TANIA BEDOGNI | La ventiduesima edizione di Natura Dèi Teatri, Performing Arts Festival a cura di Lenz Fondazione, è contemporaneamente una riflessione conclusiva del triennio 2015-2017, con il tema Scia, ed avvio di un processo di esplorazione per il biennio 2017-2018, con il progetto Divina Commedia. La Direzione artistica di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto guida la spettatore attraverso il tema Scia: “pensiamo a un deserto di sabbia che possa tracciare i diversi passaggi, le orme delle corse creative degli artisti ospiti e nostre (…) Fino alla prossima tempesta.” Scia è anche l’esito del lavoro triennale ispirato alla ricerca artistica di Richard Serra la cui opera, “Materia del tempo”, pone l’osservatore all’interno di lastre d’acciaio inclinate alte fino a quattro metri che “navigano” nello spazio formando spirali e curve (Torqued Ellipse). Lo spettatore di ND’T, come l’osservatore nell’istallazione di Serra, è sollecitato ad una partecipazione attiva in luoghi e anche tempi diversi per un Festival di cui ci sembra poter intuire tre coordinate: la materia, il corpo, il tempo, in uno scenario che non si esaurisce nella mera somma di spettacoli e conferenze, ma pare generare un’altra opera, corale.
Nella giornata del 22 giugno tre eventi in sequenza sviluppano questa sensazione: la presentazione del libro di Tihana Maravić “Vado a prendermi gioco del mondo”, lo spettacolo “Vous êtes pleine de desespoir” di Teatro delle Moire/Alessandro Bedosti e la creazione site-specific “Purgatorio” di Lenz Fondazione tracciano questo legame: il primo nella penombra della scura Sala Majakovskij del Lenz Teatro, il secondo negli spazi della Sala Est e l’ultimo tra le storiche volte della Crociera dell’Ospedale Vecchio.
Il dialogo tra Michele Pascarella e Tihana Maravić per la presentazione del suo recente saggio “Vado a prendermi gioco del mondo” è un buon viatico, che ci fa partire da un altro tempo, tra il IV ed il V secolo e in un altro luogo, i deserti dell’Egitto e della Siria, per incontrare i corpi e le azioni del “folle in Cristo attraverso le fonti biografiche curate da “testimoni segreti”.
L’autrice ci offre la lettura di queste figure come sintesi di due grandi tipologie del teatro contemporaneo: il performer e l’attore. Il Santo Folle durante la sua prima pratica spirituale, isolata dai centri abitati, notturna, nella quale attraverso esercizi e preghiere ricercava l’identificazione con il Cristo, sarebbe paragonabile alla totale messa in gioco del proprio sé tipica del performer contemporaneo, dove l’azione coincide con l’arte; mentre il loro successivo ingresso nelle città, accettando la sfida di mostrarsi dinnanzi ad un pubblico diurno, interpretando il folle capace di “prendersi gioco del mondo” potrebbe essere accostato al ruolo dell’attore. Quanto la persona sia realmente folle o quanto sia abile nella sua interpretazione, è volutamente non definibile nei sui confini, perché caratteristica dei santi folli (e dell’artista) è proprio quello di collocarsi in una zona di confine (liminoide). Ed è proprio questo collocarsi in tale zona che li rende liberi di esprimersi in forme infinite.
Dal deserto del quarto secolo tra questi due stati di introspezione ascetica e espressione urbana, veniamo condotti al secondo appuntamento, Vous êtes pleine de désespoir, l’esito di una ricerca del Teatro delle Moire così definito: “un esercizio di coabitazione e di riflessione a partire dal mito della sirena” per chi si sente “chiamato a rifondarsi continuamente e a rifondare la realtà che lo circonda”. Il bianco sterile e nero muto, la gomma asettica e il corpo essenziale, la parola assente e il suono inquietante. L’unica sedia a lato dell’ingresso sul fondo della scena e le luci impietose che ci espongono. Le figure maschili che entrano in scena sono schermate: bianche tute sterili alle quali si sovrappone una seconda protezione di grembiuli e stivali in gomma fanno presagire un pericolo di contaminazione. Questa prima fase di attesa è abitata da azioni composte, economiche nella loro quotidianità: chi è testimone, Nicoli Cristiani, siede, chi si prepara all’incontro, Bedosti, sanifica il luogo prima che un corpo venga trascinato in scena, quello di Alessandra de Santis protetto solamente da uno strato di colore nero che si sfalda e lascia emergere solchi di un rosa acceso, come pelle acquatica offesa dal sole. Che sia un corpo vivo lo si percepisce dal lieve movimento del busto. Non assumerà altre posizioni, non reagirà, non emetterà suono; anche se non risulta identificabile il mito della sirena che ha stimolato la riflessione degli autori nella sua iconografia di corpo dalla duplice e temibile natura, di donna (la parte superiore, bella e irresistibile) e di animale (la parte inferiore, mortifera e misteriosa), se ne percepisce il suo dialogare con la morte, il nero impenetrabile che su fondo bianco diventa agli occhi dell’osservatore come una macchia di Rorschach nella quale lo spettatore può leggere scenari interiori. Chi fino ad ora ha agito, fruga, violandola, la nera disperazione, chi invece è stato testimone, si abbandona ad un abbraccio non corrisposto ma che lo espone al contagio a mani nude.
Cresce un canto solenne esasperato nel volume che diventa assordante. Ora è Giuseppina Randi la testimone silenziosamente seduta, nessuna protezione per il suo corpo se non un camice bianco preoperatorio: pare che solo chi è femmina e fragile possa sostare nella disperazione senza violarla, ma assisterla nell’ultimo saluto. Lentamente una luce calda avvolge la sirena, che, rimasta sola sulla scena ci lascia disorientati all’interno di un paradosso: si può applaudire ad una veglia funebre?
Si passa nella parte Ovest della città, l’Oltretorrente, quella “di là da l’acqua”, delle barricate, del popolo, e una volta qui, nel suo cuore: l’Ex-Ospedale Vecchio, oggi archivio di Stato. Il grande cancello di ferro che si affaccia sulla Via Emilia cittadina (via d’Azeglio) offre l’accesso alla Crociera per ben nove serate di repliche di Purgatorio, creazione art-specific di 70 minuti a cura di Lenz Fondazione, di cui abbiamo già parlato nell’articolo di Matteo Brighenti e prima creazione di un progetto biennale che vedrà “Paradiso” presso il Ponte Nuovo ed “Inferno” presso il Termovalorizzatore. Il primo, luogo di storica appartenenza cittadina, gli altri, luoghi aspramente discussi politicamente.
Le parole semplici che conducono per mano nella comprensione sono pronunciate dall’attore sensibile che, come il Santo Folle nel momento di preghiera, fa coincidere tutto con l’azione; il testo letterario è evocato da chi attore è, e ci pone a distanza per quanto sono distanti quelle parole dalla nostra quotidianità; il dialetto dei dannati riporta sfacciatamente in scena l’origine popolare di questo luogo. Una coabitazione che lascia aperti diversi livelli di conoscenza, di accessibilità.
Entrare nel primo braccio della Crociera, essere avvolti dall’odore della polvere e dal vuoto che regna nelle enormi librerie, far risalire lo sguardo fino alle bianche volte della cupola centrale, ci ricolloca nella nostra posizione di uomini, piccoli, tra le migliaia che nel tempo hanno varcato questo luogo di accoglienza e di sofferenza. Al centro della crociera ci sono Virgilio e Dante, lontano Catone. Nello spazio del braccio destro una serie di dannati e dannate appaiati come schiavi incatenati ai remi di un antico veliero, parlano la lingua di quel popolo delle barricate che ancora oggi apostrofa con magnanima saggezza tutta la diversità che brulica in questo quartiere multietnico. E noi, dentro il vecchio Ospedale, procediamo fra questi quadri viventi, spostandoci. Il tempo qui è diventato più che mai spazio, infinito, eterno, scandito dal nostro sostare e dalla spogliazione di Dante di tante sottogonne quante i peccati, in una penombra rischiarata solamente da agili barre di luci led che si spostano di mano in mano e di voce in voce per illuminare i volti polverosi degli attori. E finalmente, attraverso le lontane parole di una Beatrice innalzata su una vertiginosa scala, ci è concesso di uscire da questo Purgatorio con il corpo stanco e la mente che sa di non aver colto tutto.
Ritorno alla strada, al fuori con un senso di inquietudine: dalla scia di un deserto di preghiera che avvicina l’uomo al divino, per approdare al rancore eterno di irrinunciabili vizi, passando per una muta disperazione senza alcun rimedio. Il corpo ne esce segnato e svelato nella sua umana finitezza.