Macbeth @ Francesco Pititto
Macbeth @ Francesco Pititto

MATTEO BRIGHENTI | Shakespeare? Shakespeare! Shakespeare … Complici i 400 anni dalla morte, il Bardo è salito (e continua a salire) sul palcoscenico in forme e punteggiature più disparate del solito, con il punto interrogativo, esclamativo, con i puntini di sospensione, riassunto, ridotto, tagliato, adattato. Pare che un anniversario, per la semplice forza della sua matematica tonda, chiaro, evidente a tutti, abbia di per sé il potere di tramutare una necessità celebrativa in virtù artistica. E invece sono sempre pochi, e sempre meno, i lavori che arrivano al punto fermo del drammaturgo di Stratford-upon-Avon: per dirla con il critico statunitense Harold Bloom, l’invenzione dell’umano. Shakespeare ci ha creato così come oggi ci concepiamo. I suoi personaggi non sono più grandi della vita, sono la grandezza della vita stessa. Lenz Fondazione con il suo Macbeth, Francesco Dendi e Alessio Martinoli con il loro Amleto 2016, hanno inventato quella grandezza, o più propriamente, sono giunti a quella meta là dove ci si immagina possa esistere solo il limbo, la sospensione del fine (malattia di) vita mai: una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria (REMS) a Mezzani, in provincia di Parma, e una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) a Firenze.
Dal marzo 2015 la Regione Emilia-Romagna è impegnata in un’esperienza pilota a livello nazionale per il trasferimento dei detenuti degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) in nuove strutture di accoglienza. Francesco Pititto e Maria Federica Maestri hanno colto come spinta creativa questo momento storico per la gestione sociale della follia, rivolgendo la nuova ricerca artistica sul Macbeth agli ospiti della REMS, in stretta collaborazione con il Dipartimento Assistenziale Integrato di Salute Mentale – Dipendenze Patologiche dell’AUSL parmigiana. Una nuovo passo che va ad aggiungersi al cammino ultradecennale con lo storico ensemble di attori ‘sensibili’.
La tragedia shakespeariana diventa materia vivente, atto violento rimembrato e rielaborato, allucinazione bipolare tra l’attrice Sandra Soncini, presente in scena al debutto in prima nazionale lo scorso giugno a Lenz Teatro per il Festival Natura Dèi Teatri di Parma (Il Furioso (2) è stato l’altro debutto di quei giorni), e i performer Germano Baschieri (Macbeth), Mattia Sivieri, Ivan Fraschini, Daniele Benvenuti, presenti unicamente in video a causa delle limitazioni determinate dalle restrizioni della libertà personale poste dal sistema giudiziario (la concessione dei permessi è di pertinenza dei giudici).
Un prisma come di latta, la polena forse di una nave fantasma, è avvolta nel buio, interrotto solo da rapide immagini proiettate sopra, quasi gli occhi instabili di un drago. Sono volti di uomini allucinati, sfuocati, bruciati: un fluire di ciglia, capelli, barba, bocca, denti, spezzati, divisi dalle giunture che tengono insieme la scenografia, punti di sutura, rammendi lacerati come i sacchi di Alberto Burri. Quando quella caverna, quel monolite della mente omicida si apre, svela Sandra Soncini, Lady Macbeth vestita di nero su una sedia girevole. Oscurità alienata con un cuore che pulsa.
La macchina da presa sugli ospiti della REMS, transfert e maschera (sociale, emozionale) per noi del dramma, va avanti e indietro prima come l’indecisione di Macbeth ad agire, e poi come la sua mano che, sobillata dalla Lady, accoltella il re per prendergli il trono, il regno, mentre in video corre la cancellata della Residenza, da cui emergono finestre aperte, chiuse e cieche. Ciò che nel male nasce, nel male cresce. Germano Baschieri si lava le mani pulite nel lavandino e tutte le gocce schizzano sull’obiettivo, perché il delitto ti insegue ovunque vai, anche se non lo vuoi vedere né riconoscere.
Il delirio, il senso di colpa, le visioni, sono un dialogo di danni ripetuti e di dannati, gli attori detenuti nel loro ‘castello’, moltiplicati ora anche sulle pareti della sala, e l’attrice nella luce del mondo che gira sulla scena teatrale, macchia che la insegue e non può cancellare. L’azione non è solo di chi la compie, è anche di chi la pensa.
Il Macbeth di Lenz è dunque uno cambio di voci e sussurri che risalgono dalle profondità dei nostri abissi, un intreccio profondo tra il nucleo originario del testo e il suo manifestarsi attraverso parole e gesti, che uniscono alle visioni immaginifiche dell’irrazionale le azioni reali sul palco. Cercando così di scavalcare, con la spinta dell’esperienza teatrale, il muro del vivere civile e sociale, per risalire insieme, amanti e complici, alla fonte di luce di quest’ombra che chiamiamo vita.

Amleto 2016
Amleto 2016

Per Amleto 2016 attori di un simile cammino di riscoperta reciproca sono stati un gruppo di giovani under25, scelti tramite una selezione pubblica, e alcuni residenti della RSA “Il Giglio”, a Firenze, diventata negli ultimi quattro mesi luogo di formazione pratica, completamente gratuita, e Castello di Elsinore e delle forze che agitano la mente del principe Amleto (in passato anche Fortezza Bastiani per un esperimento sul Deserto dei Tartari di Buzzati). Il progetto, a cura di Francesco Dendi e Alessio Martinoli, e sostenuto con un crowdfunding sulla piattaforma Crowdarts, ha rappresentato un momento di confronto fra le tematiche shakespeariane e il contemporaneo, ma soprattutto un’opportunità di creazione attiva per generazioni agli antipodi, ma alle soglie di uno speculare passaggio all’ignoto, in un luogo solitamente non considerato creativo e invece bisognoso di attenzione. L’ambizione è quella di continuare il progetto nei prossimi anni, lavorando su altri testi di Shakespeare, per arrivare a fare della RSA una sorta di Globe Theatre estivo.
Domenica 17 luglio una decina di anziani in carrozzina mi dà il benvenuto all’ingresso della struttura, colonne d’Ercole parlanti, che girano su se stesse, si scontrano, si incagliano nei discorsi. Una signora mi chiede di accendere una sigaretta che crede già accesa e di spegnere la stessa che è già spenta. Un infermiere, accorso a dirigere quel traffico, mi indica dov’è Amleto 2016. In cima alle scale a destra.
Aperta una porta scorrevole, nel “Cinema Il Giglio”, una stanza vuota con sedie in plastica, tende rosse alle finestre, tirate per non far entrare il Sole (gli anziani mangiano alle 6, lo spettacolo è in pomeridiana), e un drappo a tre quarti della sala che delimita ambienti e scene, mi si schiude davanti una recita della compagnia degli Scalognati dei Giganti della montagna di un Pirandello che ha studiato sui film di Ciprì e Maresco. Piccoli esseri affamati e affannati parlano di azione, volontà, qui dentro, dove tutto è sospeso, dove un anziano può restare per un periodo variabile, da poche settimane al tempo indeterminato.
In scena Akram Mahmoud Omar, Giovanni Serrano, Alessando Catani, Francesco Dendi, Giusy Mendola, Cristian Flore, Alessandro Lizzio, Sofia Donatelli, Alessio Martinoli, Anna Maria Ferrigno, Maria Scozzi, costruiscono fantasmi che parlano ai vivi, in un mondo clownesco, di burattini troppo piccoli per essere responsabili e troppo grandi per poter far finta di niente.
La riduzione di Shakespeare è precipitosa, nel senso che precipita senza soluzione di continuità verso l’epilogo, la vendetta dell’assassinio di Amleto padre, che finisce in una “vista da campo di battaglia”, dopo che abbiamo seguito la salma di Ofelia fino alla camera mortuaria della Residenza e poi il duello di Amleto e Laerte in terrazza, risolto con una partita a ping pong. In particolare, ciò che Amleto 2016 vuole smascherare è l’illusione che si possa guarire dal tempo che passa semplicemente non curandosi del suo corso, abbandonando i vecchi e malati prima della fine, per non averli davanti gli occhi e non doverci specchiare nel loro graduale spegnimento, che presto sarà anche il nostro.
Sappiamo quello che siamo, ha detto Ofelia, non quello che possiamo diventare. Invece, alla RSA sanno cosa diventeranno, ma si sono dimenticati cosa sono. Amleto 2016 è stato qui a ricordarglielo, perché sia vita prima della morte.

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