MATTEO BRIGHENTI | Fedeltà radicale. A una visione di archeologia del presente, cercare nell’oggi l’eco di ieri, e profezia del passato, rintracciare ieri i prodromi dell’oggi. L’opera creativa di Lenz Fondazione è unica, appartiene solo a loro, e in più è irripetibile, la si può trovare solo da loro, andando a Lenz Teatro, a Parma o tuttalpiù nei comuni limitrofi.
“La parola teatro – mi dicono Maria Federica Maestri e Francesco Pititto – è diventata obsoleta o limitata, essendo diventate le forme espressive molteplici e i linguaggi applicati diversi. Però, alla fine la differenza sostanziale rimane sempre questo elemento umano e mortale, debole o fortissimo, a testimoniarne l’unicità”. Una convergenza estetica fatta di denso studio dei testi, intensa scrittura per immagini, plastica riconversione degli spazi, eccezionale adesione degli interpreti.
Da Shakespeare a Dante, dall’inadeguatezza dell’artista rispetto al proprio tempo al loro auto-isolamento voluto e rivendicato, ecco, dopo tante nostre parole su Lenz, la viva e diretta voce di una direzione artistica, curata da Maestri e Pititto (presidente della Fondazione), che riempie come non mai di pensiero e azione la parola ‘ricerca’.
Il 2016 è stato l’anno di Shakespeare. Se doveste paragonare l’anno appena trascorso a un suo personaggio quale sarebbe?
“Il Fantasma, il Ghost, come nello Shakespears Geist di M.J.R. Lenz che si presenta come il riflesso allo specchio dell’autore, come una scimmia o come l’imitazione di Dio. Ma anche Cordelia del Re Lear, irriducibile nel suo estremismo etico, nel suo rigore sentimentale privo di esteriorità”.
Nel 400° anniversario della morte del Bardo avete affrontato o riaffrontato il Re Lear con Verdi Re Lear, Macbeth, Romeo and Juliet, lo storico Hamlet Solo. Quale affinità elettiva vi lega?
“Le mappe, le trame, i rizomi che si allargano stendendo le loro radici orizzontali su ogni aspetto del vivere, dell’umano. I testi riportati fino a noi contano ben poco, sono radici che vengono da lontano, sono rifrazioni vitali che ci stimolano a continuare. Il rizoma permette il superamento delle condizioni climatiche sfavorevoli rigenerando nuove piante. E ogni nuova pianta è scrittura, immagine, musica, azione e luogo scenico. In Shakespeare c’è tutto questo risveglio naturale, ma anche in altri autori come Ariosto, ad esempio”.
Se penso anche ad altre vostre produzioni (Kinder, replicato da poco nel Giorno della Memoria, la tetralogia su Il Furioso, Autodafé), mi sembra che il filo di Arianna che stringete tra le mani unisca il potere (la sua ricerca, mancanza) e la follia (della mente e del cuore) agli ultimi, i dimenticati, i diseredati. Che aggettivi dareste al vostro teatro?
“Rizomatico e polifonico. Si espande in orizzontale, senza ingresso o uscita determinati, è continua ricerca linguistica, estetica, poetica. I segni si moltiplicano e diventano sempre più complessi, occorre dare una spiegazione ai rizomi che sembrano nascere senza un perché. È la vita. Si manifesta in fonìe esistenziali plurali tese alla creazione di mondi”.
Questo teatro “rizomatico e polifonico” pare dibattersi principalmente tra due fuochi, che sono, a mio avviso, le fiamme di uno stesso braciere: i corpi degli attori sulla scena e le immagini di quei corpi proiettate dietro di loro o davanti o di lato o dappertutto contemporaneamente. Come si costruisce lo stare in scena con lo stare in video?
“È quella che chiamiamo imagoturgia. Ogni immagine prodotta trova la sua origine in primis nella drammaturgia che intendiamo realizzare. Sì, si tratta di uno stesso braciere, diciamo che il fuoco avvampa quando si scontra il corpo fisico con la propria immagine rifratta dalla composizione del quadro visuale, oppure con un’immagine che rimanda ad altra dimensione, o forma, o genere”.
Che lavoro fate, invece, con gli attori e i luoghi? Senza dimenticare, peraltro, il peso dell’ambiente sonoro.
“Il luogo, negli ultimi anni, è diventato l’habitat della creazione. Lo avevamo già sperimentato nei primi anni del nostro Festival Natura Dèi Teatri in diverse architetture storiche e monumentali della provincia di Parma; rocche, castelli, chiese, ma con Hamlet è diventato sempre di più il segno fondamentale: la grande soddisfazione artistica di averlo potuto installare al Teatro Farnese di Parma, una meraviglia barocca unica al mondo, ci ha definitivamente portati su questa strada”.
Va detto che la potenza e l’urgenza che hanno i lavori in ‘esterna’ come Il Furioso o Autodafé sono grandezze, ordini di misura creativa che non si ritrovano con la stessa intensità negli spettacoli a Lenz Teatro. Ecco, forse ciò che fate in teatro sono spettacoli, fuori non mi viene altro termine eccetto ‘esperienze’.
“Forse l’intensità percepita dallo spettatore non è la stessa, essendo le installazioni site specific di loro natura piene di segni ai quali aggiungiamo drammaturgicamente, in relazione dialettica, i nostri. Ma per noi, e penso anche agli attori, l’intensità artistica è la stessa provata nelle sale di Lenz Teatro. In teatro forse la dimensione è più intima, più sacrale, più concentrata sul particolare, in fondo si tratta ogni volta di iniziare una cerimonia laica”.
Sotto gli occhi di tutti è la vostra prolificità. Giulio Sonno su Paper Street parla di “curioso ascetismo febbrile […] virtuoso (auto)isolamento di Lenz, che con onestissima coerenza continuano a perseguire – proprio alla maniera di Iperione – la loro impossibile ma inesausta ricerca”. Questa condizione da dove deriva? È una scelta (artistica) o piuttosto una condanna del sistema-ambiente teatrale e per questo è configurabile come ostracismo?
“Inesausta ricerca: molto precisa la definizione di Giulio. È questo il senso del nostro lavoro trentennale, una ricerca permanente, perché ogni ricerca che avesse una fine non sarebbe ricerca. Certo ci sono i risultati, vittorie e sconfitte, ma si deve continuare. Altrimenti saremmo altro da quel che siamo e da quello che, di fronte al sostegno pubblico, abbiamo deciso di essere. Sull’auto-isolamento non sapremmo, non corrisponde certo a un nostro desiderio. Abbiamo deciso di essere stanziali dalla nascita costruendo una casa-teatro, abbiamo investito tutto su questo, ospitato altri artisti, poi abbiamo fatto anni di tournée in Italia e in Europa, in particolare in Spagna durante i tre anni di lavoro sulle opere di Calderón de la Barca. Da quando abbiamo iniziato a pensare diversamente lo spazio creativo e intervenire con grandi installazioni, la stanzialità è diventata un obbligo (voluto). Sappiamo che le tabelle e gli algoritmi del Ministero indicano parametri differenti, ma forse rappresentiamo paradossalmente, ma veramente, l’unico teatro stabile di ricerca in Italia. Ne abbiamo pagato e ne stiamo pagando ancora le conseguenze, ma pensiamo che la coerenza in arte non sia negoziabile”.
Un abbandono o forse, più semplicemente, una disattenzione nei vostri confronti mi sembra si possa imputare a certa parte della critica teatrale, soprattutto quella che dall’Emilia Romagna si proietta nel dibattito nazionale. Anche voi non siete profeti a casa vostra?
“Diversi anni fa con Gianni Manzella abbiamo lavorato a lungo durante il quadriennale progetto Hölderlin, fino a produrre insieme un libro con le fotografie di Melina Mulas. Giuseppe Bartolucci ci stimava molto ed è venuto in teatro a parlare di progetti comuni, poi Valentina Valentini e Franco Scaldati, con il quale abbiamo realizzato un Ur-Hamlet nella sua lingua così bella e arcaica, così come hanno visto e scritto di noi Franco Quadri, Renato Palazzi, Valeria Ottolenghi, Titti Danese, Franco Cordelli, Massimo Marino, Giuseppe Distefano e tanti altri, con Cristina Valenti abbiamo presentato una personale articolata al Dams di Bologna e poi diversi altri seminari e convegni in ambiti non solo teatrali, tesi di laurea. Evidentemente i flussi di attenzione e le modalità di partecipazione, perlomeno riguardanti la critica, sono forse mutati. Abbiamo avvertito una maggiore attenzione per i Festival e le novità del momento, un esserci nelle situazioni molto consolidate, oppure paradossalmente la ricerca dell’età anagrafica al ribasso. Certo la stanzialità non ha incrementato gli arrivi. Per fortuna siete arrivati ‘voi’, nuova onda di giovani critici e studiosi non limitati da quantità di righe ma con la libertà dei blog. E la visione diventa, finalmente, più approfondita e accurata. Quella che ci piace leggere come partecipazione alla post-creazione e work in progress creativo”.
Quella che non manca, invece, è la partecipazione del pubblico e la vicinanza delle istituzioni, dal Festival Verdi, l’Università e il Comune entrati recentemente tra i soci sostenitori di Lenz Fondazione, al rapporto consolidato con il Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale dell’Ausl di Parma e da ultimo con la REMS – ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario. A questo proposito, a Simona Maria Frigerio su Persinsala Maria Federica accenna come avete iniziato a lavorare con gli attori che chiamate ‘sensibili’ (anche se ormai, vista l’esperienza e gli esiti, sono attori a tutti gli effetti, senza bisogno di aggettivi). Cosa aggiungono, e, allo stesso tempo, tolgono al vostro lavoro?
“Togliere nulla e apportare tanto. Abbiamo scritto tempo fa che erano già nella nostra mappa. Abbiamo deciso di chiamarci Lenz dalla novella di Büchner Lenz, nella quale il drammaturgo – autore de Il Precettore – trascorre folle gli ultimi giorni della propria vita. Poi abbiamo lavorato su Hölderlin che ha trascorso metà della propria vita rinchiuso pazzo in una torre, perciò ci sembra evidente che l’aspetto dell’inadeguatezza dell’artista e del poeta rispetto al proprio tempo abbia segnato, da subito, il nostro percorso e l’interesse per le condizioni di difficoltà e di debolezza. Seppure in presenza di incommensurabili capacità e possibilità espressive”.
Quest’anno affronterete, tra gli altri, Dante. Quindi, se doveste paragonare il 2017 a un suo personaggio quale sarebbe?
“Sì, la Commedia. Iniziando però dal Purgatorio. Non un personaggio, ma un luogo: la spiaggia, l’antipurgatorio. Ancora una volta per una visione orizzontale, prima di ogni entrata, prima di ogni uscita. Poi, dopo Kinder, faremo un Aktion T4 sulle “vite indegne di essere vissute”, i degenerati, le “bocche inutili da sfamare” del progetto di eliminazione sistematica nazista in Germania e nei territori occupati dei bambini con tare genetiche fisiche o psichiche”.
In definitiva: perché avete scelto di vedere il mondo e le sue relazioni attraverso il teatro?
“Forse per il continuo mutare dell’oggetto da indagare, il movimento incessante della forma che hai dato al tuo pensiero e che, esprimendosi tramite un altro essere umano, può sensibilmente cambiare e far cambiare, al contempo, la partecipazione dello spettatore. Una relazione empatica di un’intensità che solo un’azione reale, performativa, può produrre. Però, nell’imagoturgia, pensiamo si possa produrre una nuova relazione interessante e da scoprire tra reale e virtuale, tra essere e non essere, tra il qui e il non qui”.
Il 2017 di Lenz Fondazione nel calendario.