MATTEO BRIGHENTI | Le luci in sala solitamente si accendono a cose fatte. Cantandolo come la Vanoni: la musica è finita, gli amici se ne vanno, (spesso) che inutile serata, teatro mio. Ad Arezzo, dal 19 al 23 ottobre, si accenderanno a cose tutte da fare: il pubblico per una volta esce dal cono d’ombra di poltrone, panche o cuscini e diventa protagonista.
L’edizione numero 0 del Festival dello Spettatore prevede spettacoli, attesi Amanda Sandrelli, Antonio Rezza con l’anteprima nazionale del suo film Milano via Padova, Caroline Baglioni con Gianni prodotto da La società dello spettacolo, che tra l’altro ha sede nel negozio dello spettatore professionista Stefano Romagnoli, ma soprattutto incontri e convegni sui percorsi di avvicinamento e coinvolgimento dei cittadini nella produzione culturale. Con l’obiettivo di diventare un appuntamento fisso, sempre in ottobre, prima dell’avvio delle stagioni teatrali, un’occasione annuale per operatori, insegnanti, critici e per tutti coloro che vivono o vogliono vivere in modo consapevole il proprio ruolo in platea. E la propria incidenza sul palcoscenico.
“Nella nostra esperienza vediamo che lo spettatore – affermano Laura Caruso e Massimo Ferri – non intende banalmente divertirsi, evadere dalla sua vita quotidiana o trovare pace. Chiede non di assistere, ma di partecipare ad una ricerca di senso, mossa da un’urgenza e non da pretesti”. Laura Caruso è co-curatrice del progetto Spettatori Erranti. Massimo Ferri è il Presidente della Rete Teatrale Aretina, cui si deve l’esperimento del nuovo festival. A lavoro sugli ultimi e più importanti preparativi, hanno comunque trovato il tempo e il modo di rispondere alle nostre domande.
Perché avete deciso di costruire il Festival dello Spettatore?
“Il percorso viene da lontano. La Rete Teatrale Aretina (che è un coordinamento di sei compagnie residenti in altrettanti teatri), lavora da più di dieci anni su progetti dedicati alla formazione e al coinvolgimento del pubblico, nonché alla valorizzazione del ruolo educativo e sociale del teatro e dello spettacolo dal vivo in generale. Uno dei progetti più importanti promossi negli ultimi anni è quello degli Spettatori Erranti, un gruppo di spettatori ‘consapevoli’, che scelgono il proprio cartellone trasversale alle stagioni teatrali della provincia, aggiungendo alla visione dello spettacolo una serie di attività connesse. Partendo da questa esperienza, abbiamo pensato di dare vita a un festival, cioè abbiamo voluto che quello che stavamo mettendo in piedi fosse proprio un festival, un insieme di iniziative collegate da un senso comune che si susseguissero in un tempo limitato (sono tredici appuntamenti in cinque giorni) e che questa iniziativa mettesse al centro di tutto il pubblico. Per questo il programma prevede spettacoli rivolti a diverse tipologie di pubblico, compreso il mondo della scuola, ma anche e soprattutto tante occasioni di approfondimento: giornate di studi laboratori, seminari, alcuni con un approccio più scientifico, altri più filosofico, ma tutti in qualche modo focalizzati sullo spettatore, sul vedere, preferibilmente con un approccio partecipativo”.
Chi è lo spettatore?
“Lo spettatore è colui che guarda. È interessante rilevare che il verbo ‘spectare’ in latino ha molteplici traduzioni, ‘guardare’, ma anche ‘concernere’ e poi ‘riguardare’. Lo spettatore è colui che guarda per comprendere, per riflettere, per capire cosa di ciò che vede lo ‘riguarda’. Il suo è uno sguardo che chiede ben più dell’impegno della vista. Lo sguardo dello spettatore che chiamiamo ‘partecipe’ è in primo luogo presenza, dal vivo, nel medesimo luogo e spazio degli artisti in scena, lo sguardo dello spettatore a teatro è testimonianza, è memoria. Tanto teatro chiede di essere visto attingendo alla propria esperienza, ai propri ricordi, ai segni rimasti in noi che la scena può evocare e fare emergere. Con questo, cercare modi di guardare diversi non vuol dire rinunciare all’analisi critica e al farsi un’idea propria. Vuol dire piuttosto conoscere e sperimentare nuovi punti di vista. Lo sguardo dello spettatore è poi allo stesso tempo individuale e collettivo, è un’esperienza personale, ma anche condivisa, con i vicini di poltrona, con coloro con cui ci si ferma a chiacchierare dopo lo spettacolo, con quanti hanno visto o vedranno lo stesso spettacolo altrove. Citando una spettatrice, l’esperienza del teatro è guardare con i propri occhi e insieme con gli occhi degli altri”.
Che differenza c’è tra spettatore e pubblico?
“Sono due parole e due concetti ampi, entrambi chiederebbero ampie trattazioni, ma qui diciamo che per la nostra esperienza e osservazione non esiste IL pubblico, non esistono GLI spettatori, esistono tante persone, ciascuna mossa da una particolare, personale, motivazione. Noi Spettatori Erranti spesso ci definiamo Comunità di spettatori (sembra una parola più democratica di altre), ma tutti questi termini ‘aggreganti’ hanno il rischio di generare un errore di interpretazione. Di recente Ilda Curti, in un illuminante intervento circa le comunità di cambiamento, ha detto: non esistono comunità come luoghi ingenui di comunanza e appartenenza. Quelle che tendiamo a definire ‘comunità’ sono entità fragili, evanescenti, liquefatte. Esposte continuamente al rischio della dissoluzione. Ecco, sentiamo il pubblico, gli spettatori, anche quelli che fanno parte della nostra comunità da più tempo, sempre a rischio dissolvimento. Ogni spettatore ha desiderio di essere riconosciuto nell’impegno che mette e nella propria disponibilità di sguardo. Lavorare in teatro, a diversi livelli, vuol dire lavorare in luoghi dove poter mantenere sempre aperto questo dialogo, dove tracciare linee che tengono insieme, annodare le visioni, raccogliere e restituire le voci. C’è un significato profondamente politico nel nostro lavoro con gli spettatori che non si vuole fermare alla visione di spettacoli, ma attiene a creare le condizioni per far crescere comunità di apprendimento, in cui ciascuno riscopre e attiva percorsi di ricerca, in cui dopo aver preso coscienza, poi si decide di mettere quella coscienza in condivisione con gli altri”.
Parlate di “arte” dello spettatore. In cosa consiste?
“Un ‘esercizio’ che spesso facciamo quando andiamo a teatro con gli Erranti è quello di sedersi e poi respirare a fondo. Concentrarsi sull’essere lì, in quel momento, essere ricettivi con tutti i sensi, rendersi disponibili, prendersi tempo, sospendere il giudizio e a quel punto osservare, la scena, ma anche se stessi. Come risuona ciò che succede nel nostro corpo? Produce un effetto? Siamo capaci di registrare quell’effetto? Uno dei direttori artistici di Rete Teatrale Aretina ha coniato il termine ‘spettautori’. Coglie bene quella capacità di mettersi in ascolto e poi saper riconoscere come la scena impatta su di noi, cosa lascia, cosa produce, cosa ci conduce a pensare, immaginare, fare. Evidentemente non sempre il grado di comunicazione con la scena riesce ad essere così intenso, ma per la nostra esperienza, se siamo nella disposizione di ascolto giusta, quasi tutti gli spettacoli, anche quelli che non ci piacciono, possono lasciarci qualcosa, una sensazione, il ricordo di un’esperienza, un’immagine, un’atmosfera, la curiosità di approfondire una vicenda, un autore, un testo, un linguaggio”.
Lo spettatore va educato? Non si è spettatori di per sé, diciamo ‘a prescindere’?
“Come per tutta l’arte contemporanea esiste un livello di ricezione epidermico e livelli che coinvolgono aspetti più riflessivi. A seconda degli spettacoli o delle attitudini degli spettatori possono intervenire tipi di approccio differenti. Spesso osserviamo che uno spettacolo ad un primo momento suscita determinate reazioni, diciamo più empatiche, poi pensandoci a mente fredda una riflessione più analitica può fornire altri spunti. Piergiorgio Giacchè una volta ci ha sottoposto una riflessione di questo tipo e ci capita spesso di confrontare le impressioni a breve, medio e lungo termine; sono spunti molto illuminanti su quanto essere spettatore è proprio un’arte che si esprime nel tempo. In generale però, soprattutto lavorando per avvicinare gli spettatori ai linguaggi della scena contemporanea, ciò che facciamo è fare in modo che gli spettatori si sentano liberi di sgombrare lo sguardo da pregiudizi e diffidenza e coltivare la curiosità, il desiderio. Questo è un percorso. Non si insegna, ma si cerca di creare le condizioni per tutto questo. Si fa in modo che si instauri fiducia”.