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Gino Severini. L'ambivalenza della modernità

MARIA CRISTINA SERRA |  Un testimone sensibile della complessità del suo tempo e referente, per oltre 50 anni, degli scambi culturali fra Italia e Francia, cui l’Orangerie dedica fino al 29 luglio un’affascinante retrospettiva, dal 17 settembre al Mart di Rovereto. Fantasia creativa e rigore geometrico le sue caratteristiche fin dagli esordi

La Parigi classica, modellata sulle limpide prospettive che dal Museo del Louvre, con una idilliaca deviazione nell’oasi incantevole e appartata del giardino del Palais Royal, fra aiuole fiorite e zampilli di fontane, partendo dall’Arc de Triomphe du Carrousel, attraversa il parco delle Tuileries e arriva a Place de la Concorde. Una passeggiata che riposa gli occhi e arricchisce l’animo, parentesi di calma, che corre parallela alle arterie del lusso e della moda: Rue St. Honorè e Rue de Rivoli, per aprirsi sulla visione a pianta ottagonale della grandiosa Place de la Concorde, l’antica Place Louis XV, ribattezzata Place de la Revolution durante il “Terrore”, per arrivare poi a cogliere, alla fine del cammino, i frammenti e le illuminazioni degli spazi infiniti, rinchiusi nella “vertigine” di malinconiche trasparenze delle Ninfee di Claude Monet.

Raccolti su 8 pannelli decorativi di circa 4 metri l’uno, gli intrecci di piante acquatiche, simbolo duplice di carnalità e lievità dello spirito, emergono come ombre e colori riflessi nell’acqua , fra nebbie blu, verdi, rosa e giallo lucente o esangue, fasciando di magiche astrazioni le pareti delle grandi sale ovali al piano terra dell’Orangerie, come un monumento alla pittura senza tempo né confini spaziali.
La caducità umana, qui nell’intuizione dell’istante che trasfigura la materia, si sublima in eternità di essenza assoluta e immateriale. Lo spettatore, posto al centro di un accordo mirabile fra terra, acqua e cielo, avvolto dal flusso continuo di aria e luce, si può così abbandonare ai sogni e alle interpretazioni, cullarsi nelle proprie emozioni e diventare a sua volta parte della creazione.

Ci si avvicina, poi, in punta di piedi, alle spirali tracciate nell’aria dalle “Ballerine in blu”, metafora poetica di dinamismo universale, e all’acceso cromatismo e ai sussulti geometrici, infarciti di musicalità, del “Futurista-neoclassico Gino Severini”.
Il “più francese degli artisti italiani” del Novecento, cui l’Orangerie dedica un’affascinante retrospettiva, che ripercorre le tappe fondamentali della sua opera: dal Divisionismo al Cubismo, passando per il Futurismo (fino al 29 luglio, e poi dal 17 settembre al Mart di Rovereto).

“Sono nato a Cortona, lì si trovano le mie radici, ma intellettualmente e spiritualmente mi sento legato a Parigi”, confessava di sé Severini, artista eclettico dalla straordinaria disciplina formale, che l’accompagnò lungo tutte le sue stagioni, e dai virtuosismi cromatici. Divisionismo e Pointillisme aprono il percorso espositivo. Le prime immagini urbane, la dimensione sociale delle trasformazioni industriali sarà sempre una sua tematica, sono segnate da una pittura libera e ritmica, dal tratto “filamentoso”, che evidenzia i contrasti dei colori puri con effetti d’ombra. La “joie de vivre” e il senso di modernità, che gli ispira Parigi, lo condurranno progressivamente al Futurismo e poi al Cubismo. Il suo è un futurismo da “mediatore” fra l’avanguardia italiana e quella parigina; una “sintesi poetica” del mondo, che lo induce a mantenere la sua equidistanza e soggettività espressiva a metà strada con il Cubismo.

“Ricordi di viaggio” (1911) è un fantasmagorico fotomontaggio dove si compongono spezzoni di vita parigina e ricordi di paesaggi natii. L’ocra caldo della terra si mischia al giallo oro dei covoni di fieno, il verde degli alberi si intreccia con il blu delle architetture, gli ombrellini da sole coprono i visi delle signore, quelli degli amanti sfidano il frastuono urbano. Le carrozze s’incrociano con le locomotive, il movimento centrifugo comprime i sogni impossibili in una esplosione di colori. “Boulevard” è un mosaico di perfette armonie, di minuziose spezzettature geometriche con elementi figurativi dai toni caldi e freddi, scadenzati dal ritmo dei bianchi e dei neri, che si alternano come i tasti del pianoforte.

La “Danseuse”, rosa e gialla, è avvolta da un arcobaleno l’ “Espansione sferica della luce” dona pura energia cromatica. La “Dance de l’ours au Moulin Rouge” ha la gioiosa eleganza di un misurato sincretismo. Il” Treno blindato”, scompone il grigio metallico della guerra con tregue illusorie dai toni pastello. E per contrasto al dramma bellico, il ritorno alla pace è rappresentato dal ritratto della bellissima “Maternità”, che con la dolcezza delle forme segna il recupero della realtà visibile e figurativa. E’ l’idea di un classicismo, non come “ritorno all’ordine”, perché in lui non era mai avvenuta realmente una rottura con la natura, ma come riappropriazione della nostalgia, di un vissuto interiore, che lo condurrà poi a recuperare anche la tradizione della Commedia dell’Arte e la tecnica dei mosaici bizantini, nella parabola conclusiva di una eterogeneità, che rivendicherà con coerenza.

perAspera/Drammaturgie Possibili

RENZO FRANCABANDERA | Secondo week end per la quarta edizione del Festival curato dall’Associazione Culturale alberTStanley, fino al 25 giugno 2011 nel complesso storico di Villa Aldrovandi Mazzacorati a Bologna
Lo scenario è straordinario: una delle più belle ville storiche di Bologna, residenza sanitaria durante il giorno e magico luogo di incontro sia all’interno della villa (che meraviglia il teatrino del 700), sia nella bellissima vegetazione che abbondante lo circonda.
E’ questo il palcoscenico all’interno del quale si esibiscono gli artisti, chiamati dalla direzione artistica a raccontare, a provare, ad essere liberi perfino di sbagliare.
Il progetto, partito dal 2008, ha sempre raccolto adesioni importanti dell’arte e della cultura performativa emiliana e non solo: un focus su tutti gli aspetti della drammaturgia presenti in ogni forma espressiva, attraverso un impulso a relazioni inedite tra le diverse discipline. Il programma di ogni giornata è multidisciplinare, dal teatro, alla danza, dalla performance alla musica e al video, e offre agli spettatori la possibilità di fruire in una sola sera di più forme spettacolari, che si succedono dalle 20 alle 24.00.
E’ un’offerta culturale di primo livello, fatta per un numero di persone coerente con la necessità di favorire una comunicazione fra tutti, un momento d’incontro civile: nessun afflusso oceanico, ma un numero importante di persone che in queste sere hanno scelto comunque la cultura in una Bologna certo non priva di offerte e di occasioni di piazza, come l’evento Santoro ecc.
Nonostante questo il festival ha fatto registrare sempre un numero di presenze assai significativo, a testimonianza che il pubblico per questi eventi non è affatto di nicchia.
Prima di raccontare gli eventi passati, raccomandiamo innanzitutto quello che lo spettatore potrà fruire in questo ultimo week end con la performance del collettivo inglese Pixel Rosso (di Silvia Mercuriali e Simon Wilkinson sono i membri del sodalizio Rotozaza) che presentano “And the birds fell from the sky”, una performance interattiva in cui il pubblico prova emozioni non marginali. Due spettatori per volta fra cinema e teatro. Imperdibile.
Sempre stasera il debutto del nuovo lavoro di Macellerie Pasolini, compagnia legata alla direzione artistica del festival che torna sulla scena dopo “Love car”, forte lavoro sull’eutanasia, proposto, fra l’altro, al Kilowatt festival l’anno scorso.
Oltre all’installazione di Elisa Fontana, il festival chiude domani con un’ulteriore performance di danza di Stefano Questorio, danzatore atipico e totalmente sciolto dai circuiti ufficiali ma molto attivo e presente (ricordiamo le date che l’artista ha tenuto di recente a Milano al Pim Off e al Festival Danae). Altr velocità seguirà con una diretta radio tutti gli eventi dell’ultima sera, con la conduzione di Lorenzo Donati.
Cosa ci ha colpito del primo fine settimana.
Innanzitutto diciamo che la sede del festival è un posto fantastico, che tutti i bolognesi dovrebbero sentire proprio e riappropriarsene. Poi:
– la bella pazzia recitativa di Angela Amalfitano che da dentro una bara portata a spalle racconta la morte dell’arte e dell’attore con il testo “La regina degli Elfi”, tratto da un monologo di Elfriede Jelinek;
– Hana-ni, giovane collettivo di danza urbana bolognese: questi ragazzi, tra i finalisti al Gd’A in Romagna, hanno proposto una performance con musica dal vivo di interesse, ispirata al mondo del manga e dei cartoni animati, ma che arriva senza difficoltà e con intelligenza, complice un delizioso gioco di ombre e un’animalità gestuale, a parlare del genere umano. Non hanno uno spazio per provare. Peccato. Servirebbe un Jeeg Robot d’Acciaio che gli lanci i componenti per proseguire l’interessante ricerca;
– Fratelli Broche: l’estetica sia video che scenica di questo gruppo (soprattutto quella video, invero) ricorda le foto barocche e crude di David LaChapelle e alcune pose da Tamara de Lempicka. Il tema è crudo, per uno spettacolo che si compone di una parte video (ben girata) e una teatrale, che dopo un inizio promettente di pasoliniana memoria (le 120 giornate sono dietro l’ancolo, con i borghesi ad ammirare la sevizie che essi stessi perpetrano sul genere umano) esauriscono il discorso con una cacciata dal paradiso terrestre che lascia la sensazione dell’irrisolto. Dopo aver creato una bella aspettativa di volo, l’atterraggio è su una pista troppo piccola. Un invito a cercare di definire meglio il contenuto;
– Stesso invito, forse ancor più vivo va rivolto a Leggere Strutture, che nonostante la bella location fra gli alberi, non riesce a convincere, con un lavoro site specific, “Object”, che gioca su rimandi fra classico e contemporaneo senza arrivare a una vera fusione fra i linguaggi (o le loro distonie), perdendosi in un autocompiacimento di cui occorre liberarsi sempre. Anche perche a loro lo spazio per provare non manca.
Non possiamo, infine, non menzionare il primo studio di Cosmesi su “un luogo abbandonato”. Il luogo abbandonato è il teatro e loro riescono a tenere il pubblico incatenato per quasi mezz’ora con un solo altoparlante in scena a trasmettere suoni industriali e una voce off che dice come il teatro è solo l’ennesima istituzione che non ci vuole. Sempre nel meraviglioso teatrino di cui sopra. In quella meravigliosa villa, nel centro di Bologna.

Terra di teatri sull'acqua

ELENA SCOLARI| Dal 9 all’11 Giugno 2011, teatri di Mestre, Venezia, Marghera – Una tre giorni di teatro in laguna, l’edizione numero uno del festival veneto Sguardi ci fa sbirciare tra le più interessanti compagnie del nord-est.

Ci siamo imbarcati subito di buonumore per questo festival/vetrina del teatro veneto: tre giorni a Venezia aprono il cuore, sempre.

“Sguardi”, quest’anno alla sua prima edizione dopo il felice numero zero del 2010 tenutosi a Padova, è stato organizzato dalla compagnia Pantakin sotto la direzione generale di Labros Mangheras del Tib Teatro di Belluno e una commissione artistica coordinata dal critico Andrea Porcheddu ha selezionato gli spettacoli da presentare. Nel complesso abbiamo visto un panorama interessante della scena teatrale veneta, a nostro avviso rimane ancora da affinare la stesura del cartellone a seconda che si scelga di selezionare davvero solo la qualità oppure mostrare lo stato dell’arte reale, con pregi e difetti.

Rispetto all’anno scorso, in questo Sguardi 2011 è stata più rilevante la presenza di spettacoli per ragazzi, settore che, ostinatamente, è costretto a rimanere sui palchi di retroguardia, nonostante sia il primo e importantissimo approccio che si ha con la disciplina, dovrebbe quindi essere addirittura più curato e seguito della prosa tradizionale, arte comunque non considerata di primo piano ma non proprio reietta. All’interno di questa categoria segnaliamo con convinzione ed entusiasmo la nuova produzione di Tam Teatro Musica “Picablo”, modernissimo esempio di teatro “multimediale”, come si usa dire, e perfetto esempio di coincidenza tra forma e contenuto. Un’avventura estetica dentro l’arte di Pablo Picasso: come i suoi quadri sono destrutturazioni di immagini, assemblaggi inaspettati di elementi conosciuti, così nello spettacolo i due performer – Falvia Bussolotto e Alessandro Martinello –  si muovono in maniera continuamente nuova tra videoproiezioni di opere celebri (l’Arlecchino, il bambino con la palla, la colomba, fino a Guernica), su piani diversi per dimensione e profondità le immagini sono ritagliate e rimpicciolite o allargate fino a coprire l’intero sfondo. Pannelli di varie dimensioni accolgono le proiezioni con le quali i due interpreti interagiscono fino a sovrapporsi. Tutto ciò con un computer e una stazione Wii elaborata che permette di trascinare i personaggi e gli elementi dei quadri sul grande schermo con un solo gesto nell’aria. Finalmente un modo non accademico di mostrare l’arte e di entrarci dentro.

Dall’arte in senso stretto, di cui Venezia è casa per eccellenza, ancor più in questi mesi di Biennale, passiamo all’arte del raccontare e dell’inventare: Gigio Brunello ha portato al festival “Vite senza fine. Storie operaie di fine Novecento”, un eccezionale gioiello di teatro di figura in cui l’autore muove a vista le sue belle statuine, personaggi che diventano veri come persone, grazie all’abilità sincera del racconto. Una lunga tavola da sagra di paese rappresenta un quartiere operaio di Mestre. Ci sono la chiesa, le case, il filare di pioppi, il cinema all’aperto fatto muovendo le dita davanti ad un piccolo riflettorino, l’elettricista, il fattorino, l’architetto, l’ingegnere, il parroco… come in un bel libro di Guareschi o in un bel film sulla vita popolare di un passato caldo e pieno di umanità. Brunello muove le sue statuine raccontandocene il carattere, anima l’intero paese di storie che costruisce grazie alla meccanica, fulcro sia del contenuto (c’è un mulino i cui ingranaggi stentano a funzionare, una radio da riparare, un senaforo che non lavora…) sia della forma: carrucole, botole fili e pompette sono i trucchi che realizzano, per esempio, il “progetto per far piangere il santo patrono”. Un bellissimo mondo, questo.

In laguna sono approdati anche i Babilonia, ritenuti enfants maudits della scena italiana, con The end, buon testo sulla morte e sulla malattia, sempre infarcito di volgarità che ormai non scandalizzano più nessuno, ma comunque forte. Segnaliamo poi la sorpresa di Barabao Teatro, giovane compagnia alle prese con la mitologia, Aspettando Ercole è uno spettacolo riuscito, un vivace quartetto che usa bene maschere molto belle e sa passare dal registro comico a quello poetico.

Bello sguardo, da rendere ancora più acuto.

Occupiamoci del Teatro Valle

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Ci ha inghiottito un leviatano!

ELENA SCOLARI| Sabato 21 Maggio al Teatro degli Arcimboldi di Milano ha attraccato per qualche ora la nave di Vinicio Capossela in tour per l’uscita del nuovo album “Marinai, profeti e balene”.

Il sipario del Teatro degli Arcimboldi ondeggia furiosamente come ad annunciare tempesta, si apre su un enorme scheletro di balena che contiene tutta la band. Solo un piccolo faro bianco illumina come una candela l’interno del gigante, e siamo tutti inghiottiti dal grande leviatano!

Comincia così il sontuoso concerto “marino” di Vinicio Capossela, in tour per l’uscita del nuovo album doppio Marinai profeti e balene. Un concerto molto generoso (due ore e mezza abbondanti), in cui il cantautore offre quasi tutte le canzoni del disco più alcuni bis storici come Scivola vai via e un nuovo arrangiamento di Che coss’è l’amor cantata con le Sorelle Marinetti, ascoltiamo anche una versione italiana di The ship comes in di Bob Dylan.

Questo album è ampiamente ispirato al Moby Dick e ad altri personaggi dei romanzi di Melville, a cominciare da Billy Bud e Lord Jim, singoli già molto trasmessi in radio. L’atmosfera ci trasporta da subito a bordo della nave sulla quale viaggiano i musicisti, alcuni attori comparsa e Capossela stesso, tutti vestiti in uniforme marinara (costumi firmati dallo stilista Antonio Marras).

Il pianoforte ha una gamba a forma d’osso, c’è una piccola prua che nasconde un pianoforte e un’asta per il microfono a forma di arpione, tutto ci riporta ad una band/ciurma che naviga tra avventure sonore profonde come gli abissi del mare e ironiche come la sua schiuma.

I concerti di Capossela non sono più intimi come agli inizi quando gli spettatori per Vinicio erano pochi e sul palco non c’era niente, ora questo anomalo rappresentante della canzone d’autore italiana, nato ad Hannover, dall’anima un po’ zingara e molto stralunata, si può permettere allestimenti faraonici in teatri giganteschi ma che non perdono mai la poesia, sostanza delle sue canzoni.

I riferimenti letterari non si limitano a Melville, ma passano anche per Céline, in particolare da “Scandalo negli abissi” che ispira il brano Printyl, sirena maliziosa. Marinai e balene riempiono la prima parte dell’esibizione, nella seconda incontriamo i profeti: il pezzo più significativo è senz’altro Job, ispirata al Libro di Job di Ceronetti.

L’atmosfera varia continuamente da situazioni tempestose e terribili con gomene agitate sul fondo del palco – e qui Capossela si toglie anche lo sfizio di recitare: una coinvolgente invettiva contro la balena bianca, ossessione del Capitano Achab chiude I fuochi fatui– a momenti di spumeggiante ironia come Polpo d’amor o Calipso oppure di malinconica poesia con  La madonna delle conchiglie.

Molte delle canzoni hanno un testo che va ascoltato con attenzione, l’esecuzione dal vivo non sempre lo permette e questo appesantisce un po’ lo spettacolo, ma il pubblico è ripagato di questa difficoltà dall’irruzione travolgente dei successi di sempre che ricordano quanti anni sono passati da quel sorprendente primo album All’una e trentacinque circa

Tutti i musicisti sono pregevoli, citiamo alcuni importanti solisti jazz come Achille Succi, Ares Tavolazzi, Mauro Ottolini. In questo concerto si suona di tutto: dalle seghe alle pentole alle conchiglie al theremin, catene, bicchieri, oltre ad una ricca gamma degli strumenti tradizionali, l’equipaggio della band rende questo mix armonioso e fa venir voglia di ballare al ritmo di queste onde.

Ognuno di noi ha la sua balena bianca da inseguire e lo facciamo volentieri accompagnati dal canto della sirena Capossela.

Serena Sinigaglia e il teatro nazionalpopolare

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Orare et sonare

ELENA SCOLARI| L’ultima volta che vidi mio padre è un dramma musicale animato – soggetto, sceneggiatura e regia di Chiara Guidi. Una messa sonora per un padre perso e rincorso nell’ultimo lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio.

Capita di andare a teatro bendisposti ma anche guardinghi, capita quando si sceglie di vedere uno spettacolo di una compagnia cui sei affezionato da tempo e di cui hai visto alcuni capolavori. C’è la curiosità, l’aspettativa e anche il timore di rimanere delusi. Come quando vuoi molto bene a qualcuno e speri di poter andare sempre orgoglioso di quello che fa nella vita.

Questa era la situazione di qualche sera fa, mentre mi accingevo ad assistere a L’ultima volta che vidi mio padre,  recente produzione della “trasgressiva” Socìetas Raffaello Sanzio, compagnia cesenate fondata nel 1981 da Romeo Castellucci e diventata nota su larga scala a metà degli anni ’90. Alcuni degli spettacoli simbolo di questo gruppo (Buchettino, Orestea, Giulio Cesare, Viaggio al termine della notte) avevano squarciato un velo di uniformità impiegatizia nel teatro italiano e non, grazie ad una forza immaginifica e violenta e raffinatissima che colpiva cuore e mente.

Negli anni si sono sempre più distinti gli interessi e i talenti dei componenti la compagnia, Chiara Guidi ha sempre curato l’aspetto sonoro degli spettacoli, e in questo “dramma musicale animato” mette una summa della sua ricerca.

E’ un genere di teatro nel quale lo spettatore impiega un po’ ad entrare. A nostro parere bisogna rinunciare a capire razionalmente ogni gesto e ogni azione sulla scena e costruire un percorso personale all’interno dello spettacolo. Questa scelta permette di dare una lettura emotiva ma sensata di ciò cui si assiste: noi abbiamo visto (e soprattutto sentito) una messa visiva e sonora, officiata da tre figure femminili/figlie di bianco vestite, in onore di un padre amato e ormai lontano.

La scena potrebbe essere l’interno di una chiesa, le attrici (Sara Masotti, Alessia Malusà, Federica Rocchi e la stessa Chiara Guidi) si trovano ad un alto altare/bancone da lavoro e compiono una serie di operazioni “rumorose”: martellano, picchiettano, spacchettano, fanno rotolare cose, accartocciano, battono, sfregano, spostano… tutti i suoni di queste azioni si fondono in una specie di musica, poi entrano due strumenti veri ad accompagnare, un violoncello e un clavicembalo suonati dal vivo.

Le tre donne protagoniste, triplice moltiplicazione della figura di figlia, si rimbalzano le poche battute del testo, si fanno eco l’una all’altra e creano un altro piano sonoro con le loro voci, che si muovono nello spazio: da una balaustra, sotto il bancone, su una scala. Dalle vetrate colorate di una cattedrale accennata esce poi un coro di bambini, a sottofondo del tutto, come tanti figli di quel padre chiamato e richiamato ma assente.

Pieni di struggente malinconia, quindi bellissimi, i disegni animati in bianco e nero di Magda Guidi, Sergio Gutierrez e Andrea Petrucci, su uno schermo che fa il controcanto d’immagine a questo concerto di famiglia.

Non importa se non ci è sembrato tutto intelligibile, al di là di una certa propensione a prendersi forse un po’ troppo sul serio, il risultato della Guidi è bello. Il sentimento della malinconia è tra i più affascinanti, e ritrovarlo in tanta high tech sonora non era facile.

Terra Santa, parole laiche

ELENA SCOLARI| Un quadro brechtiano delle terre occupate in medio oriente. Coproduzione La Danza Immobile e Skene’ Company. Testo di Mohamed Kacimi, regia Corrado Accordino, al teatro Binario 7 di Monza

“Tu hai capito perché Nastassjia Filippovna butta i centomila rubli nel camino?”. Con questa battuta dostoevskjiana il bellissimo personaggio di Yad fa il suo ingresso verbale nella scena casalinga che è ricostruita sul palco. Siamo in una qualsiasi città del medio oriente, nei territori occupati, forse a Gaza. Due famiglie vivono in appartamenti attigui, con porte solo accennate da infissi vuoti, vuoti e fragili come il non-senso delle divisioni tra persone, intravediamo un rimando a Dogville di Lars Von Trier e al modo brechtiano di creare spazi dialettici in continuo dialogo teatrale.

Alia (Claudia Negrin), levatrice, e Yad (Alberto Astorri),  uomo disilluso e alcolico per mestiere (che ci ricorda molto il carattere del Barney Panovski di Mordecai Richler), vivono col giovane figlio Amin (Francesco Meola), nelle stanze di fronte c’è Imen (Silvia Pernarella), ragazza rimasta sola col gatto Gesù, dopo la sparizione della madre Carmen ad un posto di blocco, è in attesa che il fidanzato esca di prigione per sposarlo. In queste case irrompe sgraziato il soldato Ian (Michele Bottini), l’occupante che non capisce più il senso dell’occupare, un militare che soffre di solitudine e ascolta Stravinskij.

Il testo dell’algerino Kacimi procede con obiettività, ci fa conoscere profondamente i personaggi, vediamo il tempo quotidiano che vivono in questa situazione eternamente sospesa, l’ottima interpretazione degli attori ce li rende senza retorica: vediamo Yad annegare la sua delusione nell’alcool del liquore d’araq, la moglie Alia lamentarsi delle calze di nylon bucate dagli anni, il figlio Amin, inizialmente dolce e timido, sviluppare un odio feroce verso i soldati, e la giovane Imen, vagamente preoccupata per la linea ma già molto disincantata di fronte alle promesse dell’Islam (aveva già dei problemi con Cappuccetto rosso, figuriamoci con la storia delle settanta vergini dopo la morte).

La regia di Accordino è cinematografica, scene asciutte e al servizio del testo, quasi già una sceneggiatura, che restituisce il senso dell’ironia improvvisa delle parole di Kacimi, ironia che balena tra la polvere della sabbia e la tragedia dei bombardamenti.

Tutto il cast è equilibrato ma dobbiamo sottolineare la prova davvero fantastica di Alberto Astorri che dona a Yad un grado perfetto di sciatteria, cinismo, humour, rabbia e disillusione. Questi sentimenti sono in varia misura comuni anche agli altri personaggi, soldato Ian compreso, nelle loro conversazioni c’è il disprezzo per la costruzione di martiri ed eroi – “Non se ne può più di eroi” – il dissacrante laicismo  – “Un Dio che si mette a proibire l’alcol non è un buon Dio: è un rompicoglioni” – il rancore verso chi toglie il futuro e l’amore, la paura davanti alle case distrutte a pochi metri e una strana forma di abitudine atterrita davanti alla morte e alla violenza, che sono dappertutto.

La parabola di Amin lo conduce a lasciarsi sopraffare dall’odio fino ad uccidere con ottuso orgoglio un soldato, prodezza che gli frutterà un tragico epilogo, il momento più alto dello spettacolo, in cui si giocherà la vita a poker col padre Yad.

L’idea forte di questo spettacolo, e del testo di Kacimi, è mostrare l’interno di un mondo al di fuori del quale sta succedendo l’inferno, del quale tutti in occidente ci permettiamo di parlare, ma che non possiamo conoscere nell’intimità di una casa. Terra Santa ci fa entrare, laicamente, e ci fa capire.

La terra è santa ma le parole di chi la abita sono diventate laiche. E un po’ profane.

L'inquisitore mancato

ELENA SCOLARI| Storia della colonna infame è un progetto ispirato da Sisto Dalla Palma con Silvio Castiglioni ed Emanuela Villagrossi, regia di Giovanni Guerrieri, produzione CRT Teatro, in scena al Salone fino al 15 maggio.
Una scena piena di oggetti, un vecchio salotto con divani, tappeti, mucchi di carabattole impolverate, una lavagna , un libro sventolato da un ventilatore. E un belato in lontananza.
In questo soggiorno ascoltiamo la storia del barbiere milanese Giangiacomo Mora, che nel 1630 viene ingiustamente accusato di essere un untore di peste, sulla base di una vaga  dichiarazione della donnetta Caterina Rosa che dice di averlo visto pulirsi le mani da un unguento ritenuto mortifero sulla muraglia di via della Vetra a Milano, il malcapitato viene arrestato e poi torturato per estorcergli una confessione: c’è bisogno di un colpevole, il popolo lo pretende. Mentre il terribile contagio dilaga in città, il Mora sotto processo è costretto a coinvolgere altri innocenti, per rendere verisimile una verità inventata. E che lo porterà alla morte, epilogo tagliato in questa rielaborazione del testo. Viene taciuto anche che una colonna, detta appunto infame, era stata eretta in Via G.G. Mora a Milano a memoria di questa vergogna e poi distrutta.
Nello spettacolo questa lacerante e crudele vicenda giudiziaria viene indebolita: la potenza intrinseca ai fatti, e le parole, cariche di una spinta emotiva commovente che può perfino mettere a  disagio lo spettatore, sono impoverite da una scelta di recitazione piana e molto distaccata.
Un bravo attore come Castiglioni e una degna compagna (Emanuela Villagrossi) sono penalizzati da un’idea registica che, a nostro parere, non è funzionale ne’ ad esaltare le loro qualità interpretative ne’ a valorizzare un gioiello di modernità per stile e argomento – ahinoi attualissimo-  come sono gli atti del processo della Storia della colonna infame.
C’è un’azione scenica fortemente simbolica: la costruzione di una pila fatta di tanti piani di bicchieri di cristallo, interpretabile come colonna o forse come fragile castello accusatorio. Entrambe le ipotesi ci sembrano però troppo “aggraziate” rispetto alla storia di profonda ingiustizia che ci viene raccontata.
Il coup de théâtre finale è lo svelamento del mistero sonoro del belato: dietro un velo compaiono nel retropalco due pecore vive. “L’irruzione in scena della vita reale: le pecore belano in maniera imprevedibile durante lo spettacolo”, secondo la scheda di presentazione. Mah. Fossero state capre avremmo potuto pensare al capro espiatorio, questa incursione ovina ci è sembrata piuttosto inopinata, nonostante il campagnolo effetto sopresa.
Veniamo poi a sapere, parlando con la compagnia, che tutti gli oggetti presenti in scena erano di proprietà di Sisto Dalla Palma (direttore del CRT fino alla sua recente scomparsa), ispiratore di questo progetto manzoniano e grande accumulatore in vita, ci spiegano che come lui salvava le cose così il regista Guerrieri intende salvare le parole e per questo le fa dire in modo sussurrato, ma siamo sicuri che per salvare la denuncia di una colpa grave, della tortura, della giustizia sommaria di inquisitori diabolici e superficiali questa vada sussurrata?
E’ difficile che lo spettatore possa capire questi rimandi personalissimi, il senso dello spettacolo rimane celato in elementi segreti e privati.
Abbiamo apprezzato l’idea di concludere con un aggancio ai Promessi sposi, in una delle prime versioni del romanzo La colonna infame ne era un capitolo, i due personaggi diventano infatti Renzo e Lucia, dopo i fatti narrati.
Ci sembra che l’intento di Manzoni non sia stato rispettato. A voi la sentenza.

Teatro delle Apparizioni: Fabrizio Pallara, Dario Garofalo, Valerio Malorni, Paola Calogero

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento