MATTEO BRIGHENTI | Il doppio è il cerchio della condizione umana che si compie e chiude eternamente. Il riverbero, l’eco di sé nell’altro, involontaria, mimetica e negativa, è il segno compositivo che accomuna Fire of Unknown Origin di Monica Gentile e Marcela Giesche, Endless ending process – sull’infinito paradossale della fatica di Salvatore Insana ed Elisa Turco Liveri, FAUST – prima proposizione di Tommaso Monza. Sono i tre progetti in divenire dei giovani coreografi selezionati per il 2017 da Anghiari Dance Hub e presentati lo scorso sabato 25 novembre in un’unica serata al Teatro dei Ricomposti.
Le nostre dicotomie interiori, i diversi modi di rapportarci alla nostra singolarità e alla sua negazione, sono resi in scena attraverso la ripetizione e la trasformazione del senso dello stare insieme. Si gioca con la percezione dello spettatore su ciò che le cose sono o potrebbero essere. Gli alterni risultati vanno dalla creatività manuale di Gentile/Giesche al manierismo cibernitico di Insana/Turco Liveri fino alla sfocatura compiaciuta di Monza, come abbiamo fatto notare anche la domenica 26 all’incontro aperto con gli artisti.
Anghiari Dance Hub, vincitore del bando SIAE “SILLUMINA, copia privata per i giovani, per la cultura”, è un Centro di Promozione della Danza fondato nel gennaio 2015 per volontà di alcuni operatori della danza di dare a coreografi under35 gli strumenti per approfondire i propri percorsi di ricerca. La direzione artistica è di Gerarda Ventura.
Siamo di fronte a una fucina, un incubatore di conoscenze, una cerniera tra la formazione e la produzione attraverso la trasmissione delle competenze fondanti la creazione coreografica, come la drammaturgia, la musica, la luce, ma anche l’organizzazione e la promozione. L’obiettivo-guida è sostenere le capacità di ognuno ed evitare così la proliferazione di epigoni.
Il Centro, di durata triennale, ha assegnato nei primi due anni dieci borse di studio ad altrettanti coreografi (con al massimo due interpreti) per partecipare a seminari, incontri di studio e workshop. In questo terzo anno, si è scelto di non aprire un altro bando, ma di accompagnare piuttosto il cammino di tre coreografi già selezionati, offrendo un’opportunità ulteriore di lavoro a una nuova opera.
Tutti loro hanno invitato due tutor ciascuno: Marco Mazzoni (coreografo/Kinkaleri) e Margherita Morgantin (artista visiva) per Monica Gentile e Marcela Giesche, Enrico Pitozzi (docente Discipline dello Spettacolo IUAV di Venezia) e Roberto Castello (coreografo/ALDES) per Salvatore Insana ed Elisa Turco Liveri, Giorgio Mirto (chitarrista e compositore) e Lidia Monza (ricercatrice in Geografia Umana, Università di Francoforte) per Tommaso Monza.
Fire of Unknown Origin nasce dalla volontà di Monica Gentile di collaborare con Marcela Giesche, fondatrice dei Lake Studios Berlin, residenza per artisti internazionali, spazio multifunzionale, ex falegnameria. E proprio con del legno Giesche e Gentile danzano e ‘suonano’ questo duo d’equilibrio su costruzione e distruzione che prende il nome da una canzone di Patti Smith.
Squintato il palco, restano solo uno schermo bianco in fondo e un estintore in proscenio a sinistra. Le due danzatrici entrano in scena con in mano cantinelle, assi e travi di diversa grandezza. Provano a disporle in modo da toccare il soffitto, ma inevitabilmente qualche pezzo cade. L’inevitabile è il ‘fuoco di origine sconosciuta’ del titolo, l’ordine e il disordine, il paradosso e il metodo sfidati a ogni passo.
Sistemano i pezzi di legno a formare tanti triangoli uno sopra l’altro, una vela con il vertice d’appoggio ora fuori scena, ora direttamente fuori dal palco. Marcela Giesche ci sguscia dentro stando ben attenta a non farla cadere, mentre Monica Gentile osserva distante: l’una incarna la praticità, costruire, aggiustare, l’altra invece l’impazienza, distruggere, trasformare. Siamo nel campo, dunque, del ‘doppio involontario’, la sua presenza ha un carattere prettamente simbolico, psicologico.
Giocano a chi si libera prima e non fa crollare nulla, ma, l’abbiamo detto, immancabilmente qualcosa crolla, il movimento produce energia, il momento non è mai senza conseguenze.
Adesso usano il corpo di Gentile da sostegno, i legni addosso la fanno assomigliare a una Madonna circonfusa di raggi di luce o una guerriera trafitta di frecce al pari di San Sebastiano. La struttura la protegge e inchioda. Si muove lentissimamente, impercettibilmente, eppure questo gigante ‘shangai’ rovina, comunque, a terra.
Non c’è posizione o luogo dove il legno non possa arrivare. Le sovrasta dappertutto: le prove impossibili a cui ci sottoponiamo sono sempre più di quelle alla nostra portata. Allora, si passano i pezzi l’una con l’altra, come tanti pensieri, giudizi vorticosi, e non sono mai abbastanza, e non restano mai fermi, definitivi una volta per tutte. Il rumore di cantinelle, assi e travi che cadono diventa la loro musica, pare di essere in guerra sentiti questi colpi e botti ripetuti. È necessaria grande perizia e gestione dell’imprevisto, che le due danzatrici potrebbero affinare con l’aiuto di David&Thomas (Kolektiv Lapso Cirk), che con OVVIO hanno costruito un non-circo sul legno e le cadute.
Trovano un barlume di pace in una carezza, un abbraccio, ma poi cadono a terra anche loro. Si scontrano, testa contro testa, rosse in viso le gote, come se volessero entrarsi nei pensieri, e intanto arriva la musica vera e propria. Quell’equilibrio che non hanno trovato con le protesi di legno lo cercano spingendosi con una violenza bestiale.
La volontà scuote le membra. Finalmente in piedi, l’una davanti all’altra, possono guardarsi e capire quello che hanno fatto e si sono fatte a vicenda.
Sospensione e gravità, tensione e rottura, appoggio e caduta, sono l’ossessione percettiva di Endless ending process di Salvatore Insana ed Elisa Turco Liveri, che nel 2010 hanno dato vita alla compagnia Dehors/Audela. Un’indagine sulla fatica, stato e condizione che coinvolge tanto il corpo quanto la mente, tanto l’intimità quanto la socialità. E un tentativo, anche, di nobilitare lo spreco di forze per l’(in)utilità di affrontare le nostre legnosità, asprezze, paure, come abbiamo visto in Fire of Unknown Origin.
Comincia Turco Liveri appesa, impiccata contro uno schermo che si riempie di un amalgama di immagini indefinite al pari di interferenze. La musica è quasi un ritorno in cuffia e la luce pulsa con il battere nelle casse. La danzatrice è vestita di bianco, pare un ectoplasma: l’ispirazione dichiarata è il Pierrot ‘lunare’ di sognante fantasticheria e sottile malinconia di Gilles, il quadro di Jean-Antoine Watteau. È l’immagine dell’attore quotidianamente offerto al pubblico, inconsapevole vittima di una cerimonia di cui ignora il senso ultimo.
La danzatrice scende dal cappio e cerca un passo, una posizione, spostandosi da destra a sinistra. Buio-luce e ne appare un’altra, Serena Malacco, con movimenti spezzati, insistenti sulla medesima diagonale, che non arriva mai a una destinazione compiuta. Le due si alternano contro il mare di pixel della proiezione e rappresentano a tutti gli effetti un ‘doppio mimetico’, copie quasi spaccate del ‘processo infinito della fine’ che si ripete e ripete, tra velocità, scomodità, cedimento, rottura. Il tempo di permanenza sul palco si restringe: il flusso diagonale, la tensione meccanica, le risucchia sempre di più.
Si accendono delle luci frontali e Turco Liveri e Malacco si presentano faccia agli spettatori. Respirano, riprendono quel fiato perduto fino a qui. Sono nel punto, nell’angolo a cui hanno teso i loro sforzi. Insana avvicina loro un microfono, accennano a dire qualcosa, ma non ci riescono, perché subito l’asta viene sottratta. Un carillon di gesti ci restituisce quella che pare la quotidianità delle (due) donne. Finché l’una non divincola il ventre vicino al microfono riapparso nel frattempo, che rimanda rumori come di carta o acqua, mentre l’altra regredisce a uno stato larvale.
Ritorna quindi la sequenza di apparizioni, processioni sulla diagonale, sparizioni, sullo sfondo di immagini video alla Matrix, strisce di codici e colori, radiografie che lasciano intravedere forme umane. Rimane da sola Serena Malacco e viene imbracata a vista da Salvatore Insana, che la tira su, senza violenza, piuttosto con alienazione.
La catena di montaggio torna al punto di partenza, allo spreco di una vita che dà mostra di sé per il progresso del mondo. E così Endless ending process si avvita su se stesso e si paralizza in un presente futuribile dove l’uomo è ridotto a macchina e la macchina elevata a uomo. Un déjà-vu che si poteva almeno cercare di contrastare mostrando della fatica anche la gioia e non soltanto l’afflizione, la felicità di spendersi per qualcosa e non unicamente la sofferenza dell’essere ingranaggi di un asettico meccanismo cosmico.
“Cosa siete disposti a pagare?” ci chiede al microfono Andrea Baldassarri in apertura del Faust di Tommaso Monza. Scalzo, camicia, cravatta, pantaloni neri, chiama il buio che non arriva e intanto ci spiega che ogni cosa ha un prezzo: se gli vendiamo la nostra anima può rivoltare il mondo. Faust qui sarebbe come Andy Warhol, vuole anche lui i suoi 15 minuti di celebrità e li cerca nella pratica abusata degli insulti al pubblico.
L’uso della voce è incontrollato, sembra parlare più a se stesso che a noi, non ci vede realmente, vede solo quello che deve dire, come un presentatore tv o un vocalist in discoteca. In sottofondo, oltre a una chitarra elettrica un po’ western, ci sono anche delle risate registrate.
Baldassarri chiama il sipario e il palco e il fondale si accendono di sfumature di azzurro. Dopo un lasso di tempo interminabile, rientra tutto vestito di nero e cammina lungo linee che ricalcano il perimetro del palco, agita le mani come se ragionasse tra sé e sé. Marco Bissoli è il suo ‘doppio negativo’, una figura antagonista e irrazionale in aperto contrasto con la razionalità dell’altro.
Tuttavia, l’atmosfera non cambia, la partitura non progredisce, si fa avanti piuttosto la sensazione di una diffusa approssimazione, come se il gesto non fosse mai definitivamente compiuto, ma solo abbozzato a tempo con la musica. Sono entrambi molto compresi nel ruolo, ma la loro più che una danza sembra il tentativo di essa.
Trascorsa una serie di passaggi a specchio, ritorna il microfono e il monologo di Andrea Baldassarri, che doma il compagno: così il passo a due può essere inteso come la conquista dell’anima di cui parlava in precedenza. Alla fine chiama il buio e stavolta arriva per davvero.
Faust è una prima proposizione, come recita il titolo, un primo passaggio, e se ne annunciano molti altri, con aggiunta di mezzi e persone. Questo, tuttavia, nasce e muore qui, tra gli stucchi e la polvere del Teatro dei Ricomposti, contro cui Andrea Baldassarri, preso da un gratuito furore site specific, si è scagliato ripetutamente dal palco. Tommaso Monza, peraltro assente per impegni di tournée alla due giorni, ha mancato del tutto l’occasione datagli da Anghiari Dance Hub.
Fire of Unknown Origin
(work in progress)
progetto di Monica Gentile e Marcela Giesche
azione scenica Marcela Giesche, Monica Gentile
si ringrazia Marco Mazzoni, Margherita Morgantin, Irene Vergni, Anghiari Dance Hub
Endless ending process – sull’infinito paradossale della fatica
di Salvatore Insana, Elisa Turco Liveri
azione scenica e scrittura coreografica Serena Malacco, Elisa Turco Liveri
drammaturgia visiva Salvatore Insana
musica e sound design Giulia Vismara
produzione Dehors/Audela
in collaborazione con Anghiari Dance Hub
con il sostegno in residenza di Spam/Aldes
si ringrazia Roberto Castello, Alessia Guerrini, Enrico Pitozzi
FAUST – prima proposizione
coreografie Tommaso Monza
in collaborazione con Andrea Baldassarri
con Andrea Baldassarri e Marco Bissoli
produzione NATISCALZI DT
Visti sabato 25 novembre 2017, Teatro dei Ricomposti, Anghiari.