MATTEO BRIGHENTI | Lui, lei, l’altra. Solo che lui e lei sono la stessa persona. Livia (in arte Liv) Ferracchiati, tra le 9 registe invitate a Venezia quest’estate da Antonio Latella per la sua prima Biennale Teatro, usa la scena per tracciare triangoli aperti, mancati e mancanti. Nelle sue mani la scoperta e costruzione del sé, del proprio stare al mondo, è una geometria non euclidea, nega o comunque non accetta i postulati della norma(lità): un corpo, un genere.
“Tutti i bambini crescono, tranne uno” scrive James Matthew Barrie. Se crescere significa acconsentire a diventare chi non sei e a fare ciò che non vuoi, allora Ferracchiati sceglie di tagliare il nodo (ombelicale) e volare sull’Isola-che-non-c’è. Peter Pan guarda sotto le gonne è il primo di tre capitoli, gli altri sono Stabat Mater e lo studio Un eschimese in Amazzonia, della Trilogia sull’identità da lei ideata e presentata per la prima volta al Terni Festival 2017 (15-24 settembre).
La visione di Barrie vuole essere un punto di riferimento fin dal nome della sua compagnia, The Baby Walk. Cioè, il sentiero riservato ai bambini nei giardini di Kensington, l’unico che li attraversa tutti e incrocia la Serpentine, il corso d’acqua che porta all’Isola. Un ‘pensiero felice’ che, però, si appesantisce delle frustrazioni del corpo in Stabat Mater e viene poi a patti con gli istinti sociali più bassi in Un eschimese in Amazzonia.
Un vestito rosa da bambina è appeso a una grata, poco distante c’è un pallone. Nella penombra si intravede la sagoma di spalle di Alice Raffaelli, in mutande e scarpe da tennis. La grata si arriccia anche nel cielo di Peter Pan guarda sotto le gonne: Kensington – la realtà, il presente – è una gabbia che tiene i figli – i sogni, il futuro – in cattività. I genitori, distanti e incombenti come le nuvole, sono soltanto due voci registrate.
Raffaelli è una bionda Peter Pan, giocare a calcio in lungo è complicato, meglio una maglietta nera, una camicia a scacchi molto ‘grunge’ e un paio di pantaloncini jeans. Siamo negli anni ’90, ha 11 anni e mezzo e il mito di Roberto Baggio. Wendy, interpretata da Linda Caridi, è una ragazzina di poco più grande, mora, l’hula hoop in mano e i capelli raccolti, perché così le hanno raccomandato i suoi, anche se lei non vorrebbe.
Le segue e osserva l’irriverente Tinker Bell (Campanellino) di Chiara Leoncini, salopette, ali di fil di ferro stretto a uno zainetto di pelle, la polaroid a tracolla. È l’elemento di rottura e collegamento tra palco e platea, a testimoniare gli occhi che abbiamo costantemente addosso, carichi di aspettative.
Gli incontri tra Peter e Wendy sono rischiarati da una luce calda, avvolgente, senza strappi né zone oscure. I tagli contrastati arrivano, invece, quando Peter è solo con se stesso, a casa, nella sua cameretta, a esplorare un corpo che non riconosce. L’ombra, l’anima che cerca e da cui è cercato è impersonata da Luciano Ariel Lanza, tale e quale a lui negli abiti e nei movimenti: sul doppio, sulla personificazione delle ‘voci di dentro’ si basa pure The Hard Way To Understand Each Other di Teatro Presente, ma qui assume una struggente dolcezza, rivelata con passi a due di energia e abbandono.
Le attrici sono dirette, schiette, spontanee, il gioco, la leggerezza e il divertimento sono guidati da un’intesa profonda. C’è grande comprensione, un prendere per mano e accompagnare una bambina che non vuole crescere, cioè vuole diventare se stessa, “non proprio femmina, ma precisamente maschio”, e non semplicemente grande, ovvero ciò che il corpo, l’apparenza, gli altri, hanno stabilito sarà.
Tutti i bambini crescono, tranne coloro che osano non farlo. In Stabat Mater, Premio Hystrio Nuove Scritture di Scena 2017, il personaggio di Alice Raffaelli ha quindici anni più del nostro Peter Pan e lotta ancora per la sua non-crescita. Infatti, il suo primo gesto, nella medesima penombra iniziale di Peter Pan guarda sotto le gonne, è fasciare, contenere, nascondersi il seno.
Un divano, uno stendino con i panni, un tavolo, delle sedie, sono la casa in cui il nuovo Peter abita con la sua fidanzata, incarnata da Stella Piccioni. Su uno schermo in fondo le immagini rimandano il volto affettuoso e interrogativo di Laura Marinoni, la madre del(la) protagonista. A destra due sedili servono a raccontare il primo approccio in macchina dei due amanti.
La mancanza del pene e la dipendenza dal genitore sono i poli attorno a cui gravita il secondo capitolo della Trilogia sull’identità. La questione è più fisica che emotiva, ideale o sentimentale, l’amore è solo e soltanto (il linguaggio del) sesso, attrazione e domino. La ribalta, difatti, è lasciata alle sedute di Peter con l’analista di Chiara Leoncini, ‘fatina’ morigerata con un fuoco che le ribolle in petto.
I cambi luce sottolineano questa dicotomia scena-proscenio, vita vissuta-vita indagata.
Piccioni e Leoncini si cambiano a vista dopo ogni quadro, mentre Raffaelli rimane in golf e jeans: il tempo per il suo personaggio non passa, anche se la narrazione scenica ritorna alle origini della relazione e poi balza alla conclusione. I giorni sono tutti uguali, sono sempre lo stesso giorno, perché identico è il suo modo di affrontarli. Così procedono il testo e lo spettacolo: si avvitano su loro stessi.
I punti di forza e stupore di Peter Pan guarda sotto le gonne, l’intimità delicata, l’atmosfera sognante, eppur con radici concrete, qui sono quasi completamente assenti. E se prima l’ironia era inclusiva, fatta per avvicinare le differenze e avvicinarsi gli uni agli altri, ora è escludente, è uno schermo, uno scudo per tenersi a distanza da tutto e tutti. Di conseguenza, le attrici perdono spontaneità, immediatezza, incisività.
L’età adulta si dimostra dunque materia ostica per Livia Ferracchiati e The Baby Walk. Liv getta la maschera dell’alter ego eterno bambino e prende la parola in prima persona sul palcoscenico dello studio Un eschimese in Amazzonia, Premio Scenario 2017, fugando definitivamente la leggerezza poetica del primo capitolo della trilogia. Tutto ora è esibito, mimato, spiattellato, non c’è più inventiva né pudore, inteso non come reticenza, ma come rifiuto di superficialità e semplificazione.
Un pallone da calcio e un microfono sono gli unici elementi nello spazio. Ferracchiati, pantaloni e felpa sotto cui cela una maglia con scritto sul colletto ‘Hutton’ (il calciatore della serie manga e anime Holly e Benji), racconta la difficoltà di essere eschimese in Amazzonia, un pesce fuor d’acqua ‘agitata’ da Greta Cappelletti, Laura Dondi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli. Costituiscono un coro-squadra in maglietta blu elettrico, un unico corpo che interviene all’unisono e interrompe in modo ossessivo quella sorta di confessione al microfono, domandando meccanicamente quante ne ha scopate, e via sboccando.
Da Lady Oscar ad Amanda Lear come esempi di identità controversa, da Trump a programmi tv di cucina come manifesti di un imperversante autoritarismo di ritorno, Un eschimese in Amazzonia culmina con Vita spericolata di Vasco Rossi cantata a squarciagola.
Si tratta di uno studio, c’è ancora tempo per smarcarsi da crudezze e voyerismi da reality di largo consumo. Si pensa di poter piegare strumenti simili ai propri fini artistici e poi, come in questo caso, si finisce per esserne sopraffatti, perdendo di vista le (pur buone) intenzioni iniziali.
L’auspicio, dunque, è che Livia Ferracchiati e Compagnia ritrovino quello spirito leggero, poetico e cosciente, per trattare la corporeità con gli occhi rivolti al mistero: l’invisibile con i mezzi di tutto il teatro-che-c’è.
PETER PAN GUARDA SOTTO LE GONNE
Trilogia sull’identità
Capitolo I
ideazione: Liv Ferracchiati
drammaturgia (in ordine alfabetico): Greta Cappelletti e Liv Ferracchiati
regia: Liv Ferracchiati
con (in ordine alfabetico): Linda Caridi, Luciano Ariel Lanza, Chiara Leoncini, Alice Raffaelli
con le voci di: Ferdinando Bruni e Mariangela Granelli
aiuto regia, coreografie e costumi: Laura Dondi
scene e foto di scena: Lucia Menegazzo
luci: Giacomo Marettelli Priorelli Direttore di scena: Emiliano Austeri
fonico: Giacomo Agnifili
segretaria di compagnia: Sara Toni
ufficio stampa: Roberta Rem, Francesca Torcolini
promozione: Andrea Campanella
produzione: The Baby Walk e Teatro Stabile dell’Umbria
con il sostegno di: Campo Teatrale Milano e Caos – Centro arti Opificio Siri – Terni
STABAT MATER
Trilogia sull’identità
Capitolo II
ideazione: Liv Ferracchiati
testo e regia: Liv Ferracchiati
con (in ordine alfabetico): Chiara Leoncini, Stella Piccioni, Alice Raffaelli e la partecipazione video di Laura Marinoni
dramaturg di scena: Greta Cappelletti
aiuto regia e costumi: Laura Dondi
scene e foto di scena: Lucia Menegazzo
luci e light design: Giacomo Marettelli Priorelli
suono: Giacomo Agnifili
riprese e montaggio Video Studio Carabas
direttore di scena: Emiliano Austeri
segretaria di compagnia: Sara Toni
ufficio stampa: Roberta Rem, Maddalena Peluso, Francesca Torcolini
un progetto della Compagnia: The Baby Walk
produzione: Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Stabile dell’Umbria – Ternitestival
residenza: Campo Teatrale Milano
in collaborazione con: CAOS – Centro Arti Opificio Siri – Terni
UN ESCHIMESE IN AMAZZONIA (STUDIO)
Trilogia sull’identità
Capitolo III
ideazione: Liv Ferracchiati
testo: Liv Ferracchiati
scrittura scenica (in ordine alfabetico): Greta Cappelletti, Laura Dondi, Livia Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli
con (in ordine alfabetico): Greta Cappelletti, Laura Dondi, Livia Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli
suono: Giacomo Agnifili
segretaria di compagnia: Sara Toni
produzione: The Baby Walk
foto: DIANE Ilaria Scarpa, Luca Telleschi
Visti sabato 16 settembre 2017, CAOS | Centro Arti Opificio Siri, nell’ambito del Terni Festival Internazionale della Creazione Contemporanea.