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mercoledì, Novembre 13, 2024
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Arma virumque cano

ANDY VIOLET | andy_violetSecondo la potente rappresentazione iconografica di Stanley Kubric in “2001: Odissea nello spazio”, la prima arma mai brandita fu un bianco osso animale, utilizzato da un ominide per porre termine alla vita di un suo simile. Fu quell’atto a privare l’uomo dell’Eden spirituale dell’incoscienza, ponendolo di fronte alla consapevolezza della morte, al sentimento del tempo, ma anche al desiderio di potere, che sin dal suo esordio si lega indissolubilmente alla capacità offensiva, all’asservimento per mezzo della minaccia del nulla. Sebbene secoli di filosofia del diritto abbiano tentato, col gioco divaricante dell’astrazione, di allentarne l’intreccio, il tentativo era destinato a fallire come quando si voglia separare le due facce di una moneta.

Il suggello di questo patto genetico sta nell’arma: ogni epoca, anche in virtù della propria storia materiale, ha avuto predilezione per l’una o l’altra forma di offesa dell’integrità fisica, talora collegate a categorie etiche ben precise. In epoca greca arcaica, per esempio, l’arma da lancio, in primo luogo l’arco, era considerata vile, non degna di un eroe, perché in grado di colpire da lontano, a tradimento: non a caso, è l’arma di Paride, il traditore omerico per eccellenza, o l’arma delle donne, come le amazzoni. In particolare, a tale tipo di armi si rimproverava di non essere specchio fedele della reale forza del combattente, tanto da poter essere usata, per l’appunto, da una donna allo scopo di sopraffare un uomo.

Tuttavia, l’arma muliebre per eccellenza era il veleno: da Medea fattucchiera ad Agrippina avvelenatrice dell’imperatore Claudio, su per i secoli fino al mito di Lucrezia Borgia, le sostanze venefiche furono dominio della malvagità femminile, legata al sovrannaturale e al maleficio di intrugli stregoneschi, suggerendo ai giallisti un po’ demodé il comodo escamotage dell’anello imbottito di cianuro da svuotare, all’occorrenza, in un brindisi fatale.

Dalla Roma antica fino ai primordi dell’800 è però il pugnale a farla da padrone: personificazione stessa della più alta forma di tradimento nell’omicidio di Giulio Cesare, esso ritorna pressantemente nell’immaginario epico della violenza politica, fino a comparire nelle mani della filomonarchica Carlotta Corday nell’uccisione del rivoluzionario Marat. Sarà solo il 900 a segnare il definitivo abbandono dell’arma bianca, quando Gravilo Princip spara con una semplice pistola all’arciduca Francesco Ferdinando, dando il via al primo conflitto mondiale. Di lì in poi, Kennedy, Malcom X, Togliatti, ma anche Lennon e Warhol saranno vittime di una morte tascabile misurata in millimetri.

E per il nuovo millennio? Non sembra ancora ben delineata la moda balistica degli anni 2000, ma sulle passerelle milanesi si sperimenta la forza distruttice del souvenir.

L'amore vince sull'odio

ANDY VIOLET | andy_violetNel decimo libro delle sue Bucoliche, Publio Virgilio Marone si rivolgeva all’amico poeta Cornelio Gallo, personaggio poco noto della letteratura latina. Della sua produzione elegiaca, infatti, poco o nulla resta, se non preziosi frammenti, e qualche emistichio che Virgilio ha reimpiegato nei propri esametri. Più precisamente, Virgilio trasformò alcuni pentametri di distici elegiaci di Gallo in esametri bucolici, col chiaro intento di invitare l’amico ad abbandonare quella scellerata forma di poesia in favore di una più piena adesione al programma di rinascenza morale del princeps Ottaviano Augusto. La poesia elegiaca, infatti, che trattava spudoratamente di amori adulterini e ostentava indifferenza o disprezzo per le armi, contrastava nettamente con la riforma etica di Augusto, incentrata su una riattualizzazione dell’antico mos maiorum, la legge non scritta che tratteggiava i caratteri peculiari della dignitas romana.

Tuttavia, Cornelio Gallo subì una sorte più atroce rispetto ai colleghi elegiaci Tibullo e Properzio, semplicemente ignorati da Augusto: l’amico di Virgilio, infatti, subì un vero e proprio processo da parte del senato, che ne decretò l’esilio e la damnatio memoriae, la forma più alta di disprezzo. Applicata alla lettera, di Cornelio Gallo oggi non conosceremmo nemmeno l’esistenza: possibile che qualche verso d’amore abbia potuto procurargli una sorte simile? Ovviamente no: Gallo era stato anche collaboratore militare di Ottaviano durante la lotta che lo avrebbe visto ascendere come erede di Cesare, ma non essendosi uniformato alle mire assolutistiche del futuro imperatore, fu epurato dall’organico con l’accusa di congiura. A causa di ciò, Virgilio dovette profondamente modificare il decimo libro delle bucoliche, pur lasciando intatto il famosissimo emistichio del verso 69: Omnia vincit amor, “l’amore vince su tutto”.

In pieno Medioevo anglosassone, Geoffrey Chaucer, padre della letteratura inglese, ci descrive, nelle sue Canterbury Tales, la figura di una Madre Priora vezzosa ed elegante, dai modi nobili e accompagnata da due cagnolini nel suo viaggio verso il cenotafio di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury assassinato da emissari di Enrico II per motivi politici.
Sul medaglione della suorina campeggiava la scritta Amor vincit omnia, sintassi inversa del verso Virgiliano: più che un normale accesso di panfilia cristiana, di cui si colorarono nel medioevo molte parole del poeta latino visto come profeta dell’avvento del nuovo credo, la scritta, attribuita ad una donna monacata a forza come la Gertrude manzoniana, assume un ambiguo senso di lascivia, che lascia intravedere oscuri peccati della carne consumati nella discrezione dei conventi.
Intrighi di palazzo e sesso, attentati verso nemici politici e disegni di restaurazione imperiale o monarchica: il tutto, condensato in una sola frase, che nelle sue varie versioni, dal papiro allo schermo del computer, non smette di essere lo specchio antico, ma non offuscato, delle perversioni del potere.

Alter et Alienus

andy_violetANDY VIOLET | Una caratteristica peculiare della cultura medievale era l’assenza di fantasia nel senso contemporaneo del termine. Se oggi classifichiamo come fantastico tutto ciò che è frutto di una splendida bugia condivisa, della quale ognuno gode nello stretto confine della propria immaginazione, senza aspettarsi, un giorno, di imbattersi realmente in un cavallo alato, in un unicorno, in un orco o in un gigante, a meno che non inciampi per caso nell’erba posticcia de La Melevisione, qualche secolo fa non v’era tutta questa sicurezza.
Era semmai vero l’esatto contrario: tutto ciò che poteva essere immaginato era dotato di un qualche grado di realtà, ed abitava una delle terre selvagge ed inesplorate che circondavano lo stretto mondo continentale, tripartito in Europa, Nord Africa e Vicino Oriente. Per uno scienziato medievale era cosa del tutto normale (e perché non avrebbe dovuto esserlo?) pensare alle Indie come patria degli Sciapodi, gli esseri da un solo piede, così come certa era la struttura del mondo ultraterreno quale veniva descritta da Dante. Tutta l’immaginazione, insomma, era fisica, materialmente sentita come attuale e vicina, e persino le visioni deliranti di coloro che oggi tacceremmo di disturbi schizofrenici venivano considerate come epifanie del sovrannaturale.

Le scoperte geografiche, a partire dalla data simbolica del 1492, riplasmarono enormemente il bagaglio di allucinazioni che l’incipiente modernità ereditava dal Medioevo: già l’Ariosto, accanto all’Etiopia, al Paradiso Terrestre e all’Inferno, introduceva come nuovo scenario la Luna, serbatoio del senno umano, anticipando di qualche decennio il grande slancio verso l’infinito operato dal telescopio di Galileo.
“Conosciuto il mondo/Non cresce, anzi si scema”, notava argutamente Leopardi nella Canzone ad Angelo Mai: la geografia odierna ha distrutto la quasi totalità dei miti annidati nel folto di foreste vergini e boschi iniziatici, e alla sua furia catalogatrice, fatta salva Atlantide, ben poco resiste.
E allora, l’esotico si fa giocoforza interstellare: l’immaginazione, mista a speranza, si proietta sul fondale ultramillenario delle stelle fisse, in cui albergano entità sconosciute, omini verdi dal sangue ricco di silicio, angeli spiumati che levitano sospinti da sofisticati retrorazzi. Da Star Trek al più recente Battlestar Galactica, da Voyager a Mistero, passando per i dettami della nuova epica siderale di Star Wars, il cielo illuminato da Apollo lascia posto al vuoto dimensionale e all’iperspazio, su cui gettare come ombre del teatro balinese i vaghi ed indisciplinati sussulti spirituali della nostra epoca.

Splendido splendente

andy_violetANDY VIOLET | In una delle ultime scene del Simposio di Platone, un Alcibiade ubriaco irrompe nella sala dei filosofi: giovane e bello quanto spregiudicato, inizia a tessere l’elogio di Socrate lì presente, arrivando a desiderare di esserne sedotto pur di avere accesso alla grande sapienza nascosta dietro a quel volto sgraziato di satiro dal naso camuso. Bellezza in cambio di sapienza: uno scambio che Socrate non giudicò possibile, pur profittando delle attenzioni di Alcibiade, che non avrebbero però potuto mai raggiungere il valore infinito del sommo bene dell’anima.

Il Socrate di Platone era il primo, forte infrangimento dell’ideale della kalokagathia greca, la fine della convivenza forzata tra intelletto e armonia fisica, il primo dei quali, in accordo allo slancio metafisico della filosofia platonica, non poteva accontentarsi della bellezza individuale e transeunte di un corpo, ma anelava alla Bellezza nella sua totalità ed eternità.

Stesso struggimento, secoli dopo, avrebbe proiettato Leopardi sulla poetessa di Lesbo nell’Ultimo canto di Saffo, adombrando in esso il dramma della propria bruttezza, mentre sul finire dello stesso secolo Oscar Wilde sanciva in modo definitivo il binomio bellezza/malvagità ne Il ritratto di Dorian Gray, che, per quanto legato a doppia mandata al clima culturale dell’Inghilterra vittoriana, nel suo assunto fondamentale tracciava le linee guida dello sfacelo chirurgico dei nostri tempi, in cui Lord Henry Wotton si veste del nitore ospedaliero di un camice bianco, alla tela del quadro si sostituiscono le tricromie bidimensionali dello schermo televisivo.

Tuttavia, stavolta, la magia diabolica non riesce: la giovinezza in corpo di vecchio assume le forme grottesche dei pupazzi di plastilina, di identità perdute nel tentativo di riconquistarle. In questo panorama di delirio dismorfofobico, l’operazione recentemente attuata da Channel Five, che ha affidato per una settimana la conduzione del notiziario a James Partridge, presidente dell’associazione “Changing Faces” che riunisce e aiuta le vittime di incidenti sfiguranti, assume un particolare valore terapeutico per l’autopercezione dell’estetica televisiva. Il volto di Partridge, sfregiato da gravi ustioni all’età di diciotto anni, non è molto diverso, nella sua sproporzione, dalle facce tumefatte delle dive nostrane, idolatrate come icone di una bellezza metaumana, splendide splendenti, come direbbe una cantrice del bisturi quale Rettore. Come per il Socrate di Platone, a fare la differenza è ciò che c’è dietro il volto: un maligno fato per James Partridge, una volontà folle per greggi informi di donne bioniche, e, meno fortunati di Dorian, non basterà una pugnalata allo schermo per redirmerci da un patto scellerato.

Medea e le vacche sacre

andy_violetANDY VIOLET | L’ultima stagione televisiva de L’Infedele di Gad Lerner, fieramente orgoglioso del suo cantuccio riflessivo ritagliato su una La7 sempre più immersa nella ricerca di innovazione del linguaggio dell’approfondimento giornalistico, è stata ed è caratterizzata da un fil rouge, un tema portante che di quando in quando riaffiora tra le polemiche di più stretta attualità: prendendo spunto dal documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, infatti, il programma ha affrontato la vasta problematica etica, politica e sociale legata al ruolo delle donna nei media. Il programma ha avuto certo il merito di non esaurire l’argomento in due ore scarse di trasmissione, affidandone la discussione alla consueta, neutralizzante lottizzazione di opinioni tipica del talk show, ma ha al contrario cercato di evidenziare forse l’aspetto più interessante e produttivo della storia del corpo femminile, quello cioè di non essere solo oggetto di studio, ma di costituire altresì un potente strumento di indagine storica ed antropologica.

La storicità femminile, lungamente esiliata dal flusso di una narratività storiografica limitata al timbro greve dei maschi, dal vir latino al camerata fascista, è una voce di dissenso, di alterità intima e profonda, una potente occasione di confronto dialettico, e di comprensione in termini di sistema del complesso di storia materiale e mitografia di un popolo. Basti semplicemente pensare al corpo opulento delle maggiorate degli anni Sessanta, in cui si faceva carne la percezione dell’onda lunga di una rinascita post bellica, di un benessere diffuso e scintillante, in contrapposizione all’ideale androgino degli anni Settanta, epoca della prima crisi petrolifera, scalzato nuovamente dalla riproposizione della “vacca sacra” dell’illusione neoliberista degli anni Ottanta.

Di questo percorso, ovviamente ridotto ai minimi termini, resta testimonianza nel costume televisivo attraverso un passaggio di consegna alquanto significativo: a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, vedevano la luce, l’uno in Rai, l’altro in Finivest, Strix e Drive in, accomunati dalla comune liturgia del corpo femminile, ma destinati a produrre iconografie opposte. Strix, di Enzo Trapani, chiudeva idealmente gli anni Settanta con l’apoteosi di Lilith e Medea, di quella libertà femminile che agli occhi dell’uomo diventa follia e stregoneria, affronto imperdonabile di un piacere autonomo, mentre il femminismo cadeva vittima del proprio formalismo; Drive in di Antonio Ricci, invece, riattingeva all’ideale freudiano di un’amante-madre con una provocante ragazza Fast Food, “un po’ mamma un po’ porca”, come sinteticamente suggerisce Ligabue, cui rimanda anche il pur debole legame con la funzione di nutrizione, scialbe eredi delle Ekberg di “Boccaccio 70” . Quale dei due modelli abbia poi avuto la meglio, è cosa tristemente nota.

Hamburger et Colorado

andy_violetSul suo blog, il comico ha avviato da parecchio tempo una palestra di satira, in cui invita i lettori ad esercitarsi nella nobile e complicata arte della freddura epigrammatica: a tale scopo ha redatto un vademecum con i primi rudimenti di scrittura comica, poche e semplici regole per la costruzione di una battuta vincente. Tra i consigli citati, il più interessante riguarda la scelta dei referenti: una battuta, per quanto sottile e tagliente, non potrà mai essere apprezzata se l’ascoltatore non conosce ciò a cui ci si riferisce.

Sin dalle origini, la cultura comica orale e scritta ha dovuto fronteggiare il problema della comprensibilità immediata, intuitiva, da cui dipende l’esito di una risata schietta e sincera, e nel farlo, doveva attenersi a referenti chiari, largamente conosciuti, popolari, perché una battuta che ha bisogno di essere spiegata non è una battuta. Non è dunque un caso che la scrittura comica sia quella che più dettagliatamente ci rivela l’humus culturale dei ceti bassi di una società, in virtù del mescolamento di piani culturali che le è proprio: grazie a Plauto sappiamo dell’esistenza del greco schiavile, una forma di lingua greca comunemente parlata dagli strati bassi della società romana, per i quali non poteva risultare divertente il nome del soldato spaccone Pirgopolinice (“Distruttore di torri e città”) se non fossero stati in grado di capirlo.

La battuta di Luttazzi sulla flutolenza delle mosche, da me definita come innocua solo in apparenza, colpisce proprio in quel punto: calibrata con un doppio colpo magistrale, ha il vero affondo nella chiosa, che mette in discussione le capacità cognitive del pubblico, anche del pubblico che si autodefinisce colto ed elitario, che, nel migliore dei casi, si chiude e si accontenta del cliché del proprio status di teste pe(n)santi. In una sola riga, viene messa in discussione la percezione della cultura in Italia, il sistema scolastico e quello dei media, legati da un’occulta alleanza tendente alla neutralizzazione dell’intelletto. Se non è possibile distruggere la satira, forse sarà possibile fare in modo che essa non sia più compresa, ed i programmi comici di maggiore successo sono la cartina tornasole di questo stato di cose: attingono a tecniche minime di intrattenimento burlesco, tarate sul pube, sul seno, su scarse virilità e scarse avvenenze, e poco altro attorno, tormentoni imposti con la forza della ripetizione nauseante, e una presunta, millantata caratterizzazione dell’attualità, pur rifacendosi a stereotipi vecchi almeno di cinquant’anni.

Panem et circenses? No, semmai Hamburger et Colorado.

Fenomenologie delle Mafie

andy_violetDalla plurisecolare mescolanza etnica della Sicilia con il vicino Oriente, la cultura italiana ha ereditato tratti fondanti della propria struttura, fusi in un’incessante rielaborazione linguistica, giuridica, socio-comportamentale che è alla base della complessa costruzione dell’identità, con buona pace di certi sgradevoli druidi etnocentristi della Val Padana. E’ proprio dalla lingua araba che trae origine la parola mafia, che vuol dire, pressappoco, “ciò che non si vede, ciò che non esiste”, un significato che si addice perfettamente alla natura occulta, ghiandolare e neoplastica del potere infettivo della criminalità organizzata.

Silenziosa come la piovra, o meglio come il cancro alla cui immagine tentacolare è ormai tradizionalmente associata, cresce al buio della connivenza, complice od estorta con la paura, finché sintomi allarmanti non ne denunciano la presenza: come metafora che s’incarna, deformazioni neonatali, tumori e leucemie flagellano le popolazioni esposte ai circuiti economici delle mafie, ed il cancro morale diventa lenta agonia del corpo. La malattia reale è stata il primo segno, biologico, di una crescente fenomenologia di massa della mafia, che da tre anni a questa parte ha investito i media, scalzando la vulgata estetica, avvallata dalla mafia stessa, dei guappi di cartone de “il Camorrista” di Tornatore, dei don Vito Corleone e dei Soprano, in bilico tra simpatica parodia e struggente epopea di una mafia galante, che non uccide donne e bambini, che ha un codice etico, seppure sui generis.

Nel tessuto di questa narrazione epica, che ha avuto come ultimo, recentissimo volto quello di Gabriel Garko nella fiction L’onore e il rispetto, si è inserita la deflagrazione costituita da Gomorra di Saviano: non un ennesimo saggio sulla criminalità organizzata, ma un romanzo, per quanto intriso di mentalità giornalistica, che andava a presentare la mafia come sistema, come “economia-mondo” dell’Italia intera (sempre con buona pace dei druidi della Val Padana), scalfendo la comoda e retrograda immagine di faide familiari tra personaggi pittoreschi da profondo sud o da Little Italy.

La mafia è nuda: oggi può comparire in tutta la sua arrogante violenza nel video di un’esecuzione a sangue freddo in un baretto di periferia. Voleva essere un atto di denuncia, uno strappo nella veste della cecità collettiva, perché nessuno potesse dire “Io non ho visto”. E invece, a proteggere ancora la mafia c’è quel loop desensibilizzante della proiezione televisiva ossessiva, dell’illusoria manipolazione del tempo di You Tube, non più quarta dimensione dell’universo ma segmento compreso tra rewind e fast forward. E’ apoteosi della banalità del male della Ardent, che non riesce a suscitare né sgomento né le più profonde e arcaiche ragioni emozionali dell’etica.
Cosa resta? Una morte vera che sembra un’ esecuzione di Mafia Wars, un gioco virtuale di società molto in voga su Facebook: morte come gioco di ruolo, da cui ci protegge un serbatoio di vite restanti e la consolante palingenesi del Game Over.

L'umanità di legno

andy_violetQuando nel 1881, Carlo Lorenzini, meglio conosciuto col cognome Collodi, iniziò la pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, lo scrittore aveva già avuto modo di maneggiare materiale favolistico di diversa provenienza, avendo curato la traduzione in italiano dello opere di Perrault ed altri scrittori francesi dediti a questo particolare genere letterario. Spesso, inoltre, egli stesso interveniva pesantemente sul testo originale, esplicitando la morale già contenuta nella storia, o inserendovene ex novo una vergata di proprio pugno.

All’atto della stesura del suo capolavoro, dunque, lo scrittore di Pescia aveva la piena padronanza dell’universo archetipico sotteso alla millenaria tradizione della favola, sotto la cui trasfigurazione mitologica si maschera un inalterato corredo antropologico, una sorta di abisso della precoscienza che stenta a farsi logos, discorso razionale, e si rifugia nel mythos, la narrazione paradossale di ciò che non si può narrare: ecco allora affiorare nelle belle addormentate tutta l’angoscia della pubertà femminile, che culminava spesso nel suicidio prima dell’approdo sicuro nelle braccia di un marito-padrone, il cui bacio del risveglio suona violento e voglioso come un imeneo, ed ecco il lupo cattivo, trasfigurazione dell’antico guerriero-belva, il bersekr, l’essere umano invasato dalla furia combattiva conciliata da droghe e riti di furore collettivo. Strutture antropologiche, dicevamo, e pertanto di lungo periodo, parte integrante del “fondale marino” della storia, per dirla alla Marc Bloch, figure che si riverberano nell’immaginario odierno come materiale narrativo di sicura presa, perché dialogano con il nucleo più profondo, ancestrale delle paure umane.

Il Pinocchio di Collodi si inserisce prepotentemente in questo solco, mescolando favola e romanzo di formazione nella narrazione del viaggio dell’uomo verso la sua umanità, che non è semplice fattura biologica, ma anche e soprattutto conquista culturale: il burattino disegnato con la squadra di Dio (ricordiamoci che Collodi era un massone) ha come Bibbia un abbecedario, lontano dal quale incorre nel pericolo di degradarsi allo stato ferino, nell’assunzione smodata e perniciosa di piaceri, o di restare affisso al legaccio della schiavitù nel teatro dei burattini, sorprendentemente e profeticamente simile ad un reality show. Non credo debba stupire che l’ennesima riduzione televisiva dell’opera collodiana, andata in onda poche sere fa sull’ammiraglia Rai, abbia riscosso tanto successo, pur scontrandosi col Grande Fratello e con la scarsa qualità del prodotto in sé, non indimenticabile per la qualità della recitazione e del doppiaggio: ha vinto il fascino universale del percorso iniziatico, legato alle nostre più intime rappresentazioni del bene e del male, ha vinto la voglia di sentirci ri-educati, riverginati ad una possibilità di crescita più autenticamente umana, sotto la guida del sogno d’antichi valori e liberi dalla morsa opprimente dell’analfabetismo morale mascherato da retto moralismo.
Poi, purtroppo, è iniziato Porta a Porta.

Track 1.0: Lo spirito del tempo

andy_violetQuando nel 1956 il giovanissimo Michael Bongiorno, in arte Mike, portò sugli schermi nella neonata televisione pubblica italiana Lascia o Raddoppia, fu inaugurata anche nella videocatodica del nostro paese una pratica destinata a lungo e duraturo successo: la caccia al format. «Format», parolina inglese qui senza allusione al nostalgico comando DOS che ripristinava la virginea integrità dei supporti magnetici, altro non è che il brevetto di un programma televisivo, una sorta di prontuario certificato con le linee guida per la ricostruzione di uno show che in altri contesti riscuote successo, sottintesa l’aspettativa che, somigliandosi sempre di più i consumatori televisivi di tutto l’occidente, il gradimento di uno spettacolo sia trasportabile da luogo a luogo senza dispersione. Un format è, in altre parole, la merce di scambio del mercato radiotelevisivo internazionale, da cui le emittenti attingono a piene mani, o sborsando fior di quattrini per l’acquisizione di loghi di successo (da La ruota della fortuna a Il grande Fratello), o ripiegando sulla più economica, ma talora infruttuosa, copia carbone, pur di muoversi con attenzione sulla soglia del plagio.

L’Italia è tuttora tra i più forti importatori di format esteri: un continuo, univoco drenaggio dalle produzioni americane ed europee, che ha saturato i palinsesti di prodotti creati altrove, cui viene aggiunto quel tanto di casereccio nostrano, quell’aggiustatina di pecorino che li renda più adatti agli appetiti nazionali. Il risultato, nella maggior parte dei casi, è una stomachevole cucina creativa che ci ha dato in pasto il pudding all’amatriciana e le escargot alla milanese, per conto di un nostro particolare concetto di pop che accoppia la mediocrità esibita ad una logora quanto becera commedia dominata dagli stereotipi di classe e di provenienza geografica, nonché da un vigoroso sessismo.

Ben più ridotta è invece la produzione originale di format da esportazione di cui può vantarsi il genio italico: tra questi, ha destato l’invidia e l’interesse dei maggiori canali televisivi europei una nuovissima tipologia di talk show d’approfondimento, apparsa di recente, che sembra fondere la classica discussione politica con misteriose pratiche medianiche. Il format è presto detto: si prendono due esponenti della maggioranza, possibilmente ministri, e due deputati dell’opposizione, di preferenza uno cattolico, l’altro con radici comuniste; poi un giornalista di una testata invisa al governo, e un omologo che al contrario lo spalleggi; ed infine una showgirl a scelta tra quelle più immediatamente disponibili. Li si mette in tondo, a formare la popolare catena spiritistica, e s’attende con pazienza la fine della trasmissione, nominando più volte invano il nome del Premier; finché, tuonando come il Signore su Sodoma, il poltergeist del Primo Ministro non compare sotto forma di voce oracolare, riempiendo il vuoto di un’entimasia medievale col dettato del Verbo. Ed ecco servito lo spettacolo tutto italiano del potere ectoplasmatico, multiforme e liquido, che s’insinua nel tessuto connettivo della libertà d’espressione, che aborrisce e disprezza tutto ciò che non può ridurre all’unità con la seduzione del paradisiaco etere televisivo, dove il popolo si trasforma in pubblico e la democrazia si fa televoto. Parafrasando Lester, siamo ormai in presenza di fenomeni parapolitici incontrollabili.

Ouverture: De vulgari eloquentia

andy_violetTra i doveri più sgraditi imposti dal desiderio di salvaguardare la coscienza dalle minacce della cattiva informazione, vi è quello di sottostare alla visione urticante dei baluardi e degli alfieri del ciarpame propagandistico, davanti ai quali deve sorreggerci un intento, per così dire, diagnostico, non dissimile da quello del medico che voglia curare con successo un morbo feroce ed intrusivo. Talvolta dunque mi impongo, non senza riluttanza, una sorta di parziale “cura Ludovico” nella quale costringo i miei bulbi e i miei timpani a raccogliere un eterogeneo collage di scemenze su argomenti di varia natura, accomunati dal crisma dell’attualità.

Tre, in buona sostanza, sono le tipologie di affermazioni che attraversano gli attoniti altoparlanti del mio modesto sedici pollici: in primo luogo quelli che Kant chiamava «giudizi analitici a priori», ovvero le banalità, le tautologie, i luoghi comuni assurti al rango di postulati, per quanto assolutamente pleonastici. Tra i preziosi apoftegmi di questa categoria si annoverano gioielli dell’umano intelletto come «un transessuale è un essere umano» o «non tutti gli extracomunitari sono neri», solitamente vibrati dal vocino svampito di qualche infervorata valletta, avida di riconoscimento catodico e prodiga di cosciume. In secondo luogo vi sono le solenni stupidaggini, quelle affermazioni apodittiche che, vere o false, non hanno alcun riscontro nel reale, ma che attingono alla fonte eterna delle credenze mitologico-confessionali, o da consimili vulgate di varia provenienza.

Ne sono esempi: «la famiglia è formata da un padre, una madre e dei figli», in aperto conflitto coi vigenti saperi delle scienze antropologiche; ma anche «il mercato è un sistema che si regola da sé», in aperto conflitto con l’esperienza sensibile. Detti enunciati, assieme ai giudizi analitici a priori, rappresentano il culmine dell’espressione per le citate starlette, che segnalano l’avvento di una perla di saggezza mediante l’affissione di un paio di occhialini sul tracciato nasale appositamente disegnato dal chirurgo, per annunciare l’entrata in modalità intellettuale. Quest’ultimo tipo di argomento è altresì campo d’azione elettivo per i sicari delle ideologie; i quali, prima di pronunciare in modo più o meno violento un «ipse dixit», si premuniscono con gesuitiche professioni di rispetto universale, di ossequio certificato per l’opinione altrui, riuscendo così nel difficilissimo esercizio di smentire ciò che dicono mentre lo dicono. La terza tipologia, infine, è rappresentata dalle affermazioni dotate di struttura logica e rispettose dei criteri di deduzione validi sin dall’epoca di Aristotele, e perfino aderenti ai fatti di cui si discute.

Cosa dite? Non ne avete mai sentita una? Di certo è un problema di ricezione, giacché posso assicurarvi che la televisione italiana ne trasmette costantemente, ad ogni ora e su ogni sezione dello scibile umano; solo che sono in formato ultrasonico, udibile solo ai cani.

Ogni lunedì, Andy Violet curerà la rubrica settimanale di tv e società Neon realismo