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mercoledì, Dicembre 4, 2024
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Beautiful Creatures, il teatro dei sogni de lacasadiargilla per Scabia e Ronconi

Beautiful Creatures. Foto di Ilaria Costanzo

MATTEO BRIGHENTI | Un sottile spaesamento. Dolce, avvolgente. Non sai più chi sei, da dove vieni o dove vai, ma ti senti leggerǝ. Felice di esserti smarritǝ. Una volta finiti gli incontri, le illuminazioni in prima assoluta delle Beautiful CreaturesTerre di lupi, di lantanidi e ginestre de lacasadiargilla, il Teatro Fabbricone di Prato ti parla come sospeso nel risveglio da un sogno: non c’è un centro, c’è dove si trovano glɜ altrɜ, e dove ti trovi tu. Ogni angolo è una scoperta, per chi si fa trovare in ascolto. Anche oltre la scena, quando comincia qualcosa che non è la vita, ma non è nemmeno teatro. Lo sguardo è l’apertura all’incontro che scegli di attraversare.
L’opera itinerante e immersiva, diretta da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, è ispirata al poeta, narratore e affabulatore Giuliano Scabia, artista immenso a cui Andrea Mancini e Massimo Marino, peraltro, hanno dedicato un’importante mostra al Museo di Palazzo Pretorio: Giuliano Scabia: teatro di poesia negli spazi degli scontri. «Non potevamo mettere in scena un testo di Scabia, non potevamo incarnare il suo teatro vagante, ma potevamo evocarlo», scrivono Ferlazzo Natoli e Ferroni nelle note di regia.
Così, lo spunto narrativo (la drammaturgia del testo è di Roberto Scarpetti) è quello di un sedicente esperimento di Collective Sleeping, uno spazio-tempo in cui l’andamento del sogno scorre modificando la percezione in cui sono immersɜ sognatrici e sognatori. Le prime “notizie” risalgono al 2019. Ma è solo nel 2024 che viene identificato il “sito” di uno di questi esperimenti, poi interrotto per l’esaurirsi delle materie prime necessarie a sostenerlo. Persa, inoltre, ogni traccia deɜ partecipanti.

Beautiful Creatures. Foto di Ilaria Costanzo

Dunque, chiuso alle nostre spalle il portone scorrevole del Fabbricone, Marta Ciappina (sua la drammaturgia del movimento), in video su due schermi piatti, ci spiega all’ingresso le regole d’ingaggio per vivere l’esperienza ed essere, a nostra volta, Beautiful Creatures: usare i sensi, abbandonarci alla non logicità delle relazioni, assecondando un viaggio che facciamo per conto nostro e che ognunǝ fa per conto suo, tra il non ancora e il non più. Il sito identificato del Collective Sleeping, quindi, è quello dove ci troviamo adesso. È questo teatro.
E teatro è tutto, non solo il palcoscenico, ma anche il foyer, i bagni, la tribuna e il sotto tribuna, i camerini, come mai è stato fatto prima d’ora. La bellissima creatura che ci abbraccia e rappresenta è questo grande edificio di una storica struttura industriale pratese, usato per la prima volta come spazio teatrale nel 1974 da Luca Ronconi per la sua Orestea. 50 anni esatti di storia riattraversati e rilanciati in un denso convegno di tre giorni al Teatro Magnolfi, Laboratori per un nuovo teatro, sempre a cura di Marino.

Foto di Ilaria Costanzo

È il luogo, innanzitutto, che prende vita. È un paesaggio in cui perdersi e poi ritrovarsi, grazie a una mappa data a ciascunǝ di noi. È una “foresta di simboli” come nelle Corrispondenze di Charles Baudelaire, incarnati e agiti da Giacomo Albites Coen, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Francesco Villano. Animano di dolcezza e perdizione presenze che non sfuggono all’ossessione del tempo. Sono sette. Uno scrittore in crisi, tormentato da profezie e dalle immagini de I Ching; un ballerino amatoriale, marito senza passione e seduttore per noia; una cantante di strada, che si guadagna da vivere come partner nei balli di sala; una donna inquieta, che sogna a occhi aperti di liberarsi del marito; un ex cacciatore di frodo della bassa Renania, arruolato come cecchino in guerra, poi dato per disperso; un giovane di buona famiglia dall’oscuro passato, che è solito passeggiare tra un bosco e i rottami di una città mitteleuropea; Anna, Lucia, Myrta, Marta o Maria, che ama abitare gli spazi perimetrali e aggirarsi nei sogni deglɜ altrɜ.

Foto di Ilaria Costanzo

Si tratta di anime del passato che rivendicano la loro permanenza nel presente, alla stregua delle opere plastiche, in lattice malleabile, di Martina Biolo, calchi di oggetti quotidiani disseminati lungo il percorso, che restituiscono valore ai vissuti comuni. Verosimilmente sono questi i “lantanidi” ricordati nel sottotitolo, ovvero i metalli, chiamati un tempo “terre rare”, essenziali per lo sviluppo delle energie rinnovabili, e qui usati per “rinnovare” il Collective Sleeping.
Allora, quelle sette figure sono tra quantɜ hanno partecipato al famigerato test del 2024. Lɜ vediamo o, meglio, lɜ seguiamo nei loro spostamenti fisici e nei percorsi mentali che tracciano intorno a noi, accompagnati dai suoni, i rumori e gli incanti di un “bosco magico” delle apparizioni (lo spazio scenico e i paesaggi sonori sono di
Alessandro Ferroni, lo spazio sonoro è di Pasquale Citera).

Foto di Ilaria Costanzo

Beautiful Creatures, infatti, è una scena percorsa da appuntamenti continui, tra tavoli, botole, scale, poltrone e palchi. Il montaggio è multifocale, procede per folgorazioni cangianti, sotto un cielo che in sala incombe muto al passare di nuvole rapide come pensieri (la drammaturgia delle luci è di Luigi Biondi, gli ambienti visivi e il disegno video sono di Maddalena Parise). Le performance sono tutte diverse per natura e misura che, come si legge ancora nelle note di regia, «raccolgono parole, tracce, immagini, liste, ritornelli e oggetti dall’universo scabiano», seguendo il passo «di una musicalità imbizzarrita», incoraggiando «il rapporto con il creaturale e l’inanimato», raccogliendo «il desiderio di rischio e di gioco, e la spregiudicatezza capace di radiografare i nostri tempi».
Così, mentre cerchi di capire che canzone la cantante di strada stia intonando, che ballo la coppia dɜ ballerinɜ stiano eseguendo o a chi il cacciatore stia dando la caccia, lei, lui, loro sono già passatɜ oltre, ad altro. Le parole, i significati, qui sono uno Scarabeo composto non muovendo le singole tessere, ma l’intero tavolo. Accade tutto insieme e tutte le strade sono ugualmente possibili: sta a te scegliere a chi andare dietro. E cosa leggerci.

Foto Ilaria Costanzo

Capitiamo, dunque, nel pieno di una cosmogonia, di una creazione in atto, con la Compagnia che si manifesta e si sottrae alla nostra vista in assoluta armonia. Come quando ballano l’Hully Gully su I Watussi di Edoardo Vianello: ciascunǝ trova il proprio tempo nel tempo comune deglɜ altrɜ. Tempo che, a intervalli cadenzati, li richiama all’ordine sul palco.
È l’annuncio di un nuovo giorno che inizia, per poi riattraversare le porte lasciate aperte dal sogno, quando l’orologio ha fatto il suo corso. Ancora una volta. Fino all’ultimo giro, che lascia le Beautiful Creatures nell’immobilità del sonno, e consegna noi alla sorpresa e al precipizio di fare nostri, da svegli, i loro intenti di libertà.

BEAUTIFUL CREATURES
Terre di lupi, di lantanidi e ginestre
un’Opera ispirata a Giuliano Scabia

un progetto de lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
drammaturgia del testo Roberto Scarpetti
parole di e con Giacomo Albites Coen, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Francesco Villano
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
drammaturgia delle luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
ambienti visivi e disegno video Maddalena Parise
spazio sonoro Pasquale Citera
tecnico video e collaborazione al disegno video Luca Brinchi
assistente alla regia e al progetto Matteo Finamore
e con le opere di Martina Biolo
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con lacasadargilla
con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato
e di Publiacqua

Prima Assoluta

Teatro Fabbricone, Prato | 25 ottobre 2024

Il clown Leandre, acrobata tra le porte, con N’imPORTE quoi al REF

Leandre Clown
ph da https://leandreclown.com/

ELVIRA SESSA / PAC LAB*| Toctoctoc. Colpi secchi e ripetuti. Sulla scena solo tre porte senza muri. Toctoctoc Toctoctoc. Ad un tratto, qualcuno dal pubblico si volta e sorride. Gli altri seguono il suo sguardo. In fondo alla sala, il clown Leandre (Leandre Ribera) avanza verso il palco con una porta sulle spalle. La conduce sul palco e la apre sulle altre. Da lì sbucano altri quattro clown (Laura Miralbés, Cristina Solé, Pere Hosta, Andreu Sans) che mettono in subbuglio la sua intimità. E il gioco delle porte ha inizio. Si aprono, chiudono, socchiudono, sbattono, schiacciano. Gli attori le attraversano o tentano di farlo, da soli, a gruppi di due, tre, contemporaneamente. In un vortice di azioni surreali ed esilaranti, tra capitomboli e salti.

Sin dal titolo, lo spettacolo N’imPORTE quoi, ultima creazione della compagnia spagnola Leandre Clown,  gioca con il concetto di ‘porta’ quale varco che può condurre a felici sorprese o pericoli.
Presentato per la prima volta in Italia al Teatro Vittoria di Roma, dal 25 al 27 ottobre, nell’ambito della rassegna Kids del Romaeuropa Festival 2024, ha per protagonista il clown Leandre creato da Leandro Ribera, clown-mimo catalano tra i migliori sulla scena internazionale e punto di riferimento europeo per il teatro di strada.

Poco alla volta si aggiungono altri oggetti di scena, trasformati nei modi più fantasiosi. La vasca da bagno diventa ora una barca ora una giostra saliscendi, il tavolo da stiro una tavola da surf o un animale imbizzarrito da cavalcare, la scala di alluminio si trasforma in due trampoli su cui Laura Miralbés si esibisce in una spassosa gag.
Rituali quotidiani – come spolverare il divano con il battipanni o girare il mestolo nella pentola – assumono un ritmo serrato, evidenziando l’assurdità di alcune abitudini casalinghe e si alternano ad azioni volutamente nonsense – come quella di lanciarsi in salti acrobatici per infilarsi al volo le pantofole – che fanno pensare al teatro dell’assurdo di Ionesco.
Tutto è affidato al gesto, alla mimica, alla sonorità degli oggetti di uso quotidiano e a qualche buffo vocalizzo estemporaneo dei cinque brillanti interpreti che si muovono con precisione, sincronismo e agilità in un affiatato lavoro di squadra.
Mani, gambe, braccia indicano, interrogano, salutano, appaiono, scompaiono tra le porte, si intrecciano e confondono tra loro al punto che neppure i clown sanno più se sono le loro o quelle degli altri compagni.
Le musiche (composte da Victor Morató) con sonorità klezmer, blues, jazz, sorreggono il ritmo della narrazione. La luce (Marco Rubio), per lo più calda e diffusa, si fa improvvisamente dura e piena di contrasti nei momenti di tensione come quello della fuga di Leandre perseguitato dagli altri clown.
Per settanta minuti ininterrotti, la platea – di grandi e piccoli, italiani e non – resta incollata alle sedute che abbandona solo quando uno dei clown, al suono del piffero, esorta i bimbi a salire sul palco e questi, increduli ed entusiasti, si precipitano da lui, gustando per qualche minuto l’ebbrezza delle scene.
E sono proprio i bambini a farsi sentire di più. Battono a ritmo le mani mentre Pere Hosta oscilla ipnoticamente un mazzo di chiavi, si uniscono in un “ooooh” dinanzi a una fragorosa pioggia di chiavi e nel vedere il canapé che si anima all’improvviso, ridono durante una cena paradossale in cui Miralbés scambia per spaghetti i suoi lunghi capelli e la pentola diventa uno strumento a percussione, mentre tutto intorno ruotano bicchieri impazziti e Miralbés viene presa da un singhiozzo irrefrenabile. I più piccoli vengono messi alla prova quando tutte le luci si spengono e gli attori si aggirano in platea con torce elettriche, finché uno di loro crea con le ombre una mano gigante che cerca di catturare Leandre.

L’umorismo poetico e riflessivo della pièce ricorda sia quello cinematografico di Buster Keaton, Charlie Chaplin, sia la lezione dei grandi artisti della scuola francese del mimo e del teatro gestuale, come Jacques Tatí, Marcel Marceau, Étienne Decroux.
N’imPORTE quoi, sui palcoscenici europei dal 2021, proseguirà la tournée in Portogallo e Spagna. Ha vinto il premio per il miglior spettacolo al FETÉN-2023 (Fiera europea del teatro per bambini e giovani, che si svolge a Gijón, Spagna), ricevendo encomi anche in altri festival spagnoli quali la Mostra Igualada e la Temporada Alta di Girona.
Il collettivo Leandre Clown si era peraltro già fatto apprezzare in Italia con Fly me to the Moon andato in scena lo scorso settembre a Milano e a Genova con protagonisti Leandro Ribera e Laura Miralbés, a cavallo di una bicicletta volante; ma anche questo appuntamento romano non ha deluso le alte aspettative degli spettatori di ogni età.

N’imPORTE QUOI

Direzione artistica: Leandre Ribera
Performer: Andreu Sans, Cristina Solé, Laura Miralbés, Leandre Ribera, Pere Hosta
Composizione musicale: Victor Morató
Scenografia: Txesca Salvà
Costruzione della scena: El Taller de Lagarto
Produzione tecnica & Lighting Design: Marco Rubio
Produzione e Management: Leandre SL – Agnés Forn 

Teatro Vittoria, Roma, 25 ottobre 2024

 

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Catania Fringe Off Festival #2: danza e sorpresa

SOFIA BORDIERI / PAC Lab* | Tra i cinquantanove spettacoli in programma nell’appena conclusa terza edizione del Catania Fringe Off Festival, in questo secondo capitolo siamo andate alla ricerca di proposte più legate alla danza contemporanea e al teatro fisico (qui il primo contributo di Elena Zeta Grimaldi). Dal 17 al 20 e dal 24 al 27 ottobre si sono svolte duecentotrentasei repliche di spettacoli organizzati per categorie, talvolta curiose, indicative del genere spettacolare per un orientamento a grandi linee dello spettatore dentro un’offerta così ampia. Un scelta forse un po’ netta e di semplificazione, che però può riservare sorprese a spettatori e spettatrici.

Parliamo subito della scoperta sorprendente di un lavoro che, nell’indice, è inserito nella categoria “Drammaturgia contemporanea” e appare, invece, come “Monologo” nella pagina ad esso dedicata nel programma; uno spettacolo, comunque, che poteva rientrare anche in “Danza” e “Teatro fisico”.
Entrando in sala, Annalisa Limardi è già in scena a riscaldarsi. Senza soluzione di continuità con le sue espirazioni sempre più rumorose, si inserisce la traccia sonora composta da una serie di versi e onomatopee ritmati e mixati fino a diventare una traccia dal sapore anni ’90. Un’euforia travolgente muove una pop dance interrotta da un’apatia prima intermittente che vince sempre più su quello stato esaltato, evidentemente fittizio.
Nel buio e nel silenzio, piombati nel frattempo con il prevaricare dell’angoscia, il microfono montato su asta viene illuminato da un occhio di bue sinistro: l’avvicinamento e poi il contatto con l’oggetto viene reso difficile da una repulsione tradotta in suoni assordanti, distorti.

La voice over dice: «parlami di te». Così, il microfono diventa personaggio, un condensato di voci esterne – quelle delle persone che ci circondano o più ampiamente di un gruppo sociale – bombardanti, indiscrete, inopportune. L’effetto delle voci si riversa sul corpo che, tra floorwork e movimenti sviluppati nello spazio, ne risulta torturato. All’apice della sofferenza psicofisica, arriva la reazione: dire no. Resistenze e rivoluzioni personali vengono tradotte in una danza fisica e poi vocale, attraverso un testo rap dal sapore poetico parlato e cantato dalla performer. La violenza verbale, grazie alla propria presa di consapevolezza, viene confinata al di fuori dello spazio personale che si relaziona con essa, solo a quel punto, in modo perfino giocoso.
Limardi con il suo NO, scrive una partitura fisica e verbale originale, solida e chiara. Uno spettacolo intelligente, capace di esprimersi senza cliché e modalità trite.

Sempre nella Sala Verde di Zō Centro Culture Contemporanee, all’ingresso sentiamo già Wannabe delle Spice Girls, mentre Simona Miraglia in total fucsia è indaffarata nella pulizia minuziosa del linoleum: invita tuttə a pulire le scarpe prima di accedere alle sedute utilizzando i due zerbini arcobaleno posti sull’ingresso. Gettato lo spazzolone per terra, con il suo tonfo cala anche il silenzio. In quest’atmosfera sospesa, improvvisamente privata dal contesto musicale precedente, la danzatrice sviluppa una serie di pose plastiche “macchiate” da automatismi gestuali legati alle faccende domestiche. La sua figura ritornerà alla fine, concludendo circolarmente.
Lo spazio viene allora lasciato a tre figure vestite di velluto e raso blu, cariche di una certa sacralità smussata dagli accessori bianchi in tulle che richiamano l’abito nuziale.
Come un rito processionale Silvia Oteri, Marta Greco e Amalia Borsellino (Collettivo SicilyMade) percuotono ognuna un pentolino con un cucchiaio metallico producendo ritmi che si intersecano, tempi e contro tempi ostinati. Da un atteggiamento inerte, l’agire gradualmente si fa più feroce: la rivolta è vicina.

I corpi, allora, ci immergono come in un sogno glitterato, una allucinazione realistica che ricorda le prime scene de La città delle donne di Fellini, in cui il “dovere femminile” è tradotto in dissenso attraverso uno slittamento di senso degli oggetti e del loro uso. Le danzatrici si liberano nello spazio con un flusso di movimento fluido caratterizzato da inserti di vogueing. Nella visione emerge un sentore di isteria, come esito di una liberazione troppo a lungo negata, che si sviluppa su una traccia che ricorda il suono iniziale dei pentolini, ma stavolta è dance anni Ottanta.
Proprio sull’apice, però, le danzatrici si adagiano al pavimento, sul tappeto di coriandoli sparpagliati durante la “festa” precedente. Dopo lo svago, giustamente arriva l’ora di ripulire, così Miraglia torna per spazzare via i residui della “bravata”.


NO

di e con Annalisa Limardi
regia Annalisa Limardi

THE THREE OF US
di Collettivo SicilyMade
con Amalia Borsellino, Marta Greco, Silvia Oteri, Simona Miraglia

CATANIA OFF FRINGE FESTIVAL | 24 ottobre 2024, Zo Centro Culture Contemporanee

 

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

 

Tiger Dad: il nuovo potente incontro tra Rosario Palazzolo e Salvatore Nocera

CHIARA AMATO / Pac Lab* | Dopo oltre dieci anni, lo scrittore, regista e attore Rosario Palazzolo ha deciso di affidare una sua nuova drammaturgia a Salvatore Nocera, attore prescelto per interpretare anche il precedente monologo Letizia forever. Palazzolo ha presentato il suo spettacolo al Teatro della Contraddizione di Milano, dopo il debutto a Savona presso le Officine Solimano. In Tiger Dad il drammaturgo e regista pone di fronte al pubblico la meravigliosa e preziosa contraddizione, per l’appunto, che vede in questo attore (oltre che performer e musicista con I pupi di Surfaro): una fisicità molto virile, robusta e irsuta, che racchiude, come in uno scrigno solido, una sensibilità scenica estremamente delicata.
In un’intervista rilasciata pochi giorni fa a Radio Onda d’Urto, il regista palermitano ha affermato di aver voluto consegnare il testo, con i suoi topoi e la sua umanità a Nocera, del quale ha un’enorme stima, nella certezza di averne altre forme riconsegnate e trasformate.

La vicenda distopica del protagonista, “scemo-lieve”, come lo definisce il medico alla madre, lo vede alle prese con il suo ultimo giorno di vita: siamo di fronte, infatti, al primo condannato a morte in Italia per volontà popolare, e il monologo è tutto sul racconto, non tanto dell’omicidio che egli ha compiuto, quanto piuttosto sulla dualità nella sua personalità, compressa tra il cartone animato superpop dell’Uomo Tigre e il santo Padre Pio di Montalcino.
Ma ancora questa sintesi risulta poco esaustiva, in quanto la scrittura di Palazzolo nasconde e svela su diversi piani narrativi le varie forme di disgusto che lo scrittore prova rispetto alla realtà in cui siamo immersi e che esamina, come in altre sue opere, con la lente di ingrandimento, amplificandone talune sfumature; e proprio da questa osservazione nasce la sua voglia di raccontare storie in una forma più che surreale.

E così cos’altro potremmo dire: che si parla dei social network e dell’intelligenza artificiale? Di un uomo che fa parte della schiera degli ultimi, deriso e strumentalizzato dai più? Della potenza della relazione/reazione conturbante che un regista può instaurare con il proprio pubblico attraverso l’esperienza scenica dell’interpretazione attoriale? Tutto questo e anche di più, in quanto gli elementi e gli spunti che vengono forniti allo spettatore sono moltissimi, forse anche troppi, come sotto un bombardamento.

Fin dall’inizio lo spettatore è chiamato in causa, prima ancora di entrare in sala, in quanto la sigla del cartone animato, cui si ispira il nome del personaggio, parte all’interno del teatro a tutto volume.
In scena (idea di Mela Dell’Erba, insieme ai costumi) è presente un tubo di led luminoso, posizionato a pavimento per ritagliare uno spazio irrisorio, che sarà il limite invalicabile per il nostro protagonista fino alla fine dello spettacolo. All’interno di questo perimetro vi è uno sgabello minuscolo, sopra il quale è seduto un uomo che indossa una tuta, degli stivaletti da pugile e, ovviamente, una maschera da tigre, dalla quale fuoriesce una barba lunga e intrecciata, in pieno stile vichingo: due laccetti lo bloccano ai polsi e alle gambe come un prigioniero, e le mani sono coperte da guanti con le dita tagliate, come quelli usati dal Santo per coprire le stigmate. Fuori da questa cella di isolamento/ring del nostro detenuto/lottatore, sulla destra, un’asta col microfono è posta in ombra.

Qui inizia a raccontarsi Tiger Dad, che mischia sin dall’inizio tratti ossessivi  e conturbanti (la voce bambinesca, i tic nervosi e i movimenti “balbettanti”, come se le sue gambe fossero spezzate) a una dolcezza e un senso di resa rispetto al suo destino.
Ci parla, con uno spiccato accento siciliano, della sua condanna, voluta da famigerati Sherlock Holmes, per un reato di omicidio che, fino alla fine, resta del tutto marginale, mentre si pone al centro la sua passione da bambino per il canto.
Continua così lo spettacolo su due piani d’azione: momenti tristi e momenti felici, che vengono segnalati anche dal cambio sonoro, dai toni cupi fino alle canzoncine dei cartoni animati anni ’80/’90 (musiche originali e effetti sonori di Gianluca Misiti).
Ulteriore accompagnamento narrativo è il disegno luci pensato da Gabriele Gugliara: la scena passa infatti schizofrenicamente dall’essere quasi totalmente buia (tranne che per il cono di luce sui toni dell’arancio che illumina il protagonista), a esplosioni di colori in tutte le direzioni, come in una discoteca, segno pop che torna in diverse creazioni del regista.

La compresenza di piani diversi di riflessione offre allo spettatore più domande che risposte: il cambio repentino dei punti di vista è un elemento tipico nei testi di Palazzolo che lanciano una sfida e generano un sano spiazzamento per il pubblico in sala. Ci sottopone a una iper comunicazione densissima, proprio come quella da parte dei mass media e dei social network, cambiando di frequente e arbitrariamente il fuoco dell’attenzione. Si ha la sensazione di essere in una centrifuga, sbattuti tra infinite questioni su cui riflettere, una su tutte la felicità, che “non è una cosa che si trova, è qualcosa che si perde” e che il nostro protagonista sembra non aver mai toccato con mano.
Come in Letizia forever, anche qui Palazzolo pone al centro di un piccolo e limitato spazio fisico un personaggio potente nel raccontarsi, lasciandogli creare un rapporto intimo con il pubblico: in entrambi i casi infatti, i protagonisti tirano in ballo lo spettatore/interlocutore immaginario, tanto che qualcuno in sala sente qui addirittura la necessità di rispondere, anche verbalmente, durante la rappresentazione. L’uso delle luci dai colori sgargianti e delle canzoni anni ’80 si colloca in quel panorama pop che al regista palermitano sembra essere molto caro: è indubbia quindi la riconoscibilità della sua poetica che si tinge di tonalità sia cromatiche che ambientali molto definibili e ricorsive. Le due storie finora affidate all’interpretazione di Nocera, ci portano in vicende privatissime: sono confidenze di personaggi che vivono al limite dell’invisibile, ma che permettono al regista di allargare lo sguardo su questioni molto più ampie.

Il valore aggiunto, anche in questo spettacolo, è sicuramente quello fornito dall’interprete che, pur restando all’interno di uno spazio scenico claustrofobico, riesce a dare una grande percezione di movimento, quasi nevrotico in alcuni momenti, quasi fanciullesco in altri. La sua narrazione è estremamente fisica, e infatti la sua barba “trasuda” durante la performance: canta (volutamente male), combatte contro le ingiustizie e tira calci a mezz’aria, si dispera e si racconta con dolcezza, fino a essere spietato al microfono nella conclusione, quando finalmente, in punto di morte, gli è concesso di cantare la sua canzoncina.
In origine riesce a instaurare con il pubblico un rapporto di empatia, fino a lasciare sul finale lo spettatore in angoscia, pur sommerso dai fin troppi stimoli e direzioni che la drammaturgia prende. Perché, oltre la consapevolezza della morte, quello che lascia il protagonista totalmente disarmato è che, anche in extremis, beffato come sarà dall’intelligenza artificiale, viene fatto sentire scemo “molto più che lieve” e decisamente disperato.
Alterna, durante il monologo, stili e toni estremamente diversi, non lasciando alla platea un attimo di noia o di quiete, assecondando di certo le volontà del testo. Scava nel sensibile dello spettatore e su aspetti ossessivi e pornografici del contemporaneo per ribaltarli su chi è presente, che poi è ciò che Palazzolo auspica rispetto alla sua forma d’arte e che chiarisce nelle note di regia: sceglie di adottare nelle sue opere un atteggiamento coercitivo nei confronti del proprio pubblico “affinché smetta di assopirsi davanti allo schermo dentro il quale condivide esistenze che non vivrà mai”.

 

TIGER DAD


di Rosario Palazzolo
con Salvatore Nocera
scene e costumi Mela Dell’Erba
light designer Gabriele Gugliara
musiche originali e effetti sonori Gianluca Misiti
aiuto regia Angelo Grasso
regia Rosario Palazzolo
una produzione Ama Factory e Cattivi Maestri Teatro con il contributo del Centro Studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo e con il patrocinio del Festival del Torto

Teatro della Contraddizione, Milano | 26 ottobre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Fear of the dark: Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis

Euripides Laskaridis in Lapis Lazuli

ENRICO PASTORE | Torinodanza e Festival delle colline torinesi 29 hanno ospitato in una serata condivisa, Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis, l’artista greco capace di sorprendere sempre il pubblico con la sua effervescente immaginazione.
Lapis Lazuli potrebbe incominciare con il classico “c’era una volta” delle favole e, come in ogni fiaba che si rispetti, veniamo precipitati, come Alice, in un mondo delle meraviglie venato di oscurità. Gli attori entrano con le maschere alzate quando le luci di sala sono ancora accese ma improvvisamente, come cantano gli Iron Maiden in Fear of the dark, quando queste cominciano a cambiare si comincia ad avvertire qualcosa di strano e veniamo presi da una piccola ansia. Siamo in un sogno, come in Inception, e come nel film non abbiamo il completo controllo dell’inconscio altrui.
Le maschere a forma di sole dei cinque personaggi sulla scena, si tramutano in mostri. Un lupo mannaro, un demonio, un dottore che pare Jason di Venerdì 13. Queste creature inquietanti sono però anche simpatiche. Ci fanno sorridere per le loro stranezze, con le vocine acute o ringhi bestiali. Sembrano innocue dopotutto. Lo spazio diventa una foresta incantata illuminata da una luna di gommapiuma più simile a una grande focaccia in una teglia che a un astro del cielo. Pochi rami d’albero finto, dei bastoni con dei guanti gonfiati per simulare degli strani uccelli in volo, un poco di fumo, ed ecco lo scenario per la fuga di una fanciulla dal lupo mannaro. Tutto fa pensare a un penny dreadful, uno di quei romanzetti dell’orrore che andavano tanto di moda nell’Inghilterra vittoriana, o a un episodio di Once upon a time.

Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis

Ma Laskaridis non è un artista a cui piace accomodarsi su un binario unico che porti lo spettatore a un finale facilmente intuibile. La foresta si tramuta senza alcuna logica in uno studio psichiatrico dove una bara piena di paglia sostituisce il lettino. Il lupo mannaro non riesce a fare i patti con la sua natura perennemente scissa tra l’umano e il bestiale. Ha bisogno di conforto, ma questo dottore è più interessato a torturarlo e tentarlo con gli uccellini di gomma che inevitabilmente finiscono tra le fauci del lupo spandendo piumette sulla scena. Si cambia ancora, siamo nella casa della fanciulla, insidiata dal lupo mannaro, ma non illudiamoci che tutto sia scontato, sarà il mostro ad aver paura della fanciulla.
Le scene si susseguono così come le atmosfere. Si evoca Meliès quando al lupo si porta la luna piena come fosse un torta di compleanno su cui campeggia una candela storta e mal funzionante. Si cita il David Lynch di Twin Peaks, con quel sipario rosso sullo sfondo, la canzone melensa e quelle due maschere che danzano affiancate. Laskaridis come un funambolo fa il giocoliere sulla corda facendo roteare davanti a noi immagini e sensazioni. Ci fa sorridere, ma lasciandoci la certezza che tutta questa bellezza in realtà parli di una natura oscura infissa nel profondo dell’animo nostro. Una natura indigesta che spinge il lupo mannaro a vomitare davanti a noi tutti gli oggetti di scena.
Dietro a quel sipario rosso sul fondo ecco apparire una pietra azzurra. Luminosa, splendente. E il lapislazzuli, magica pietra le cui polveri diventavano il colore azzurro sui manti di Maria nelle sacre icone o nelle pale d’altare. Una pietra preziosa per i gioielli che decoravano orecchini, anelli, e collane, pietra che indicava la purezza dell’anima della donna che li portava. Simbolo di saggezza e verità la pietra si credeva avesse un effetto calmante per la mente e il cuore. È il nume tutelare dello spettacolo, un esorcismo contro le inquiete sensazioni che si agitano dietro i nostri sorrisi.

Lapis Lazuli di Euripides Lascaridis

Ma ecco sulla scena un momento di avanspettacolo. Deformi uomini primitivi con gonnellini di paglia danzano mentre un imbonitore da fiera sul un palchetto improvvisato e tra le luci e le musiche sgozza dei buffi animaletti, un porcellino, una capretta, dal cui corpo non sprizza sangue ma denari finti come monete di cioccolata. É un sacrificio necessario ci rassicura. Ma poi le luci cambiano, da uno scatolone emerge un grande cavalluccio marino e ci avviamo verso il finale. Il lupo mannaro e i suoi amici inquietanti ci invitano a riflettere su quanto è stato evocato: «Surrealismo? Sì! Stravaganza? Sì!» Ma avvertono «It’s a beautiful, beautiful show, in a difficult, difficult life».
Lo spettacolo, per quanto fantasioso, godibile, divertente, inquietante non è la vita. La rappresenta, ci permette di comprenderla, metabolizzarla. Come il sogno è una valvola di scarico, una lavatrice entro cui le immagini diurne vengono miscelate e riproposte con un senso più profondo e più vero.
Euripides Laskaridis ci propone un’arte colta e diretta, commistione perfetta di cultura alta e bassa (sempre che questa distinzione abbia ancora un significato), un nuovo teatro popolare perché rivolto a chiunque, dove non è necessario comprendere, basta farsi coinvolgere e lasciar agire l’inconscio. Le immagini che ci propone rimarranno impresse nel nostro animo agendo come un farmaco a lento rilascio. Laskaridis si presenta come un novello sciamano, un trickster capace di esorcizzare l’oscurità e tramutarla in luce, un imbroglione promotore della verità. Nelle sue magie, nei suoi trucchetti di scena, fa emergere il sale della vita e ci fa assaporare il potere curativo della fantasia.

 

LAPIS SLAZULI

un pezzo per cinque interpreti
ideato e diretto da Euripides Laskaridis
con Angelos Alafogiannis, Maria Bregianni/Eftychia Stefanou, Euripides Laskaridis, Dimitris Matsoukas, Spyros Ntogas
musiche originali e sound design Giorgos Poulios
consulente drammaturgico Alexandros Mistriotis
scenografia Sotiris Melanos
disegno luci Stefanos Droussiotis
ONASSIS STEGI | coproduzione Théâtre de la Ville, Théâtre de Liège, Espoo Theatre Finland
Torinodanza Festival | Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale
Teatros del Canal, Teatro della Pergola Firenze, Festival Aperto / Fondazione I Teatri Reggio Emilia e Big Pulse Dance Alliance

Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis | Torinodanza -Festival delle colline torinesi 29
Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri (TO) il 23 ottobre 2024

Old Fools: la partitura della memoria negata dall’Alzheimer

ESTER FORMATO | Nel panorama della drammaturgia anglosassone contemporanea, molto vivo e vario, capita spesso di imbattersi in plays in cui è evidente la presenza di scritture assimilabili ai linguaggi della fiction cine-televisiva, che portano in scena caratteri e dialoghi estremamente naturalistici.

Fra questi fa capolino Old Fools di Tristan Bernays, diretto da Silvio Peroni, interpretato da Marianna de Pinto e Marco Grossi, andato in scena al Filodrammatici di Milano.

Priva di qualsiasi indicazione scenografica, la scena è esclusivamente caratterizzata dai toni tenui delle luci a cura di Claudio De Robertis, motivo per il quale tutto lo spettacolo si svolge in un contesto chiaroscurale e copre un arco temporale lunghissimo, dal momento che si narra della storia d’amore fra Tom e Viv.

Dal punto di vista drammaturgico, l’intreccio si organizza in una serie di quadri narrativi, scanditi proprio dalle luci che si spengono e riaccendono, che non seguono la linea temporale, ma – ed è forse l’aspetto più originale del lavoro – sono montati secondo un’intrinseca coerenza, ovvero: un elemento chiave di una scena ci trasferisce in quella dopo, che coincide con un momento importante – precedente o successivo – nella vita dei due personaggi.

Questo impianto rende forse, per i primi dieci minuti, lento l’avvio dello spettacolo, per poi fluire senza alcuna difficoltà, mostrandosi anzi molto scorrevole, e da un punto di vista emotivo davvero impattante, se consideriamo anche la naturalezza del testo che, come già detto, ricorre ad un taglio cinematografico piuttosto che teatrale e l’idea di mettere passo dopo passo insieme i pezzi della storia.

Qual è la storia; la vicenda di Tom e Viv è quella di due giovani che con la personale valigia di sogni, si incontrano una sera. Musicista lui, linguista lei, si conoscono, si innamorano, si amano fino a incastrare la vita di uno in quella dell’altro. La storia di un matrimonio, quindi, costellato dalla paura di non avere un figlio (che invece nascerà), di dover rinunciare ai propri sogni o alle proprie aspettative; e ancora, la scoperta di un tradimento, la rabbia e il dolore, il perdono, un nuovo inizio…

Ma cosa c’è dietro questo nuovo inizio, Bernays ce lo svela man mano, insinuando subdolo, l’elemento fondante della storia, sbriciolandolo scena dopo scena, finché si ha la certezza esatta che si tratti dell’alzheimer. Ospite inatteso, spettro inesorabile, condannerà Tom ad una lentissima decomposizione di se stesso fino all’inevitabile disconoscimento di tutto, e così, purtroppo, anche della sua Viv che, ormai già nonna, resta confinata nella sua solitudine accanto ad un vecchio divenuto larva.

La regia a questo punto sceglie, secondo la legge del contrappasso, di marcare i confini temporali dei quadri narrativi con esatti movimenti scenici dei personaggi, degli scossoni elettrici, come a cercare una sollecitazione alla ricostruzione di una memoria che vediamo srotolarsi, scomposta, ma che in realtà almeno uno dei due protagonisti non possiede più.

Dicevamo che lo spettacolo è emotivamente impattante. Lo è nella misura in cui il tema della malattia entra nella vicenda in maniera subdola, cosicché lo spettatore ne prende consapevolezza in modo graduale, come testimone diretto di quanto accade al personaggio stesso.

Cornice sonora di tutto ciò è la sola The way you look tonight, storico pezzo che ci catapulta nel mondo metropolitano delle grandi città che la coppia abita nel corso della vita; insomma  la semplicità delle scelte regisriche è perfettamente connaturata alla natura intrinseca del testo.

Prodotto da Malalinguae e Festival Trame Contemporanee, il lavoro, che ha avuto anche il sostegno dell’Associazione Alzheimer Italia, affronta in modo nemmeno troppo sofisticato il tema della malattia, restando sulla soglia del problema, integrandolo piuttosto in una narrazione più ampia e complessiva, quale una storia d’amore le cui tappe, comuni a tante altre storie, sono raccontate senza una particolare e articolata prospettiva, se non forse con un po’ di ingenuità e semplicismo.

D’altro  canto,  è evidente come la stessa semplicità del testo favorisca umana empatia e vicinanza fra personaggi e pubblico, rafforzate anche dall’immedesimazione che ne fanno Marianna de Pinto e Marco Grossi.  Restano fuori però delle potenzialità non esplorate, un soffermarsi meglio e più lentamente, più che dipanare velocemente i fili di un’intera vita che non lascia intravedere alcuna complessità dei caratteri e della loro relazione. Forse è ciò che avremmo voluto conoscere  per rubare qualche sottotesto prezioso e portarcelo dentro. Nella buona e nella cattiva sorte.


OLD FOOLS

di Tristan Bernays     
traduzione
Noemi Abe      
regia Silvio Peroni 
con Marianna de Pinto e Marco Grossi  
luci Claudio De Robertis 
musiche Oliviero Forni       
scene Riccardo Mastrapasqua

costumi Monica De Giuseppe

assistente alla regia Lara De Pasquale      

Salomè balla da sola: madalena reversa al Festival delle colline torinesi 29

madalena reversa Salomè ph: Andrea Macchia

ENRICO PASTORE | C’è stato un tempo in cui Salomè era un personaggio pericoloso. Da quando Oscar Wilde nel 1891 pubblicò il testo, sul corpo della principessa di Giudea si addensarono fosche nubi e rosee speranze. Per il mondo maschile si incarnavano nella sua figura tutte le ansie nei confronti della nascente Nuova Donna, ben lontana dallo stereotipo dell’angelo del focolare, una donna disobbediente, di prorompente sensualità, capace con la sua danza lasciva di far crollare i regni. Huysmann la definiva “dea dell’immortale isteria”. Per le donne, quelle che agognavano maggiori diritti, rappresentava invece la capacità di autodeterminarsi e la libertà nei costumi sessuali. La ballerina o l’attrice che impersonava Salomè sulla scena si trovava al centro di questo acceso dibattito, simbolo di minaccia alla stabilità sociale per gli uomini, paladina di libertà per le donne, soprattutto per le suffragiste. Intorno a Salomè si costruirono o vennero distrutte intere carriere.

La prima a doverla impersonare fu la divina Sarah Bernhardt, all’età di cinquant’anni, ma le prove vennero interrotte a causa del processo a Oscar Wilde che fu la prima vittima del caso Salomè. Interi brani del testo vennero letti durante il procedimento penale per dimostrare la perversione dello scrittore, che fu per questo condannato a due anni di detenzione e rovinato nella reputazione. Non si riprenderà mai dall’esperienza del carcere e morì in povertà pochi anni dopo. La sua carriera fu stroncata e la principessa di Giudea bandita dalle scene inglesi fino al 1932.
Fuori dai confini inglesi invece il successo di Salomè crebbe a vista d’occhio. Non vi fu diva, danzatrice o attrice, che non si provò nella parte. Scoppiò quella che fu chiamata Salomania. La prima fu Loïe Fuller nel 1895 in una versione castigata nel costume e riabilitante nelle intenzioni. Salomè era una vittima del desiderio di Erode. Scalpore fece Ida Rubinstein che a Pietroburgo danzò quasi nuda, così come Aida Walker che nel 1908 fu la prima danzatrice afroamericana a interpretare il ruolo sconvolgendo lo stereotipo che un personaggio di razza bianca non potesse essere assunto da un’artista di colore. Salomè sbarcò perfino in Giappone nel 1914 dove Sada Yacco e Sumako Matsui ne proposero due versioni contrastanti. Sada fece una versione elegante ma molto criticata. Il pubblico non gradì il costume poco sensuale che velava l’intero corpo, ma soprattutto rimproverò alla diva la sua età. Non si poteva interpretare una giovane principessa all’età di quarantacinque anni. E pensare che la Bernhardt avrebbe dovuto recitare la parte a cinquanta. Sumako invece mostrò molto del suo corpo formoso e incontrò il plauso di pubblico e critica.
Chi pagò il prezzo più alto fu Maud Allan, la cui Vision of Salomè, scandalizzò tutta Londra, non solo perché era quasi svestita ma perché osò danzare a piedi nudi, un vero tabù sessuale dell’epoca. Ma ciò che fece infuriare i partiti di estrema destra fu l’intenzione di mettere in scena il testo di Wilde e scatenarono contro di lei una campagna diffamatoria che portò nel 1918 al clamoroso processo Perberton-Billings, dal nome del deputato che accusò la Allan di alto tradimento. La tesi di Pemberton-Billings, quanto mai fantasiosa, era che la Allan diffondesse idee perverse volte a indebolire lo spirito della gioventù e il fronte interno britannico. Il fatto poi che la Allan fosse lesbica era motivo di ulteriore riprovazione. Ancora una volta venne letta in tribunale la Salomè di Wilde e ancora una volta la sentenza puniva l’artista. La carriera della Allan fu distrutta.

Madalena Reversa Salomè Ph: Andrea Macchia

Mata Hari, che non interpretò mai Salomè sulle scene nonostante avesse scritto accorate lettere a Strauss per ottenere la parte, essendo ballerina e sospetta spia, incarnò Salomè nella vita come colei che seduceva gli uomini e minava la stabilità dello stato in tempo di guerra, e venne per questo fucilata. Niente dagli atti processuali dimostra che fosse altro che un’avventuriera improvvida e sconsiderata alla ricerca di denaro per scappare con il suo giovane amante, ma nonostante questo passò alla storia come la spia per antonomasia.
Questo lungo preambolo non è uno sfoggio di conoscenza ma la necessaria premessa a una riflessione sulla Salomè seconda creazione di madalena reversa (gruppo costituito da Maria Alterno e Richard Pareschi). Fin dal foyer della Lavanderia a vapore si diffonde una fitta nebbia. Si fatica a mettere a fuoco persone e cose. Quando calano le luci la nebbia si inspessisce e vediamo Salomè (in scena Gloria Dorliguzzo) muoversi solitaria sul palco, fiocamente illuminata come sotto un lampione in una strada buia d’autunno torinese. Uno schermo ci rimanda alcune frase e domande che riguardano l’assenza degli dei, la loro morte nel nostro presente. Madalena reversa riflettono infatti sullo Spirito del nostro Tempo. Un tempo buio, dove è difficile scorgere figure significanti nella nebbia.
La Salomè che danza fatica a mantenere l’equilibrio, cammina incerta, si muove a scatti, come una sonnambula (sempre Huysmann scriveva: «pari a una sonnambula […] eletta fra tutte le catalessi che le fa di marmo le carni, di ferro i muscoli»). Salomè, benché privata della capacità seduttiva e della sensualità animalesca, rimane una creatura della notte. Non è più menade o sacerdotessa della luna, non possiede l’irriverenza spiritosa che le conferisce Laforgue, non sembra nemmeno una strega. Pare più un essere sofferente, sperduto nella foschia, alla ricerca di un occhio che la possa guardare e restituirle il potere di far tremare i polsi e battere il cuore.

madalena reversa Salomè ph: Andrea Macchia

Salomè balla da sola, non c’è Erode e il suo desiderio, a meno che non si supponga sia pubblico o il grande monolite sullo sfondo. Non c’è un capitano Narraboth che possa cadere preda della sua malia. Non c’è nemmeno un Giovanni da decollare. La solitaria danzatrice balla in un mondo sonoro elettronico e postindustriale vuoto di presenze umane e spirituali. È come se avesse perso il suo potere di mettere in discussione lo status quo e ne sia diventata piuttosto l’immagine. I madalena reversa scrivono infatti che Salomè: «si fa specchio, superficie liquida da percepire attraverso l’aura che produce».
Povera Salomè! Non più oggetto di strali e invettive, non più simbolo di liberazione e disobbedienza, non più simbolo di sensualità prorompente e pericolosa, ma solo della decadenza dei tempo. Un essere sperduto nel buio nebbioso in cerca di sé e degli altri una creatura di cui provare pietà e compassione. Salomè pare un mito che abbia perso tutto il suo smalto, come gli antichi dei di American Gods di Neil Gaiman. Di lei dicono nel programma di sala che: «si insinua nell’autoreferenzialità e nell’egotismo, nel materialismo del desiderio, nell’ultraviolenza e nel nichilismo estremo che abitano il nostro Presente». Eppure è ancora forte oggi, nel nostro tempo, il pregiudizio della donna che seduce i politici e destabilizza l’ordine sociale. Lo vediamo negli scandaletti quotidiani dove il politico maschio di turno cade preda di una donna senza scrupoli che lo accalappia con la sua sensualità. Mai che sia il maschio il seduttore, quello che mette in crisi le istituzioni con i suoi comportamenti sconsiderati. Salomè avrebbe ancora molto da dire oggi. Potrebbe ancora gridare al mondo la sua disobbedienza a quel re che la desidera quando non dovrebbe, a quei poeti che hanno visto in lei solo una sentina di vizi, a coloro che giudicano il suo desiderio come immorale. Salomè dovrebbe ritrovare fiducia in se stessa, rifiutarsi di essere simbolo delle idee degli altri e uscire dalla nebbia in tutto il suo splendore.

 

SALOMÈ

Ideazione e regia Maria Alterno e Richard Pareschi
Composizione coreografica e interpretazione Gloria Dorliguzzo
Musiche originali Donato Di Trapani
Disegno luci Andrea Sanson
Direzione tecnica e fonica Francesco Vitaliti
Mandibola Plastikart Studio di Zimmermann & Amoroso
Progetto grafico Federico Lupo
Produzione madalena reversa
In collaborazione con Motus VAGUE
Coproduzione Triennale Milano Teatro, TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi
Con il sostegno di C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche / ZUT!, Anagoor

Festival delle colline torinesi 29 | Lavanderia a vapore, Collegno – 18 ottobre 2024

Catania Off Fringe festival #1: dal Sud tra denuncia e testimonianza

ELENA ZETA GRIMALDI| Giunto alla sua terza edizione, il Catania Off Fringe Festival sta guadagnando velocemente la fiducia del pubblico: basta fare un giro tra le biglietterie per rendersi conto che le persone che decidono di immergersi nel vortice di spettacoli Fringe sono sempre di più, sempre più attenti e sempre più curiosi.

Come il Milano Off, con cui è gemellato e che si è da poco concluso (ne abbiamo scritto qui, qui e qui), il tema del 2024 è Viaggio tridimensionale: Marco Polo è preso a «iconica rappresentazione della missione culturale dell’Italia nel mondo», il suo viaggio diviene il simbolo del viaggiare nel mondo, nelle città che ospitano il festival, ma anche del viaggio dentro noi stessi che il teatro stimola.

Come gli scorsi anni, siamo andati a curiosare tra gli spettacoli del festival.

Il primo visto nella città dell’Etna è stato Ed io l’amavo della siciliana Associazione I musicanti, scritto da Chiara Putaggio e diretto da Francesco Stella. In scena Adriana Parrinello nei panni di Filippa Di Dia, moglie del sindacalista comunista Vito Pipitone che l’8 novembre del 1947 fu freddato da un colpo di fucile allo stomaco. Lo spettacolo è un lungo monologo in siciliano, in cui Filippa racconta al pubblico del marito, del loro amore, e della decisione di Vito di impegnarsi nelle lotte sindacali. Particolare rilievo, in questa prima parte, ha la descrizione della situazione che al tempo intercorreva tra braccianti e possidenti di terra, questi ultimi spesso mafiosi o accordati con mafiosi per proteggere ettari ed ettari di terreni abbandonati dalla possibilità che i più poveri se ne appropriassero. E non con la forza, ma semplicemente coltivandoli, come permesso da una nuova legge a riguardo. Ma la legge non è che un pezzo di carta, e se lo Stato non si prodiga per farla rispettare, non vale niente.
È questo il nucleo tematico più interessante, la discrepanza tra Legge e realtà: non solo Vito viene ucciso per aver incitato i contadini a rivendicare un diritto sancito per legge, non solo viene protetto solo sul letto di morte, ma, una volta passati i funerali di Stato in pompa magna, viene totalmente dimenticato. Nella parte centrale dello spettacolo, la donna pone l’accento sull’ipocrisia di una Legge fatta di formalismi e commemorazioni, che tiene molto all’apparenza e poco alla sostanza; una Legge che, in fondo, abbandona non solo i più deboli e chi prova ad aiutarli, ma soprattutto chi, come Filippa e i suoi figli, è costretto a convivere con la tragica (e giuridicamente irrisolta) morte di una persona amata.
A parere di chi scrive, sarebbe stato molto interessante concentrarsi di più su questo aspetto della vicenda, renderlo il nucleo drammaturgico generativo dello spettacolo, e non solo il passaggio cronologicamente centrale. È forse questo il motivo per cui la struttura drammaturgica nel suo complesso appare debole: i tre momenti di cui si compone sono legati esclusivamente dalla cronologia dei fatti (l’inizio col racconto dell’amore verso il marito, la morte e il funerale al centro e la richiesta di ricordare Vito nel finale), è come se mancasse un fil rouge che tesse nella trama un discorso più complesso della semplice testimonianza.
La Parrinello si destreggia con grande dignità nella recitazione quasi interamente in siciliano del testo, che ha i suoi momenti stilisticamente molto curati, ma che nel complesso resta ancorato al letterario, senza riuscire a diventare azione drammaturgica. Anche nello stare in scena l’attrice riesce a mantenere una certa compostezza, a dispetto della regia che si limita a minimi movimenti o cambi di posizione nello spazio, il che, se da un lato aiuta il pubblico a concentrarsi sul siciliano, dall’altro non sostiene l’atto recitativo e rende lo spettacolo un po’ piatto: una storia toccante, una testimonianza importante, che però non riesce appieno a diventare Teatro.

Foto di Angelo Maggio

Il secondo spettacolo a cui assistiamo ha un taglio completamente diverso: Smart work della compagnia calabrese Mammut teatro, diretto da Gianluca Vetromilo e scritto insieme ad Armando Canzonieri, vincitore di due premi al Milano Off, è una disillusa fotografia del nostro tempo, sicuramente di una parte di chi lo vive. Questo è evidente fin dal titolo, che viene utilizzato nell’accezione letterale, non tanto per rimandare al “lavoro da remoto” che tutti purtroppo siamo stati costretti a conoscere nell’inverno 2020, ma per far emergere il sarcasmo di appellare come intelligente («smart») tutto un settore di occupazioni spacciate come flessibili e autonome ma che, neanche troppo in fondo, non sono altro che precariato, sfruttamento e, non ultimo, alienazione.
In scena un potentissimo Francesco Rizzo che, all’accensione delle luci, appare abbracciato, quasi fuso, con il suo grande amore: una bicicletta vintage. Basta poco a inquadrare un personaggio che conosciamo fin troppo bene: meridionale di stanza a Milano, una laurea in Comunicazione che non ha portato ad alcun inserimento nell’ambito, si divide tra diversi lavoretti part time per pagarsi una minuscola stanza in un appartamento condiviso. L’autopresentazione del protagonista si alterna, come a completarne la figura, agli annunci di lavoro che trova su internet, proposte dal tono squillante e piene di promesse di carriera, tutte diverse ma tutte uguali, e soprattutto tutte obbligatoriamente da prendere in considerazione se non si vuole tornare giù, a casa da mamma e papà.
La parabola dello spettacolo ci mostra, con una studiata commistione di pathos e ironia, l’odissea che (almeno una volta nella vita, sicuramente) la quasi totalità degli under40 ha vissuto: estenuanti colloqui di lavoro, pomeriggi passati al call center a farsi chiudere il telefono in faccia, nottate invernali a pedalare per guadagnare qualche spicciolo da una consegna, e soprattutto il ricatto latente che serpeggia (neanche troppo velatamente) in ogni discorso del “capo”, che sia un uomo in carne e ossa o un’app.
Particolarmente riuscita e significativa è proprio la scena del colloquio di lavoro: sotto una pioggia di luce fredda che ricorda un interrogatorio, il ragazzo è costretto a rispondere a una raffica di domande, sempre le stesse, che sono un modo per sondare e, auspicabilmente, piegare le resistenze del candidato a una totale sottomissione alla sua mansione. Mentre viene bombardato dai vari «Perché vuole lavorare con noi?» o «Cosa pensa di poter portare alla nostra azienda?», il ragazzo, in sella alla bici fermata a terra da un piedistallo, pedala, sempre più forte, con sempre più affanno, mentre le domande incalzano: la vera maratona, la vera sfida, la vera fatica da sopportare è proprio rincorrere quel modello di operatore sorridente e ligio al dovere a qualsiasi costo (per sé e per gli altri), che è l’unico requisito davvero importante per l’assunzione.

Foto di Angelo Maggio

Tra una parte e l’altra, lo spettacolo è intervallato da bruschi abbassamenti di luce, durante i quali da un grammofono posto in proscenio vengono fuori le voci di personaggi famosi (da Briatore a Renzi) che parlano di giovani e lavoro: chi la prende di petto, chi la condisce di moine; il succo resta sempre che il lavoro è più importante di qualsiasi cosa. La domanda pressante, non ignorabile, bruciante che la giustapposizione di azione scenica e referto del reale fa emergere è: davvero lavorare è così importante da giustificare il totale annientamento di una persona e della sua vita?
Come è giusto che sia, lo spettacolo non ci dà direttamente la risposta; ma tutto in questi 50 minuti – dalla drammaturgia asciutta e chirugica, alla regia fresca ed equilibrata, dalla presenza scenica dell’attore sempre in linea coi cambi (anche repentini) di atmosfera, al rapporto con la platea dosato con intelligenza – porta a porsi quell’unica importantissima domanda. Alla fine dello spettacolo, il pubblico quasi non vuole lasciare la sala: vuole sapere. Sapere fino a che punto quello che hanno visto è vero, sapere quanto di questo vero i componenti della compagnia hanno provato sulla propria pelle; forse per riportare la finzione scenica al reale, o forse nella inconscia speranza che la risposta possa essere «Poco», «Lo abbiamo letto nel reportage di Tal de’ Tali». Forse entrambe. Perché, anche dopo gli applausi, insieme ai sorrisi e all’empatia, Smart Work ti lascia dentro una rabbia impotente; e tanto più è evidente l’impotenza, tanto più si acuisce la rabbia; perché non è l’impotenza della rassegnazione, ma l’impotenza che deriva dal prendere atto che il meccanismo che lo spettacolo ha chirurgicamente sezionato e messo in scena non è frutto del caso, dello sbaglio, della mela marcia, ma di un calcolo preciso. Sarà possibile, a queste condizioni, vincere la partita? Forse, l’unico modo è abbandonarla.

 

ED IO L’AMAVO

di Chiara Putaggio
regia Francesco Stella
con Adriana Parrinello
luci Francesco Stella
musiche Gregorio Caimi
costumi Francesco Stella
produzione Associazione I musicanti

 

SMART WORK

di Gianluca Vetromilo, Armando Canzonieri
regia Gianluca Vetromilo
con Francesco Rizzo
luci Gianluca Vetromilo
musiche JVAS
costumi Gianluca Vetromilo
produzione Mammut teatro APS

CATANIA OFF FRINGE FESTIVAL | 19 ottobre 2024

Questa volta è morto male di Morganti / Scarpellini / Trotta: morire in scena è l’arte di una vita

Questa volta è morto male. Foto di il Lavoratorio

MATTEO BRIGHENTI | Un monologo, un breve, brevissimo monologo al leggìo. Le ultime, memorabili parole del vecchio maggiordomo Firs alla fine del Giardino dei ciliegi di Anton Čechov. Legge Claudio Morganti e richiama, si impossessa e ridà vita alla magistrale interpretazione di Renzo Ricci nello storico spettacolo diretto da Giorgio Strehler. È una delle manifestazioni di immaginazione attoriale più pure che abbia mai visto. Una commovente epifania. Dura un niente, ma dice tutto sul potere del teatro. E lo fa attraverso il morire in scena, l’arte indagata in Questa volta è morto male. Questo il titolo del momento di lettura che Morganti condivide con Attilio Scarpellini e Renzo Trotta, e che fa da introduzione alla proiezione del videosaggio Il sogno di un destino. Come muoiono gli attori dello stesso Trotta.

Questa volta è morto male. Foto di Matteo Brighenti

Lo spazio che accoglie una simile evocazione è Il Lavoratorio di Firenze, pensato, fondato e diretto da Andrea Macaluso, che inaugura così la sua nona stagione teatrale, con uno dei rari ritorni di Morganti alla scena. Un maestro del teatro di ricerca che si riprende, per pochi eppur infiniti minuti, il palcoscenico, per testimoniare che la ricerca del nuovo è illusoria. Bisogna cercare, piuttosto, qualcosa di originario. È importante avere dei maestri, provare a capirli, per capirci meglio. E Morganti l’ha trovato, tra gli altri, nella presenza di Firs attraversata dal magistero di Ricci, nella sacralità di quell’atto e nella fiducia nella parola.
«Chi potrà dimenticare il decrepito Firs di Renzo Ricci? – scrive Angelo Maria Ripellino su L’Espresso del 9 giugno 1974 – alla fine, nella muffa del buio che succede alla smodata bianchezza, si stende, come il guardiano di una cripta deserta, su un canapè ricoperto di tela e lugubre rantola le sue ultime battute». Un rantolo che, scrive Paolo Emilio Poesio su Etinforma del 1999, «parve avere riverberi beckettiani, quasi a simboleggiare l’avventura dell’uomo in quanto uomo, carne umana che passa”».

Claudio Morganti fotografato da Ilaria Costanzo per il progetto in esclusiva Lavoratori – artisti al lavoro a Il Lavoratorio

Anche Morganti, introducendo il monologo, parla di «maschera di carne», con cui l’attore riesce a restituire l’abbandono, l’addio, la perdita del giardino. E della vita. Čechov non dice che Firs muore. Dice che rimane immobile, come i ciliegi su cui lontano si abbatte la scure del tempo che avanza. A una tale immobilità Ricci consegna una recitazione marcata, manifesta – quasi «da teatro Nō», propone Morganti – una recitazione recitata, che ottiene un effetto di verità proprio perché va nella direzione opposta, quella della finzione. Non è falsità: è rappresentazione. Lǝ spettatorǝ sa che lǝ attorǝ non muore, ma può credere alla morte che vede, se questa esprime la maestria dell’interprete nell’aderire, in modo autentico, alla propria idea di costruzione del personaggio. In poche parole: se lǝ attorǝ è bravǝ. E Ricci lo era, eccome.
La realtà descrive, non racconta. La natura resta in superficie, non apre ad alcuna profondità. Lo spiega bene Scarpellini nel raccontare l’aneddoto dietro al titolo dell’incontro al Lavoratorio. Quando Molière porta in scena Il malato immaginario è malato per davvero: da tempo soffre di tubercolosi. Il 17 febbraio 1673, la sua ultima replica, si sente male in scena. Allora, una severa e fedelissima spettatrice pare abbia esclamato: «Questa sera Molière è morto male!». Il malore gli è fatale: muore quella notte stessa.

Attilio Scarpellini

Male, dunque, perché espressione del vero, non del finto. La morte a teatro è un gioco, uno sberleffo della vita, perché sul palco è sovrano «l’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo», come recita la poesia Impressioni teatrali di Wisława Szymborska, ricordata sempre da Scarpellini. Una prospettiva affascinante che deflagra in tutta la sua vertigine nella monumentale opera video di Trotta, che ha aperto il pomeriggio con la lettura di un racconto di Čechov, Il maestro.

Nasce da una domanda su Facebook – Qual è la morte che più vi ha sorpreso, indignato, commosso in un film, in uno spettacolo? – Il sogno di un destino. Come muoiono gli attori, che ha vinto nel 2022 il Premio Adelio Ferrero nella sezione internazionale videosaggi. Da Blade Runner di Ridley Scott a Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, da Il cigno nero di Darren Aronofsky a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, passando per Troy di Wolfgang Petersen e Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, sono un centinaio i film d’autore, di genere, di intrattenimento, e ancora di più le inquadrature – tra le più famose, come le più segrete della storia del cinema – per indagare visi, sguardi, corpi, che hanno saputo morire “bene”.

Renzo Trotta

La nostra morte è l’esperienza di una volta e per sempre, di una volta e mai più. Non possiamo vederla, ma possiamo rappresentarcela tramite il cinema, il teatro. Possiamo avvicinarla, riconoscerla e, forse, anche temerla un po’ meno. L’attorǝ che finge di morire ci mostra cosa ci aspetta, ma ancora di più ci ricorda che siamo vivɜ. L’ultimo istante viene solo dopo aver vissuto tutti gli altri: facciamoci caso, mentre passano. Perché, poi, è troppo tardi. E finiamo a rantolare come il povero Firs: «La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta».


QUESTA VOLTA È MORTO MALE

di e con Claudio Morganti, Attilio Scarpellini, Renzo Trotta

proiezione del videosaggio

Il sogno di un destino. Come muoiono gli attori di Renzo Trotta

grandi ringraziamenti a Alejandro Grimoldi e Susanna Trotta, Marco Rivolta, Miriam Formisano, tutti gli amici che hanno suggerito o ricordato morti memorabili

Il Lavoratorio, Firenze | 20 ottobre 2024