MATTEO BRIGHENTI | “Ex”. Qualcosa che non è più. Al Villaggio Artigiano di Modena Ovest il disuso era la norma. L’orizzonte fisso degli eventi era il passato. Da due anni a questa parte il Collettivo Amigdala con OvestLab e il festival Periferico ha rimesso in moto il tempo di un territorio tra la campagna e la città che, primo in Italia nel 1953, ha tenuto insieme vita e lavoro, saper fare manuale e impresa, filiera produttiva e appartenenza di comunità. Uno sguardo non più rivolto all’indietro, ma lanciato in avanti: “ex” adesso definisce qualcosa che può essere ancora.
È la forza creatrice della sorpresa, per citare Claudio Calvaresi, l’urbanista esperto di processi di rigenerazione urbana che ha seguito il Collettivo fin dal principio. “Io credo – ha affermato a fionda, la nuova rivista partecipata del Villaggio – che pratiche artistiche e iniziative come Periferico, creando sorpresa (e penso la creino, perché permettono di vedere con occhi diversi lo spazio e le relazioni fra le persone e lo spazio) possano essere agenti di cambiamento. Aprono delle potenzialità, degli spazi del possibile”.
Il Villaggio Artigiano è l’approdo del progetto triennale avviato nel 2016, ma i luoghi attraversati in una decade sono molteplici: l’ex recapito postale della stazione FFSS, l’Archivio Comunale, il condominio popolare R-Nord, la fabbrica all’avanguardia Tecnord, il museo-laboratorio Officina Emilia, fino a un autobus in giro per Modena. Decimo Meridiano, Appunti per i 10 anni di Periferico, li ripercorre nelle stanze, sui tavoli, alle pareti, sul terrazzo dell’ex appartamento Panini. “Il futuro dei luoghi sta nell’intreccio di azioni personali e civili”. E ancora: “il futuro è un ordine che insorge”. Ovvero, si solleva contro l’oppressione, l’abuso, la violenza dei giorni che si ripetono nel solito che avanza. Non a caso, il titolo dell’edizione di quest’anno (25-27 maggio) è Insolente, cioè urta contro l’abitudine.
I capannoni, gli alberi, i mattoni, le lamiere, sono le Lettere anonime per un camminatore che il festival affranca e spedisce all’indirizzo di ognuno. Tutto parla, ci parla, bastano un paio di cuffie legate al muro per ascoltare Dalla viva voce il Villaggio Artigiano.
La storia non è lineare, procede per accumulazione, gli oggetti rivelano racconti, a ben guadarli, come si fa con le nuvole, riportano forme, trame, disegni nascosti. Una Torre di Babele per niente catastrofica, anzi, fonte di riposta bellezza. Come Babel V: Dream Man di Douglas Henderson nell’ex officina Menabue. La poesia di Russel Edson Sogno l’uomo, spezzata parola per parola, viene riprodotta da altoparlanti su una verticale elicoidale. È un coro polifonico in risonanza con una moltitudine di oggetti di scarto. Ci sono anche alcune macchine, Peugeot, Maserati, con sul tetto i cartelli “Occasione” e “Pronta Occasione”.
Il nuovo si fa vecchio e il vecchio si muta in presente continuo nel già stato. Polvere, muffa, umido, terra, foglie, natura: a Periferico ogni luogo è, insieme, interno ed esterno, all’aperto e al chiuso. Uno spazio pubblico temporaneo formato dal dialogo delle presenze che lo abitano al momento. Allora, Frantics Dance Company può riscrivere con Last un perimetro del Villaggio Artigiano da capo a piedi.
Carlos Aller, Diego De La Rosa, Marco Di Nardo, Juan Tirado, Young-Won Song, prendono la danza e ne fanno qualcosa di più: visione per-formativa del luogo. Guardiamo l’asfalto, lo sterrato, il cancello, non solo muoversi con loro, ma soprattutto attraverso di loro, perché sono riusciti a farli propri, ad abitarli, o meglio, a formarli, plasmarli a immagine di muscoli e acrobazie.
I corpi percorrono l’ambiente e l’ambiente compenetra i corpi. La break dance si unisce all’hip hop sperimentale, la danza contemporanea alle arti marziali. Attesa di uno scontro, apocalisse rimandata e presa al volo: scivolano, si ritrovano, da soli o in gruppo, con l’energia e la vitalità di una gang di strada. Sembrano quasi rendere accuse al sole, dopo una giornata passata a portare a spasso la propria maschera sociale. Silenzi, respiri, sospendono i passi in fermi immagine, da terra prendono lo slancio per l’altro, spiriti primordiali, essenze di fuoco.
Scompaiono e di loro, là davanti, non resta più nulla: la meraviglia, il sogno, sono tutti dentro di noi. La compagnia Frantics, che già avevamo ammirato ad Altofest a Napoli l’anno scorso, si conferma una potenza che rigenera anima e paesaggio.
I cinque danzatori hanno preso campo all’inizio trascinando travi in ferro sull’asfalto. L’arrivo della musica ne ha placato e dissolto lo stridore, ma quel tema, acuto, pungente, decisivo, il lavoro, si fa propriamente musica nel Doppelkonzert di Polisonum nell’officina di Fabio Po, fabbro “dal 1998”.
I materiali utilizzati suonano insieme a una composizione che documenta il processo di lavorazione. In cuffia ascoltiamo una nota lunga, continua, proveniente da certi tubi illuminati tra gli attrezzi. Viene azionata una catena, quelle canne operose si alzano, paiono vele che solcano mari di metallo. Il lavoro è evanescenza, immaterialità, persiste anche quando non c’è nessuno che lo pratichi. Polisonum armonizza la quiete dell’officina dopo la fatica, perfino il nostro più piccolo gesto entra a far parte del “concerto”, rendendo quasi mistica la smaterializzazione e il virtualismo finanziario dell’economia.
Al contrario, si assumono la responsabilità della presenza amministratori pubblici, intellettuali, imprenditori, cittadini, riuniti da Isabella Bordoni, in collaborazione con VIAINDUSTRIAE / Emanuele De Donno, attorno a F.O.N.D.E.R.I.A. tabula linguae / unconference nella Fonderia Ponzoni di prossima chiusura. Ci mettono la faccia, ma soprattutto la parola. Ai quattro tavoli di confronto dentro (Massicciata, Villaggio Digitale, Consorzio, Trasformazione) corrispondono altrettanti punti di ascolto fuori: ogni frase, finanche ogni minimo commento fra sé e sé, viene amplificato da un microfono e rimandato all’esterno (suono Nicola Fumo Fratteggiani).
“Siamo a discutere, ma è una recita”, dice una voce che dibatte sul domani della Fonderia. Sanno di essere ascoltati oltre la loro cerchia, ma non da chi. In via di principio, esercitiamo il controllo anonimo dell’opinione pubblica sul decisore, il politico, il rappresentante nelle istituzioni. Ma in questa non conferenza immersiva di un giorno intero facciamo principalmente da specchio alla loro impotenza e al loro narcisismo.
Sono in 26, contano poco o niente, nonostante gli atti che saranno presentati al Comune di Modena. Comunque, sono presenti. Lasciamo quindi F.O.N.D.E.R.I.A. con una domanda in testa, che è il portato a nostro avviso fondante dell’esperienza: se partecipano loro perché non agiamo pure noi nei nostri rispettivi villaggi?
I miti antichi tenevano unita la collettività intorno agli amori, le gelosie, le invidie, gli onori e gli oneri di dèi ed eroi. Una quotidianità con l’altro mondo che Čajka Teatro tenta di recuperare con Iliade nel canto degli aedi. Doveva snodarsi per le strade del quartiere e invece, a causa del caldo già eccessivo, ha trovato riparo all’ombra di un gazebo sulla massicciata del treno che taglia in due il Villaggio.
Le tre Parche reggono il filo della nostra esistenza. Una volta tagliato, abbiamo accesso all’aldilà del racconto. Gli attori, cantastorie vestiti di bianco e nero, provano a rendere colloquiale, ad avvicinare il più possibile a noi Prometeo incatenato, il pomo della discordia, la guerra di Troia. Però, mimano i personaggi con sovrabbondanza di sottolineature, toni, accenti, tanto che l’accostamento al mito assume piuttosto l’andatura della semplificazione, se non proprio della banalizzazione.
La compagnia ha semplicemente imparato il copione, si è fermata ai concetti da trasmettere, ai cliché di Agamennone o Achille, non è risalita, per usare la terminologia di Chiara Guidi, “nella tasca del palco” all’immanenza del racconto, all’invenzione della voce suggerita dalle parole. Un’unità spazio-tempo che entra come una sonda nella realtà.
Nel giardino di Paola Nora e Marco Sternieri Guidi ha aperto le porte del suo metodo sperimentale di ricerca, se così si può dire, di una nuova via all’interpretazione. Accompagnata dalle domande puntuali e prospettiche di Sergio Lo Gatto di Teatro e Critica, la cofondatrice della Socìetas ha spiegato come interpretare per lei significhi figurarsi davanti agli occhi una teoria di immagini invisibili a cui dare voce. Da qui, il titolo della documentazione dei suoi esperimenti edita da nottetempo, La voce in una foresta di immagini invisibili, almanacco con figure, testi e fotografie per un viaggio nell’emissione e percezione del suono con e in tutti i sensi.
Chi ha detto che il teatro è fatto solo di concetti? Un’opera può essere ricostruita dal lavoro sulla voce, sacrificando la semantica stessa della frase. La voce ti restituisce il mondo, è gesto, è drammaturgia, mossa dall’intonazione. È il suono che dà il significato e Chiara Guidi sostiene di condurlo dentro il racconto come una pariglia di cavalli: la parola di per sé è inerte, deve essere tenuta desta affinché non si spenga, non muoia in bocca.
Affascinante la speculazione teorica quanto ostica, per chi scrive, la fruizione pratica, nelle Lettere dalla notte di Nelly Sachs come di recente nella lectura Dantis a Trasparenze. È il cammino sulla soglia sottile tra ricerca e partecipazione. Lo stesso rivendicato dal Collettivo Amigdala, che si muove in una foresta di altrettante immagini invisibili: le memorie e le storie del Villaggio Artigiano.
“Drammaturgia vivente della relazione tra ambiente e territorio” la definimmo a proposito di Periferico 2017, candidato peraltro da PAC al Premio Rete Critica. Una direzione di riflessione e produzione artistica che, dopo il necessario assestamento, pare oggi aver trovato la piena misura di un pensiero-innesco che riscopre e riattiva legami, idee, affetti. Un “laboratorio civico” a cielo aperto “per riportare alla luce – leggiamo ancora su fionda – le cose che, anche se esistono ancora, non si vedono più, per fare sentire la loro voce e ricostruirci intorno nuovi immaginari”.