RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | ES: Caro Renzo, qui siamo davanti a una super produzione di tre grandi Teatri Stabili italiani: Torino, Veneto e Genova. Una triade che ha imbroccato un titolo pigliatutto: Umberto Eco e il suo best seller tradotto in 43 lingue, più di 50 milioni di copie vendute, trasposto in un filmone che tutti hanno visto e una storia che non finisce di appassionare. Infatti Il nome della rosa per la regia di Leo Muscato sta facendo il tutto esaurito in ogni piazza che tocca, ha in programma 120 repliche a tutte le latitudini italiane – dopo essere stato per due settimane al Franco Parenti di Milano – e non stupirebbe una tournée all’estero.
Qual è stata la tua prima sensazione ad apertura di sipario?
RF: La prima sensazione è proprio quella della grande produzione quella che deve raccogliere un sentimento ampio attorno a sé. E d’altronde la scelta del titolo letterario non è casuale. Su questo abbiamo ospitato alcuni giorni fa un contributo di Michela Mastroianni importante per capire come mai nel nostro tempo i teatri propongono con sempre maggior frequenza remake e di libri celebri. E poi ha il sapore della grande produzione, certamente, ma anche del molto artigianale. Insomma un po’ all’italiana…
ES: Io devo dire che mi aspettavo anche maggior magnificenza, in tutta sincerità. La scena che Margherita Palli ha immaginato per l’abbazia è, in buona sostanza, una grande e alta parete in legno scuro, a due piani, praticabile per via di alcune rampe di scale, balaustre e un paio di ante girevoli. Più che una macchina (come le vituperate ma indimenticabili scenografie ronconiane) questo è un monumento. La struttura è fissa, non muta nemmeno dopo l’intervallo dopo il quale tutti ci aspettavamo un cambio di scena, e rimane a ingabbiare gli attori, tredici in tutto, che lavorano al servizio di uno spazio limitato e limitante.
RF: Sono anche io d’accordo che una struttura mobile avrebbe sicuramente conferito all’allestimento una magia che invece da questo elemento non arriva. Lo spazio rimane diviso in tre fra un anteriore visibile, un posteriore dove succede, diciamo così, l’irraccontabile, e poi questo piano superiore che dovrebbe essere l’accesso alla conoscenza. Ma onestamente già a dare tutta questa interpretazione mi sento di arrampicarmi un po’ sugli specchi, perché è una complessità concettuale che onestamente la scena non arriva a proporre.
ES: Il cast è più che buono, una compagine equilibrata di attori bravi, con le punte evidenti di Eugenio Allegri (sebbene le sue caratteristiche lo vedano più centrato su Ubertino da Casale che non su Bernardo Gui) e Luca Lazzareschi/Guglielmo da Baskerville. Il fatto gli è però che il disegno dei personaggi è talmente ricalcato sul modello del film da impedire anche allo spettatore di affrancarsene, di liberare la memoria dalla pellicola ed entrare dentro la finzione teatrale.
RF: Il problema vero è che qui siamo di fronte a un doppio inganno multimediale. Il libro l’hanno comprato in molti, ma sicuramente l’hanno finito in pochi, dico per dire; il film l’hanno visto in milioni. Quel film ha segnato l’immaginario di un’epoca e di una generazione. La proposta teatrale a quel termine di paragone si riferisce e, viene un po’ da dire, purtroppo. Mi dicono che fra un po’ in tv partirà addirittura una serie ispirata sempre allo stesso soggetto. Siamo al teatro come gruppo spalla della tv. Prima era la tv a mandare Eduardo in prima serata. Adesso è il teatro a programmare per scaldare interessi e rinverdire memorie.
ES: La storia del romanzo c’è tutta, la si segue bene, quindi “il prodotto” è confezionato in modo spendibile. Ma è scolastico. Muscato non ci ha messo invenzioni, qual è la sua impronta registica? Qual è il punto di vista che emerge da questa versione teatrale del libro? A me pare un compito eseguito diligentemente ma privo di guizzi. Non potendo mostrare ciò il cinema spiattella, quel quid andrebbe evocato, a teatro. Qui, il monumento e la preoccupazione di dire tutto quello che sta nel copioso copione ostacolano l’atmosfera.
RF: La riscrittura di Stefano Massini del capolavoro di Umberto Eco ha proprio le caratteristiche di quel compendio ad uso delle nuove generazioni che non hanno più il tempo di leggere un libro. E devo dire che all’uscita ho ascoltato più d’uno commentare: “Qui si che la vicenda si capisce, che c’è del ritmo. Il libro era veramente complicato e non ce l’ho fatta a finirlo”; questo fra due signori fra i 50 e 60 all’uscita davanti a me. Quindi lo spettatore per precisa scelta drammaturgica e registica andava messo nella condizione di poter uscire dicendo che era come se in un colpo solo avesse rivisto il film e riletto il libro. E questa fantastica operazione di sintesi riesce. Forse a scapito dello specifico teatrale, cui non basta certo qualche video proiezione, più o meno simbolicamente ispirata, a dare una sua cifra.
ES: Gli attori risultano compressi non solo dal doversi cercare uno spazio sulla scena “ingombra” ma anche da un testo fittissimo, che produce un certo affanno: bisogna dirlo tutto, quindi vado pure un po’ di corsa. Vero è che si è trattato di ridurre un moloch di 600 pagine, però Massini, essendo lui, poteva secondo me fare un lavoro migliore. Per esempio sul personaggio di Adso vecchio, il quale deve raccontare ciò che in teatro non si può far vedere ma è troppo presente. Testualmente e non solo: dice cose che potrebbe tranquillamente trascurare ed è in scena anche quando non ha battute.
RF: Sì ma questo non per scelta di Massini! Sicuramente non manca la didascalia. Ma forse è scelta registica quella. Siamo di fronte ad uno spettacolo di segni facili per un pubblico ampio, come si diceva, al quale riproporre il classico senza far uscire lo spettatore con la sindrome del Natale in casa Cupiello di Latella.
ES: A me pare che Sia Palli sia Massini, non abbiano messo in questo lavoro l’impegno di cui sono all’altezza.
RF: Se questa è un’operazione di teatro di regia, e sicuramente a quella categoria ritengo vada ascritta perché è una lettura scenica di un romanzo senza azzardi di altro genere, sento di dover tirare in ballo anche la scelta ultima, quella della regia. Muscato non ha voluto rischiare nulla. Abituato com’è alla sacralità dei copioni operistici e a quel rapporto con un pubblico a cui va dato il nuovo poco alla volta per non rischiare ci anneghi dentro, davanti ad una coproduzione che non doveva fallire al botteghino, a un copione tradizionale e un po’ blindato, e a una scenografia che non lasciava spazio a fantasie particolari, si è accodato e ha chiuso il cerchio. Questo nella mia visione critica dell’opera nel suo ragionamento con lo specifico del linguaggio con cui viene portata allo spettatore.
Ovviamente, trionfo di pubblico. E qualche sonnolenza sparsa fra vegliardi e non avvezzi alla concentrazione oltre l’ora. Ma siamo nell’irrilevante statistico.
IL NOME DELLA ROSA
di Umberto Eco
versione teatrale di Stefano Massini
con (in o.a.) Eugenio Allegri, Giovanni Anzaldo, Giulio Baraldi, Luigi Diberti, Marco Gobetti, Luca Lazzareschi, Bob Marchese, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Alfonso Postiglione, Arianna Primavera, Franco Ravera, Marco Zannoni
regia Leo Muscato
scene Margherita Palli
costumi Silvia Aymonino
luci Alessandro Verazzi
musiche Daniele D’Angelo
video Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii
assistente alla regia Alessandra De Angelis
assistente scenografa Alessandra Greco
assistente costumista Virginia Gentili
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Genova / Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
in accordo con Gianluca Ramazzotti per Artù
e con Alessandro Longobardi per Viola Produzioni
Con il sostegno di FIDEURAM