una serie di visioni accompagnate dalla musica eseguita dal vivo dal pianista e polistrumentista Jean-Baptiste Julien. Accompagnato da foto di un astratto dittatore in posa, l’artista, partendo dal saluto romano, sviluppa una narrazione dolorosa in cui il paragone implicito è quello fra il centro d’accoglienza e il lager, il campo di concentramento, con l’enorme lampada girevole che ad un certo punto assume la sembianza di faro della torretta di controllo.
Il lavoro ha un’idea, ma è la performance sonora a convincere di più.
Più intimamente violento, ad esempio, l’insieme di quadri naturali cui dà vita Xavier Le Roy, coreografo che ha scoperto la danza assai in là nel tempo, in concomitanza con i suoi studi di biologia molecolare e cellulare, e che ha poi deciso di abbinare i suoi studi al movimento e all’idea performativa. Sono proprio l’universo vegetale e animale ad offrire spunto anche per Low Pieces. Ad attenderci in sala, seduti al bordo del palcoscenico i dodici danzatori, vestiti di abiti sportivi, e pronti, appena tutti seduti, a intavolare una discussione introduttiva, ma quarta parete non si dissolve, tanto che ad un certo punto cala il buio totale per diversi minuti. Al ritorno delle luci la scena è quella di un quadro vivente, con i protagonisti nudi, a creare composizioni dal chiaro riferimento al mondo vegetale e animale, con alcuni quadri di intensa forza, come un branco di felini selvatici, coreografia a cui prendono parte tutti i performer.
A noi è piaciuto di più l’ultimo quadro, in cui come pietre in un giardino zen, questi corpi rannicchiati si adagiano sotto un vento-respiro. Buio. Si odono di nuovo le voci dei performer, pronti a riprendere il dibattito, ma al buio, per quindici minuti, alla fine di tutto. Nessuno, di fatto, può alzarsi e andar via. La sensazione di paradossale e artistica prigionia serpeggia nei vari interventi del pubblico.
Le Roy ci dice che il sopruso fra gli umani è pratica assai diffusa, dunque perché scandalizzarsi?
Chiudiamo con Meg Stuart e il suo Damaged Goods, ulteriore capitolo della sua riflessione sul corpo e la sua posizione nella società.
Violet è un’indagine sul limite dello sconosciuto, limitare che secondo la coreografa ha proprio il colore viola. Il viola non è solo un colore, secondo la Stuart, ma un luogo, il luogo che anticipa lo sconosciuto, l’ultravioletto, inteso come ultra mondo.
I cinque ragazzi in scena, aspettano il pubblico al fondo della sala, poi iniziano movimenti sincopati e tutti diversi, ma ripetuti all’ossessione, mentre un percussionista, armato (è il caso di dirlo) di computer, inizia a diffondere suoni di sapore industrial via via più forti. La sensazione di ambiente rilassato lascia subito il posto al più atroce disagio. Il rumore continua ininterrotto, i movimenti via via più veloci e meccanici. Non pare esserci salvezza. Solo dopo quaranta minuti di colpo piomba il silenzio. Nel frattempo diversi sono andati via. Ma il silenzio dura poco e tutto riprende forte come prima, nevrotico e iperteso.
Usciamo, non possiamo negarlo, con un senso di liberazione. Forse il lavoro non era concettualmente brutto, ma in verità non l’abbiamo capito, e siamo rimasti storditi ad attenderne la fine come il pugile suonato aspetta il gong. La fine, come quegli interminabili round in cui si viene presi a sassate dall’avversario, pareva però non arrivare mai e guardavamo con invidia i coraggiosi che, come prassi qui ad Avignone, si alzano e vanno via senza problema, senza reverenza di sorta.

Le parole in punta di pennello

Des_lettres_et_des_peintres_2MARIA CRISTINA SERRA | A Saint Germain des Prés, un’esposizione inedita della corrispondenza privata di 50 grandi artisti, che tra l’Ottocento e il Novecento hanno segnato la storia dell’arte, ci rende partecipi dei segreti della loro creatività, dei sentimenti, pensieri ed emozioni. Al Musée des Lettrese et Manuscrits, fino al 28 agosto

Nelle lunghe giornate estive, camminare per i viali ombrosi dei giardini del Luxembourg o sedersi a prendere il sole sulle caratteristiche poltroncine di ferro battuto, smaltate in grigio-verde, ai bordi della grande fontana ottagonale, dove i bambini spingono con aste di legno le barchette a vela, emuli di un gioco antico e perenne, ci fa sentire la felicità a portata di mano. Vengono in mente le bellissime pagine con cui Ernest Hemingway in “Festa mobile” descrive i giardini e i suoi sentieri ghiaiosi, mentre fra gli alberi “il vento soffia chiaro e pungente” e le passeggiate letterarie fra il Quartiere latino e Saint Germain des Prés, dove visse gli anni giovanili “quando eravamo molto poveri e molti felici”.
Da sempre questo spicchio di città sulla Rive Gauche è stata zona di letterati, poeti, filosofi e studenti (la Sorbona è nelle vicinanze). Non stupisce allora che proprio al numero 222 di Boulevard Saint Germain, in un edificio hausmaniano, con un allestimento d’avanguardia, si trovi il curatissimo Musée des Lettres et Manuscrits, ideato e diretto dal grande collezionista Gerard Lhéritier, per il quale “una lettera è lo specchio della vita”, che ospita l’affascinante mostra “Des lettres et des peintres”.

Invece di seguire l’itinerario che Hemingway percorreva abitualmente, uscendo dal cancello principale dei giardini in direzione di St-Sulpice, dei Caffè Flore e Deux Magots, e della brasserie Lipp, imbocchiamo la lunga discesa di Rue Tournon, la via degli antiquari librari. Al numero 18, immobile nel tempo e negli arredi, s’incontra il caffè Bistrot Le Tournon, a pochi passi dal Senato. Fra il 1933 e il 1939 questo locale divenne il rifugio-atelier, dove Joseph Roth, romanziere “di confine”, fra i più grandi del Novecento (Giobbe, La Marcia Radetzky, Fuga senza fine), scriveva con la magia della sua penna, riuscendo a superare i confini ideologici, culturali, religiosi e politici di un’Europa scossa dall’umana violenza, tra una guerra mondiale che finiva e un’altra che si preannunciava (“un continente triste e ormai prossima alla morte”,osservava ). A differenza della sua “Leggenda del Santo Bevitore” (suo testamento morale), “l’ovattato abisso” dell’alcool, senza il quale, diceva, “sarei rimasto al massimo un buon giornalista”, non gli regalò una “morte lieve e bella”, e una targa d’ottone su una parete sta a ricordare quel tragico 23 maggio del ’39, in cui si accasciò sul suo tavolino di marmo, pieno di fogli vergati con cura e bicchieri di Pernod e Calvados svuotati.

Travagli di vita, riflessioni sull’arte, storie d’amore e d’amicizia, confidenze e debolezze delusioni e speranze, trapelano invece dalle corrispondenze private dei grandi pittori ,da Delacroix a Matisse e Cezanne, da Géricault a Magritte, Picabia e Dalì, passando per Monet, Gauguin, Manet, Van Gogh, Picasso, Braque e Mirò. Le loro calligrafie tracciano sulla carta disegni che ci rivelano tratti inediti della loro personalità. Scrive nel 1821 Géricault, con stile calligrafico ed elegante, venato di chiaro-scuri, all’amata Madame Trouillard: “Mi permetto di prostrarmi ai vostri piedi, perché voi siete una creatura divina e io non ne posso fare a meno, tuttavia esito, non certo a scegliere, che è facile: se per voi è possibile di trovare uno spazio per un fragile mortale, di scendere fino a lui ! Allora…..”.

In una lettera a Darcy confessa inquietudini e gioie, riflessioni sulla pittura inglese “che non si distingue se non per soggetti di paesaggi e marine”. La scrittura di Van Gogh è precisa, trasuda sensibilità, è ricca di disegni, con un’impaginazione perfetta. All’amico pittore Van Rappard, nel 1883, manifesta il suo interesse per la litografia e per la “bellezza del colore nero, un bel tono caloroso”, che accosta ai racconti di Dickens “uno scrittore unico, artista insuperabile di bianchi e neri”. E’ larga e chiara la scrittura di Chagall, che nel 1950 scrive a Prévert: “mio caro amico, quando leggo i vostri poemi mi sembra di vedervi e di parlare con voi”. E’ complice e conflittuale il rapporto fra Breton e Picabia, che nel 1947 esprime “l’amore per lo spazio immaginario, impalpabile”. Léger descrive dal fronte alla sua “Janot”, nel 1917, dettagli di vita quotidiana e le dedica un disegno con due innamorati abbracciati. Nel 1924 insorge, invece, contro la critica e la “mondanità effimera parigina, J. Cocteau, i balletti russi, le serate piccanti, le duchesse, gli snob”.

Parole e immagini anche per il “fauviste” Matisse, tratti dinamici e variazioni di toni e colori vivaci, contrapposti alla rigidità del “cubista” Picasso. Cortesi, osservanti delle convenzioni e delle regole gli scritti di G. Braque. Le lettere di Magritte rivelano un borghese tranquillo, e a tratti svelano “giardini segreti” e malinconica ironia. Renoir si lamenta con Mallarmé dei suoi acciacchi. Il solitario Cezanne si sfoga per l’incomprensione che lo circonda e si lamenta con Pissarro per il tempo “estremamente piovoso del Midi”. Nel 1885 Pissarro invita Gauguin, che si trova in Danimarca, a perfezionare il suo stile: “solo e libero da voi stesso troverete qualcosa di nuovo”.

Commoventi le pagine in cui Monet lancia fra gli amici pittori nel 1889 una sottoscrizione per l’acquisto dell’Olimpia di Manet, per offrirla al Louvre, così “da rendere omaggio e giustizia alla memoria del nostro amico”. Così come quelle di Manet nel 1870, che denunciano la fame e i patimenti di una Parigi, alla vigilia della Comune. Delacroix manifesta la sua ammirazione per Rubens, “che ha fatto il miracolo: mi ringiovanisce più delle terme di Plombières”. Kandisky e Delaunay teorizzano sull’arte. Dalì invita il poeta Paul Eluard a mangiare il pesce ad Arcachon. E’ una scrittura poetica quella di Mirò, che gioca con le assonanze di frasi e colori. Toulouse-Lautrec esprime alla madre l’entusiasmo per il soggiorno a Londra e la delusione per i “pranzi approssimativi in hotel e la chiusura dei negozi, dopo le sei di sera”. Piena di slancio ideale la lettera di Courbet al “caro e grande poeta” V. Hugo, nel 1864 ancora in esilio: “Voi l’avete detto, io ho l’indipendenza feroce del Montagnardo, malgrado l’oppressione che pesa sulla nostra generazione, malgrado la Francia di oggi, noi salveremo l’arte, lo spirito e l’onestà della patria”. Un grido di indignazione più che mai attuale.

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Il viaggio senza tempo di Mimmo Jodice

jodice-installazione_580x260MARIA CRISTINA SERRA | Un’esposizione singolare, “Les yeux du Louvre”, che con sensibilità ed eleganza accomuna i capolavori di un tempo con le immagini del presente. 60 foto in Bianco/Nero che rileggono i capolavori dei grandi pittori dal Rinascimento all’Ottocento, miscelandoli con i ritratti dei dipendenti del Louvre (fino al 15 agosto)

La rue de Bretagne, ideale luogo d’incontro fra la Parigi popolare, che dal Carreau du Temple, vicino Place de la Republique, si estende fino Les Halles, e quella più à la page, che vive nell’intreccio di stradine medievali punteggiate da esclusive boutique e gallerie d’arte del Marais, ha mantenuto nel tempo la sua identità storica. Se nella parte alta e “più nobile” del Marais si incontrano i rinascimentali Hotels Particuliers (sedi dei musei Carnavalet, Archives Nationales, Cognacq-Jay, Picasso, Maison Europèenne de la Photographie), a dettare gli itinerari in quest’angolo accogliente del 3° Arrondissement, come un enciclopedico museo all’aperto, sono le numerose fromageries, boulangeries, charcuteries, caves aux vins, boucheries.

L’immaginazione è così veicolata, al di là della consistenza reale delle cose, a scoprirne la “realtà parallela” e la dimensione mentale. Il fil rouge della memoria collettiva, attraverso un visionario e liberatorio gioco di corrispondenze e dissolvenze, ci conduce dalle strade brulicanti di normale quotidianità ai fasti del Museo del Louvre, per centellinarlo attraverso lo sguardo sottile di Mimmo Jodice, maestro nel ridefinire i rapporti spazio-temporali, passando attraverso il cancello del Marché des Enfants Rouges. Dal presente ai secoli lontani, il passo è breve. Il seicentesco “Petit marché”, il mercato coperto rionale più antico di Parigi, da subito associato dalla fantasia popolare ai bambini “dalle mantelle rosse”, colore della carità, del vicino orfanotrofio, è un punto di riferimento per gli abitanti del quartiere, articolato tra banchi di fiori, verdure, pesci, ristorantini etnici e regionali. Seguendo il richiamo dei profumi e dei sapori, per rue Vieille du Temple e rue des Rosiers, centro del vecchio quartiere ebraico, con i suoi bistrot Kosher e le botteghe che vendono dolci e speziati falafel, si arriva in rue de Rivoli e al Museo del Louvre.

Dal mosaico di aromi e colori ci si immerge nel prodigioso incanto del “Bianco/Nero” della affascinate mostra del fotografo Mimmo Jodice: “Les yeux du Louvre”. Nella Sala Sully, nei sotterranei del museo, in un’atmosfera misteriosa e in una scenografia austera, a cui fa da contrappunto l’ariosità dell’altissimo soffitto a volta, 60 ritratti in Bianco/Nero, rigorosamente allineati in un’installazione circolare, intrecciano relazioni tra di loro e indirizzano i loro sguardi intensi, inquieti, verso i visitatori, instaurando un ‘empatia sotterranea che predispone alla riflessione. Come in un sortilegio, qualsiasi riferimento a contesti storici o ambientali è cancellato, la scansione temporale resa fluida “in un presente assoluto” e contemporaneo. “Ho cercato di abolire il tempo e la differenza tra la pittura e la fotografia”, spiega Jodice, ” e di ridare vita, anima e carattere alle figure del passato e di conferire nuovo statuto ai modelli fotografici”.

Così gli “abitanti del Louvre”, grazie al superamento dei confini temporali, e al l’abbattimento delle barriere tecniche e linguistiche, tra pittura e fotografia, sono resi dall’artista napoletano (mago nel rendere sublime l’immaginifico della realtà urbana e concreto l’archetipo dei reperti archeologici) con uno stile asciutto e oggettivo, velato di delicatezza. Il dosaggio perfetto della luce che quasi scolpisce le immagini, dopo averle scomposte e riassettate, per amalgamare l’Antico con il Moderno, conferisce loro una naturale solennità. “Fotografare un viso dipinto”, dice Jodice, “significa renderlo al presente, annullare tempi e differenze”. Così 40 volti,scelti in base alla loro espressività, estrapolati da dipinti celebri, sono affiancati in un ritmico montaggio da 20 ritratti di contemporanei. In una successione di immagini dal forte impatto emotivo scorre davanti ai visitatori l ‘universalità dei sentimenti umani.
“Passione, ansietà, nobiltà, arroganza, stupore, ironia, timidezza, tenerezza” accomunano uomini e donne di ieri e di oggi, indipendentemente dalle differenze sociali.

E qui affiorano nella complessità della loro intimità e segretezza come solo l’immediatezza delle immagini, più che le parole, è in grado di svelare. La poetica di Jodice, lontana da qualsiasi tentazione documentaristica, reinterpreta così i capolavori d’epoca rinascimentale e romantica, alternandoli con i “suoi” dipendenti del Louvre. Occhi e visi, di fronte o di tre quarti, raccontano le loro storie di condottieri, dame, alchimisti, direttori di museo, compositori, banchieri, custodi, restauratrici, filosofi, esperti in comunicazione: ognuno è lì con la propria identità, svincolato dalle strettoie del ruolo che il caso, la scelta o la nascita hanno ritagliato per loro. Con straordinaria maestria e sensibilità, Jodice allinea sullo stesso orizzonte immaginario i suoi scatti di oggi con gli sguardi dei personaggi, ritratti da Antonello da Messina, Dosso Dossi, il Veronese, Delacroix, Elisabeth Vigée Le Brun, Leonardo, Raffaello, Goya, Ingrés, David, il Perugino.

Il risultato è una meravigliosa alchimia in equilibrio fra instabilità dell’esistenza ed eternità, luminosa e irradiante interiorità e inconfessabili tormenti, rivelazione dell’invisibile e sottrazione del superfluo. Ogni personaggio presente o passato, più o meno noto, a suo modo riflette quella scintilla di autenticità, che permette di gettare uno sguardo del tutto inusuale sulla vita del museo, per comprenderne i suoi tesori, senza la fretta né l’ingordigia a cui spesso il turismo “mordi e fuggi” ci ha abituato. “Gli occhi del Louvre” ci penetrano dentro e ci aiutano a vedere con uno spirito nuovo le opere d’arte, per gustarle con i tempi lunghi della storia.

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Dogon. Viaggio al centro dell'Africa, dentro l'armonia

MARIA CRISTINA SERRA |  Al Musée du Quai Branly, un’occasione rara per accedere ai “segreti” dell’arte africana, frutto di civiltà antiche e tradizioni complesse, che hanno prodotto opere di grande valore artistico, per comprendere appieno la profonda umanità, spiritualità e universalità di opere compiute da artisti “senza nome”, che incantano

La Senna, silenziosa e maestosa, circonda l’Ile Saint Loius e l’Ile de la Citè, sulla quale svettano le guglie sbiancate e i gargouilles di Notre Dame, come un faro d’orientamento, dividendo la città nelle due sponde opposte, la gauche e la droite. “Dall’alto di tutte le sue pietre, gelosa, severa e immobile, con lo sguardo di traverso”, scriveva J. Prèvert, osserva il fiume “con il suo bel vestito verde e le luci dorate che se ne va piano, piano, verso il mare, passando per Parigi senza preoccupazione”. Camminando dal ponte dell’Alma, lungo i Quais che portano al Musèe du Quai de Branly (dove fino al 24 luglio si può ammirare la mostra sui “Dogon”) viene naturale scendere fra le banchine a osservare le barche dagli accesi colori pastello ormeggiate. Sembra quasi che il mondo di Doisneau, Carnè, Clair, Prèvert e quello fantastico di Amelie Poulain ci venga incontro per svelarci i segreti e la magia delle “piccole grandi cose” Poi,come in un film di animazione ci troviamo quasi a sfiorare con le dita la punta della torre Eiffel percorrendo la passerella pedonale Debilly , prima di entrare nel museo, accolti dalla figura ermafrodita Djennenkè del X secolo, con le braccia elevate al cielo, che campeggia sui manifesti di oltre 2 metri.

La millenaria arte Dogon, nata a ridosso delle impervie Falesie di Bandiagara, che alte fino a 400 metri si estendono per 250 kilometri fra gli aridi altopiani del Mali e del Niger, luogo di incontro e scambio fra culture secolari, “ha dato luogo ad una produzione artistica ricca e multiforme”, spiega Hélène Leloup, commissario dell’esposizione, “che si è affermata soprattutto per le forme esteticamente moderne e armoniose delle sue sculture, maschere tribali ed oggetti di uso comune o sacrale, un’arte a tratti rude, che non si perde in inutili ornamenti, che va all’essenziale”.

Con rigore scientifico ed estrema raffinatezza espositiva, più di 330 opere sono suddivise in spazi che raccontano l’evoluzione dello stile, la cronologia e l’etnia di appartenenza, che come un mosaico, si sono amalgamate in questo tratto dell’Africa Occidentale. In un affascinante percorso emotivo ed estetico, spogliati dei pregiudizi della mente e della cultura occidentale, si entra in sintonia con le opere di artisti anonimi che, coniugando con maestria dinamicità e rigidità, affermano un’ideale di armonia che incanta.

Sono per lo più sculture in legni duri, resistenti ai secoli e rivestite spesso di una patina rituale dai toni caldi, la “crouteuse”. L’iconografia è per lo più umana: guerrieri, figure femminili dispensatrici di vita, ermafroditi e coppie gemellari, simboli di dualità, personaggi con le braccia alzate in gesti propiziatori, più raramente accovacciati o genuflessi: Il senso di quotidianità predomina ed è inscindibile dall’espressione artistica. Tutto è vita e la vita si confonde con l’arte. A partire poi dal XV secolo, la rappresentazione diventerà più funzionale, con figurine di portatrici d’acqua, macinatrici di farina, musicisti. La nascita, la morte, il lavoro, i riti religiosi, la politica, l’educazione, sancivano i momenti di coesione sociale e ne fissavano i codici estetici con linee pure e rigorose, a tratti ieratiche.

Il soffio vitale, l’energia, lo “Nyama”, che secondo la tradizione animista di quei popoli è insita in ogni cosa, sembra palpitare lungo il percorso della visita. La cornice storica e geografica, propedeutica alla comprensione delle opere, fa da filo conduttore per dieci secoli evidenziando similitudini e differenze. I Djennekè (X-XIX secolo), originari dell’impero del Ghana (attuali Mauritania e Mali) nell’XI secolo, a seguito dell’islamizzazione della zona, si spostarono verso il Nord-Ovest, mantenendo così integra la loro identità aristocratica con figure allungate, dai decori asimmetrici, le belle teste sormontate da chignon o treccine di influenza berbera, occhi sporgenti e nasi sottili, racchiudono in sé la sintesi dell’arte Dogon. Le suggestive figurine antropomorfe, inginocchiate, e i cavalieri nobili le ritroviamo anche nell’arte N’Duleri (XIV-XX secolo), con accentuate forme longilinee e caratteristici occhi obliqui, di particolare eleganza. I Tambo, i Niogom e i Tellem svilupparono la loro cultura al riparo delle falesie (X-XVIII secolo) e ciò conferì loro un’indipendenza stilistica particolare. Spesso le figure sono prive di gambe e braccia e la loro forma “naturale” si confonde con il ramo d’albero su cui sono state intagliate. Le silhouettes Tellem (etnia dall’origine misteriosa e dai ” poteri magici”, scomparsa dopo l’arrivo dei Dogon-Mandè nel XIV secolo) hanno sovente le braccia alzate, come in invocazioni rituali e sono una metafora all’equilibrio.

I Mandè, popolo del Sud-Ovest, a cui si deve l’elaborazione del “classico stile frontale delle falesie”, sono presenti con sculture di splendida fattura. Alcune rievocano archetipi e miti, altre avvenimenti legati ai clan di appartenenza. Proporzioni di perfetta armonia caratterizzano le maternità, dai visi di regale compostezza. Di consolidata fede animista, anche in piena colonizzazione musulmana, il popolo di Tintam (XIV-XX secolo) esprime nella sua arte i riti della vita sociale. La grazia delle portatrici di acqua e delle maternità, evocative anche di facoltà terapeutiche e propiziatrici, ricordano l’iconografia dell’antico Egitto e sono una sintesi perfetta di ragione e sentimento.

E’ impregnata, invece, di religiosità l’arte Bombou-Toro (XV-XX secolo) dai singolari visi geometrici e dagli occhi a bottoncino. La visita si conclude con le sezioni dedicate alle Maschere, che ci introducono alla ricchezza di credenze e miti di questi popoli; e all’oggettistica, che ci svela le consuetudini private, rammentandoci come l’arte, la vita e il sacro siano indissolubilmente legati tra loro.

Manhattan Trasfer – Milano ospita la storia del jazz

RENZO FRANCABANDERA | Dai Manhattan Trasfer a Burt Bacharach sul palco con Mario Biondi, in due giorni, fra il 5 e 6 luglio, a Milano sarà di scena la grande tradizione del pop jazz americano. Lo storico gruppo di voci che ha interpretato tutti i grandi classici del jazz sarà il 5 al Teatro degli Arcimboldi, mentre il pianista americano incontra il 6 all’Arena Civica la sensuale voce del crooner siciliano nell’ambito del Milano Jazzin’ Festival

Bird named it, Bird made it
Bird heard it, Then played it
Well stated
Birdland

Birdland, il paese degli uccelli. O anche il regno di Charlie Parker, la leggenda del sax jazz, chiamato Bird dai suoi fan.

Birdland si chiamò presto un jazz club a New York, in origine sulla cinquantaduesima strada ora a 315 W. 44th St. A quel posto dedicò un celeberrimo brano Joe Zawinul nel 1977 (l’album era Heavy Weather), che due anni dopo, con parole di Jon Hendricks diventò uno dei più grandi successi dei Manhattan Transfer (nell’album Extensions, 1979). Infatti la seconda strova di Birdland non lascia spazio ad equivoci: It happened down in Birdland / In the middle of that hub / I remember one jazz club / Where we went to pat feet / Down on 52nd Street.
Loro in realtà avevano iniziato quasi un decennio prima, con l’uscita di quell’album, Jukin’, e quel nome ispirato al romanzo di Dos Passos mai abbastanza rivalutato per quella che sarebbe diventata una tecnica tutta drammaturgico/cinematografica, con l’invenzione della frammentazione delle storie, l’intrecciarsi dei destini sullo sfondo urbano, la descrizione di una mondo e di una cultura attraverso piccole tessere di mosaico che compongono la Storia, quella grande, universale. John Dos Passos, non aveva neanche trent’anni.
Più attempati ma sempre vivi, incisivi, di luci bianche e blu i quattro interpreti dei classici standard americani che di quel nome hanno ripreso la caratteristica, con la voglia di racconto della Babele New York, quel concentrato di vite e di avidità, di amori e miserie, di sogni e lavoro.
Il loro caleidoscopio vocale racconta alla perfezione quell’universo di storie, di personaggi, di mondi che hanno popolato il nuovo mondo, un secolo di vita americana , dalla fondazione e i campi di cotone fino all’età del jazz.
In questi quarant’anni, il quartetto vocale ha continuato a proporre una musica che tra jazz e pop d’autore racconta le voci, la voce. La musica ma l’importanza della parola, le corde vocali come strumento che sa perfettamente incastrarsi nel cuore della struttura sonora dei pezzi che interpretano, con quel Vocalese che diventò anche titolo di un loro album del 1985 che ottenne 12 nominations ai Grammy, un record superato solo da Thriller di Michael Jackson. E di Grammy Awards e di riconoscimenti di ogni natura ne hanno avuti in ogni tempo e in gran numero.
Il gruppo manca da Milano da quasi tre anni e martedì 5 al Teatro degli Arcimboldi eseguiranno i loro brani più recenti e un’ampia selezione dei loro maggiori successi.
Non di minor fama il grande duetto che si esibirà la sera dopo, il 6 luglio, all’Arena Civica, composto da Burt Bacharach & Mario Biondi. Il duetto del famoso pianista-compositore statunitense e il soul man siciliano ha in programma un Tour Estivo 2011 che li porterà a calcare i più importanti palchi italiani (data successiva quella al Summer Festival di Lucca), con un spettacolo che vedrà nella prima parte Biondi interpretare i suoi successi nella modalità a tutti nota, mentre nella seconda viene accompagnato da Bacharach che ha anche scritto per lui la romantica Something that was beautiful, ballata inserita nell’album If. Di Bacharach che dire? Ottanta e passa anni e una voglia di raccontare la sua vita e la nostra in musica che non conosce sosta. Ha iniziato suonando in diverse jazz band per diventare poi compositore di canzoni: la prima hit è del 1957, “The story of my life”, fino al conosciutissimo “Magic Moments” e al sodalizio perfetto, quello con Dionne Warwick, per la quale firma i suoi brani più noti negli anni ’60 (“Anyone who had a heart”, “Walk on by”, “I Say a little prayer”). Bacharach è uno che si innamora delle voci.
Che il suo occhio lungo sia caduto su quella di Mario Biondi non può stupire. Il cantante siciliano è sicuramente una delle voci più incredibili apparse sulla scena internazionale in questi anni. I musicisti con cui si accompagna dei talenti cristallini, come Fabrizio Bosso alla tromba. Oltre non serve dire…

E il naufragar m'è dolce

RENZO FRANCABANDERA | Si chiude l’edizione numero quattordici del Festival ideato a fine anni Ottanta da Massimo Paganelli e ora affidato alle mani di Andrea Nanni, che è riuscito nel tentativo di coniugare continuità e innovazione, per una delle più prestigiose rassegne italiane sulla nuova scena
Il luogo-rituale è un po’ come un santuario, un posto dove avvengono alcuni eventi di particolare intensità emotiva e dove il sito ospitante è consustanziale all’evento stesso.
Per fare un esempio esemplificativo: è stato possibile spostare Arezzo wave (o meglio la manifestazione che ad Arezzo si svolgeva) in Puglia, assai più difficile sarebbe spostare un santuario di una qualche apparizione mariana, o la residenza sepolcrale di qualche santo dal paese dove l’epifania è occorsa o il santo ha vissuto.
Il motivo è chiaro: alcune funzioni antropologiche trovano ragione stessa del loro essere nel luogo che le ospita, con cui condividono non solo una storia passata, ma anche un’intima co-partorienza.
Certo anche spostare Arezzo wave non è stato indolore, ma un Festival Inequilibrio fuori dal microcosmo di Castello Pasquini e dalla residenza artistica Armunia sarebbe davvero una piccola bestemmia.
Perché le sensazioni di arrivare in questo luogo, vedere dall’interno del castello, dalle finestre ogivali, il mare che si fa spuma fra i pini che fanno di contorno al parco, mentre il vento di maestrale ricorda all’uomo quanto sia piccolo di fronte alla natura, tutte queste cose, dicevamo, sono un tutt’uno con la residenza artistica che in inverno ne abita le stanze infreddolite, e con la rassegna di arti sceniche che ogni anno a Luglio si svolge in questo luogo.
Dopo il passaggio di mano alla direzione del Festival l’anno scorso, alta era l’attesa per il lavoro di pianificazione e direzione artistica di Andrea Nanni.
Possiamo dire ora, a conclusione di tutto, che l’esito è stato alto, l’operazione riuscita, e persino, se possibile, innovata e rafforzata, con un ampliamento del dialogo e dell’interazione con il territorio e la sua gente.
Il Festival è davvero esploso all’esterno, utilizzando anche numerose strutture del territorio oltre al Castello, come il Palazzetto dello Sport di Rosignano Solvay, o il bellissimo Teatro Roma nella magica cornice di Castagneto Carducci, fino ai negozi di Castiglioncello, dove si sono svolte performance di varia natura, e spingendosi fino al coinvolgimento di attori non professionisti in spettacoli come quello degli Omini, o come nelle dolci performance di Virgilio Sieni, che hanno chiamato donne e bambini del luogo per un’operazione artistica che assume lo straordinario valore del tentativo di ampliare il gesto performativo, il movimento scenico, spingendolo verso il suo più intimo concettuale, ovvero il quotidiano.
Ci sono piaciuti, del secondo fine settimana, in particolare, alcuni lavori, come quello di MK, Quattro danze coloniali viste da vicino, ospitato a Castello Pasquini, nella Tensostruttura 1.
Nei 30′ di durata, il lavoro rivela un’idea creativa forte, appuntita, che attraverso la concettualizzazione dell’esotismo da viaggio, racconta l’umanità stanziale. In fondo cosa sono le foto scattate dai cacciatori nella savana con il piede sul capo della preda, se non iconografia classica della dominazione, da quella sacra (si veda la Madonna col serpente) fino a quella profana ed erotica dei rapporti di sottomissione.
Così pure il terzo movimento, dei quattro, racconta di come nessun dominatore domini solamente e nessun dominato sia davvero solo schiavo. L’interazione, il rapporto fra due esseri viventi, finisce per essere comunque contaminazione, fino al paradossale rovesciamento dei ruoli; un po’ come avviene ne Le mille e una notte, dove la schiava avvince il suo padrone, in un continuo sviare rispetto a una soluzione finale che riesce a procrastinare affinchè non arrivi mai, stesso tentativo che la compagnia compie rispetto al gesto scenico, per spingerlo all’estremo ma garantendone sempre una reversibilità, anche concettuale, all’ultimo secondo. Affascinante.
Il bilico, l’instabile, sono alla base anche del lavoro di Cie Disorienta, progetto Strata.2, dove lo spettatore assiste, in due frazioni, di quasi ugual durata ai due lati di un’unica medaglia.
La performer è in equilibrio instabile su tre pali che, congiunti fra loro da tiranti elastici, garantiscono all’elementare struttura, alcuni gradi di libertà all’interno dei quali, come dentro un castello logico escheriano, vengono esperite possibilità di comunicazione all’esterno di sentimenti.
Nella prima frazione il tutto avviene sotto un velo su cui vengono videoproiettate sequenze digitali di tipo frattale, a dare l’idea di un corpo crisalide che si intravede.
Nella seconda metà il mistero è svelato: tutto è nudo sotto i nostri occhi. Alcune immagini poetiche prendono corpo evocando marinai, o equilibristi, o eterne crocefissioni.
Forse, però, il lavoro si allunga troppo attorno a queste immagini potenti, e l’attenzione dello spettatore finisce un po’ per calare: come un baco che invece che lasciare alla sua crisalide, appunto, uno strato facile da rompere, continui a tesserci attorno un filo che finisce per soffocare le immagini. Servirebbe probabilmente un po’ meno, per avere molto più.
La messa in scena che Egumteatro fa del bellissimo testo postumo di Sergio Atzeni, Bellas mariposas, è una delle cose più interessanti del Festival. Ben interpretato da Monica Demuru diretta da Annalisa Bianco, il racconto è quello di una ragazzina di periferia, inchiodata ad un’impalcatura di vita con quei legami che solo la povertà riesce a rendere così saldi e spesso inscindibili.
Nella bella scena di Paolo Bruni che ci riporta in un’universo di tubi di cantiere, porte aperte sul nulla e finestre cieche, la piccola protagonista si muove come in un’altalena continua nel degrado della periferia di Cagliari, tra microcriminalità, droga e sessualità spiccia.
Lei cerca altro, in un’amicizia, in un’amore, in un sogno di vita.
Nulla di tutto questo pare realizzarsi nel volgere dello spicchio di vita raccontato, che vive momenti di poesia scenica nel racconto della piccola parentesi di felicità al mare.
L’adattamento di un testo così profondamente letterario a teatro non è cosa agevole. Lo spettacolo, bello e intenso, paradossalmente paga la straordinaria bellezza e violenza delle parole, a cui spesso aggiungere senza togliere risulta impresa difficile.
Perchè arricchire un testo narrativo, portato in palcoscenico quasi tal quale, anche solo con una messa in scena ben interpretata, vuol dire togliere spazio alla fantasia di chi legge o ascolta, come l’abbellimento in musica, esercizio di creatività istantanea su tema altrui che risulta sempre insidioso anche per i grandi. Il Bellas Mariposas di Atzeni non perde la sua qualità narrativa nella trasposizione scenica, ma finisce alla fine per essere testualità un po’ ingombrante, in modo tale che la regia, che non vuole usare violenza alla parola scritta, deve di tanto in tanto escogitare qualche idea per interromperla, per inserire pause di vocazione scenica, di alleggerimento del monologo. Entrate e uscite, sospensioni, che non sempre riescono ad evocare tutte profondamente un altrove teatrale che non sia solo figlio dell’universo che la parola crea, come dolcemente e poeticamente avviene, ad esempio, nella scena del bagno a mare, dove l’attrice finisce fradicia, bagnata da bottiglie d’acqua, in un’abluzione che sa di rito purificatore.

Insomma, aggiungere qualcosa ad un bellissimo testo è sempre cosa ardua. Il lavoro di Egum, ben interpretato e ben ambientato, ci racconta e trasmette esperienza della difficoltà di questo genere di sfide.

Le voyage imaginaire di Hugo Pratt

ELENA SCOLARI| Fino al 21 agosto la Pinacothèque di Parigi ospita l’opera di uno dei più grandi fumettisti internazionali, una mostra bella e sognante che finalmente tratta Pratt come un artista tout-court.

Hugo Pratt è nato a Rimini nel 1927 e ha passato la sua infanzia a Venezia, in seguito agli impegni del padre militare la famiglia si è trasferita in Etiopia per gli anni dell’adolescenza, da adulto Pratt è stato a lungo in Argentina, ha vissuto in Inghilterra, in America e in Francia e infine in Svizzera, sul lago di Losanna. Il viaggio della vita di Hugo Pratt ha toccato tanti luoghi reali quanti sono stati quelli immaginari creati per le sue avventure su carta. Il fumettista è sempre stato viaggiatore e soprattutto un uomo curioso di conoscere altri popoli e di mischiarsi con loro con grande naturalezza.

Negli anni passati in Abissinia la famiglia Pratt viveva nel Villaggio Littorio, un pezzetto di Italia nel cuore dell’Africa, prime compagne di giochi del piccolo Hugo erano alcune scimmiette che si divertivano a far cadere il cappello del  padre con l’aquila imperiale…

Crescendo, Pratt figlio ha stretto amicizie anche molto profonde con i ragazzi e le ragazze del luogo, imparando senza accorgersene la spontaneità di incontrare le persone da qualunque paese vengano.

La disinvoltura e la confidenza col mondo acquisite in Africa sono chiaramente riversate nelle storie dei personaggi prattiani: marinai d’ogni paese, bellissime donne esotiche, guerrieri indiani, celtici…

Un universo fatto di uomini e donne sempre maledettamente affascinanti, lo spirito dell’avventura e della scoperta è vivissimo nelle pagine di Pratt, anche prima dell’arrivo di Corto Maltese, personaggio diventato quasi più famoso del suo creatore, un po’ come Sherlock Holmes e Conan Doyle.

Pochi ricordano, forse, che Corto, il leggendario marinaio della marina mercantile (porta l’orecchino a sinistra, i marinai militari a destra, invece) fa la sua comparsa sulla carta solo nei primi anni ’70, quando la carriera di Pratt era già inoltrata ma non aveva ancora raggiunto il grande pubblico. Il  lancio di Corto Maltese avviene nel 1973 con “La ballata del mare salato”, nella mostra alla Pinacothèque c’è una sala che accoglie tutte le tavole originali di questa storia, non si può fare a meno di rileggerla.

E’ lo stesso Pratt a definire la sua opera “letteratura illustrata”, riteneva i suoi fumetti un nuovo modo di raccontare per immagini, risolve così quindi il vecchio dibattito su arti maggiori e arti minori. L’autore ha infatti hanno illustrato alcuni tra i più grandi romazi di viaggio come L’isola del tesoro di Stevenson, si è ispirato a Conrad, melville, Hemingway, London.

L’esposizione francese, collocata in un museo importante e “istituzionale”, intende anche riconoscere lo statuto d’artista a Hugo Pratt, ancora considerato “solo” un autore di fumetti, quindi di categoria artistica inferiore.

Passeggiando per le sale, piccole e molto intime, della Pinacothèque, tra i numerosi acquarelli esposti, si percepisce la profondità dei disegni e delle storie dell’autore veneziano, pieni di immaginazione, di irrealtà, di magia, di esotismo, di originalità narrativa.

L’acquarello era la tecnica prediletta da Pratt, perché è pittura fatta d’acqua. Aver vissuto a Venezia lega molto all’acqua, alla trasparenza, al fluire delle cose e del tempo. L’acquarello è una tecnica immediata perché non permette quasi correzione, ma è anche leggera. Le avventure di Corto Maltese hanno una complessità leggera, i personaggi una psicologia attenta ma sempre ironica, il mondo di Pratt è costantemente, magicamente in bilico tra elementi reali e porte stregate che si aprono su luoghi immaginari.

È un equilibrio bellissimo, ben visibile nel tratto moderno e sognante della mano di questo artista dall’anima romantica e cialtronesca insieme, una simpatica canaglia che, come Corto Maltese, se la sa cavare in ogni situazione, anche mentendo, quanto basta.

La mostra ha personalità, come le figure di cui ci parla, ed è divisa per temi, le tavole e gli acquarelli non sono in ordine cronologico ma raggruppati per argomenti: isole e oceani, gli indiani, i militari, le donne,  il deserto, le città.

Il visitatore si aggira tra le strade di un reportage illustrato, attraversa paesi e mari, locali equivoci con donne fatali dai nomi mitici (Pandora, Ipazia, Bocca Dorata..), città esoteriche come Venezia o Cordoba, il tango di Buenos Aires e gli scorpioni del deserto. Impossibile non desiderare d’entrare in queste storie.

Questa esposizione ci fa conoscere il Pratt acquarellista più del disegnatore di fumetti, ci racconta il fascino del viaggio e la poesia dell’avventura.

Bisogna sempre essere pronti a partire.

Gino Severini. L'ambivalenza della modernità

MARIA CRISTINA SERRA |  Un testimone sensibile della complessità del suo tempo e referente, per oltre 50 anni, degli scambi culturali fra Italia e Francia, cui l’Orangerie dedica fino al 29 luglio un’affascinante retrospettiva, dal 17 settembre al Mart di Rovereto. Fantasia creativa e rigore geometrico le sue caratteristiche fin dagli esordi

La Parigi classica, modellata sulle limpide prospettive che dal Museo del Louvre, con una idilliaca deviazione nell’oasi incantevole e appartata del giardino del Palais Royal, fra aiuole fiorite e zampilli di fontane, partendo dall’Arc de Triomphe du Carrousel, attraversa il parco delle Tuileries e arriva a Place de la Concorde. Una passeggiata che riposa gli occhi e arricchisce l’animo, parentesi di calma, che corre parallela alle arterie del lusso e della moda: Rue St. Honorè e Rue de Rivoli, per aprirsi sulla visione a pianta ottagonale della grandiosa Place de la Concorde, l’antica Place Louis XV, ribattezzata Place de la Revolution durante il “Terrore”, per arrivare poi a cogliere, alla fine del cammino, i frammenti e le illuminazioni degli spazi infiniti, rinchiusi nella “vertigine” di malinconiche trasparenze delle Ninfee di Claude Monet.

Raccolti su 8 pannelli decorativi di circa 4 metri l’uno, gli intrecci di piante acquatiche, simbolo duplice di carnalità e lievità dello spirito, emergono come ombre e colori riflessi nell’acqua , fra nebbie blu, verdi, rosa e giallo lucente o esangue, fasciando di magiche astrazioni le pareti delle grandi sale ovali al piano terra dell’Orangerie, come un monumento alla pittura senza tempo né confini spaziali.
La caducità umana, qui nell’intuizione dell’istante che trasfigura la materia, si sublima in eternità di essenza assoluta e immateriale. Lo spettatore, posto al centro di un accordo mirabile fra terra, acqua e cielo, avvolto dal flusso continuo di aria e luce, si può così abbandonare ai sogni e alle interpretazioni, cullarsi nelle proprie emozioni e diventare a sua volta parte della creazione.

Ci si avvicina, poi, in punta di piedi, alle spirali tracciate nell’aria dalle “Ballerine in blu”, metafora poetica di dinamismo universale, e all’acceso cromatismo e ai sussulti geometrici, infarciti di musicalità, del “Futurista-neoclassico Gino Severini”.
Il “più francese degli artisti italiani” del Novecento, cui l’Orangerie dedica un’affascinante retrospettiva, che ripercorre le tappe fondamentali della sua opera: dal Divisionismo al Cubismo, passando per il Futurismo (fino al 29 luglio, e poi dal 17 settembre al Mart di Rovereto).

“Sono nato a Cortona, lì si trovano le mie radici, ma intellettualmente e spiritualmente mi sento legato a Parigi”, confessava di sé Severini, artista eclettico dalla straordinaria disciplina formale, che l’accompagnò lungo tutte le sue stagioni, e dai virtuosismi cromatici. Divisionismo e Pointillisme aprono il percorso espositivo. Le prime immagini urbane, la dimensione sociale delle trasformazioni industriali sarà sempre una sua tematica, sono segnate da una pittura libera e ritmica, dal tratto “filamentoso”, che evidenzia i contrasti dei colori puri con effetti d’ombra. La “joie de vivre” e il senso di modernità, che gli ispira Parigi, lo condurranno progressivamente al Futurismo e poi al Cubismo. Il suo è un futurismo da “mediatore” fra l’avanguardia italiana e quella parigina; una “sintesi poetica” del mondo, che lo induce a mantenere la sua equidistanza e soggettività espressiva a metà strada con il Cubismo.

“Ricordi di viaggio” (1911) è un fantasmagorico fotomontaggio dove si compongono spezzoni di vita parigina e ricordi di paesaggi natii. L’ocra caldo della terra si mischia al giallo oro dei covoni di fieno, il verde degli alberi si intreccia con il blu delle architetture, gli ombrellini da sole coprono i visi delle signore, quelli degli amanti sfidano il frastuono urbano. Le carrozze s’incrociano con le locomotive, il movimento centrifugo comprime i sogni impossibili in una esplosione di colori. “Boulevard” è un mosaico di perfette armonie, di minuziose spezzettature geometriche con elementi figurativi dai toni caldi e freddi, scadenzati dal ritmo dei bianchi e dei neri, che si alternano come i tasti del pianoforte.

La “Danseuse”, rosa e gialla, è avvolta da un arcobaleno l’ “Espansione sferica della luce” dona pura energia cromatica. La “Dance de l’ours au Moulin Rouge” ha la gioiosa eleganza di un misurato sincretismo. Il” Treno blindato”, scompone il grigio metallico della guerra con tregue illusorie dai toni pastello. E per contrasto al dramma bellico, il ritorno alla pace è rappresentato dal ritratto della bellissima “Maternità”, che con la dolcezza delle forme segna il recupero della realtà visibile e figurativa. E’ l’idea di un classicismo, non come “ritorno all’ordine”, perché in lui non era mai avvenuta realmente una rottura con la natura, ma come riappropriazione della nostalgia, di un vissuto interiore, che lo condurrà poi a recuperare anche la tradizione della Commedia dell’Arte e la tecnica dei mosaici bizantini, nella parabola conclusiva di una eterogeneità, che rivendicherà con coerenza.