CHIARA AMATO / Pac Lab* | Factum est non è un monologo sull’aborto: è un monologo sulla vita… Il mio testo non riguarda la legge, bensì l’inevitabilità e la dolcezza del venire al mondo, del diritto di crescere e di essere, della vita, insomma. Indico naturalmente una ferita, dentro cui sta la verità prima da cui discendono tutte le altre. Nel 1981 Giovanni Testori rispondeva così a chi voleva vedere nel suo monologo Factum est un manifesto poetico contro la legalizzazione dell’aborto.
Al Franco Parenti di Milano va in scena questo testo, che l’autore aveva pensato e scritto proprio per un giovane Andrea Soffiantini e che resta uno dei lavori più discussi che il teatro testoriano abbia avuto; un monologo che si colloca a conclusione della seconda trilogia dell’autore (dopo la Trilogia degli Scarrozzanti), quella degli Oratori, insieme a Conversazione con la morte e Interrogatorio a Maria.
Nato con la regia di Emanuele Banterle, altra figura cardine del teatro italiano che nel 1979 fondò con Testori la compagnia del Teatro de Gli Incamminati, il lavoro lasciò, fin dal debutto – il 10 maggio 1981 nella Chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze – non pochi dubbi sull’effettivo messaggio che volesse trasmettere. Rilevante, però, che da allora fu rappresentato da decine di parrocchie sul suolo italiano, a riprova che la lettura “cristianizzata” fu quella predominante.
In questa fase della vita (dal 1977 al 1981) il drammaturgo era stato profondamente colpito da diversi eventi biografici: la morte della madre sopra tutti, poi gli incontri con vari esponenti di Comunione e Liberazione e la conoscenza di don Giussani, fondatore del movimento. Il testo dunque si poggia su premesse biografiche e di pensiero strettamente connesse alla religione cristiana ma, a ben vedere, assume una sfumatura che ha a che fare non tanto con l’aspetto dottrinale quanto, piuttosto, con una generale condizione umana. E, infatti, nella prefazione all’edizione di Rizzoli della trilogia, Carlo Bo afferma che siamo di fronte ad un atto di memoria cristiana ma nel senso di memoria della disastrosa condizione umana in preda al male, in preda a sé stessa. Memoria dell’irrimediabile. La grave e senza fondo pena per l’uomo come è.
A parlare è un feto, protagonista di un dialogo senza risposta a momenti con la madre, in altri con il padre e infine con Dio. Racconta i suoi stati d’animo nel sentire, dall’utero materno, le voci dall’esterno, le discussioni riguardo alla prosecuzione della gravidanza; esprime la paura che la sua voce sia inconsistente: senza voce, senza peso… puoi schiacciarmi… sarò urlo nella notte. Parla di un padre assente e di una madre accondiscendente che accetta malvolentieri di interrompere la gravidanza, consapevole che non stanno uccidendo solo un altro essere, ma in primis sé stessi perché queste scelte drammaticamente incidono su tutta la vita.
Le parole sono quelle di chi non vedrà mai la luce e si susseguono frammentarie, senza nesso logico, senza una grammatica precisa, così che il discorso diventa oscuro, poco chiaro. Esse forzano quella prigione che il linguaggio può essere con le sue regole e la sua sintassi e si fanno espressione di protagonisti solitari e angosciati, per svelarne il mistero dell’esistenza individuale in quanto meritevole di essere esplorata.
La forma poetica, dunque, non segue uno schema rigoroso ma è evidente che le rime, le assonanze e gli espedienti retorici sono scelti per porre l’accento su un ritmo già pensato per la rappresentazione scenica.
Nel totale buio e nell’assoluto silenzio della Sala La Piccolina, si accendono due luci dall’alto ed illuminano un’asta con microfono annunciando l’ingresso dell’attore vestito in camicia e pantaloni nei. Scarna e vuota era stata pensata la scena anche in origine: priva di scenografia e di costumi per porre l’attenzione sulla parola e sulla profondità delle pause e dei balbettii dell’interprete così che questo breve e intenso monologo si sviluppi in tutta la sua potenza. Allo stesso modo, non ci sono movimenti scenici particolari nello spazio, se non quello in cui, verso la fine, Soffiantini si inginocchia per poi risollevarsi, come se le parole di questo embrione diventassero una preghiera all’ascoltatore e poi un annuncio di pericoli terribili per l’essere umano; pericoli qui identificati come Satana, il male, il peccato.
Le parole che rimandano all’area semantica della fede cristiana non sono poche (Dio, Cristo, agnello, croce, Satana) e ritornano spesso in questo sussurrare. Comprensibile, dunque, che il testo sia stato strumentalizzato e sia diventato un’arma anche nelle mani dei più recenti movimenti pro-life.
Ma con l’interpretazione di Soffiantini si crea in sala un’atmosfera ferma, come se l’aria diventasse pesantissima, come se quel flusso di coscienza infantile scavasse nel personale e intimo di ognuno. Al di là di qualsiasi ideologia si pone una questione umana: sicuramente determinati passaggi (Contro legge / di natura / sarà giusta / a voi ventura / non unirvi) pongono il dubbio e restano ambigui ma il senso generale è che Testori, sottolineando che non c’è nessuna facilità nella scelta di interrompere una gravidanza, ma spesso necessità, non voglia affrontare la tematica specificamente politica della legalizzazione dell’aborto.
Quello che il drammaturgo milanese pone realmente al centro di questo testo è una solitudine, un dolore lacerante, un senso di frustrazione: un urlo muto e potente, qui portato all’estremo nella resa in scena di un tentativo di comunicazione tra un feto e i suoi genitori. È il racconto di una possibilità di vita che resta invece carne scema / senza gesto / senza mente, / Quattro gocce. / D’altro, / niente.
FACTUM EST
di Giovanni Testori
nato con la regia di Emanuele Banterle
con Andrea Soffantini produzione Teatro Franco Parenti
Teatro Franco Parenti, Milano | 13 ottobre 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.
GIULIA BONGHI | L’incantevole Teatro Giuseppe Verdi di Busseto ha accolto quest’anno Un ballo in maschera, nell’ambito del Festival Verdi 2024. Il pubblico ha assistito a una messa in scena che ha saputo far emergere il cuore pulsante dell’opera verdiana, costruendo un’esperienza che mescola vitalità, dramma e una forte componente estetica.
Il regista Daniele Menghini ha deciso di presentare un’interpretazione che gioca sui contrasti tra l’intimità psicologica dei personaggi e la grandezza dell’affresco storico in cui si trovano. A differenza di produzioni più classiche, la sua regia si è concentrata su un uso simbolico degli spazi e delle maschere, portando lo spettatore a riflettere non solo sui temi dell’amore proibito e della vendetta, ma anche sulla percezione dell’identità e della verità. Fondendo l’idea di piacere e limite, vita e morte, crea un mondo scenico in cui il protagonista, Riccardo, è simbolo di un’esistenza vissuta al limite. L’ispirazione alla figura storica di Gustavo III di Svezia, con i suoi eccessi e il suo amore per l’arte, offre una rilettura che va oltre la vicenda amorosa, approfondendo il concetto di potere come sovversione delle regole.
Si spengono le luci di sala. Un palloncino solitario attraversa il proscenio da sinistra verso destra, mentre l’orchestra suona il Preludio. Si apre il sipario, il palloncino scoppia e la storia prende vita, tra intrighi politici, cuori spezzati e profezie sinistre. Riccardo, Governatore di Boston, ha tutto: potere, fascino e un segreto amore non proprio saggio per Amelia, la moglie del suo migliore amico Renato. Si consulta con una cartomante, Ulrica, che gli predice la morte per mano di un amico. Nonostante la premonizione, Riccardo non dà peso alla profezia e continua a vivere la sua vita, organizzando una festa in maschera. Nel frattempo, Renato scopre che Amelia e Riccardo si stanno incontrando di nascosto e decide di unirsi ai congiurati che vogliono uccidere Riccardo. Proprio la festa in maschera diventa l’occasione perfetta per il colpo finale: Renato, mascherato, pugnala Riccardo. Nel suo ultimo respiro, Riccardo perdona tutti e dichiara che non ha mai ceduto alla passione per Amelia, dimostrandosi ancora leale. Si compie così il tragico destino di Riccardo, tra il rimorso di Renato e la consapevolezza dell’inevitabilità del destino. Mai sottovalutare il potere di una profezia…
Le maschere, parte integrante della narrazione, riflettono, in questo caso, il conflitto interiore dei protagonisti, in particolare di Riccardo, che sembra danzare tra la vita e la morte, sempre sul filo dell’eccesso. Emerge attraverso i personaggi, ognuno a suo modo estraniato, il gioco continuo tra l’apparire e l’essere.
La scenografia, firmata da Davide Signorini, prevede un’ambientazione minimalista che ha dato grande risalto ai personaggi, lasciando che fossero le emozioni a dominare la scena. Questa si sviluppa come un inno alla vita, alla festa, ma con la costante ombra della morte che incombe. Lo spazio scenico, pur ridotto, è stato sfruttato in maniera ottimale, grazie a un’ambientazione che alterna elementi storici e contemporanei, così come si sovrappongono nei costumi, firmati da Nika Campisi. Ancora, le luci, curate abilmente da Gianni Bertoli, hanno contribuito a creare atmosfere inquietanti e surreali, grazie anche all’utilizzo di colori saturi, perfettamente equilibrati, che connotavano le scene; un espediente che ha rafforzato il carattere enigmatico e grottesco della pièce.
Così articolata, la messa in scena si allinea armoniosamente con le intenzioni del compositore, mantenendo un equilibrio tra innovazione visiva e coerenza musicale. La direzione dell’orchestra, affidata a Fabio Biondi, ha fatto risplendere ogni sfumatura della partitura, esaltando le voci del cast, tutti al debutto. Nelle sue note di direzione, emerge l’importanza di non ridurre l’orchestra a semplice accompagnamento, ma di darle un ruolo espressivo collaborativo. La partitura è stata eseguita con una dinamica precisa e un’attenzione ai dettagli timbrici che ha permesso di mantenere viva l’energia tragica dell’opera. L’Orchestra Giovanile Italiana, seppur ridotta per motivi logistici, ha saputo rendere giustizia alla ricchezza musicale di Verdi grazie a un lavoro di adattamento intelligente e rispettando il complesso vocabolario musicale del compositore.
Le interpretazioni vocali hanno brillato, con Giovanni Sala nei panni di Riccardo che ha colpito per la vocalità calda e drammatica, perfetta per incarnare il tormento interiore del personaggio. Kang Hae, con la sua voce baritonale penetrante, ha dato vita a un personaggio tormentato, diviso tra dovere e passione. Ilaria Alida Quilico, nei panni di Amelia, ha incantato il pubblico con una voce stentorea e ricca di pathos, rendendo tangibile il dramma interiore del suo personaggio. La leggerezza di Oscar, incarnato con grazia e virtuosismo da Licia Piermatteo, ha offerto un piacevole contrasto alla drammaticità della vicenda, senza mai interromperne il ritmo incalzante. Danbi Lee ha dato vita a una Ulrica potente e ultraterrena, con la sua voce consistente unita a una presenza evanescente. Convincono gli altri: Giuseppe Todisco, Silvano; Agostino Subacchi, Samuel; Lorenzo Barbieri, Tom; Francesco Congiu, Un giudice/Un servo di Amelia.
In conclusione, il confronto con la celebre produzione di Un ballo in maschera diretta da Graham Vick qualche anno fa è inevitabile. Vick aveva scelto un approccio fortemente politico, sottolineando il ruolo del potere e della corruzione con una regia spettacolare e provocatoria. La sua interpretazione poneva l’accento sui conflitti di classe e sulla manipolazione, inserendo il dramma privato di Riccardo in un contesto di lotte sociali ben definito. Menghini, invece, ha scelto un registro più intimo – affine al luogo della rappresentazione – indagando l’aspetto psicologico e simbolico, pur senza perdere di vista l’elemento politico. La sua regia si discosta dal realismo per abbracciare una dimensione più rarefatta e poetica, dove le maschere diventano simbolo di un conflitto esistenziale, non solo sociale.
Così si chiude anche quest’anno il Festival Verdi, che ha raccolto un forte entusiasmo da parte del pubblico e si è dimostrato, ancora una volta, un palcoscenico di grande importanza per la conservazione e divulgazione del repertorio verdiano, in dialogo con la contemporaneità.
UN BALLO IN MASCHERA
melodramma in tre atti, da Gustave III ou Le balmasqué di Eugène Scribe
Libretto di Antonio Sommata
Musica di Giuseppe Verdi
Personaggi e interpreti:
Riccardo Giovanni Sala (27,12,18) Davide Tuscano (28,5)
Renato Lodovico Filippo Ravizza (27,5,12) KangHae (28,18)
Amelia Caterina Marchesini (17,5,12) IlariaAlida Quilico* (28,18)
Ulrica Danbi Lee*
Oscar Licia Piermatteo*
Silvano Giuseppe Todisco
Samuel Agostino Subacchi*
Tom Lorenzo Barbieri
Un giudice/Un servo di Amelia Francesco Congiu*
Orchestra Giovanile Italiana
Direttore Fabio Biondi
Coro del Teatro Regio di Parma
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Daniele Menghini
Scenografia Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli
*Allievi e già allievi dell’Accademia Verdiana Corso di Alto perfezionamento in repertorio verdiano
RENZO FRANCABANDERA | Sentiamo odore di incenso appena messo il naso nella sala grande dell’Arena del Sole. La mente si proietta subito in chiesa, in una dimensione sacra e spirituale. È già presente in scena, mentre il pubblico prende posto in sala, un angelo dark, ali nere e anfibi, che potrebbe essere una sirena o la sfinge del mito edipico, e si apposta sull’alto sgabello con il quale occupa sola tutta la scena. La sua postura è esattamente quella che ha la sfinge nella kylix attica a figure rosse attribuita a un artista che non a caso fu chiamato, per eponimia, Pittore di Edipo e datato fra il 480 e il 470 a.C. (in questo caso la Sfinge è appostata su una colonna). L’opera oggi si trova ai Musei Vaticani e fu trovata nella etrusca Vulci, al confine fra Toscana e Lazio dove, a quanto pare,con la sfinge erano abbastanza fissati, visto che addirittura in una tomba principesca sempre di epoca etrusca è stata rinvenuta anche una splendida riproduzione del soggetto in pietra.
L’opera in ceramica risale addirittura a cinquant’anni prima della “prima” dell’Edipo Re di Sofocle, tragedia andata in scena fra il 430 e il 420 a.C., che racconta solo una prima parte di un mito antichissimo e complesso, ovvero l’episodio della autoagnizione, cioè del momento in cui Edipo arriva a scoprire, tramite un’indagine quasi poliziesca condotta da lui in persona, di essere l’omicida di suo padre e il figlio della donna che aveva sposato, la regina Giocasta, da cui aveva avuto pure figli. Un disastro, che peraltro gli era stato predetto dall’oracolo. Ma Edipo vuole conoscere la verità, e scava fino a trovarla. A quel punto si cava gli occhi per non vedere oltre e va via da Tebe. Una tragedia.
Sofocle, che era nato a Colono nel 496 a.C., morirà novantenne ad Atene nel 406 a.C.
La sua ultima opera, di tono quasi profetico sul tema della morte, delle divinazioni e dei suoi misteri, tornerà proprio sul mito di Edipo. E si intitola Edipo a Colono, guarda caso. Un ritorno, nell’approssimarsi della morte, di nuovo alla saga dei Labdacidi, ossia le vicende di Edipo, dei suoi genitori e dei suoi figli che all’epoca era raccontata dai poemi epici del ciclo Tebano, purtroppo non giunti fino a noi se non per riassunti e piccoli frammenti. In Edipo a Colono, il disgraziato protagonista di questa vicenda umana, che mescola premonizione e autodeterminazione, arriva stanco e moribondo, trova ospitalità proprio a Colono, sobborgo di Atene, accolto da esule dal re Teseo, cui la presenza del vecchio e malandato ex re di Tebe frutterà comunque la vittoria poi nel conflitto proprio contro Tebe, che intanto era finita sotto il governo di Creonte, fratello di Giocasta.
La saga tebana e la vicenda di Edipo, dei suoi figli Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene (protagonisti di altri capolavori sofoclei) restano affascinanti dopo oltre duemila e quattrocento anni (contando che la saga di Tebe era assai precedente alle scritture sofoclee, visto che di Tebe si parla già nell’Odissea, il cui nucleo testuale è di almeno 3-4 secoli prima). Insomma parliamo di cose su cui l’umanità mastica e rimugina per mezzo dell’arte e della letteratura da qualcosa come tremila anni. A pensarci, vengono i brividi.
Davanti a questa immensità, uno specifico atto creativo di rimando a questo corpus, pur rimarchevole, non può che assumere una connotazione necessariamente pulviscolare, come quando si guardano le stelle della via Lattea.
Ma visto che viviamo il presente, commentiamo quello che nasce sotto i nostri occhi, dando evidenza e rilievo per prossimità a noi. Testimoniamo quindi del grande interesse e della calorosissima accoglienza da parte del pubblico per il debutto del nuovo lavoro di Alessandro Serra, intitolato Tragùdia, a Bologna all’Arena del Sole nell’ambito della rassegna Opening – showcase Italia.
Il regista, che ha guadagnato un importante seguito sia nazionale che internazionale nell’ultimo decennio dopo il successo di Macbettu, versione in lingua sarda del classico shakespeariano (Premio Ubu come miglior spettacolo nel 2017, cui si unirono le candidature di Serra come miglior regista e Capuano come miglior attore), è andato con questa nuova creazione a esplorare dimensioni ancestrali del patrimonio culturale dell’Occidente mediterraneo, rivisitandole, come allora, con un incrocio linguistico e sonoro che rimanda ad una territorialità specifica. La lingua infatti scelta da Serra per ripercorrere la vicenda di Edipo, Tragedia per antonomasia, è il grecanico.
Cosa è il grecanico?
È una lingua in via di desertificazione con riferimento al panorama dei parlanti, diffusa in area calabrese, precisamente in un gruppo di 3-4 comuni nella Bovesìa, area geografica della città metropolitana di Reggio Calabria, ellenofona appunto, per via dalle antiche dominazioni e di altri successivi flussi migratori di età alto medievale-bizantina: qui ancora qualche anziano parla questa lingua, i cartelli sono bilingue, e c’è un movimento di matrice intellettuale locale che mira a preservare questo patrimonio. Giusto per capire, parliamo di una popolazione che, fra i vari centri, raggiunge a fatica i 1500 abitanti oggi. E non tutti parlano più la lingua.
Esiste anche in Salento un’area con analoghe caratteristiche, la Grecìa, un nucleo territoriale di paesi assai ristretto, e dove è presente un’eredità linguistica molto specifica.
Ormai queste lingue, che hanno aiutato nei secoli le comunità a rimanere molto connotate, a proteggerle dagli “estranei” e quindi a difenderle, stanno sparendo sotto i colpi della globalizzazione massmediale e socialmediale, e di quel generico fenomeno di abbandono delle tradizione da parte delle generazioni dal dopoguerra in avanti.
Torniamo allo spettacolo: Serra resta accovacciato come la sua sfinge nelle penombre sceniche rembrandtiane, per quell’intensità che lascia appena emergere le masse corporee dalla semioscurità e che già aveva caratterizzato il Macbettu, dove però arrivavano, a squarciare la narrazione con più frequenza, improvvisi bagliori. Qui accade meno, anzi. Progressivamente, e volutamente, si va verso un buio, che poi ad un certo punto, in concomitanza con l’accecamento del protagonista, diventa assoluto per un tempo abbastanza lungo.
L’approccio visuale e fisico di Serra, ad ogni buon modo, ha cifra riconoscibile: è un codice scenico incentrato sulla figura dell’attore e sulla magia della scatola teatrale, spazio di proiezione della dimensione vera e profonda dell’umano, quasi inconscia.
Dopo le luminosità piene de La Tempesta, con alcuni momenti in cui la macchina scenica rivelava il marchingegno e la dimensione della spettacolarità totale –come nella grande visione subacquea iniziale, che esponeva alla vista la maestria con cui Serra tratta da sempre una delle materie più complesse della macchina scenica, le luci – in Tragùdia piombiamo nella penombra per quasi tutto il tempo.
Fa eccezione un cammeo di memoria in cui dal buio del presente emerge la luce di un ricordo del passato, stilisticamente unica parentesi narrativa giocata sul tono della commedia e che rimanda, dal punto di vista del segno scenico, agli identici momenti de La Tempesta.
Ma qui sono necessariamente pochi istanti, per non “guastare” il ritmo liturgico, il grande rito sacro in cui l’allestimento intende condensarsi. La scenografia è composta da tre pareti di legno, capaci di inclinazione in avanti per quella a fondale, e per rotazione anche assiale per quelle laterali. Porte e struttura di quella al fondo rimandano all’iconostasi che, nell’architettura ecclesiastica di rito ortodosso, è la struttura divisoria che separa la zona presbiteriale, misterica, da quella riservata ai fedeli. È di solito, come dice la parola stessa, ricoperta da icone, un muro di quadri dorati con tre porte di cui quella centrale più ampia. E così è anche qui, ma le pareti sono spoglie, e dietro non c’è alcun luogo del rito, se non la casa di Edipo, che è appunto da intendere in questa accezione sacra, inviolabile e violata dal destino, che la rovescerà. Il famoso incensiere, che fin dall’inizio ci aveva riempito le narici, ondeggia ad un certo punto come quello della cattedrale di Santiago de Compostela durante la messa della domenica, avanti e indietro per tutta la navata, avvolgendo con dense volute tutto lo spazio scenico. Insomma, aleggia una evidente aura mistica, accentuata dalla presenza dei cori e delle partiture musicali vocali che, nell’intenzione registica ammantano questo mito, incentrato sul rapporto fra destino, conoscenza, predestinazione e autodeterminazione.
Se Prometeo ruba la luce agli dei per consegnarla agli umani, Edipo se la toglie per un destino del quale non ha colpe, se non, unica, quella di voler sapere fino in fondo. Entrambi i miti hanno a che fare con lo sforzo e la lotta umana per rubare terreno all’inconoscibile o al non ancora conosciuto. Ma Sofocle, di cui Serra rimastica i testi per trarre questo atto unico sulla vicenda edipica, nel secondo atto, quello che accompagna l’esule fino alla morte, effettivamente abbandona le crudezze dell’Edipo re. A Colono il clima è più incentrato sui temi dell’accogliere, del tramandare per illuminazione, del chiedersi del senso della vita: domande di un novantenne che guarda indietro e che si condensano nell’iniziazione finale con cui l’anziano cieco tramanda le sue conoscenze al re Teseo che lo ha ospitato.
Tutto ha un canto, una cantilena, che è quella della lingua. La traduzione in lingua grecanica del testo di Serra è di Salvino Nucera mentre voci e canti portano la firma di Bruno de Franceschi, realizzati proprio in relazione alla pratica della rappresentazione e quindi come scrittura di scena, secondo quanto ha dichiarato Serra in un incontro con il pubblico a margine del debutto. Abbiamo i sovratitoli, certo. A volte li si segue, a volte ci si perde nel puro suono, senza pretendere di capire tutto, battuta per battuta. Ovviamente l’effetto straniante della lingua straniera non permette appieno di attribuire una coloritura totale al rapporto dell’attore con la parola, peraltro appoggiato su un impegno diaframmatico e non al microfono (che pure per altri versi è presente, nella sonorizzazione amplificata della scenografia, che diventa anche macchina sonora). Non possiamo sapere in che modo sono realmente offerte le parole, con che enfasi, essendo questa una coloritura specifica di ogni lingua.
Il tema della parola rileva peraltro anche per la scelta di far parlare Teseo con il linguaggio dei segni, coperto al volto da una maschera orientale e con indosso un kimono, simbolo di una cultura altra, diversa da quella di origine (qui affiora anche il tema dell’esule come immigrato, nella lettura di Serra) unico segno distinto e distante dal resto delle vicende rappresentate, e che come tutti i segni non organici può creare affascinazione o distanza, rispetto alla coerenza complessiva. Ma non è di preponderanza tale da spostare l’equilibrio generale della messa in scena e dei suoi postulati formali.
In generale il sentimento che si ricava, anche dai costumi di sapore antico, è quello di una forte attenzione agli attori, all’essenzialità scenica e alla potenza simbolica delle immagini costruite attorno a gesti e pratiche rituali, sviluppando un linguaggio estetico di grande impatto visivo, che si conclude con la morte dell’eroe nella penombra, con il suo corpo in un controluce che prelude al buio finale in cui Edipo va incontro alla morte, nel testo sofocleo alla presenza di Teseo, unico testimone del trapasso, mentre qui il re di Atene lascia la scena pochi istanti prima della morte di Edipo, diversamente da quanto dice l’araldo ai versi 1656 e 57.
“Μόρῳ δ’ ὁποίῳ κεῖνος ὤλετ’ οὐδ’ ἂν εἷς θνητῶν φράσειε, πλὴν τὸ Θησέως κάρα” Con quale sorte, dunque, egli perì, non lo potrebbe dire neanche uno dei mortali, tranne Teseo.
Secondo Sofocle quindi Teseo assiste alla morte di Edipo.
Ovviamente sono diverse le libertà sceniche e linguistiche che la sintesi e il riadattamento dei due testi fatta da Serra porta con sè, ma il complesso delle vicende è rispettato. La compagine attorale (Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino), pur con le specifiche prove singole, mantiene una forte struttura di coro, enfatizzata anche dal pregevole lavoro sui movimenti di scena cui ha collaborato Chiara Michelini. Ne viene fuori un’operazione non semplicistica o esile, anzi. L’impegno e la ricerca risultano in modo chiaro e riguardano tutti gli ambiti della rappresentazione. Traspare una cura e un’attenzione ai dettagli, che fa effetto sullo spettatore.
Come sensazione personale, in questa nota redatta a una settimana dalla visione, posso dire che il gusto più deciso avuto a caldo dopo lo spettacolo, ha mantenuto una persistenza meno intensa di quanto avrei pensato, affievolendosi un po’ nei giorni, a differenza di come era stato per Macbettu. Non saprei attribuire la causa a questo o quell’elemento nello specifico, ma solo parlare di un’umanissima sensazione soggettiva e personale di evaporazione. Magari è solo vecchiaia. L’Edipo di Colono può capirmi. Chi meglio di lui…
ΟΙ. Ἆρ’ ἐγγὺς ἁνήρ; ἆρ’ ἔτ’ ἐμψύχου, τέκνα, κιχήσεταί μου καὶ κατορθοῦντος φρένα; Dunque, vicino è il re (Teseo, ndr)? Mi troverà vivo, o figliuole, e sano ancor di mente?
Edipo a Colono vv 1486-87
Arena del Sole, Bologna | 17 ottobre 2024
TRAGÚDIA
di Alessandro Serra
Liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito
con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
collaborazione al suono Gup Alcaro
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai costumi Serena Trevisi Marceddu
direzione tecnica Francesco Peruzzi
tecnico del suono Alessandro Orrù
direzione di scena Luca Berettoni
costruzione scena Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin
produzione Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Fondazione I Teatri – Reggio Emilia nell’ambito di Opening – showcase Italia
LAURA NOVELLI | Sul piccolo palcoscenico del Teatro di Villa Torlonia, gioiello di architettura scenica ottocentesca,impreziosito da dipinti e decori dai colori accesi, vi sono una quarantina di sedie e alcuni vistosi cubi di legno. I pochi spettatori ammessi ad ogni replica arrivano da una quinta laterale, siedono a formare un cerchio, si muovono con cautela, si guardano, parlano sottovoce, attendono. Già prima che lo spettacolo inizi, predomina l’intensità di un’atmosfera intima, quasi mistica, e anche la platea vuota, vista da qui, sembra un luogo “altro” dove vibra una silenziosa bellezza senza tempo. Poi arriva lei, la giovane pulzella d’Orléans interpretata dalla bravissima Mersila Sokoli (diploma all’Accademia Silvio D’Amico e lavori importanti quali, ad esempio, Anna Karenina, Il mercante di Venezia, La casa nova): abito leggero di maglia grigio-metallo che evoca la cotta dell’abbigliamento militare antico, niente trucco, piedi scalzi, capelli raccolti. E soprattutto, un volto estremamente mobile, espressivo.
Nella sua naturale semplicità, l’attrice, diretta da Luca De Fusco, si armonizza da subito con l’atmosfera sospesa della sala, ma al contempo le contrappone una fisicità concreta, un’energia materica, persino sensuale, che saprà accondiscendere, per oltre un’ora di monologo, le sublimi parole lasciateci da Maria Luisa Spaziani nell’opera Giovanna d’Arco pubblicata nel 1990. Un romanzo popolare in sei canti in ottave e un epilogo scritto tra il 1988 e il 1989 pressoché di getto: «Sembrava che i versi nascessero per generazione spontanea, e anzi devo confessare una mia strana impressione: che qualcuno mi sia stato sempre accanto a dettare». Appassionata studiosa dell’eroina francese, la poetessa ne ripercorre qui le vicende biografiche abbracciando l’ipotesi che ella non sia stata arsa sul rogo nel 1431 bensì sia riuscita a scampare alla condanna grazie alle nozze con Robert des Armoises e abbia trascorso la sua vita, pressoché da reclusa, nel castello di Jaulny, a circa trenta chilometri dalla natia Domrémy.
Non è la prima volta che De Fusco rilegge in chiave teatrale il celebre componimento di Spaziani: già nel 2004 ne aveva curato un’edizione, con Gaia Aprea protagonista, che ebbe una lunga vita scenica (ricordiamo la ripresa del 2011 e, più di recente, quella del 2021) e la cui genesi testimonia in modo emblematico il dialogo sempre fecondo tra poesia e teatro: «Maria Luisa – spiega il regista – non lo aveva scritto per il teatro, ma accettò con entusiasmo l’idea che si mettesse in scena questo suo gioiello. Lo pensammo come un colloquio intimo, quasi sommesso, antiretorico. Quasi come se alcune decine di persone si ritrovassero attorno a un fuoco ad ascoltare una storia. Ci ponemmo subito una domanda cruciale. Chi è colei che ci parla? Una pazza che si crede Giovanna d’Arco? Il fantasma della pulzella? Lasciammo volutamente nell’ambiguità la risposta».
Si annida proprio nel cuore di questa risposta mancata il desiderio di proporre quest’anno, in occasione del decennale della scomparsa dell’autrice, una nuova versione del lavoro dove la regia incede con maggiore insistenza su una pacatezza mai monocorde: il registro complessivo si fa ancora più tenue, più sussurrato, come se la materia poetica si abbandonassea un dire confidenziale e diretto, non privo tuttavia di momenti drammatici e sofferti. Che si tratti di una creatura onirica, di un fantasma, di un’evocazione della memoria o della follia, poco importa. Giovanna/Mersila è qui, e sa indurci a trasformare l’orecchio in occhio. Cosa di più avvolgente? Di più teatrale?
«Vedevo un muro bianco: voi direste uno schermo, una storia che s’illumina. Solo un raggio scendeva, strano, obliquo, da uno squarcio di nuvole. I lillà a chiazze mi velavano un po’ il muro, mi offuscavano i sensi. La campana oltre il nevischio alta si annunciò. Da tre anni aspettavo: che cosa»: sin dall’incipit, le immagini si rincorrono velocemente una dopo l’altra e il racconto arriva chiaro, cristallino. Sembra di vedere ogni passaggio della storia. Ogni sobbalzo dell’anima. Muovendosi con risoluta dolcezza nello spazio centrale del palcoscenico e accompagnata dal bel tappeto musicale di Antonio di Pofi, anch’esso privo di tonalità ridondati, l’interprete mostra una totale padronanza del personaggio e, al contempo, dei versi: a tratti sale sui cubi che Marta Crisolini Malatesta ha immaginato come unici elementi scenici, a tratti guarda in quell’arioso vuoto che avvolge la platea. Ma soprattutto la giovane attrice scruta il pubblico; la prossimità tra lei e gli astanti è così densa di avvenimenti e parole da costituire un vero e proprio linguaggio scenico, a sua volta inscritto dentro il linguaggio generale della pièce.
Nel perimetro di questa confidenza, che viaggia su sfumature emotive quanto mai diverse, tutto trova il suo senso: le apparizioni dell’arcangelo Michele, con la loro luce e la loro forza spirituale, la descrizione della propria casa, della mano rugosa ma carezzevole della madre, della misteriosa sorella trattata come una regina. Poi arriva il tempo di diventare adulta, di recarsi al cospetto del re, di sfidare nobili, prelati e cortigiani, di scendere in battaglia contro i nemici. Ma Giovanna è sempre Giovanna, una ragazza semplice e – semplicemente – coraggiosa. E, tanto più, una donna. Una donna che attraversa impetuose esperienze da uomo restando comunque una donna. Non per niente ciò che maggiormente colpisce qui è proprio la femminilità che pervade sia l’ordito linguistico sia la bella prova dell’interprete.
E allora viene naturale pensare che la battaglia della santa francese sia, per prima cosa, una battaglia contro la superstizione, l’arretratezza, la misogenia, la prevaricazione, la violenza di genere. Il suo processo non lascia dubbi a riguardo: «Venne fuori all’aperto come esce lo scarafaggio quando sente il fuoco. “Strega e puttana!” urlò “Ti arrostiremo come il porco a Natale, te lo giuro” Piansi per ore, piansi come un fiume che senta eterna la sorgente. Vennero, visibile e invisibile, al soccorso Gilles e Michele con ottimi argomenti». Immagini, queste, che non possono non richiamare alla mente quelle dei film più celebri dedicati alla pulzella; in particolare, il capolavoro di DreyerLa passione di Giovanna D’Arco (1928), pellicola muta dove il sacrificio dell’eroina è restituito, in tutta la sua tragicità, attraverso la mimica facciale dell’interprete (Renée Falconetti ) e riprese ossessive di primi e primissimi piani.
Nel romanzo di Spaziani, tuttavia, la fede della santa non ha nulla del martirio di Cristo; semmai essa è luce, amica, conforto. Giovanna forse morì sul rogo. Forse finì i suoi giorni sposa-prigioniera di un castello solitario. Fatto sta che la consolazione del divino è stata sempre con lei. E allora ci vuole un epilogo che “scriva” teatralmente questa trasparenza immateriale: l’interprete scende in platea, viola la sacralità di quel vuoto silenzioso e in penombra, da un palchetto lontano, agisce la sua ultima visione di Michele, l’angelo combattente. È questa la sola scena solenne dello spettacolo e senza dubbio segna una cesura significativa nel composto monologo da camera cui abbiamo assistito. Sembra che esso improvvisamente cambi registro.
Ma, a bene vedere, più che cambiare direzione il lavoro in qualche modo ne acquista una nuova, squisitamente metateatrale: da confidenti di una narrazione intima, gli spettatori diventano realmente tali e la distanza da quel corpo energico, che fino a qualche minuto prima li aveva sfiorati da vicino, li riconduce, quasi per contrasto, al mistero stesso del teatro. A prescindere dall’identità storica e persino letteraria di questa fascinosa pulzella, Giovanna/Mersila è dunque soprattutto un grande, immenso, personaggio drammatico. E come tutti i personaggi drammatici, anch’ella è fatta della stessa sostanza dei sogni.
GIOVANNA D’ARCO
di Maria Luisa Spaziani
regia Luca De Fusco
con Mersila Sokoli aiuto regia Lucia Rocco
elementi scenici e costume Marta Crisolini Malatesta
musiche Antonio Di Pofi
foto di scena Claudia Pajewski
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Catania Debutto: Castello Ursino di Catania, 18 giugno 2024
FRANCESCA POZZO / Pac Lab* | L’arte: sembra questo il tema cardine della drammaturgia ferocissima e tremendamente intelligente di Yasmina Reza. Almeno in apparenza, dato che il vero epicentro da cui parte il terremoto del plot sono piuttosto le reazioni che essa scatena; nello specifico quelle indirizzate alla tela che troneggia sul palcoscenico. Si tratta dell’opera del maestro Antrios, un quadro bianco dipinto di bianco, idolatrato da Serge (Graziano Sirressi) e schernito da Marc (Luca Mammoli). La disputa circa la genialità dell’artista conduce a un divario di potere fra i due, sposta i pesi della bilancia determinando da un lato una presunta supremazia, dall’altro una sentita inferiorità. Marc non ne può più dell’atteggiamento radical chic dell’amico: quella merda gli è costata ben cinquantamila euro, gli fa notare. Una battuta diventa così il casus belli.
Un “arbitro” viene chiamato in causa: si tratta di Ivan (Enrico Pittaluga) il quale, nonostante sia convinto che il dipinto faccia schifo, non ha il coraggio di confessarlo a Serge. Una sera i tre si ritrovano e la verità di ognuno trova il modo di emergere.
Li ritroviamo tutti vestiti allo stesso modo –occhiali e completo – salvo minime differenze: una mise che ne definisce l’estrazione sociale medio-alta. Discreta la regia che, dando molto spazio al testo, concede agli attori una naturalezza tale che a guardarli ci si sente in difetto, quasi in un’atteggiamento voyeuristico verso le esistenze altrui. Si capovolge così il gioco teatrale e sul palco sembra consumarsi la vita vera, quella che può rendere ridicoli e che costringe a recitare un ruolo. Così tre persone diventano macchiette di loro stesse: Serge con la pashmina arrotolata al collo e la puzza sotto il naso, Ivan con un infantilismo sfrenato che lo porta a citare il suo psicologo ogni due per tre e Marc con una rabbia repressa sedata solo dall’abuso di rimedi omeopatici.
Quando i tre sono in scena basta pochissimo a rendere la triangolazione verosimile: un riferimento al passato, una frecciatina, un gesto. Nei dialoghi il lavoro è di sottrazione, tant’è che c’è una perfetta sintonia anche nel litigare, nel proferire poco e nel far intendere tanto. La finta diplomazia però è smascherata durante i soliloqui, accompagnati da un disegno luci che, ironicamente, proietta a terra la forma di una tela. Un perimetro di comfort dove ciascuno può sfogarsi con il pubblico senza essere ascoltato dagli altri, rispettando la convenzione degli a parte. Una scelta che valorizza il testo, il cui potenziale comico è insito in un sarcasmo sottile e instancabile che prende di mira le nevrosi quotidiane e i maldestri tentativi di nasconderle.
Le accuse tra i due litiganti – Marc si sta necrotizzando… Serge ha comprato una merda bianca dipinta di bianco – sono castelli in aria che celano motivazioni molto più profonde: il non riconoscersi più. I due si fronteggiano ma poi si coalizzano contro Ivan, il più conciliante, che si ostina a non prendere parti. Più scorre il tempo più le accuse si fanno personali: ti sei accasciato, il tuo matrimonio andrà in malora. Al che il poverino esplode, esasperato, nella speranza di essere lasciato in pace: matrimonio, figli, cartoleria: che cos’altro può capitare?
I toni si accendono fino all’apice della climax: di fronte alla tela bianca i personaggi metaforicamente si denudano, fermandosi e proiettando su di essa le proprie ombre. Calano così quelle maschere che si sono inconsapevolmente cuciti addosso: la misantropia di Marc si rivela una gelosia nei confronti del quadro, uno dei tanti manierismi che l’hanno fatto sentire escluso; l’intellettualismo di Serge è solo un modo per definirsi mentre la codardia di Ivan uno sforzo disperato per tenere coese le uniche certezze della propria vita. Rimangono spossati dopo la lunga battaglia che non ha risparmiato i loro vizi, i loro tic e le loro donne.
E qui la situazione non può che crollare, pensa lo spettatore: qualcuno dovrà per forza andarsene. Ma non accade: Serge chiede un pennarello a Ivan e invita Marc a disegnare sull’Antrios. Con timore lui traccia una linea, man mano ci prende gusto e abbozza la figura di uno sciatore. Il dissidio è risolto, Marc sente di aver riguadagnato la propria dignità agli occhi dell’amico. Certo, poi si scopre che l’inchiostro è lavabile e il quadro è salvo. I due ne ripristinano insieme il candore – un gesto che metaforicamente rinsalda il loro rapporto – ma ora per tutti loro l’Antrios ha una storia da raccontare: rappresenta uno sciatore che è stato inghiottito da una bufera, o almeno questo è ciò che si sono inventati, costruendo una realtà condivisa in cui si sentono accolti. A loro va bene così e anche se il soggetto del quadro non si vede, non significa per forza che non ci sia.
ART
di Yasmina Reza Permission granted by ThaleiaProductions, 6 rue Sedillot 75007 Paris, France traduzione Federica Di Lella, Lorenza Di LeIIa Adelphi produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse regia e scene Emanuele Conte costumi Daniela De Blasio luci Matteo Selis assistente alla regia Alessio Aronne con Luca Mammoli, Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi di Generazione Disagio
Teatro Fontana, Milano | 13 ottobre 2024
* PACLAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.
ENRICO PASTORE | Quando nel maggio del 1935 Artaud dichiarava in un articolo su la Bête Noir che «I Cenci non sono ancora il Teatro della Crudeltà, ma lo preparano» sottovalutava o forse faceva finta di ignorare la prima rappresentazione della tragedia dei Cenci. Parliamo del processo all’intera famiglia Cenci sopravvissuta a Francesco, padre dal cuore di tenebra, e culminata con l’esecuzione pubblica l’11 settembre 1599. Il processo e il martirio di Beatrice e dei suoi familiari furono un immondo teatro messo in scena dal papato, che ignorò le richieste di aiuto più volte inoltrate a Sua Santità Clemente VIII, e poi negò grazia e comprensione per incamerare in seguito al fattaccio di cronaca le larghe ricchezze e i feudi dei Cenci.
Il finale di quella tragedia funesta era atteso e previsto in ogni passo e non restava che dirigere il giudizio verso un esito favorevole al soglio di Pietro. Beatrice, la matrigna Lucrezia, insieme ai fratelli, non avevano via di scampo, come nella tragedia attica dove l’eroe nulla può contro il destino sancito dalle Moire. A quell’ennesimo oltraggio al corpo e all’anima di Beatrice Cenci, figlia violentata, abusata e divenuta parricida per sfuggire al suo destino di vittima, assistettero Caravaggio e la piccola Artemisia Gentileschi, a sua volta violata e vilipesa da Agostino Tassi. Artemisia, al contrario di Beatrice, ottenne parziale giustizia, per quanta se ne potesse ottenere al tempo e decollato fu il Tassi, anche se in effige, nella sua Giuditta e Oloferne del 1612.
Piccola Compagnia della Magnolia non solo mette a confronto quel crudele teatro dell’orrore familiare con il Teatro della Crudeltà artaudiano e con le numerose fonti letterarie dagli atti del processo a Stendhal e Shelley ma, mediante il sottotitolo Rinascimento contemporaneo, anche con il nostro presente. Ancor oggi il corpo di Beatrice è, in figura, il campo di battaglia dove spadroneggia lo spirito tirannico della volontà di dominio del padre. Ancor oggi il corpo è la merce venduta e sfruttata dal potere politico ed economico. Cenci è un’opera crudele e non perché faccia aleggiare tra le scene lo spirito di Antonin Artaud, più volte evocato dal matto Antonino interpretato ottimamente da Davide Giglio, ma perché rappresenta la sempiterna circolarità della violenza familiare che unisce il presente con quel non troppo lontano passato.
Artaud è sempre presente in tutta l’opera: nei suoni, nelle maschere del carnevale romano che richiamano le marionette previste nella prima rappresentazione alle Folies Wagram, nella violenza onnipresente ma mai concretizzata come un fulmine pronto a scaricarsi sulla terra e solo percepibile nell’aria densa di quegli ambienti polverosi e rossastri come una vecchia fotografia.
La riscrittura di Giorgia Cerruti, in scena nella parte della matrigna Lucrezia, è sapiente nel creare un mosaico delle fonti. E questo fin dal principio dove le parole di Stendhal ci accompagnano in una passeggiata romana da Villa Pamphili fino al Gianicolo e che termina sulla tomba di Beatrice nella Chiesa di San Pietro in Montorio. La noia esistenziale di Camus, quella che porta Meursault, ne Lo Straniero, a uccidere «per colpa del sole» e quella del romanzo La noia di Moravia danno corpo alle ansie nefaste e distruttive del conte Cenci, interpretato da un inconsueto ma magistrale Francesco Pennacchia; le parole di Virginie Despentes danno voce alle paure di Beatrice, interpretata dall’ottima Francesca Ziggiotti, attrice capace di prestarle un’anima viva, toccante, persino delicata nella tempesta di sentimenti che la attanagliano.
Cenci è una prova d’attore estremamente complessa. Bisogna saper far emergere le intricate e, a volte, inspiegabili motivazioni che spingono questa famiglia alla distruzione, e tutto questo senza indulgere nei toni forti, marcati, ricorrendo alla delicatezza, persino alla forza del sussurro. Nello stesso tempo occorre far intuire allo spettatore le mire rapaci del papato che volutamente ignora le richieste di aiuto di Beatrice e Giacomo. In ogni attimo si respira un’atmosfera claustrofobica, pregna di delitto commesso, subito, ideato, nascosto, sperato. Come in Macbeth, si corre verso il baratro dall’inizio alla fine. Si precipita nel vuoto accelerando fino allo schianto. Bisogna aver grandi capacità interpretative, di controllo del corpo, della voce e delle energie, per non farsi prendere dalla frenesia, dall’urlo, dalla smania di muoversi. La pausa e il silenzio sembrano innaturali e per questo sono di maggior impatto, perché aumentano la forza dello scontro. Come in una tempesta, più le nubi diventano scure e pesanti di pioggia, più i venti paiono trattenere il respiro, maggiore è la furia che si scatenerà.
La rappresentazione è divisa idealmente in due atti. Il primo di poco più di un’ora ci mostra una giornata in casa Cenci. La ferocia del padre generata dalla noia e dall’onnipotenza garantitagli dal ruolo e dall’ordinamento sociale, la pavida voluta inconsapevolezza della moglie Lucrezia, l’impotente volontà di ribellione e di protezione di Beatrice, il cinico tradimento di Orsino che rigetta l’amore per la ricchezza e il potere. E poi c’è il matto Antonino, una presenza inquietante, quella della follia sapiente, che nei suo vaneggiamento arriva a proferire le parole del vero Antonin Artaud, quello che invoca la fine del giudizio di Dio e concretizza la maledizione di un pensiero che guarda sempre in alto in cerca di approvazione.
Il secondo atto è invece molto veloce. Poco più di un quarto d’ora in cui si ripercorrono il processo, il supplizio e l’esecuzione di Beatrice e degli altri congiurati dai documenti processuali. I due atti rappresentano la parte privata e pubblica di questa tragedia familiare. Ciò che avviene nelle mura della fortezza di Petrella e ciò che si mette in scena per l’occhio del pubblico, che emotivamente parteggiava per la povera Beatrice. Sono i due aspetti della manifestazione della violenza del potere. Cenci di Piccola Compagnia della Magnolia è un’opera da vedere assolutamente. E non solo perché un’ottima prova d’attore e una regia curata nei minimi particolari, dal disegno sonoro ai tagli di luce che, come nei dipinti di Caravaggio, fanno emergere la luce dall’oscurità, ai costumi curati ed essenziali da Serena Trevisi Marceddu e Daniela Rostirolla. Cenci ci ricorda come il teatro possa essere un farmaco. Al contrario dell’esibizione quotidiana dell’orrore che riempie ormai ogni minuto della nostra giornata, l’arte della scena ci mette a confronto con la natura stessa della violenza, facendoci riflettere sulle possibili alternative. Non è spettacolo di cui sadicamente godere, ma pensiero in azione, un pensiero in grado forse di farci vergognare e costringerci a cambiare.
CENCI. RINASCIMENTO CONTEMPORANEO
traduzione e riscrittura dall’opera di Shelley, Artaud, Stendhal e dagli atti del processo contro Beatrice Cenci
a cura di Giorgia Cerruti
con Davide Giglio, Francesca Ziggiotti, Francesco Pennacchia, Giorgia Cerruti
regia Giorgia Cerruti
regista assistente Alessia Donadio
visual concept, disegno luci Lucio Diana
composizione, sound design, fonica Guglielmo Diana
maschere Lucio Diana, Adriana Zamboni
costumista Serena Trevisi Marceddu
realizzazione costumi Daniela Rostirolla
danza storica Monica Rosolen
tecnico luci Francesco Venturino Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Piccola Compagnia della Magnolia in coproduzione con CTB-Centro Teatrale Bresciano, Sardegna Teatro, Scarti-Centro di Produzione con il sostegno di Teatro Akropolis
in collaborazione con I.I.C. Istituto Italiano di Cultura di Marsiglia e Fundacja Teatr Wschodni di Lublino
Boarding Pass Plus project
Festival delle colline torinesi 29 | Teatro Gobetti, Torino – 17 ottobre 2024
GIANNA VALENTI | Hofesh Shechter e la sua compagnia ha debuttato in prima nazionale a Torinodanzacon Theatre of Dreams un lavoro coreografico che riconferma la centralità della musica e dello sguardo cinematografico nel percorso di questo coreografo israeliano di base a Londra dal 2002. Shechter è anche musicista e compositore delle colonne sonore dei suoi lavori, a cui si aggiungono una passione e un talento per il cinema che l’hanno portato a dirigere, girare e montare personalmente diversi suoi lavori per la scena. Sono queste le due anime che danno forma a un immaginario teatrale dove la musica fa da cuore pulsante e lo sguardo cinematografico diventa l’elemento strutturante della sua composizione coreografica.
Le quinte chiuse e, in lontananza, un ritmo regolare, quasi tribale, quasi battito. Un danzatore arriva dalla platea e semplicemente guarda, ascolta, dando forma visibile a un’attesa e segnando un dentro e un fuori, un qui e un oltre. Quello che si spalanca oltre le quinte di Theatre of Dreams è un procedere ininterrotto di piani sequenza gestito dal coreografo con l’uso di tre quinte nere parallele. I tendaggi si aprono e si chiudono ininterrottamente in punti diversi sul piano orizzontale della scena creando spaccati verticali che si definiscono per l’intensità della luce. Un meccanismo complesso e velocissimo di aperture e chiusure che creano un montaggio di brevi e brevissime azioni coreografiche di corpi singoli, trio, duetti o gruppi che guidano il nostro sguardo di spettatori come in una serie di riprese cinematografiche a piano ravvicinato, medio e lungo. Ogni azione sembra provenire da un mondo o da una narrazione diversa, brevi apparizioni di un vissuto o di un immaginario che non è importante definire o riconoscere, ma semplicemente rendersi disponibili a ricevere. Quello che viene offerto è uno stato di presenza che si trasferisce ai corpi degli spettatori e che trasforma ogni percezione quotidiana. Siamo altrove, oltre. Ma oltre dove?
La danza di Shechter si definisce per l’intensità qualitativa dei movimenti, per il livello di forza o di leggerezza applicate, per il fluire morbido o per il procedere intenso e spezzato di corpi attraversati da una vibrazione continua che spegne la mente e ne spalanca la presenza. Il montaggio gestuale in scena è una metamorfosi continua di segni e un incalzare di reiterazioni e anche di accelerazioni al limite delle possibilità di un corpo fisico. La velocità di concatenazione di ogni gesto con il precedente e il successivo rende impossibile tracciare ogni singolo segno, a parte qualche eccezione, ma rimane il gesto collettivo incarnato dai corpi trasformati emotivamente dal ritmo incessante che li attraversa. Per Shechter essere abitati dal groove, dal ritmo, è essere radicati e rilassati nel rapporto con le energie pesanti della terra e da questo radicamento poter dare intensità ed energia alle braccia che hanno la responsabilità di portare avanti la narrazione. E anche in questo Theatre of Dreams, come in tutti i suoi precedenti lavori, i danzatori narrano con l’intensità del linguaggio gestuale che trasforma corpi, volti e sguardi. Ma non potrebbero farlo senza il sostegno della colonna sonora che da traccia registrata si arricchisce, a circa metà del lavoro, di un’orchestra di tre musicisti polistrumentisti in scena. Le musiche, composte dallo stesso Shechter, si muovono da ritmi percussivi — tra sonorità tribali, techno e clubbing — attraverso ritmi jazz e samba, a tratti accarezzando il fado e la musica klezmer e creando uno spazio magico e surreale attraverso i vocalismi che si spalancano eccessivi dalla voce di uno dei tre musicisti.
Siamo nella finzione teatrale, attraversiamo storie, pensieri, desideri, narrazioni che ci vengono offerte e immagini, sensazioni ed emozioni che ci crescono dentro risvegliate da quella finzione. Ma è poi finzione quando riusciamo a essere in uno stato di presenza? Esserci, essere pienamente in quel momento e poterci essere per la verità di presenza dei corpi sulla scena.
L’ultima sezione del lavoro è potente, il gruppo di danzatori, ben tredici, lavora in unisono in una narrazione gestuale condivisa all’interno dello stesso ritmo, con rari momenti di asimmetria in cui i corpi si ammorbidiscono nella diversità di movimenti elastici che abitano le diverse direzioni dello spazio. Pochi istanti che permettono un respiro diverso e subito dopo l’impatto di una narrazione di gruppo condivisa ricomincia, inarrestabile.
String, groove e energy nel linguaggio della Shechter Company. Il corpo che si muove in maniera elastica. Il ritmo che lo abita. La capacità di creare con una intensità tale da far sentire profondamente ciò che il corpo crea, accedendo a un livello di attivazione energetica e di libertà espressiva in cui la mente tace e la coreografia si fa rito collettivo. È questo il finale di Theatre of Dreams, i corpi dei danzatori trasformati dal respiro e dal ritmo e gli sguardi quasi estatici a incarnare la ricerca di Hofesh Shechter sulla complessità delle emozioni umane a livello collettivo e la sua tensione umana e artistica verso un assoluto.
THEATRE OF DREAMS coreografia e musica Hofesh Shechter disegno luci Tom Visser costumi Osnat Kelner
Prodotto da Hofesh Shechter Company Commissionato da Théâtre de la Ville – Paris ; Georgia Rosengarten Co-coprodotto da Sadler’s Wells London; Brighton Dome & Brighton Festival; Les Théâtres de la Ville de Luxembourg; Seongnam Arts Center/Seongnam Cultural Foundation; Danse Danse Montréal; MC2 : Maison de la Culture de Grenoble – Scène nationale; Ruhrfestspiele Recklinghausen; Central – La Louvière; Shanghai International Dance Center Theater (SIDCT); Théâtre Sénart – Scène Nationale; Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale; Festspielhaus St. Pölten (AT); La Comédie de Clermont-Ferrand scène nationale; Maison de la danse, Lyon – Pôle européen de création; Les Gémeaux – Scène Nationale de Sceaux; Château Rouge, scène conventionnée – Annemasse; Châteauvallon-Liberté, scène nationale; Scène Nationale ALBI-Tarn; Le Carré Sainte-Maxime. Con il supporto diTheater Rotterdam; Les Salins – Scène Nationale de Martigues; Marche Teatro / Inteatro Festival; La Briqueterie CDCN du Val-de –Marne and The Maria Björnson Memorial Fund.
La Hofesh Shechter Company gode del supporto della Fondazione BNP Paribas per lo sviluppo dei suoi progetti ed è supportata da fondi pubblici tramite Arts Council England.
ELENA SCOLARI | Le storie strampalate sono spesso appassionanti, proprio perché imprevedibili e dallo sviluppo sgangherato e scoppiettante. Le storie dei truffatori, se ci sanno fare, sono piene di invenzioni e non annoiano mai. E Il fenomeno Laplante (produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse) è la storia di un truffatore: il sedicente principe indiano pellerossa White Elk, nato Laplante in Canada nel 1888 e sbarcato in Europa e poi in Italia nel 1924 per promuovere un film western americano in cui recitava come comparsa. L’uomo è cantante e ballerino ma in America smerciava anche farmaci miracolosi. Durante il tour europeo è passato dalla Francia e a Nizza ha conosciuto due contesse italo-austriache, madre e figlia, le quali – affascinate dall’eccentrico personaggio – lo invitano in villeggiatura nella loro tenuta italiana. L’indiano fa l’indiano e ne approfitta, ha nel frattempo subodorato che una finta adesione alla causa autarchica fascista avrebbe potuto ben sposarsi con la causa Pellerossa. E così un indiano d’America mette la camicia nera sotto la palandrana ricamata e, sovvenzionato a credito dalle contesse, comincia l’opera – fasulla – di sensibilizzazione sui beni dei nativi (oro, diamanti e petrolio) sequestrati dagli U.S.A., rimbalzando per le città italiane e costruendosi un folto seguito di fanatici ammiratori.
Come è facile immaginare sarà smascherato ma lasciamo scoprire come ai prossimi spettatori.
Tutto ciò è – sommariamente e in maniera meno lineare – messo in scena da Emanuele Conte (regia) con l’interpretazione di Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e GrazianoSirressi, in uno spettacolo che si definisce “un cabaret comico, futurista nello stile e politico nei contenuti”. I costumi, bellissimi, di Danielle Sulewic, sono indubbiamente futuristi: tre frac, ognuno con un colore del tricolore italiano come base, percorsi da lampi neri a zigozago zot. Di ispirazione futurista sono anche i tre pannelli che costituiscono un piano inclinato e che riportano la grafica delle pubblicità Fiat o Campari mescolate alle geometrie di Depero; futurista è forse anche l’irriverenza dello stile generale perché si miscela l’aneddotica buffa su questo furbo ciarlatano impiumato ai fatti mussoliniani paralleli, soprattutto il vergognoso omicidio Matteotti. Anche se, per una sorta di doveroso pudore, le parti di descrizione storica intorno al delitto sono dette senza scherno, come lette da un manuale, situate però tra lazzi a volte grossolani e forse fin troppo ingenui, benché tecnicamente molto ben eseguiti.
Sostanzialmente White Elk intorta qualche ricca signora, si accattiva il favore di una parte di popolo italiano lanciando banconote (non sue) dai balconi dei Grand Hotel dove alloggiava, dilapida denari in prestito, si ingrazia alcuni pezzi grossi, gira in gloriosa tournée di millanteria in millanteria.
Nello spettacolo si ripete più volte che tanti cittadini comuni hanno sottovalutato il fascismo pensando che sarebbe durato poco e che “la pagliacciata” si sarebbe chiusa presto. A sinistra della scena ci sono infatti tavolini e sedie da bistrot dove i tre attori si trovano a leggere il giornale e impersonano alcune delle miopi opinioni che circolavano.
Per via dell’andamento cabarettistico del lavoro, le scene (e scenette) si susseguono senza la preoccupazione di tenere sempre una linea drammaturgica logica e si indulge a una comicità insistita tenuta accanto alle terrificanti notizie sul deputato socialista assassinato. Lo stridore che ne deriva rischia però di produrre un malinteso: se l’autore Maurizio Patella vuole suggerire un parallelo tra la creduloneria della gente che si è fatta abbindolare dal carismatico capotribù e una uguale sprovvedutezza che l’avrebbe portata a cadere nella rete dittatoriale a causa dell’istrionismo di Mussolini, si pecca per almeno due ragioni: primo perché la faciloneria non è stata l’unico motivo per cui il fascismo ha avuto successo, e secondo perché questo è un modo pericoloso di autoassolversi.
Non sta a me spiegare che in molti hanno aderito alla causa nera perché erano profondamente convinti delle teorie e delle pratiche che propugnava e non perché un mattatore abile li ha turlupinati con trucchi innocenti; ridurre invece l’argomento alla macchietta limita la critica alla semplice derisione, condannandosi a una superficialità facile. Non siamo davanti alle grottesche caricature di Georg Grosz che portavano già nella grevità del segno la gravità della condanna e il disgusto per il militarismo, qui si affianca la parodia bonaria di un lestofante, in fondo quasi innocuo, alla cronaca dei nostri peggiori anni.
Mammoli, Pittaluga e Sirressi sono tre bravi attori, che si muovono molto bene sulla scena e la regia li colloca sempre con attenzione dentro lo spazio scenico, la costruzione dinamica dei movimenti è ben strutturata, il trucco è curato, le invenzioni teatrali ci sono. Molti sono dunque i buoni elementi de Ilfenomeno Laplante, tuttavia queste qualità e un testo sfrontato non bastano per raccontare la contraddittorietà di anni in cui si giocava agli indiani e al contempo si ammazzavano gli oppositori del regime. Mussolini non era soltanto un capace illusionista egocentrico.
Purtroppo.
IL FENOMENO LAPLANTE
di Maurizio Patella finalista al Premio Shakespeare is now 2021 e al Premio Riccione per il teatro 2021 regia Emanuele Conte con Luca Mammoli, Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi assistente alla regia Alessio Aronne collaborazione artistica Luigi Ferrando luci Matteo Selis costumi Danielle Sulewic assistente ai costumi Daniela De Blasio sarta Rosio Orihuela attrezzeria Renza Tarantino stagista Filippo Izzo produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse
MATTEO BRIGHENTI | Il sogno è uno specchio. L’altro sei tu. Chiunque sia, uomo o donna, alto o basso, magro o grasso, l’altro sei sempre tu. Il sogno è uno specchio dove tutto è stranamente familiare, come a teatro. E non ha bisogno di parole per dirlo. Quanto di allegorie trasformative, situazioni metamorfiche. Fascinazioni e speculazioni da “lavoro onirico” freudiano, con cui Jakop Ahlbom monta, smonta e rimonta il suo rocambolesco Strangely Familiar, per rappresentare temi come la pressione sociale e l’autostima. Quindi, trasfigurarli da contenuto latente a contenuto manifesto.
Non hai scampo, non hai vie di fuga: devi affrontarti. Se vuoi ritrovarti e, dunque risvegliarti, devi aprire gli occhi. Guardarti. Accettarti per come sei. Un incontro con l’altro sé, comunque, è da lasciarci il fiato. Allora, lo spettacolo che ha aperto in prima nazionale la stagione del Teatro Metastasio di Prato, produttore con l’olandese Jakop Ahlbom Company, è senza parole. Restano solamente i gesti ripetitivi della quotidianità di un impiegato qualunque in un mondo di impiegatɜ qualunque, che abitano una sorta di fantascienza arrugginita, grigia, pre-caduta del Muro di Berlino. L’uomo si muove dall’ufficio, alla camera da letto, al giardino e all’ascensore, un mondo fatto a blocchi che, come nei sogni, si sposta con lui. È come portato dagli eventi.
Il tempo passa e così fanno gli ambienti: la scena di Marlies Schot e DouweHibma vive un gioco a incastro in un dedalo di percorsi e di sconvolgimenti. Le diverse stanze ruotano e si trasformano continuamente in un surreale piano sequenza di cambi millimetrici, tutti a vista. È una scansione di quadri studiati ed eseguiti con assoluta precisione daglɜ straordinarɜ attorɜ-performer Erwin Boschmans, Yannick Greweldinger, Silke Hundertmark/Inez Almeida, Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Daphne Masé, anche ballerinɜ, cantantɜ, mimɜ. Alle luci di Yuri Schreuders, alla musica e al suono di Leonard Lucieer, Jaïm Sahuleka e Teun Beumer, spetta il compito di guidarci nella lettura emotiva di un simile “teatro di posa” mutevole e mutante.
L’ispirazione dichiarata è alla realtà distopica di Scissione, la serie-tv creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle, ai film assurdi di Roy Andersson, e anche al romanzo Il sosia di Fëdor Dostoevskij.
Siamo di fronte alla deriva del desiderio insoddisfatto del personaggio principale di essere visto daɜ suoɜ colleghɜ. Una condizione di esclusione sociale che si acuisce, peraltro, quando arriva in ufficio un nuovo dipendente. Non un altro qualunque. È il suo sosia, il suo doppio. Di più: è il lui che ottiene il riconoscimento che il primo non ha mai avuto. Ne nasce, così, uno scontro con tutte le parti di sé che l’altro non è, o non osa essere, o forse non si ritiene nemmeno in grado di essere.
Si tratta di una sfida che accrescerebbe le possibilità di introspezione e immedesimazione. Strangely Familiar preferisce, però, continuare a puntare tutto sull’azione. Il disegno drammaturgico di Judith Wendel quanto quello registico è stringente, imbrigliante. Tanto che la rappresentazione sembra quasi la lunga preparazione di qualcosa, di una risoluzione finale, per così dire, che arriva troppo tardi. Ossia, quando il meccanismo narrativo ha ormai diluito la sorpresa, lo stupore dell’inizio, nella continua ripetizione del processo scenico.
Jakop Ahlbom, dunque, smarrisce o, meglio, congela, di quadro in quadro, la libertà creatrice, caotica e irrazionale propria del sogno con l’incanto di descrivere alla perfezione i movimenti della superficie delle cose. La Compagnia, lo spettacolo, sono maschere di efficienza che non calano praticamente mai. Non si affonda lo sguardo nella sostanza abissale di condizionamenti e smarrimenti interiori. Non c’è tempo per la riflessione: tutto deve accadere per accadere e basta.
Eppure, Strangely Familiar si rivela – colpo di scena – un sogno lucido, a occhi aperti. Addirittura, una premonizione che, in fondo, la vita non la cambia: la salva proprio. L’attimo prima della fine, l’attimo prima di perdere tutto, e che, infatti, fa trattenere il fiato alla creazione. Chi non si trattiene, a onor del vero, è la sala. I calorosi applausi finali testimoniano che la scelta della perfezione esteriore ha convinto oltremodo il pubblico.
STRANGELY FAMILIAR Di un uomo che incontra sé stesso
regia Jakop Ahlbom drammaturgia Judith Wendel assistente alla regia Marit Schimmel (stagista)
con Erwin Boschmans, Yannick Greweldinger, Silke Hundertmark/Inez Almeida, Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Daphne Masé scenografia Marlies Schot, DouweHibma luci Yuri Schreuders musica e suono Leonard Lucieer, Jaïm Sahuleka e Teun Beumer costumi Esmée Thomassen, Eva Wegman (assistente)
produzione Jakop Ahlbom Company e Teatro Metastasio di Prato con il sostegno di Fonds Podiumkunsten, Amsterdams Fonds voor de Kunst, Fonds 21
Prima nazionale
spettacolo internazionale in collaborazione con Gruppo Colle
ILENA AMBROSIO | Nell’introduzione, pacatamente polemica ma evidentemente risentita, alla versione televisiva di La grande magia (1964) Eduardo De Filippo ha offerto una chiara dichiarazione circa la poetica sottesa alla commedia scritta nel 1948 e inserita nella Cantata dei giorni dispari. La definisce una frattura nel corpus delle sue opere, precisamente «una frattura, non definitiva ma significativa, per quello che poteva essere un nuovo teatro, un nuovo linguaggio». La scelta di affrontare un soggetto «un po’ scabroso, assurdo, che procede per simbolismi» avrebbe fatto da abbrivio, nelle sue intenzioni, a un progresso del codice scenico, a un avanzamento del suo stesso teatro. La grande magia non fu accolta benevolmente dal pubblico che, abituato alla confortevole e lineare sintassi drammaturgica di Eduardo, non comprese il senso di quella deviazione. Eppure – da qui il tono polemico – a distanza di un quindicennio spopolò Ionesco con il suo teatro dell’assurdo del quale, in un certo qual modo, De Filippo rivendica se non la paternità quanto meno il contributo dato con La grande magia.
Significativo, allora, che sia propria la cifra dell’assurdo a serpeggiare lungo tutta la rappresentazione firmata da Gabriele Russo, lavoro debuttato al Teatro Bellini il 15 ottobre scorso (dal prossimo 5 novembre al Piccolo di Milano) con l’interpretazione, nei ruoli dei protagonisti, di Natalino Balasso e Michele Di Mauro.
Il primo è Calogero di Spelta, un medio-borghese ospite, assieme alla bella moglie Marta, dell’albergo Metropole la cui direzione, per intrattenere gli ospiti, ingaggia il prestigiatore Otto Marvuglia (Di Mauro), un mago-filosofo che tira a campare allestendo spettacoli itineranti a metà tra strampalato illusionismo e benevola truffa. Proprio il gelosissimo Di Spelta sarà la prossima vittima allorché l’amante della giovane Marta ingaggerà il mago per simulare una sparizione momentanea di lei e poterla incontrare. Ma la sparizione diventa definitiva perché i due amanti scappano in barca a Venezia. Marvuglia, allora, dispiega tutte le sue abilità affabulatorie per costruire un fitto giuoco intorno a Di Spelta: la moglie non è sparita ma è custodita in una scatola e riapparirà solo se la fede del marito sarà tanto salda da crederlo. Cosa che non è, ovviamente, cosicché il povero illuso terrà il prezioso cofanetto chiuso per anni, convincendosi che la donna sia davvero lì.Il brillante piano registico seguito da Russo si dispiega con chiarezza lungo i tre atti, con il contributo niente affatto decorativo ma sostanziale di tutte le maestranze.
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L’ampio boccascena del Bellini è riempito dalle scene di Roberto Crea e dalla partitura luminosa composta da Pasquale Mari, i quali hanno ben pensato di realizzare tre diverse immagini di estrema suggestione. Nella prima il giardino dell’hotel: uno spazio contornato da floride piante, un tappeto di foglie e sul fondo un velino che lascia intravedere una pedana praticabile sulla quale transitano, a momenti, i personaggi. Gelide le luminosità nelle tinte dell’azzurro, un riflesso di un mare di fine estate. Il secondo atto è nell’abitazione di Marvuglia: il cambio scena, in controluce, a opera degli interpreti, trasforma il giardino in un interno, ora caldo, riempito dal tavolone centrale colmo degli oggetti di fortuna con i quali il mago realizza i suoi numeri di prestigio. Infine l’appartamento di Di Spelta: seguendo un itinerario che va dal fuori al dentro, ci si ritrova in un ambiente vuoto, semibuio, che si configura con evidenza come un luogo della mente più che come uno spazio concreto; luogo recondito riempito solo dalle folli visioni che il giuoco produce nell’uomo.
Il piano visivo trova però completezza nell’intreccio con quello acustico, cui si è dedicato Antonio Della Ragione: un fondale sonoro continuo sul quale si stagliano note dissonanti ed echi di voci appena percepibili accoglie gli spettatori già al loro ingresso, fino a condurli in un ecosistema di distorsioni, ripetizioni, riverberi che sposa la poetica dell’assurdo e inabissa la mente sempre più a fondo nel luogo mentale fatto di allucinazione e follia nel quale Di Spelta arriva a vivere.
E poi i costumi pensati da Giuseppe Avallone: semplici ed eleganti riescono, mediante contrasti di linee e di colore, ad accennare quanto basta alla differenza di estrazione sociale dei personaggi, ponendosi al contempo su un livello di più vaga – e dunque poetica – allusione allo scontro tra il mondo reale e quello dell’illusione.
È l’equilibrata sinergia tra tutte queste componenti a regalare fluidità al gioco di alternanza ideato da Russo quale costante della messa in scena: fasi più naturalistiche si avvicendano a momenti dal carattere onirico, durante i quali l’atmosfera si condensa in tableaux cui la fissità dei corpi, il divampare della luce, la catabasi del suono conferiscono un che di sinistro, di inquietante.
Un gioco, una magia dei quali gli undici interpreti si fanno portatori con abilità. Di Mauro è naturale, mai affettato anche nei momenti in dialetto napoletano che si è scelto di preservare. Decisione che, di primo acchito, potrebbe anche stonare con la generale “politica linguistica” della pièce volta a preservare le cadenze regionali di ciascun interprete, ma che, a una più profonda riflessione, risulta coerente con la scelta di Eduardo di affidare al dialetto i momenti più privati del mago (sostanzialmente quelli con la moglie e con gli amici) e all’italiano quelli “performativi”. In entrambi l’attore sostiene il dire con disinvoltura completandolo con una gestualità da vero istrione.
Balasso, dal suo canto, restituisce con chiarezza mai didascalica la metamorfosi di Di Spelta: da scettico e distaccato rispetto a tutto ciò che trascende la concretezza del reale diventa appassionato, cocciuto nella sua follia. Pazzia alla quale Balasso riesce ad aggiungere una riuscita sfumatura di struggente umanità.
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Attorno a loro la microcomunità attoriale messa insieme dal regista sostiene e completa la performance. Ciascun ruolo è calibrato nel suo peso specifico a formare uno sciame umano che passa con prontezza dai fotogrammi in cui si concentra l’assurdo – i corpi rigidi, le voci stridule, gli sguardi fissi e le risate sguaiate – alla vivacità delle scene più mimetiche che portano avanti il plot.
«Non badiamo alla favola, a quello che dice il soggetto: l’adulterio è un pretesto per dire certe cose… Calogero è il borghese intimamente legato alle sue tradizioni e che non vuole guardarsi intorno… Marvuglia è il prestigiatore, il propagandista delle illusioni».
Era questa, per Eduardo, la lettura socio-culturale celata dietro i simboli disseminati nella trama. Una lettura che sarebbe stata evidentemente anacronistica se ripresa tal quale. Questa versione di La grande magia, invece, offre tutti gli indizi necessari per una interpretazione più umana, quasi psicologica, del contrasto tra verità e finzione, tra ragionevolezza e illusioni che tutte le componenti dello spettacolo contribuiscono a veicolare. Ma c’è dell’altro, perché questa commedia è anche, in fondo, un grande omaggio all’arte del teatro. Facendo dell’illusione, della manipolazione della realtà materiale drammaturgico Eduardo dipinge un favoloso ritratto del meccanismo teatrale. Ebbene, il mondo scenico e attoriale messo in piedi dietro la direzione di Gabriele Russo respira anche di questo, facendosi davvero scatola magica del teatro.
LA GRANDE MAGIA
di Eduardo De Filippo regia Gabriele Russo con Natalino Balasso nel ruolo diCalogero Di Spelta Michele Di Mauro nel ruolo di Otto Marvuglia e con, in ordine alfabetico Veronica D’Elia – Amelia Recchia Gennaro Di Biase – Mariano D’Albino e Brigadiere di P.S. Christian di Domenico – Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta Maria Laila Fernandez – Signora Marino e Rosa Di Spelta Alessio Piazza – Gervasio e Oreste Intrugli (genero Di Spelta) Manuel Severino – Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia Sabrina Scuccimarra – Zaira (moglie di Marvuglia) Alice Spisa – Marta Di Spelta e Roberto Magliano Anna Rita Vitolo – Signora Zampa e Matilde (madre Di Spelta) scene Roberto Crea luci Pasquale Mari costumi Giuseppe Avallone musiche e progetto sonoro Antonio Della Ragione produzione FondazioneTeatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
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