RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | RF: Non ero il solo a pensare, uscito di sala, a cosa mi fosse rimasto fra le mani. Il confronto con il raro è sempre difficile da calibrare, per portata e reazione. La farsa, poi, è sempre un incontro-scontro per gli appassionati di un linguaggio, perché ne rappresenta la declinazione estrema, quella dal sapore più deciso, meno rarefatto e stilizzato, almeno in teoria. Nel caso del teatro è un genere spesso marginalizzato dal mainstream istituzionale, perché non portatore di alcun messaggio politico o sociale, a differenza della satira. Non a caso il teatro, dopo Molière e il vaudeville, ha relegato la farsa a genere spesso lasciato all’interpretazione popolare, se non proprio dialettale, che in fondo è l’humus del quale la farsa si nutre. La farsa è parente degli stornelli, in musica. Perché la sfida qui era proprio questa: far ridere, genuinamente, leggermente, ma senza rutti e scorregge. O magari anche con tutto il rimbombo fisico, in stile Elio e le Storie Tese.
Belve, il nuovo lavoro scritto da Armando Pirozzi e diretto da Massimiliano Civica, ha debuttato al Teatro Metastasio di Prato con un cast di riguardo, in cui gli attori fanno uno splendido lavoro dentro una macchina scenica a partitura schematica.
MB: “La nostra scommessa – afferma Massimiliano Civica, da poco anche consulente artistico del MET – è quella di mettere in scena una farsa che faccia ridere il pubblico non a denti stretti, ma a bocca aperta”. Le “belve” da sfamare sono in platea, non in scena. L’esito inseguito, secondo me, si smarrisce proprio nell’ossequio delle regole del gioco. I personaggi dello spettacolo girano costantemente intorno a ciò che dicono e non pensano. Sono compartimenti stagni e incomunicanti. Portano soltanto avanti l’azione, nel modo più rigoroso e fedele possibile, come marionette tirate dalla concatenazione degli eventi. “Credo negli attori – prosegue Civica – in un teatro che metta al centro gli attori”. Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato, Aldo Ottobrino, sono al centro del palcoscenico del Metastasio perché lì sta la tavola della “cena con tentato delitto” e lì accadono gli incontri tra due coppie di condomini e la giostra del mondo esterno. Ma al “centro”, inteso come fulcro o essenza, ci sono il testo e la regia, le parole e il filo che le muove.
RF: Massimiliano Civica, reduce, con il suo drammaturgo di fiducia, da due premi Ubu con il precedente Un quaderno per l’inverno, agisce consapevole del rischio di un’operazione totalmente differente, proponendo un genere antichissimo e dal gusto inequivoco, che nei teatroni ovviamente circola pochissimo, perché alla farsa viene preferita la commedia, che meglio risponde alle esigenze di intrattenimento borghese, mantenendo però quel gustoso ammiccamento alla parte del pubblico che allo spettacolo chiede qualcosa in più che la più semplice e grassa risata. Per la farsa questo equilibrio è sempre difficile da raggiungere per diversi motivi, che stanno proprio nella natura intima del genere. Per dire: a proposito del genere che ci occupa e con una similitudine interessante, Antonio Gramsci a proposito di Liolà di Pirandello diceva:
Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola, una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico. C’è da pensare che l’arte dialettale così come è espressa in questi tre atti del Pirandello, si riallacci con l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia odierna, là dove questa tradizione si è conservata più viva e più sincera. È una vita ingenua, rudemente sincera, in cui pare palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle fontane: è una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica.
Quindi le domande che mi e ti faccio pertengono proprio questi elementi, ovvero la rude sincerità, il naturalismo pagano, insomma quegli elementi di dionisiaco furore che per Gramsci sono distintivi di un elemento farsesco di qualità. Non che siano parametri univoci, ma li prendiamo come spunti di partenza. Guardando, ad esempio, alla compagine di attori così eterogenea, ma dalla interessante resa, compatta e unisona nello svolgimento dell’intenzione artistica, non possiamo che certificare una capacità della regia di ricondurre spiriti animali così diversi dentro una partitura unica e armonica, concentrata sull’esaltazione dell’animalità attorale. Intanto, magari, andiamo a descrivere ciò di cui stiamo parlando.
MB: Il nostro è il caso di una farsa del potere attraverso il potere della farsa. Il ridicolo, il fittizio, il simulato, a mio avviso ingessano la cena delle Belve in una fredda guerra di posizioni. Di piani, condominiali e sociali. Pippo e Betta abitano di sotto, sotto-stanno in concreto ai due facoltosi e facondi di sopra, Giocondo e Giorgetta. La rivoluzione, che potrebbe ribaltare lo stato di cose, è una violenza provata e fallita comicamente per l’intera serata. Perché, in realtà, non c’è nessun capo alla loro tavola, nessun vero conflitto (di classe). Sono tutti uguali, schierati di fronte all’ordine narrativo costituito: il rispetto del genere per il divertimento del pubblico.
RF: La scena è neutra, un fondale bianco e una lunga tavola imbandita in modo elegante, quasi in proscenio, per una sorta di “cena delle beffe” a base del mitilo meno nobile, la cozza. La cifra dell’assurdo e del surreale abita questo ambiente bianco attraverso rimandi visivi alla sezione aurea con un bel disegno luci straniante, in cui si stagliano le due coppie rivali: in grigio quella dei padroni di casa, in un giallino pallido quella degli ospiti, dei quali si perpetra un tentato omicidio per mano di un killer assoldato all’uopo. Altre figure di portata più satirica abitano episodicamente la scena, figure portatrici di un intento di rimando alla società che dovrebbe in qualche modo dialogare con il pubblico.
MB: “Siamo amici, ci vogliamo bene” e poi, voltata appena la testa, se ne dicono di tutti i colori. Rappresentano, però, caricature dell’usuale più greve che ritratti dell’assurdo o satirico, e vanno dalla Lady Macbeth “casalinga disperata” di Betta al prete che usa un cero a mo’ di fallo (quando gli danno attenzione sale, altrimenti scende). Il regista rivendica “la capacità di ‘intonarsi’ sulle reazioni del pubblico che solo un attore-artista è in grado di padroneggiare”, ma non c’è alcuna evidente relazione sul palco che dipenda dall’interpretazione degli attori, piuttosto che dallo scambio delle battute. In fin dei conti, la presenza del pubblico è ininfluente. Anche se non ci fosse, il meccanismo dello spettacolo porterebbe alla stessa identica conclusione.
RF: Se la domanda secca è: lo spettacolo diverte, fa ridere? La risposta è che questo obiettivo è raggiunto per ampia parte del lavoro, la prima in particolare, in cui alcuni meccanismi e scelte registiche, anche solo di partitura fisica, si offrono al pubblico con un’intonazione che rimanda a Ionesco, ma anche ad alcune scivolosità di Copi. E cercando un’ibridazione che nobiliti la farsa e la elevi dalle rumorose deiezioni umane, trova un equilibrio scenico non facile, che nella seconda parte soprattutto, complice una stasi drammaturgica certamente studiata, ma forse non totalmente efficace, non arriva a quello slancio che invece della commedia farsesca è ingrediente principale, quell’arrivo alla scena finale in cui il conflitto si risolve, arrivando all’happy end (su cui Civica e Pirozzi arrischiano una variatio al canone, aggiungendo persino un piccolo addendum alla risolutiva). Ma è un finale che forse non arriva al pubblico con la stessa potenza dell’inizio. E nella farsa il decollo e l’atterraggio sono fondamentali. Qui l’atterraggio, secondo me, non sfonda la quarta parete e resta costretto nella dinamica della ricerca, sicuramente utile e già presente in alcune sfumature dei lavori precedenti del duo. Il prodotto è gradevole, ma poteva avere sicuramente esiti più interessanti, senza tradire l’intenzione popolare e semplice dell’approccio “gramsciano”, che qui si respira a sprazzi.
MB: Dunque, possiamo convenire che le Belve non oltrepassano le assi del palcoscenico, né tantomeno le pareti del teatro, come invece accadeva a Un quaderno per l’inverno. Si chiudono in ritmi, tempi, atteggiamenti, scatti, propri dell’esercizio di stile. Della prova di abilità e resistenza a regole strette fino all’inverosimile, al pari di un illusionista che abbia chiesto catene su catene. Soltanto che qui il prestigio non è liberarsene quanto prima, ma farne bella mostra per l’intera durata dell’esibizione. La forma rimane forma, tutto è come appare. Tanto il sistema è intoccabile quanto lo spettacolo è immutabile. E il lieto fine è di scena per chi il potere ce l’ha e lo esercita pure da cadavere (“in Italia comandano i morti”, sosteneva Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio). Chi il potere non ce l’ha anche stasera rimanderà la rivoluzione a domani sera.
Belve
– una farsa –
di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
costumi Daniela Salernitano
luci Roberto Innocenti
con Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato, Aldo Ottobrino
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello
Teatro Metastasio
Prato
Sabato 21 aprile 2018