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giovedì, Novembre 14, 2024
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Taoismo. L'’antica via cinese per l'armonia

La_voie_du_TaoMARIA CRISTINA SERRA | Ultimi giorni al Grand Palais di Parigi per una mostra ispirata ai principi del Tao. Oltre 250 opere, pannelli dipinti su seta e su pergamena, manoscritti, sculture per un percorso che ammalia i sensi
Una sensazione impalpabile di calma e di lievità accompagna i visitatori nel Grand Palais, a Parigi, mentre intraprendono l’affascinante viaggio “iniziatico” attraverso i principi filosofici, religiosi, artistici, pragmatici e anche superstiziosi di una Cina che si perde nella notte dei tempi, per arrivare fino ai giorni nostri con gli eterni quesiti universali dell’armonia dell’uomo con l’universo. E’ questo il senso della mostra “La via del TAO e una diversa strada dell’Essere”.
Oltre 250 opere, pannelli dipinti su seta e su pergamena, manoscritti, sculture in legno, in giada e onice, porcellane e bronzi, stampe ed acquerelli, suddivisi in maniera tematica, per offrire una rilettura inedita dell’arte cinese e della sua rappresentazione estetica e spirituale.

Benvenuti così nel “regno del TAO”, la “via” che tende a riunificare l’essenza interiore e primaria dell’uomo con l’universo!

Una dolce melodia taoista fa da sottofondo tra le sale e favorisce la concentrazione per chi voglia scoprire i tanti aspetti complessi, attraverso la lunga strada della meditazione e dell’armonia con la natura, per raggiungere la “quiete del DAO” (in cinese moderno la T è diventata D). Il percorso si snoda così tra la cosmologia e l’ordinamento dell’universo, l’evocazione di Laozi il “saggio” (il fondatore della dottrina, cinque secoli prima di Cristo), il Pantheon degli Dei taoisti, la quiete della “Lunga vita” e, infine, i riti e le liturgie, che comprendono anche i talismani e gli amuleti propiziatori. Sì, perché il Taoismo è una disciplina interiore dai profondi insegnamenti filosofici trascendentali, ma è anche una religione di massa, “popolare”, che sconfina spesso con la superstizione e il “panteismo”, propiziatorio per qualsiasi attività terrena!

La celebre metafora usata dal filosofo Zhuang-tzi, che, sognando di essere una farfalla svolazzante, al risveglio rimane confuso per giorni, accorgendosi di essere Zhuang-tzi, ma non capacitandosi più se era realmente una farfalla che sognava di essere il filosofo, oppure viceversa, spiega con estrema raffinatezza il mistero della vita e della sottile linea che spesso divide il sogno dalla realtà, l’apparenza dall’essere.

“Fai in modo che fra te stesso e il mondo non ci siano dislivelli; che non sia il mondo grande e tu piccolo o viceversa; vigila che la realizzazione della tua persona non si misuri sulle ovvietà della tua mente; non lasciarti intrappolare da come il mondo si mostra; resta te stesso”. Questi gli insegnamenti di base del leggendario Laozi, “il Vecchio Maestro” ( o anche “Anziano bambino”, per alludere alla naturale armonia e spontaneità, che solo i saggi sanno mantenere), nato tra il IV e il V secolo a.C., contemporaneo di Budda e Confucio, e secondo la tradizione uno dei fondatori del Taoismo, autore del testo fondamentale “la Via e della Virtù” (il Tao te Ching).

La “Bibbia” dei taoisti raccoglie il pensiero della “mutevolezza perpetua”, dell’Essere e del Non-Essere, l’alternanza tra chiaro e scuro, tra vuoto e pieno, il flusso della vita e della morte, senza inizio né fine, offrendo infinite possibilità per l’armonia dell’uomo.

Laozi, l’archivista, scrivano di corte divenuto Venerabile Celeste, nella mostra al Grand Palais èraffigurato nelle molteplici versioni ed episodi emblematici della sua lunga vita: su pannelli, dipinti, disegni, decori di porcellane finissime o su statuine di giada. A catturare l’attenzione con la sua intensa carica espressiva è il piccolo bronzo dorato, alto appena 14 centimetri, risalente alla dinastia Ming, che rappresenta Laozi accovacciato su se stesso, la testa calva inclinata su un ginocchio.

Un bellissimo vaso tondeggiante di porcellana, che grazie alle particolari nuances imita il bronzo (epoca Qianlang), decorato con il simbolo dello Yin e Yiang, ovvero i semi di ciascun opposto, come il bianco e il nero che si fondono tra loro circolarmente, è l’emblema del perenne dualismo delle cose e della compenetrazione delle diversità, che invece di adattarsi a un compromesso, tendono ad un equilibrio superiore e complementare, secondo i canoni del TAO.

“La Quiete dei semplici della montagna” è un bassorilievo di piccole dimensioni in giada, dalle incredibili trasparenze. Quasi a simboleggiare che la leggerezza della materia stessa possa alludere alla spiritualità. La montagna, con le sue vette proiettate fra terra e cielo, è un luogo privilegiato per raggiungere un ideale armonico: fonte di ispirazione infinita per poeti ed artisti. La montagna, simbolo ricorrente, con le sue cime inaccessibili, che fanno da ponte verso le stelle, dove siedono gli Dei e dove regna anche l’armonia del cosmo, che tutto regola, anche i destini dell’uomo, che l’astrologia taoista può svelare. La montagna luogo dell’anima, dove il maestro taoista si ritira nell’antro più oscuro delle caverne, è anche l’elemento ricorrente in molte delle opere presenti nell’esposizione parigina (incantevole il minuscolo bassorilievo di giada, che riproduce l’eremita taoista nella caverna mentre osserva il fungo dell’immortalità), così come in molti simboli propiziatori, utilizzati per chiedere longevità o una salute sempre sana. Notevoli sono le raffigurazioni di funghi, frutti (specialmente la pesca) in corniola, giada, tormalina e onice, a sottolineare così l’importanza di una sinergia tra il mondo animato e non, tra il “soffio vitale” della natura “vivente” e l’arcano misteriosofico, magico, imprigionato nei minerali: perché per il TAO l’energia vitale è fondata dalla materia stessa.

L’individuo, la società e la natura devono vivere in sinergia fra loro, per garantirsi la sopravvivenza. Un concetto fondamentale, valido ieri e ancora oggi di drammatica attualità!

La mostra “La via del TAO” termina il 5 luglio e la maggior parte delle opere che sono esposte al Grand Palais tornerà nelle rispettive sedi parigine, come il museo delle Arti orientali Guimet. Chi volesse ripercorrere nuovamente questo viaggio nello spirito e nelle arti, sospeso tra alchimie misteriose e ricerca di una quiete agognata, potrà farlo anche in seguito. Un’occasione in più per conoscere l’identità profonda di quel popolo che si autodefinì “Terra di Mezzo”, ma anche “Centro del Pianeta”, per le sue straordinarie capacità nel commercio e nell’inventiva, nella ricerca più ardita e nel pragmatismo più esasperato.

Le mille contraddizioni del “Pianeta Cina”, insomma, sembrerebbero proprio avverare il messaggio profetico del Taoismo: solo in armonia con la natura, l’uomo può vivere saggiamente, altrimenti prevale il caos. Nella Cina di oggi, pur non osteggiando come una volta il Taoismo, la logica aberrante del profitto sta invece distruggendola dignità umana e inquinando la natura della “Terra di Mezzo.

“Se il cielo non avesse ciò per cui è chiaro, temerei che si lacerasse. Se la terra non avesse ciò per cui è tranquilla, temerei che si sollevasse”, ammoniva saggiamente il TAO TE CHING alcuni millenni fa!
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Delitto e castigo

crime-chatiment-goya-picasso-musee-dorsay-cri-L-1MARIA CRISTINA SERRA | Allestita al Museo d’Orsay, a Parigi, fino al 27 giugno, una bellissima e, per certi versi, inquietante mostra “Crime et chatiment”, che indaga con profondità artistica e scientifica la tematica del “fascino” e dell’ambiguità del male.

“Vi sono uomini che non hanno mai ucciso, eppure sono mille volte più cattivi di chi ha assassinato sei persone. Non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo”. Scriveva così alla fine dell’Ottocento Fiodor Dostojevski, il grande narratore russo delle più intense pulsioni dell’animo umano, autore de “I Demoni”, “I fratelli Karamazov” e “Delitto e castigo”.

Proprio mutuando il titolo del romanzo, pubblicato nel 1866 (il viaggio nella coscienza dello studente Roskalnikov, assassino per realizzare un “fine superiore” che lo porterà poi alla consapevolezza, ma non al pentimento, del suo inutile delitto), è stata allestita al Museo d’Orsay, a Parigi, fino al 27 giugno, una bellissima e , per certi versi, inquietante mostra “Crime et chatiment”, che indaga con profondità artistica e scientifica la tematica del “fascino” e dell’ambiguità del male.
“Ogni uomo nasconde in sé un Demone”, sosteneva ancora Dostojevski, per il quale il “Male” rappresentava il filo rosso della vicenda umana: il dolore, il peccato, le colpe, il delitto e il castigo, definivano per lui il carattere tragico dell’esistenza, fino a spingersi a sostenere la possibilità per l’uomo di rifiutare il bene e di scegliere il male, come estremo presupposto alla libertà.

Il fascino che il crimine ha esercitato sull’arte è il tema suggestivo scelto da Jean Clair, famoso critico e accademico di Francia (ideatore di mostre che hanno fatto epoca, come quella del 2005 al Grand Palais sulla “Malinconia, genio e follia nell’Occidente”), con un originalissimo approccio che coniuga armonicamente arte, letteratura e filosofia a questo concetto che dalla notte dei tempi è legato al destino degli uomini.
“E’ la fascinazione esercitata dal Male, dallo spettacolo della sofferenza, ad essere di per sé ambigua”, sostiene J. Clair, spiegando come “spesso l’artista ha rappresentato il criminale non tanto come l’esecutore di sordide motivazioni, perché c’è un’estetica del delitto che comporta una certa dose di genialità artistica: Quello che abbiamo voluto studiare qui è il crimine individuale, il rapporto tutto particolare che due persone, assassino e vittima, istaurano, l’uno contro l’altro. E non ci poniamo il problema di ciò che è giusto e ciò che non lo è, piuttosto ci interroghiamo, come ha fatto Victor Hugo, sui limiti della giustizia, della responsabilità e dell’irresponsabilità. Fino a che punto un uomo che uccide un altro uomo è colpevole”. A ispirare la mostra sono state inoltre le riflessioni sul significato del crimine, al di là della definizione legale, e sul valore delle pene inflitte, condivise con Robert Badinter (studioso ed esperto di diritto,ministro della Giustizia del governo Mitterrand), che nel 1981 con il suo impegno decennale ottenne l’abolizione della pena capitale. Solo fino al giugno del 1939 la ghigliottina operò in pubblico. In seguito allo “scandalo dei fazzoletti”, dopo la decapitazione di un tale Weidman, “protettore” di prostitute, che richiamò molte donne, le quali inzupparono i loro fazzoletti con il suo sangue, la “Veuve” continuò a decapitare solo nelle anguste mura dei penitenziari.

Per quasi due secoli, come un fantasma collettivo, la ghigliottina aveva angosciato gli animi più sensibili e la stessa opinione pubblica, probabilmente per quella testa tagliata di netto, cui seguivano per alcuni lunghi secondi dei movimenti inconsulti nel resto del corpo del condannato, come raccontavano testimoni e grandi romanzieri a suo tempo. E comunque, già nel lontano 1791, proprio mentre entrava in “azione” la ghigliottina, si alzò la voce contraria e solitaria di un nobile, rivoluzionario, il marchese di Saint Fargeau Louis-Michel le Peletier.

Gli interrogativi da cui sono partiti gli organizzatori della mostra sono: “perché l’uomo uccide l’uomo?” e come indagare “il doppio mistero dell’uomo criminale e della società punitiva?”.
L’esposizione si sviluppa in sette complesse sezioni, che attraverso 470 opere (dipinti, disegni, stampe, strumenti di pena, illustrazioni, fotografie e opere letterarie) indagano il tema del delitto e delle sanzioni giudiziarie che ne conseguono.
Il periodo storico su cui la mostra concentra la sua attenzione è quello compreso tra la Rivoluzione francese e la storica abolizione della pena di morte nel 1981. Tre sono i percorsi tematici attraverso cui l’esposizione sviluppa le sue sezioni: quello mitologico-immaginifico, quello naturalista-scientifico e, infine, quello sociologico. Ad introdurre il percorso dell’esposizione e ad accogliere i visitatori appare come nell’ombra, velata da un leggero drappo nero, un esemplare di ghigliottina del 1872, la “Veuve”, la “vedova” come i francesi familiarmente l’avevano soprannominata, o anche il “Rasoir national”, il “rasoio nazionale”: strumento di morte ritenuto “egualitario e umanizzato”, come decretò il nuovo codice penale del 1791, che pose sullo stesso piano i condannati nobili e quelli plebei, ai quali in passato era riservato spesso una morte sotto tortura. “Non più la morte artigianale, ma quella in serie”, spiega J. Clair, “la testa tagliata che dovrebbe essere solo una cosa morta dentro un paniere, diventa un oggetto di meditazione, di fascino e di manipolazione, che influenza profondamente tutta la letteratura del XIX secolo da Edgar A. Poe a Victor Hugo a Charles Nadier”.
Si è calcolato che nei due secoli durante i quali fu operativa, la ghigliottina ha tranciato di netto oltre 90 mila teste!

“Ci siamo interrogati se era opportuno esporla”, racconta J. Clair, ” ci siamo accorti che la ghigliottina è stata una vera ossessione nel periodo storico che la mostra racconta e che ha affascinato artisti e scrittori in un crescendo di interesse. L’esperienza quotidiana dei parigini che, a partire dal 1791 fino al termine del “Terrore”, vedono migliaia e migliaia di loro concittadini andare alla ghigliottina è una realtà atroce, del tutto diversa dai grandi supplizi barocchi, destinati ad alimentare varie correnti di immaginazioni. Per gli artisti, questa esperienza rappresenterà la possibilità di anatomizzare il corpo come non mai prima. David, Gèricault, Delacroix, prendono conoscenza diretta di cosa sia un corpo tagliato a pezzi.
La tematica della testa tagliata connoterà tutto l’Ottocento, dal Romanticismo alla fine del Simbolismo. E, pur essendo una tematica di ispirazione verista, determinerà la rinascita della grande tradizione artistica del passato”.

Nelle prime sale, che si aprono con l’interrogativo “Punire o perdonare?”, campeggia il grande olio su tela, dipinto da Pierre Paul Prud’hon, “La Giustizia e la Vendetta divina perseguitano il crimine”, un’opera destinata nel 1808 ad essere esposta presso la Corte criminale del Palazzo di giustizia di Parigi (oggi si trova al Museo Getty Center di Los Angeles!): con una tecnica pittorica alla Rubens e al Correggio, cui questo pittore “rivoluzionario”, amato da Napoleone, s’ispirava, viene descritto un omicidio e la fuga dell’assassino, inseguito con forte determinazione dalla Vedetta divina munita di una torcia per illuminare nel cammino della punizione l ‘altro angelo , la giustizia, che brandisce una spada. Qui ancora impera la filosofia della punizione come diretta emanazione del “diritto divino”!
Una frase di C. Baudelaire, “Stirpe di Caino”, fa da cornice ideale ai dipinti di Alexandre Folgaie, “Caino porta il corpo di Abele all’angelo dei ferro” di Gustave Moreau e il “Caino e Hitler all’inferno” di Georges Grosz; dipinto nel 1944 : ” Stirpe di Caino, cuore che brucia, stai attento a questo grande appetito”.
Quello di Grosz è l’unica concessione della mostra ad un crimine di massa, solo perché simbolicamente questo quadro sembra evocare l’orrore e la sintesi di tutti i crimini peggiori dell’umanità: il parricidio, l’infanticidio e il fratricidio.
La seconda sala è dedicata alla “morte egualitaria”, e si apre con il quadro “la testa tagliata” di Antonio Wiartz.
E’ un vero trionfo di teste mozzate e di corpi martoriati. Su di una parete, a fare da contraltare, campeggia una frase di V. Hugo: “Si può avere una certa indifferenza sulla pena di morte, anche non pronunciarsi, dire sì o no, tutto questo fino a quando non si è visto con i propri occhi una ghigliottina”. Per Hugo, e siamo ancora nella prima metà dell’Ottocento: “La pena di morte è il simbolo unico ed eterno della barbarie. E’ un crimine permanente. E’ il più insolente oltraggio alla dignità umana e alla civiltà e al progresso. Tutte le volte che s’innalza un patibolo, noi riceviamo uno schiaffo morale”. Il grande romanziere, autore di capolavori come “I miserabili” e “Notre Dame de Paris”, si interrogava ai suoi tempi se “il diritto è tale perché ha forza di per sé o è la forza che fa il diritto?”.
La visione delle macabre “Teste tagliate” di Antoine Joseph Wiartz, pittore belga che non lasciava mai sottintesi i particolari più cruenti dei suoi soggetti anche quando dipingeva scene di ordinaria follia e sofferenza, è l’inquietante risposta ai dubbi di Hugo e alla tesi dell’inviolabilità della vita. Più in là campeggia un’altra tela significativa: “la testa di Giuseppe Fiaschi”, condannato per tentato regicidio, dipinta da Jacques-Raymond Brascasset.

Se le immagini delle teste decapitate nella loro crudezza appaiano quasi come delle maschere inerti, talmente feroci e insospettabili alla vista da sembrare irreali, lo “Studio di mani e piedi” di Theodore Gèricault, dipinto nel 1818, rendono realisticamente la spietatezza di un corpo dissezionato. Gèricault era un artista anticonvenzionale, morto ad appena 33 anni, grande ammiratore di Caravaggio e Michelangelo, frequentatore di obitori, per arrivare a dipingere con sublime nitidezza i particolari del corpo umano, ma anche di ospedali psichiatrici, per descrivere le sofferenze della malattia mentale e della sua ambiguità. Forse anche per questa sua capacità a riprodurre artisticamente i temi della colpa, della sofferenza e della pena, i suoi dipinti sono presenti in più parti della mostra e il famoso “Studio” è stato scelto per la locandina dell’esposizione.
Il celebre dipinto del David, “La morte di Marat” del 1793, un vero e proprio omaggio all’amico rivoluzionario ucciso per mano della 23enne “girondina” Charlotte Corday, sembra un’iconografia del Cristo innocente deposto dalla croce. Mentre qui la Corday è volutamente assente dalla scena del delitto, per rimarcare l’imponenza della figura del capo rivoluzionario e cancella re la memoria della sua assassina, in altre opere viene invece inserita proprio per fissare l’attimo storico del crimine come nei dipinti di Edward Munch del 1907, “la morte di Marat”, di Jean Joseph Weerts, “Marat assassinato” del 1880, e di Paul Baudry, “Charlotte Corday” del 1860.

L’itinerario della mostra prosegue attraverso la “pittura dei crimini romantici”. Lo splendido dipinto di Edgar Degas “le viol”, la violenza, del 1868 è un quadro emblematico di grande atmosfera e suspense: la donna riversa sulla sedia, nella penombra della camera da letto, e l’uomo appoggiato allo stipite della porta con le mani in tasca, comunicano una sensazione di imminente pericolo e di una violenza che sta per esplodere. Una vera e propria scena del crimine, seppure indiretta, è rappresentata dalla “donna strozzata” di Paul Cèzanne, 1880, in cui l’uomo uccide la sua donna afferrandole con le mani il collo e trascinandola a terra.

Più vittima che protagonista, poi, è riservata alla donna un’intera sezione dal titolo “Donne fatali”.
Nell’Ottocento, quando le donne cominciarono a rivendicare i loro diritti, molti artisti iniziarono a dipingerle come “velenose corruttrici”, abilissime nell’irretire nella loro rete sventurati, ammaliati dal loro fascino. Le assassine, poi, avevano una duplice colpa. Secondo Robert Badinter: ” facevano orrore agli uomini perché incarnavano la negazione della maternità: invece di donare la vita, infliggevano la morte”.
Un posto di rilievo l’occupa Degas, pittore più noto per le sue famose ballerine, gran frequentatore di tribunali e affascinato dalle teorie del Lombroso. Nel 1881 Degas espose la “piccola ballerina di 14 anni”, che fece scandalo all’epoca e ancora adesso, questa statua di cera, custodita in una vetrina, pone inquietanti riflessioni. La modella, Marie Van Goethen, figlia di una prostituta, tradisce tutta l’attrazione morbosa che l’artista aveva per le devianze giovanili. Il viso è trasformato dallo sguardo simile “ad una depravazione feroce”, come fu stigmatizzato all’epoca: sfrontato, i tratti quasi scimmieschi, la fronte sfuggente e la robustezza del corpo precoce, un’esaltazione della fisiognomica lombrosiana, che allude all’ereditarietà del male in questa giovanissima ballerina, già destinata a diventare anche lei prostituta come la madre.

Nelle opere che le rappresentano, le donne sembrano colpevoli di aver ucciso e anche di essere delle femmine. Comunque, soggetti di un destino già tracciato per loro. “Giuditta”, che imbraccia la spada nel quadro di Franz Von Stuck, pur evocando una grande sensualità, sembra possedere una forza maschile, e “il peccato” del 1926 che ritrae la donna serpente, è di una conturbante equivocità nella sua apparente “malvagità femminile”. La splendida “Salomè” di Gustave Moreau, 1876, che danza sinuosa, simbolo di un desiderio lussurioso, sembra di più spaventata per il tragico destino che l’attende. “Lady Macbeth sonnambula” di J.Henrich Fussli, attraverso una rappresentazione fantastica, esprime tutta la folle ambizione del personaggio shakespeariano.
Non poteva mancare la “Medusa” dai capelli di corallo e alghe di Lucien Lèvy-Dhurmer, come simbolo della malvagità eterna e mitologica!
“La vamp, la donna assassina”, spiega ancora Badinter, “è anche un tema ampiamente esplorato dagli impressionisti”. Violette Nazaires, una bella e ambiziosa ventenne di umili origini (una foto la ritrae completamente nuda in una posa provocante), il 28 agosto del 1933 uccise il padre con il Veronal e ridusse la madre in coma, perché li riteneva colpevoli di voler ostacolare il suo progetto di vivere libera e di “volersi accompagnare con uomini adulti e ricchi per salire la scala sociale”.
Nel processo Violette si discolpò dichiarandosi vittima di un incesto e, in sua difesa, si schierarono artisti come Brèton, Dalì, Ernst, Magritte, che le dedicarono poemetti e disegni, considerandola una vittima delle istituzioni repressive, sociale e religiosa. Anche le sorelle Lea e Christine Pepin, colpevoli di aver assassinato a martellate la loro datrice di lavoro con la figlia (nelle foto appaiono come due candide educande) furono giustificate dagli artisti e il loro crimine definito “un atto sovversivo contro l’ordine costituito e il dispotismo del potere”.

Il percorso prosegue con il tema del “Genio, follia e delitto”, ponendo l’accento sul come, soprattutto nell’arte moderna, si inizia a percepire l’uomo di genio come una personalità di confine fra la normalità e la follia. Alcune opere esposte riferite a Goya, Blake, Gèricault, Van Gogh, Delacroix ed Egon Schile, descrivono questa sottile linea d’ombra che, proprio sul finire del XIX secolo, l’avvento della psicanalisi rese argomento di grande attualità e dibattito nel mondo intellettuale.
Anche il tema “prigione e macchina giudiziaria” è reso da un punto di vista artistico. Un’edizione rilegata e di gran pregio dell’opera di V. Hugo “L’ultimo giorno del condannato a morte”, scritto ad appena 27 anni nel 1829, è esposta in bella vista dentro una bacheca. “E’ un vero colpo di genio”, sostiene l’ex-ministro della Giustizia R.Badinter, “lo scrittore si identifica perfettamente con il criminale, che per la prima volta nella storia della letteratura prende la parola. Una vera bomba che mette in evidenza la sproporzione tra la colpa e la pena”.
Hugo è presente nella mostra anche come disegnatore. Sono, infatti, esposti alcuni dei suoi disegni sul tema delle pene e della condanna a morte. “Non avrei mai immaginato che i miei disegni avrebbero attirato l’attenzione”, scriveva il grande romanziere nel 1862, che alla fine della sua vita ne fece ben 3500.

Accanto ad opere che illustrano la crudeltà delle pene detentive, come ad esempio i ritratti dei “prigionieri” di Odilon Redon (1881) e di Eugene Delacroix, o la “gogna” di Juho Rissanen(1900), è esposta la sconvolgente foto del grande Henry Cartier-Bresson “Cella di isolamento nella prigione di Leesburg”, del 1975, nella quale un braccio e una gamba di un condannato a morte si protendono disperatamente attraverso le sbarre: esplicativa più di mille parole o dibattiti! Come sempre attuale è la frase dello scrittore Albert Camus , secondo cui “una società si giudica dalle condizioni delle sue prigioni”.

Non poteva mancare nella mostra il tema della “Scienza applicata al crimine”, così come uno spazio adeguato alle teorie di Cesare Lombroso e di Alphonse Bertillon, l’inventore della fotografia segnaletica. Il primo, elaboratore della fisiognomica, seguace del darwinismo, seppure spinto da nobili intenti, impose una “scienza” della catalogazione dei profili criminali, che fu alla base di una criminologia che sconfinava con il determinismo, la genetica della malvagità del criminale. L’altro, invece, nello sforzo di catalogare i profili dei criminali, grazie anche “all’invenzione” della fotografia di Nadar, riuscì a creare il moderno sistema delle foto segnaletiche e degli archivi di polizia giudiziaria con tanto di impronte digitali e dati fisiognomici, come il colore dell’iride e le misure dei crani dei “nemici pubblici”.
Sembra incredibile, ma da quest’ultima scoperta parascientifica si passò poi dall’uso anti criminale a quello “civile” della catalogazione dei semplici cittadini, attraverso le carte d’identità!

Una sala dell’esposizione è quindi dedicata alle “Riviste e giornali illustrati popolari”, che facevano leva sul morboso interesse popolare per i fatti di sangue, soprattutto se a sfondo sessuale. Nel “Petit Journal illustrè”, fin dal 1863 e poi nel supplemento del “Petit Parisien”, oltre che nei giornali specializzati, come “L’occhio della polizia” e “le Detective” degli anni Venti, i fatti reali e la finzione si confondevano e si intrecciavano. Nasce anche un nuovo genere letterario di massa: il “libro giallo”.
I giornali stessi diventavano una “fabbrica del crimine” a tutti gli effetti. Con l’introduzione della rotativa e l’inserimento della pubblicità si resero poi possibili prezzi contenuti e una più larga diffusione. Fu così che nacque una nuova identità politica fino ad allora non esplicita: la cosiddetta “società civile”, che nei fatti di cronaca, che non richiedevano precise conoscenze e nozioni culturali, poteva esprimersi liberamente e in modo interclassista.
Il dubbio che, a lungo andare, l’assuefazione ad episodi criminali potessero in qualche modo alterare le norme sociali e determinare comportamenti di massa degenerativi, si diffuse negli ambienti politici e fra le autorità del tempo. A loro e ai loro propositi censori, rispose Joseph Kessel, direttore del “Detective”, con un monito che suona ancora attuale: “Il crimine esiste, è una realtà, per disfarsene l’informazione libera è meglio del silenzio”.

Se l’esposizione “Delitto e castigo” si apre con l’immagine della ghigliottina, macchina di “morte egualitaria e quasi indolore”, secondo i suoi inventori, è davvero simbolico che a concluderla sia un’altra macchina della morte, quella realizzata per rappresentare l’Erpice, un’infernale strumento di tortura e morte, uscita dalla fantasia geniale di Franz Kafka. Nella realtà mai entrata in uso!
Il senso atavico della “colpa”, immanente nell’essere umano, aveva indotto il grande scrittore a descrivere l’angoscia fino alla trasfigurazione dei suoi protagonisti, piccolo borghesi, a volte in un immenso scarafaggio (la Metamorfosi), oppure nel cittadino modello travolto dalla macchina della giustizia ( Il processo), fino al racconto “neorealista” de La colonia penale. Qui il condannato all’Erpice,veniva fatto sdraiare supino sul letto di cuoio, mentre dall’alto veniva calato un aggrovigliato marchingegno, composto di lunghi e affilati aghi metallici, che con rumore assordante e ritmico segnavano sulla schiena del malcapitato i delitti commessi: un’anticamera della morte con la tortura indelebile scritta sul corpo martoriato per 12 ore.
Dalla “Vedova” all’Erpice, insomma, per ricordare ai visitatori che l’immaginazione umana spesso supera la realtà e che il castigo non sempre è commisurato al delitto. E resta ancora attuale il dilemma che infervorò gli intellettuali dell’Ottocento e non solo: l’uomo è criminale perché nel profondo mantiene comportamenti bestiali o è la bestialità del crimine che fa l’uomo diverso dagli altri esseri animali? Su tutta la mostra sovrasta alla fine il monito di Hugo, secondo il quale un giorno anche il crimine potrà essere curato come una vera e propria malattia.

Qui un video sulla mostra

Distrazione Buenos Aires: Rafael Spregelburd

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

L'arte del racconto, versione Laura Curino

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Una videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Ottavia Piccolo, mezzo secolo in scena

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In levare, il teatro di Scimone Sframeli

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=zacEQ75gftI&w=560&h=315]

"Faccio il comico", parola di Giobbe Covatta

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Lo scisma anglicano. Atto II

andy_violetANDY VIOLET | Nel 1534, il Parlamento inglese emanava l’Atto di Supremazia, una legge fortemente voluta da Enrico VIII dopo i vari insuccessi nelle lunghe ed infruttuose trattative intavolate col Papato per lo scioglimento del matrimonio del monarca con Caterina d’Aragona, rea di non aver saputo generare il nuovo anello dinastico della casata dei Tudor. Con tale legge ad personam, potremmo dire impropriamente, richiamando i fantasmi della nostra contemporaneità, e una serie di atti collaterali disposti per la soppressione dei benefici economici accordati allo Stato della Chiesa, il sovrano inglese sanciva il definitivo scisma da Roma, liberandosi dell’ingerenza politica ed economica del potere temporale indirettamente gestito dal Papa sul territorio del Regno Unito attraverso una cospicua serie di prebende e benefici, nonché tramite il controllo diretto dei terreni e dei beni ecclesiastici dislocati nel territorio anglosassone.

Si consumava in tal modo un ulteriore strappo nella già compromessa unità confessionale di un’Europa in odore di modernità, in cui i due soli danteschi cominciavano ad eclissarsi in favore di un particolarismo politico non più disposto a subire le pressioni di un potere universalistico.

A circa 450 anni di distanza, tuttavia, nonostante le reiterate dichiarazioni di disinteresse per politica attiva, dal ricchissimo brandello di terra romana loro ufficialmente riconosciuto, le gerarchie ecclesiastiche, munite del più minuzioso bagaglio retorico mai concepito, continuano a far tuonare quella che Nietzsche definiva “la voce dell’uomo nell’altro uomo”, pretendendo di regolare l’agenda politica di stati esteri, in primis dell’Italia, attraverso la manipolazione della credulità popolare e una paurosa sovrapposizione tra legge dello stato e dogma. Non stupisce, dunque, se alla possibilità, recentemente paventata, di un viaggio apostolico del Pontefice, nel Regno Unito si sia scatenata un’enorme protesta che ha riempito fogli e fogli di firme di cittadini infuriati per l’eventuale spreco di risorse pubbliche che servirebbero a rispettare i lussuosi parametri d’accoglienza papale, perseguiti senza percepire il minimo stridore con il contemptus mundi e l’esaltazione della povertà del messaggio evangelico, ma soprattutto indignati di fronte alla reale natura del potere pontificio, che essi, non fuorviati dallo specchio deformante della credenza, vedono con molta chiarezza nella sua dimensione di etica integralista, per sua intima essenza inconciliabile con qualunque forma di compromesso o tolleranza, come lo è ogni professione di verità assoluta.

Spogliato delle ricche vesti talari e della magniloquente verbosità della sua prosopopea, i cittadini britannici altro non vedono nel capo di stato Vaticano che una minaccia per il loro senso di giustizia e d’uguaglianza, per il loro progresso politico e sociale, in cui le retrive esternazioni sugli amori deboli e le altre affermazioni confessionali, in contrasto con il diritto, quello si sacrosanto, all’autodeterminazione personale, sembrano stracci di porpora impigliati negli ingranaggi della storia.

L'ismo di Suez

andy_violetANDY VIOLET | Tra Hegel e Schopenhauer non correva buon sangue. Se uno dei motivi di tanta acrimonia va certamente rintracciato nelle vicende biografiche dei due pensatori, l’uno destinato a diventare filosofo-vate dello Stato Prussiano, l’altro costretto a vivere nell’ombra del successo del suo odiato collega, le più vere e profonde ragioni di tale antipatia vanno sicuramente ascritte alla radicale opposizione dei loro sistemi di pensiero. Al panlogismo di Hegel, riassumibile nell’arcinoto aforisma secondo cui “tutto ciò che è reale è razionale”, e viceversa, votato ad un cieco ed strumentale ottimismo che coinvolgeva anche la parola, sicuro mezzo di disvelamento della verità, Schopenhauer, com’è noto, opponeva l’irrazionalismo biologico e spirituale della Volontà, e l’amara constatazione dell’uso mistificatorio delle parole.

Contro quello che ai suoi occhi appariva come un bieco proposito di far passare la raffinata tecnica oratoria di Hegel come l’ultimo risultato possibile del lungo cammino del pensiero umano, il filosofo di Danzica scrisse un agile e irritante libretto intitolato L’arte di avere ragione. Parliamo di un vero e proprio trattatello di eristica, ovvero l’arte del duello verbale canonizzata per la prima volta dalla scuola Sofistica, caratterizzata dal completo disinteresse per il reale valore di verità delle questioni cui si applica, e dall’insegnare le tecniche più adatte per vincere ogni controversia basandosi solo sulla verosimiglianza logica del ragionamento e giocando intelligentemente con le aporie del linguaggio.

Tra i metodi segnalati da Schopernhauer, tutti catalogati con meticolosa precisione, vi è quello di ricorrere, se messi alle strette, ad una generica accusa che colleghi quanto detto dal nostro ipotetico avversario ad una ideologia invisa al pubblico che assiste al diverbio: bisogna, scendendo nel particolare, esclamare con disgusto: “Ma questo è Spinozismo!” oppure “Questo non è altro che Aristotelismo!”, facendo sì che un ragionamento, per quanto giusto e puntuale, si colori di una sgradita parzialità ideologica.

Se Schopenhauer si limitava, nella descrizione di tale metodo, ad utilizzare correnti di pensiero realmente esistenti, l’evoluzione odierna ed attualissima di questo stratagemma si avvale più semplicemente dell’odio connaturato verso il suffisso -ismo, che negli ultimi decenni sembra aver assunto di per sé la connotazione negativa di una chiusura o di una degenerazione ideologica prevaricante. E’ per tale motivo che oggi alla laicità, principio cardine della nostra Costituzione, si cerca di sostituire il più odioso concetto di laicismo, col quale spesso e volentieri sono marchiati coloro che, nell’intento di evitare degenerazioni confessionali della Cosa Pubblica, vengono tacciati di voler attentare alla vita e ai valori fondamentali dell’essere umano. Se per caso siete tra questi, e siete stanchi di vedere i vostri sforzi logici infrangersi contro la sicura paratia di chi sta dalla parte del suffisso giusto, non arrendetevi: mettetevi ad esclamare con disgusto: “Ma questo è Cattolicismo!”.

Il Bollo delle Donne

andy_violetANDY VIOLET | Archiviato il languore creativo della pausa natalizia, riposta in fretta e furia la festonatura sgargiante che sin dagli ultimi giorni di novembre avviluppa tentacolare gli studi televisivi dei buoni ed osservanti cristiani catodici, ivi compresi i bordi impellicciati dei bikini dell’Avvento indossati per l’occasione dalle pie e timorate vallette, le emittenti mettono da parte la pace armata delle festività, combattuta con i proiettili spuntati delle repliche a tema e degli ormai ammuffiti filmati educativi sulla tecniche di simulazione dei buoni sentimenti, e ricorrono all’artiglieria pesante, allo scopo di onorare i sacri patti di investimento pubblicitario.

Grandi novità, dunque, ci aspettano per la seconda parte di questa stagione televisiva, in cui i network pubblici e privati intendono stupirci con la messa in onda di fiction sperimentali,a metà strada tra la gloriosa tradizione dello sceneggiato televisivo Rai e la ricerca di inediti linguaggi comunicativi alla stregua del più spinto cinema d’avanguardia.

Tra queste, il prodotto più atteso è una nuova fiction scritta a quattro mani da Orietta Berti ed Iva Zanicchi nelle pause della sagra del Tortello di Zucca di Rio Saliceto. La storia, imperniata sulla difficoltà delle donne a pagare le tasse sull’automobile e/o sullo scooter, vedrà le quattro protagoniste, derelitte shampiste messe a dura prova dalle difficoltà della vita, con le unghie ancora sporche di tintura mogano ramato, rinchiuse per una settimana nell’ufficio della Motorizzazione del comune di Prive di Decenza, in provincia di Gubbio Gusto, liberate infine dall’intervento salvifico di Antonio Lubrano.

Ispirato a un fatto di cronaca vera, il serial è la denuncia di un annoso problema che affligge tutte le donne patentate del mondo, ovvero le indicibili sofferenze cui il gentil sesso deve soggiacere per pagare ogni anno il giusto contributo allo stato per le proprie autovetture: “Il Bollo delle donne”, questo il titolo della serie, si insinua nelle pieghe più scabrose della coscienza automobilistica femminile, e non indietreggia davanti alla crudezza dell’argomento o delle immagini, che già hanno attirato gli strali del Moige per l’eccessivo realismo delle scene più truculente, come quella in cui una delle protagoniste, in un atto di follia estetica, deraglia dal labbro superiore tingendosi di rossetto gli incisivi superiori.