MATTEO BRIGHENTI | Il resto è l’indomabile gravità che schiaccia verso il basso speranze, desideri, sogni. Una sottrazione, ciò che si cerca meno ciò che si trova. David, Candy, Bernie, Benita, Robert, Jerri, Kane, cercano amore, trovano sesso e in mano restano lattine di birra. Il fondo è nero, oscuro come quello dietro i tagli di Lucio Fontana, che voleva andare sulla Luna passando attraverso la tela: la differenza è che lo stordimento alcolico lo trovi a basso costo al supermercato. La birra Dana, ad esempio, la vendono al Conad sotto al Teatro delle Spiagge, in via del Pesciolino, a Firenze, dove Amore e resti umani di Brad Fraser, regia del giovane Giacomo Bisordi, è andato in scena.
Teatro oltre le cose. E infatti Dana è anche il nome della ragazza misteriosa che lega tra loro David, Candy e Bernie, il triangolo che, come il prisma ottico divide la luce nelle sue componenti spettrali, scompone tutte le forme di amore di un gruppo di trentenni alle prese con la propria difficile identità sessuale.
David è un ex attore televisivo, ora cameriere, che flirta cinicamente con un suo collega adolescente, Kane, indeciso tra erotismo e videogiochi. Candy, coinquilina ed ex fidanzata di David, recensisce libri e si divide tra Robert, barista playboy, e una romantica insegnante lesbica, Jerri, preda dei suoi istinti. Bernie è l’inquieto e fedifrago miglior amico di David. Benita è una puttana sensitiva che racconta in chat leggende urbane come fossero favole nere. Sulle loro notti, in un’imprecisata metropoli, incombe brutale un serial killer che fa a pezzi giovani donne sole. Un ribollire di generi, dunque, la velocità della sit-com, la spregiudicatezza del pulp, la tensione del thriller, il voyeurismo dello splatter, per una commedia nera e abrasiva.
Brad Fraser, controverso e spudorato drammaturgo canadese classe 1959, dalla visione dissacrante sulla realtà contemporanea, imbevuta di sesso esplicito, violenza e droghe, scrive a trent’anni Resti umani non identificati e la vera natura dell’amore. Il successo internazionale arriva nel 1992, Time lo consacra uno dei dieci migliori testi teatrali e in Italia viene presentato in una memorabile edizione del Teatro dell’Elfo. L’anno successivo Denys Arcand gira una trasposizione cinematografica dello stesso Fraser, La natura ambigua dell’amore. Dal ’92 se ne perdono tracce e curiosità per i nostri palcoscenici, fino a questa nuova produzione del 2014, la prima di Società per attori e Barbarós (l’ultima è Kvetch): la traduzione segue la stesura del 2006, inedita da noi, epurata degli elementi datati e rintitolata Amore e resti umani, come si chiama nell’originale il film di Arcand.
Sulla sinistra della scena ci sono l’asta di un microfono, un paio di tacchi rossi, un televisore, un tavolino, è lo spazio in cui Benita racconta le sue storie di sangue e ogni volta che muore una donna strappa dello scotch con la bocca e impicca Barbie nude; a destra c’è uno sgabello, tutto quello che Bernie ha salvato del suo matrimonio; in fondo, un frigorifero rosso sopra un praticabile nero che si apre in botole e cassetti, un po’ guardaroba un po’ esterno giorno e notte: da lassù si entra nell’appartamento di David e Candy (e negli altri), un materasso macchiato di sangue in mezzo alla scena. Quel futon è il centro di gravità della messinscena, è il ring su cui si lotta per una piccola morte che ritardi la grande, un’unione che sia più di una dolce bugia. Il sesso è il loro modo di conoscere il mondo. E per farlo vanno fino in fondo, senza paura di mostrarsi, abbandonarsi, lasciarsi travolgere dal contatto, lo scontro, l’esplorazione dei corpi: una libertà maestosa guida Giuseppe Sartori (David), Valentina Bartolo (Candy), Francesco Petruzzelli (Bernie), Cristina Poccardi (Benita), Federico Lima Roque (Robert), Cristina Mugnaini (Jerri), Francesco Sferrazza Papa (Kane), una compagnia coesa fino allo spasimo estremo delle forze in gioco.
Giacomo Bisordi ha scelto di lasciarli tutti in scena, sempre, con una regia cinematografica fatta di assolvenze e dissolvenze incrociate invece che di entrate e uscite, dove il passato è nel futuro e viceversa. Amore e resti umani, infatti, è un moto continuo e inesorabile, una volta innescato non può essere fermato, è un volo o un salto a strapiombo, perché “love is something you fall into” (“l’amore è qualcosa in cui cadi”), com’è scritto su una t-shirt di Jerri. Si guardano, da attori per accordarsi sulle reciproche energie, da personaggi per non abbandonare lo sguardo e la pietà verso i propri simili e quindi verso se stessi, coro di zombi muti e testimoni emotivi di chi sta in platea, ombre di anime che non posso che fallire, pur vivendo mille vite.
Il palco, intanto, si sporca di loro, con loro, e nessuno lo ripulisce, perché non si può tornare indietro, bisogna arrivare alla fine, e non sono loro a decidere quando, ma l’abisso degli eventi in cui sono precipitati. L’ironia è l’ultima zampata possibile di questi animali feriti, un colpo di coda per provare a tirarsi fuori dalla stanchezza di un’esistenza irrecuperabile. Kane: “Hai qualcosa di diverso stasera”. David: “Ho le mutande”.
Solitudini metropolitane e inquietudini sessuali volute, negate, credute, ignorate: in definitiva, ci portiamo dietro dagli anni ’90 il rovescio sconsolante del culto edonista della felicità individuale, dell’affermazione personale. Jerri: “Ti amo”. Candy: “E questo farà cambiare le cose?” L’amore può essere ancora la risposta, purché si resti umani.
Amore e resti umani
di Brad Fraser
traduzione Cosimo Lorenzo Pancini
con Giuseppe Sartori (David), Valentina Bartolo (Candy), Francesco Petruzzelli (Bernie), Cristina Poccardi (Benita), Federico Lima Roque (Robert), Cristina Mugnaini (Jerri), Francesco Sferrazza Papa (Kane)
regia Giacomo Bisordi
scene Paola Castrignanò
consulenza ai costumi Anna Missaglia
luci Marco D’Amelio
elettricista Javer Delle Monache
assistente alla regia Cristina Pelliccia
produzione Società per attori e Barbarós
Visto sabato 9 aprile al Teatro delle Spiagge, Firenze.