MATTEO BRIGHENTI | Si chiede permesso, prima di entrare. Altofest International Contemporary Live Arts accade in luoghi “altri” di Napoli. Altri i proprietari, altri gli usi. Appartamenti, autorimesse, negozi, sale consiliari, non nascono come teatri in senso stretto, ma rinascono come tali, perché su di essi interviene lo sguardo largo dell’incontro. Lo spettacolo, inteso qui come tutto ciò che è degno di attenzione, nel non festival per eccellenza è il legame tra un artista e la sua opera, da un lato, con un donatore e il suo spazio, dall’altro. Il pubblico è accolto in “casa” di entrambi, su una mappa della città ricostruita dai curatori, TeatrInGestAzione, che ogni anno dal 2011 intrecciano distanze geografiche e propositi artistici, riflessioni internazionali e urgenze locali.
Si tratta di una direzione artistica pensata da Anna Gesualdi e Giovanni Trono come una “drammaturgia”, che ha per orizzonte creativo l’incessante ricerca del “fare in comune” e dal basso, dare luogo alla cultura, e viceversa. Un impegno gravoso e decisivo, tanto da essere riconosciuto a livello europeo, i soli italiani fra i premiati, con il prestigioso EFFE Award 2017-18, e con il bollino per l’Anno Europeo del Patrimonio, e aver realizzato un formato speciale, Altofest Malta, per Valletta 2018 Capitale Europea della Cultura.
L’ottava edizione napoletana (4-8 luglio), in collaborazione con i cittadini dei quartieri Materdei, Sanità, Centro Storico, Vomero e Pedamentina a San Martino, ha avuto per tema “Words Matter / Le parole sono importanti”. Lo sosteneva o, meglio, urlava già Nanni Moretti nel film Palombella rossa del 1989. All’epoca era uno sfogo contro l’impoverimento del (formulare un) pensiero. Nelle mani di Gesualdi/Trono è la riaffermazione della materia prima dell’incontro, per riflettere, discutere, affrontare affanni e opportunità dell’oggi.
Difatti, oltre alle performance, tanti sono stati i momenti dedicati a pratiche di confronto: Texture, piattaforma di dialogo tra esperti culturali internazionali, quest’anno in risposta al tema “Make Your Actions Reflect Your Words”); l’Osservatorio Critico (a cura di Silvia Mei, Salvatore Margiotta, Mimma Valentino, Loretta Mesiti, Meike Schmidt-Gleim, Federica Terracina), la ricerca del coreografo Matteo Marfoglia per l’Arts Council of Wales sui processi artistici innestati nel contesto quotidiano, la Web Radio (curata da Silvio Impegnoso). Un gruppo di studenti del Liceo “Vittorio Emanuele” di Napoli ha poi attraversato il programma seguendo un percorso di osservazione critica e scrittura grazie al progetto pedagogico, curato dalla stessa Mesiti, “La Città Scritta – Luoghi quotidiani e spazi del possibile”. Sociale è stata anche la cucina, presso la Casa del Momento.
Altofest apre all’individuo le porte del collettivo, dell’assemblea, cioè il tempo dell’ascolto condiviso, dove “nel passaggio dal plurale al singolare la parola si fa verbo dunque azione. Allora – si legge nella nota curatoriale – la parola è potere del corpo, capace di com-muovere. Ecco che la drammaturgia di Altofest 2018 prende forma di Commovimento Poietico-Politico, incarnandosi in parola custodita poi condivisa, esposta, dichiarata, manifesta, fino a farsi spazio del discorso.”
Un discorso che, nei lavori intercettati nei nostri due giorni di permanenza, venerdì 6 e sabato 7 luglio (PAC unica rivista di Rete critica presente), muove, canta, dice, suona l’attesa che dobbiamo attraversare affinché passi ’a nuttata, nostra e di questo Paese.
Il terrazzo di Casa Bossi/Borriello, Via Camillo Tutini 15, è tutto rivestito di carta da pacchi marrone: il pavimento, due divani, un mobile, un televisore, un asse da stiro. Una piccola fila di lumini indica l’accesso a questa vista da trasloco imminente sui tetti di Napoli. Chiara Frigo, vestita di nero, è seduta su una sedia nera, spalle a una stanza ingombra di sacchetti. Stretta tra il bagliore di questa che filtra dai vetri, il carico del passato, e una luce bassa che allunga le ombre del futuro, dà busto, braccia e mani al teatro del gesto di Takeya. Sezione corporea di una parte per il tutto che sarebbe piaciuta al Beckett di Non io, in cui della figura protagonista, Bocca, compare appunto solo la bocca illuminata da un riflettore.
Frigo si porta in avanti con estremo sforzo, muove le dita, ruota i polsi. La sequenza di movimenti si fa sempre più vertiginosa, in un’indagine decennale proprio sulla velocità. È un flusso che in un certo qual modo non può trattenere, risale dal suo plesso solare, si espande e la scuote. Ha qualcosa della frenesia della città, catena di montaggio dell’essere. Pare una marionetta che dibatte con i suoi fili, prende lo slancio dall’alto e lo scarica a terra, in un moto sempre provvisorio, anche se ripetitivo. Fa come per disegnarsi e cancellarsi il viso, i connotati, non riesce a traslocare da ciò che (non) vuole o (non) si aspetta. In definitiva, da se stessa. E questo non la fa stare meglio, né peggio: la fa rimanere semplicemente seduta ad agire la speranza di una possibile fine. Fino all’ultimo respiro.
Dal canto suo, si leva fino all’ultima nota Elementare del Collettivo Amigdala, s’innalza al cielo della Fondazione Pietà de’ Turchini, Via Santa Caterina da Siena 38. La sola voce umana, nuda, si allunga morbida, si distende e poi risale, modulata tra il silenzio e il sonno di una veglia notturna. Uno straordinario raduno tra sconosciuti portati a vivere in pubblico un tempo intimo. Un’esperienza immersiva totalizzante, che non smette di “parlarti” anche dopo settimane e settimane.
Pietà de’ Turchini è un luogo di confine, è dentro e fuori insieme, come il Villaggio Artigiano di Modena Ovest dove Amigdala promuove il festival Periferico, che quest’anno ha tenuto a debutto Elementare. L’inizio è un percorso a lume di candele tra poltrone da cinema, confessionali, crocifissi, uffici, computer, in direzione del coro ligneo, uno spazio dell’antichità oggi.
Qui Federica Rocchi ci spiega l’intenzione di voler sovvertire le regole canoniche della scena: non sono attori loro, non siamo spettatori noi. Hanno abitato e preparato l’ambiente e si sono preparati ad aspettare l’alba, a cercare le parole finché il sole non sorgerà, attraverso un’intera notte divisa in 5 capitoli e altrettanti intervalli, durante i quali rifocillarsi. Si può andare via quando si vuole, basta non disturbare chi veglia cantando, chi ascoltando e chi anche dormendo: è ammesso, dal momento che questo non è uno spettacolo.
La Chiesa è una distesa continua di materassini. Pare un rifugio per sfollati, gente in fuga da qualche catastrofe naturale o umana. Su una lavagna sopra l’altare vengono scritti i titoli dei diversi capitoli, il primo è “Elementare”. Candele e fari rischiarano le armonizzazioni di Meike Clarelli, Elisabetta Dallargine, Davide Fasulo (il conduttore del coro), Fulvia Gasparini, Antonio Tavoni, che un pennello sapiente raccoglie e traccia su lenzuoli bianchi. Moto continuo, perpetuo, meccanica celestiale quasi di una preghiera collettiva.
Aspettiamo e lo scorrere dell’orologio è un’onda che abbatte le difese, le resistenze: la vista si annebbia, i contorni delle cose sfumano, potrebbe essere qualsiasi ora. Soltanto i rumori della strada indicano che fuori c’è la città. Il sonno ha il sopravvento, arriva per tutti, ovunque siamo, ci prende e ci porta con sé. Dormire è affidarsi agli altri tra uguali. Da soli insieme.
L’alba è l’impegno e la fatica di chi ha creduto nel nuovo giorno. Se è mattina, anche oggi, è merito di donne e uomini come loro che non si sono fermati un attimo. Hanno fatto del nostro affidamento l’accordo Elementare che ha infranto il buio. Oggi per domani. I lenzuoli, infatti, sono stesi al sole ad asciugare uno spartito di parole con cui coprirsi e non temere nessun’altra notte.
La salvaguardia di libertà e uguaglianza, nel caso specifico di artisti arabi rifugiati ed esiliati, è il cuore pulsante di ETMAC Extra-Territorial Ministry of Arab Culture dell’americano Adam Kucharski e dell’egiziano Adham Hafez. È un ministero immaginario che opera come un’entità fittizia che gestisce programmi, dà consulenze alle istituzioni su questioni di politica culturale e pianificazione finanziaria, e presenta performance in forma di conferenza.
Dagli scranni della Sala Consiliare della Città Metropolitana, Largo Santa Maria La Nova 43, Kucharski si dilunga su origini e obiettivi, per poi stringere sul perché ci troviamo qui. Nell’ottica di allargare la sua distribuzione territoriale, il “ministero” ha preso in considerazione Napoli e ha chiesto a due attivisti/studiosi, Anna Faro e Dario Oropallo, di pensare a una possibile destinazione. Faro propone di riconvertire San Domenico Maggiore, ex sede dell’Università “Federico II”, per arginare la turistificazione del centro storico. Oropallo, dal canto suo, avanza l’ipotesi di rinnovare l’ex Base Nato di Bagnoli, per dare quel centro decentrato promesso alla città e mai realizzato.
Immaginare un simile “ministero” permette di costruire una differente visione del territorio e di restituire alla politica una visione di lungo periodo. Si entra nel vivo quando Marzouk Mejri, cantautore e musicista polistrumentista tunisino da 23 anni in Italia (ha suonato con Daniele Sepe, James Senese, Eduardo De Crescenzo, Peppe Barra, 99 Posse), racconta che per lui è ancora complicato lavorare all’estero. Stessa sorte capitata al “ministro” Hafez: il suo intervento è in diretta Skype non per scelta del copione, ma delle autorità di frontiera, che gli hanno realmente negato il visto.
I confini sono veri, le difficoltà tangibili. Allora, superata la votazione dei due progetti e la contestazione ai danni di Kucharski, questa sì combinata, ETMAC coglie il suo senso profondo nel dibattito finale, sorto spontaneamente. Dibattere, confrontarsi, significa aprirsi alle opinioni altrui, adoperarsi insieme per trovare soluzioni praticabili. E rifiutare e spezzare gli sguardi beffardi dei “potenti”, come quelli ritratti alle pareti della Sala Consiliare, che sembrano dire che le cose non cambiano, e loro lo sanno, perché rappresentano il sistema.
Una sorta di chiamata alle arti della sovversione è Urban Spray Lexicon di Ateliersi in un anfratto dell’Autorimessa Cava di Tufo, Vico Tronari 20. Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, accompagnati dalla chitarra elettrica di Mauro Sommavilla, offrono i loro microfoni a filo a un “rap” monotono di scritte sui muri, fuori e dentro Napoli, soprattutto all’Università, al San Paolo, facendo ricorso anche a MappiNa, la piattaforma napoletana di mapping collaborativo. Amore, anarchia, ironia, tifo, ribellione, è tutto mescolato, il bianco con il nero, il dritto con il rovescio, opposti che finiscono per annullarsi a vicenda. Tanto che ciò che rileva è un protagonismo anonimo e fine a se stesso, una collezione di selfie con le bombolette spray.
“Meno scritte più scontri” è una delle sentenze scandite a un certo punto. Verrebbe da adattarla in “meno scritte più teatro”. Manca una costruzione drammaturgica vera e propria, si riportano i graffiti così come sono, ma non si narra nulla su o a partire da essi, né tantomeno sul clima, la città o il Paese che li ha prodotti. Perciò, Urban Spray Lexicon usa una lingua con un vocabolario sordo, che non serve per parlare, comunicare, ma unicamente per asserire, affermare verità imbrattate sui mattoni, non curandosi di dimostrarle. Quando invece la scena è, prima di tutto, il luogo della crisi, del dubbio che scava oltre la superficie perfino delle più chiare evidenze.
In chiusura, viene letta la lettera di un ragazzo presentato come un loro amico: non è potuto venire perché è agli arresti domiciliari per via delle sue scritte. Sta al publico, adesso, continuare a diffonderle. Così, a ognuno viene consegnato un cartoncino con tanto di frase a effetto. Una specie di investitura, per fare una “rivoluzione” che dice tutto senza ottenere niente.
Marc Vilanova non dice, soffia dentro il suo sassofono, eppure sembra di riconoscere una nave in partenza. E tutta la stanza della casa-negozio “Da Napoli a Marrakech”, Via Crocelle a Porta San Gennaro 8, a poco a poco s’illumina, un’alba stavolta elettrica, mai pienamente conquistata. MUT (“muto” in catalano) è un concerto di suoni e luci, orchestrate dallo stesso musicista spagnolo con perizia matematica e abilità tecnica.
In piedi in un angolo, con una posizione di equilibrio quasi yogico, Vilanova suona lo strumento al pari di un ventriloquo, usa un alfabeto “gutturale” per le parole e le cose. Grande è il dispendio di energie per toni e timbri che sembrano risalirgli da dentro, affiorargli alle labbra e riprendere da lì la via dell’esistenza. È un canto al giorno celato dalla notte, come Elementare, rincorso con ferma velocità al pari di Takeya.
Un viaggio di scoperte e rivelazioni la cui rotta è segnata da lunghi fili: uniscono lampade e lampadari che si accendono a comando, come per magia, in accordo con tasti e chiavi del sassofono, a tempo con i suoi squilli e sussurri. Paiono tanti fuochi fatui, meduse illuminate dalla luna o fuochi d’artificio, che d’estate punteggiano quasi ogni sera il golfo di Napoli.
MUT è un’ipnotica “camera delle meraviglie” che vive come di vita propria. Naturale quanto il beccuccio che Marc Vilanova si passa da ultimo sulla barba. Risonanza di corpo e strumento nella marea altalenante dei giorni.
Federica Santoro usa le parole come Marc Vilanova suona il sassofono: in modo straniante. L’anitra selvatica – Quadro I° “i Sommersi” da Ibsen inizia come una prova di memoria sul pianerottolo di Casa D’Iorio, Via Vergini 14. Santoro è seduta su una sedia e il pubblico la segue dai gradini delle scale. Parla quasi senza variazione, rimarcando l’alternarsi dei punti di vista con il viso ora a sinistra, ora a destra. A differenza di Urban Spray Lexicon, l’uniformità non rispecchia l’assenza di contenuto, esprime piuttosto il tentativo di non fare personaggi, di scomparire dietro il testo, di provare a non essere niente.
Una volta entrati in salotto, compare anche Luca Tilli, seduto a un tavolo con un portatile sotto le dita. Per terra del cartone come in Takeya, a sinistra una poltrona, una pianta, a destra una sedia, un leggio, un violoncello e un pianoforte verticale, davanti una sorta di robot-tavolino, anch’esso di cartone. La voce di lei registrata dà le battute di fila, attaccate, il copione è dissezionato in virgole e punti con una specie di cinica noncuranza, in spreco assoluto. Dice “a” in audio e adesso pure dal vivo, come a provare un microfono inesistente, fin quando non trova il tono più neutro possibile e la vita torna a essere solo in diretta.
Il signor Werle e il figlio Gregor, il fotografo Hjalmar Ekdal e la figlia Edvige, collassano in dialoghi allucinati sotto i colpi della furia giocosa, vorticosa e a carte totalmente scoperte, di Federica Santoro. Tilli, che (non) fa tutti gli altri che passano e origliano ciò che non dovrebbero, prende il violoncello, lo gira, batte, dissuona, mentre lei controlla qualcosa sul computer, forse il copione, chissà.
Infine, stramazza sul “tavolino”, come Edvige muore per conquistare l’amore del padre assieme all’anitra, simbolo del precario equilibrio della famiglia. L’ironia della suprema non-finzione, dove i non-personaggi sono comunque personaggi (le parole sono indizio incrollabile del comportamento), svela la macchietta della bella e vuota società tradita dalle apparenze.
Takeya
ideato ed eseguito da Chiara Frigo
musica Random Inc., Alva Noto
disegno sonoro Mauro Casappa
disegno luci Leonardo Benetollo
scenografia Chiara Frigo
Premio GD’A Veneto Anticorpi XL; Selezionato da Aerowaves
Elementare
progetto e idea del Collettivo Amigdala (Meike Clarelli, Sara Garagnani, Federica Rocchi, Gabriele Dalla Barba, Silvia Tagliazucchi)
musiche originali Meike Clarelli
drammaturgia sonora Davide Fasulo, Meike Clarelli
conduzione coro Davide Fasulo
con le voci di Meike Clarelli, Elisabetta Dallargine, Davide Fasulo, Fulvia Gasparini, Antonio Tavoni
testi Gabriele Dalla Barba
scena Sara Garagnani con la collaborazione di Silvia Tagliazucchi
cura Federica Rocchi
un ringraziamento ai partecipanti del workshop Maggese – comporre opere sui luoghi – per il loro contributo, in particolare Fabio Ghidoni, Sabrina Alberti, Erica Greco, Alessandra Marolla
produzione Amigdala e Festival Periferico 2018
Visti venerdì 6 luglio 2018
ETMAC
ideato e diretto da Adam Kucharski e Adham Hafez
eseguito da Adam Kucharski
prodotto da HaRaKa Platform, Kuchar&Co.
Urban Spray Lexicon
di Ateliersi
con Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi
alla chitarra Mauro Sommavilla
MUT_Solo Saxophone
di e con Marc Vilanova
L’ANITRA SELVATICA
Quadro I° “i Sommersi”
liberamente ispirato all’opera di Henrik Ibsen
a cura di Federica Santoro e Luca Tilli
regia, allestimento e adattamento drammaturgico Federica Santoro
musiche Luca Tilli
realizzazione elementi scenici Marina Schindler
disegno luci Dario Salvagnini
con Federica Santoro, Luca Tilli
collaboratori artistici Ettore Frani e Paola Feraiorni
in residenza presso Performing SantaCaterina a cura di La Società dello Spettacolo, Festival Fabbrica Europa, Angelo Mai, Kollatino Underground
un ringraziamento a Diana Arbib, Paola Feraiorni, Giulio Sonno, Alessandro Carpentieri per le riprese video, Eleonora Cerri Pecorella per le foto
Visti sabato 7 luglio 2018