MATTEO BRIGHENTI | Gli uomini? Sono buoni solo a dare il seme. 18 ragazze del liceo di Gloucester nel Massachusetts, Stati Uniti, hanno scelto che quel lascito inconsapevole e incosciente dei compagni fosse la radice, l’inizio e il futuro del loro mondo nuovo. Tutte rimaste incinte, contemporaneamente, per mettere alla luce una comune di sole madri e figli.
Per Sorry, boys, terza tappa del suo progetto sulle Resistenze femminili, Marta Cuscunà si ispira a un fatto di cronaca, come già per i precedenti È bello vivere liberi! sulla partigiana Ondina Peteani e La semplicità ingannata sulle clarisse di Udine nel Cinquecento, un evento accaduto realmente nel 2008 e che continua ad accadere ancora oggi, dal momento che ognuna delle giovani, all’epoca di 15-16 anni, sta crescendo il proprio bambino.
In scena, però, non c’è nessuna di loro e anche la combattiva artista di Monfalcone, come già ci aveva spiegato alla vigilia del debutto, stavolta fa un passo indietro, dietro a 12 teste ‘animatroniche’ realizzate da Paola Villani, ex Pathosformel, sui calchi di altrettanti modelli (qui un video del backstage). Cuscunà è un’esplosione di caratteri, un’orchestra di timbri e colori per 6 adolescenti maschi e 6 tra genitori, l’infermiera e il preside del liceo, e muove le braccia veloci come i martelletti della macchina da scrivere: le pagine di pensieri, parole, opere e omissioni sono i movimenti di quei volti che paiono infiniti. 12 teste mozzate, 12 maschere a cui la versatile e rigorosa autrice/attrice dà voce per una sbalorditiva indagine culturale e sociologica, che restituisce uno spaccato impietoso dell’essere virili nel nostro tempo, unendo al teatro di figura modalità narrative da new e graphic journalism.
Ci sono volute 10 persone per costruire Sorry, boys, e poi 2 fabbri, un falegname, 13 volontari, 1,74 quintali di ferro, 70 chili di siliconi e resine, qualche chilo di filamenti di PLA stampati in 3D, una quarantina di freni di biciclette, 60 pollici di monitor, che riproduce lo schermo di un iPhone e divide gli adolescenti, a sinistra, dagli adulti, a destra. Le ragazze si scambiano messaggi in un gruppo su Whatsapp che ha per sfondo una pelle di leopardo ed è chiamato ‘sorry boys’: a rispondere a domande, dubbi, richieste è infatti lo stesso spettacolo, che parla tra di loro, perché è una di loro. È la loro storia. E così comincia l’azione, tra faccine, smile, “ce ne andiamo”, “bisogna salutare”, “spiegare cosa?”. Alla chat si alterna, a mo’ di cambio scena, la app iMum che segue la gravidanza mese per mese e paragona la lunghezza del feto ogni volta a un frutto diverso.
La luce che si alza svela una vista da contrappasso dantesco, da supplizio tragico: le teste sono appese come trofei di caccia, al pari della serie fotografica We are beautiful del ventisettenne Antoine Barbot. Trofei di sconfitta, perché la decisone delle ragazze madri li ha inchiodati a ruoli residuali, senza volontà o coscienza, schiacciati in due dimensioni, destra-sinistra, alto-basso. Sono su dei distintivi di un’autorità che non esiste più, né sugli altri, né tantomeno su se stessi. Hanno abdicato in favore del “burattinaio” e per questo è oltremodo felice l’uso del teatro di figura: Marta Cuscunà, la cui silhouette, pantaloni neri, scarpe da ginnastica, termina con quelle teste, è sì la manifestazione delle conseguenze della decisone delle ragazze, ma anche, forse soprattutto, la ‘longa manus’ della società sbilanciata al maschile di cui si parla nelle note di regia, in cui si riconoscono e a cui aspirano gli uomini e che le donne adulte subiscono in silenzio.
I ragazzi fanno sesso (non l’amore) e non protetto con lo stesso freddo e distaccato narcisismo con cui guardano i porno o giocano ai videogame. I miti sono il macho televisivo, sposare una pornostar per sistemarsi, e il mantra scandito a turno è “non un uomo, non una macchina, molto di più, un Terminator” da Terminator: Genisys, l’ultimo della serie in ordine cronologico. Solo i sospiri, lunghi, densi, sono pieni di qualcosa di simile a rimpianti sfuggenti. La notizia della maternità delle loro ragazze arriva come una valanga sull’ennesimo film hard: restano impietriti, fermi, sbigottiti, strabuzzano gli occhi, lo stupore è vasto, continuo, in piani di ascolto lasciati fissi e sospesi, per poi essere ripresi puntualmente. Si domandano “perché non ci hanno voluto?” e poi l’unica cosa che sanno fare è comprare i pannolini.
Agli adulti interessa soltanto stabilire se c’è o no un patto tra le ragazze e se questo cambia qualcosa. “Non cambia niente” è la linea difensiva. Queste giovani vivono una guerra quotidiana e i genitori non le riescono a capire, perché non accettano che non siano più figlie, ma madri a loro volta, e pur di salvaguardare le apparenze, pur di salvare la faccia, è il caso di dire, acconsentono anche che subiscano violenze. Se il dialogo dei ragazzi è agghiacciante per via della loro pochezza intellettuale e affettiva, i monologhi degli adulti, uno a uno sotto un faro da interrogatorio di polizia, è straziante per quanto ciecamente rivendicano ragione e vittismo: non hanno lacrime o le hanno già versate tutte, eppure sembrano piangere.
Secondo la stampa italiana di quell’anno, a ispirare le 18 ragazze furono film come Juno, il bisogno di sentirsi amate e di poter amare, la crisi di identità e di vita quotidiana di Gloucester. Sorry, boys si basa su The Gloucester 18, documentario in cui una di loro confessa di aver voluto creare una famiglia tutta sua dopo aver assistito a un terribile femminicidio. Nella cittadina, infatti, non passava letteralmente giorno senza che il dipartimento di polizia non ricevesse una segnalazione di violenza maschile in famiglia. Lo si racconta nel documentario Breaking our silence, altra fonte dello spettacolo, insieme a come questa situazione avesse spinto 500 uomini a organizzare una marcia per sensibilizzare la comunità al problema.
La gravidanza rivendicata contro la violenza degli uomini convive in Sorry, boys con la consapevolezza che solamente loro possono porvi fine, rifiutando i modelli imposti di mascolinità. Gli uomini? Sono buoni soprattutto a dare risposte. E ora che lo specchio riflesso della società si è infranto contro il palcoscenico anche Marta Cuscunà può tornare a essere la ragazza che è. Tutta d’un pezzo.
Sorry, boys
di e con Marta Cuscunà
progettazione e realizzazione teste mozze Paola Villani
assistenza alla regia Marco Rogante
disegno luci Claudio “Poldo” Parrino
disegno del suono Alessandro Sdrigotti
animazioni grafiche Andrea Pizzalis
costume di scena Andrea Ravieli
co-produzione Centrale Fies
con il contributo finanziario di Provincia Autonoma di Trento, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
con il sostegno di Operaestate Festival, Centro Servizi Culturali Santa Chiara, Comune di San Vito al Tagliamento Assessorato ai beni e alle attività culturali, Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia
distribuzione Laura Marinelli
teste gentilmente concesse da Eva Fontana, Ornela Marcon, Anna Quinz, Monica Akihary, Giacomo Raffaelli, Jacopo Cont, Andrea Pizzalis, Christian Ferlaino, Pierpaolo Ferlaino, Filippo pippogeek Miserocchi, Filippo Bertolini, Davide Amato
Un ringraziamento a Andrea Ravieli, Lucia Leo, Roberto Segalla e alle ragazze e ai ragazzi del Gender and Sexuality Group del Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico
Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory
Nello spettacolo si segnala la presenza di riferimenti sessuali espliciti nel linguaggio.
Visto martedì 28 giugno a Villa di Scornio, Pistoia, all’interno di Teatri di Confine 2016.