ELENA SCOLARI| Un quadro brechtiano delle terre occupate in medio oriente. Coproduzione La Danza Immobile e Skene’ Company. Testo di Mohamed Kacimi, regia Corrado Accordino, al teatro Binario 7 di Monza
“Tu hai capito perché Nastassjia Filippovna butta i centomila rubli nel camino?”. Con questa battuta dostoevskjiana il bellissimo personaggio di Yad fa il suo ingresso verbale nella scena casalinga che è ricostruita sul palco. Siamo in una qualsiasi città del medio oriente, nei territori occupati, forse a Gaza. Due famiglie vivono in appartamenti attigui, con porte solo accennate da infissi vuoti, vuoti e fragili come il non-senso delle divisioni tra persone, intravediamo un rimando a Dogville di Lars Von Trier e al modo brechtiano di creare spazi dialettici in continuo dialogo teatrale.
Alia (Claudia Negrin), levatrice, e Yad (Alberto Astorri), uomo disilluso e alcolico per mestiere (che ci ricorda molto il carattere del Barney Panovski di Mordecai Richler), vivono col giovane figlio Amin (Francesco Meola), nelle stanze di fronte c’è Imen (Silvia Pernarella), ragazza rimasta sola col gatto Gesù, dopo la sparizione della madre Carmen ad un posto di blocco, è in attesa che il fidanzato esca di prigione per sposarlo. In queste case irrompe sgraziato il soldato Ian (Michele Bottini), l’occupante che non capisce più il senso dell’occupare, un militare che soffre di solitudine e ascolta Stravinskij.
Il testo dell’algerino Kacimi procede con obiettività, ci fa conoscere profondamente i personaggi, vediamo il tempo quotidiano che vivono in questa situazione eternamente sospesa, l’ottima interpretazione degli attori ce li rende senza retorica: vediamo Yad annegare la sua delusione nell’alcool del liquore d’araq, la moglie Alia lamentarsi delle calze di nylon bucate dagli anni, il figlio Amin, inizialmente dolce e timido, sviluppare un odio feroce verso i soldati, e la giovane Imen, vagamente preoccupata per la linea ma già molto disincantata di fronte alle promesse dell’Islam (aveva già dei problemi con Cappuccetto rosso, figuriamoci con la storia delle settanta vergini dopo la morte).
La regia di Accordino è cinematografica, scene asciutte e al servizio del testo, quasi già una sceneggiatura, che restituisce il senso dell’ironia improvvisa delle parole di Kacimi, ironia che balena tra la polvere della sabbia e la tragedia dei bombardamenti.
Tutto il cast è equilibrato ma dobbiamo sottolineare la prova davvero fantastica di Alberto Astorri che dona a Yad un grado perfetto di sciatteria, cinismo, humour, rabbia e disillusione. Questi sentimenti sono in varia misura comuni anche agli altri personaggi, soldato Ian compreso, nelle loro conversazioni c’è il disprezzo per la costruzione di martiri ed eroi – “Non se ne può più di eroi” – il dissacrante laicismo – “Un Dio che si mette a proibire l’alcol non è un buon Dio: è un rompicoglioni” – il rancore verso chi toglie il futuro e l’amore, la paura davanti alle case distrutte a pochi metri e una strana forma di abitudine atterrita davanti alla morte e alla violenza, che sono dappertutto.
La parabola di Amin lo conduce a lasciarsi sopraffare dall’odio fino ad uccidere con ottuso orgoglio un soldato, prodezza che gli frutterà un tragico epilogo, il momento più alto dello spettacolo, in cui si giocherà la vita a poker col padre Yad.
L’idea forte di questo spettacolo, e del testo di Kacimi, è mostrare l’interno di un mondo al di fuori del quale sta succedendo l’inferno, del quale tutti in occidente ci permettiamo di parlare, ma che non possiamo conoscere nell’intimità di una casa. Terra Santa ci fa entrare, laicamente, e ci fa capire.
La terra è santa ma le parole di chi la abita sono diventate laiche. E un po’ profane.