MATTEO BRIGHENTI | Spinoso, ma dal cuore tenero. “Vestito da guerriero, brunito come bomba a mano, orgoglioso” lo magnifica il poeta cileno Pablo Neruda nella sua ode. È il carciofo. Uno dei “4 d’Albenga”, prodotto tipico di questa zona in provincia di Savona, insieme all’asparago violetto, alla zucchina trombetta e al pomodoro cuore di bue. In dialetto ligure è chiamato articiocca, termine vicino all’inglese artichoke.
Da 9 anni Terreni Creativi Festival pensa globale e agisce locale, uno “shock” positivo attraverso le arti: conversazioni, teatro, cinema, musica. Per l’edizione 2018 (11-13 agosto), i Kronoteatro, che curano la direzione artistica e organizzativa, hanno scelto di rimarcare questa “affinità elettiva” fin dal titolo, aggiungendo una “s” ad artichoke: Artischoke! I legami con e sul territorio sono quanto mai “incendiari” e, infatti, nel progetto grafico di Nicolò Puppo il carciofo sprigiona fuoco e fiamme.
Il “vegetale armato” di Neruda nelle mani di Maurizio Sguotti, Tommaso Bianco, Alex Nesti e compagnia, reduci, tra l’altro, da una personale dei Krono alla Biennale Teatro di Venezia, vuole pungere la disattenzione, ormai endemica, delle istituzioni (rimangono del tutto inadeguati i finanziamenti) e fare quadrato attorno al cuore del festival: la curiosità del suo numeroso pubblico. Coltivata nel tempo, con impegno e dedizione, riconosciuti e premiati a livello nazionale.
Terreno d’incontro e ascolto la Cooperativa L’Ortofrutticola e l’Azienda Agricola Biologica BioVio (una terza azienda si è sfilata all’ultimo momento). Qui, nelle serre d’Albenga, il tema Doc di quest’anno ha messo radici nella conflittualità con se stessi, con gli altri e con l’Altro, che è Dio. La casa, la famiglia, gli amici, i migranti, la religione, sono stati gesti, viaggi, voci, alla ricerca di un posto nel mondo in cui poter dire, senza paura, “questo sono io”. L’ultimo giorno ci ha raggiunto Elena Scolari: a lei rimandiamo per approfondire l’anteprima di Non è ancora nato di Caroline Baglioni / Michelangelo Bellani e Gran Glassé de Gli Omini / Extraliscio, questi ultimi visti al debutto l’estate scorsa al Pistoia Teatro Festival.
Roberta Bosetti non vuole essere da nessun’altra parte che nel passato. È già stato, ha quindi una forma che sfugge al caos del presente, e, soprattutto, i suoi genitori allora erano entrambi vivi. Sul tavolo in scena ha un registratore, come Krapp di Samuel Beckett, un Geloso 570: lì dentro Roberta cade in trappola, nel riascoltare la bambina che era, quando il tempo non badava al passare del tempo.
Assistemmo a questa tredicesima parte dell’Interior Sites Project, condiviso con Renato Cuocolo, due anni fa al Funaro di Pistoia. Adesso, le relazioni, la loro assenza o memoria, indagate alla luce di un’autobiografia ricostruita ad arte, ci appaiono come una macchina lanciata con il pilota automatico: il dialogo non è tra lei e noi, ma tra sé e sé.
La morte della madre, del padre, la depressione, le visite mediche, sembrano confessioni intime da “microfono aperto”, come alla radio, in cui si prende la parola per ascoltarsi parlare e concretizzare così il proprio sfogo davanti a tutti. Il palco assomiglia a un gruppo di controllo e sostegno, nel più ampio uso privato del teatro alla strega di viatico per attraversare, esorcizzare, elaborare il proprio dolore. Tanto che Bosetti appare sollevata a ogni frase che pronuncia, peraltro con studiata sofferenza.
Padronanza vocale e presenza scenica sostengono la trasmissione delle mille vite della cofondatrice dell’IRAA Theatre, ma ciò che manca è proprio la vita, ovvero l’esemplarità che dal particolare assurge all’universale. Non ci porta con lei: Roberta cade in trappola da sola.
Marco Cacciola ci prende per le orecchie uno a uno. Ascoltiamo prevalentemente in cuffia il suo Farsi silenzio in cammino da Torino a Roma sulle tracce di cosa è e non è il sacro. Un percorso, anche in questo caso simil-autobiografico, che lascia a casa ogni certezza, per andare incontro all’ignoto, all’incerto di una risposta che può esistere come no.
Inizia presentandosi, con un tono controllato e, insieme, colloquiale, che ci accompagnerà fino alla fine. È un attore, è uno che cerca. Perciò, Farsi silenzio (drammaturgia di Tindaro Granata) non è uno spettacolo, fatto e finito, ma un’indagine per l’appunto “in itinere”, dove a ogni passo ne segue necessariamente un altro, finché reggono le gambe. La questione è più “spinosa” del carciofo d’Albenga: ciò che rileverà non sarà il cosa, il punto d’arrivo, indefinito e indefinibile, piuttosto il come, il tragitto fatto, il passo tenuto e il panorama visto.
Originario di Piacenza, genitori siciliani, ora si definisce un “milanese DOC”, ovvero “di origine controversa”, perché ogni volta che può scappa dalla Madunina. L’insofferenza alla realtà che lo circonda e l’apprensione del diventare adulti sono forse il pungolo che lo spingono in strada. Fuori da una mera definizione religiosa, “sacro” pare qui assumere il senso lato di “ciò per cui vale la pena vivere”.
Il primo e più significativo faccia a faccia è con Antonio Tarantino. A Torino, in un bar nel quartiere San Salvario, il celebre drammaturgo gli consegna che il sacro è “qualcosa di isolato dalla volgarità dell’esistenza”. Per questo abbiamo le cuffie, per isolarci da tutto il resto che abbiamo attorno, per farci silenzio, accogliendo su di noi la narrazione di Cacciola.
In cuffia, la voce affaticata di Tarantino si mescola ai rumori di tazzine, cucchiaini, ordinazioni, scontrini (suono di Marco Mantovani). Ci troviamo lì, seduti in quel bar e, contemporaneamente, qui, alla BioVio. Il tempo è unico, compartecipe della realtà e dell’immaginazione, della verità dei fatti e della ricostruzione della scena. È il “teatro nella testa” di cui parla Roberta Bosetti, adesso pienamente realizzato, e che compie un ulteriore salto nel momento in cui sentiamo anche la voce registrata dello stesso attore.
Le tappe successive si snodano con crescente stanchezza, come se i chilometri avessero la meglio sulla lucidità della domanda di partenza. La meta appare via via astratta e confusa, il comunicare cede il passo al pontificare. Probabilmente, perché le “pietre miliari” non sono più del calibro di Antonio Tarantino e bisogna, in qualche modo, sostenere l’andatura, speculando sulla “conquista” finale.
Farsi silenzio sembra ritrovare lo slancio quando veniamo condotti all’esterno dell’Azienda Agricola Biologica nella piana ingauna. Tolte le cuffie, affrontiamo la libertà del silenzio, la responsabilità del pensiero. Guardiamo, senza vedere nulla, perché non sappiamo dove rivolgere lo sguardo: ecco che il sacro diventa quello a cui di norma non prestiamo attenzione. Tutto. “Tutto è santo! – scrive il poeta beat Allen Ginsberg nella sua Nota a Urlo del 1955 – Tutti sono santi! Dappertutto è santo! Tutti i giorni sono nell’eternità!” Un momento epifanico, personale e collettivo, come solo le esperienze di teatro immersivo sanno restituire. Perfetta come (la nostra) conclusione. Invece, l’attore rompe il silenzio e lo vanifica spiegandolo: abbiamo (e)seguito i 4’33” di John Cage, dopo l’ascolto guidato ci ha lasciati all’ascolto libero di accogliere anche i rumori, come sosteneva il compositore statunitense.
Torniamo al chiuso e alle cuffie. Farsi silenzio riprende tra improvvisazioni, analisi della difficoltà della messinscena e aneddoti come l’incontro con Lamberto Maffei, autore dell’Elogio della lentezza, il Festival della mente di Sarzana, l’intervista a Radio 2: potevano più opportunamente essere inseriti nella parte narrativa prima della “rivelazione” all’esterno. Ma l’opera, abbiamo detto, ha da continuare e così il microfono rimane acceso per chiunque voglia testimoniare la sua idea del sacro, da inserire, magari, tra i nastri già acquisiti.
Siamo noi, in conclusione, che lasciamo qualcosa a Marco Cacciola, non il contrario. Del resto, come afferma il proverbio, “voce di popolo, voce di Dio”.
Per farsi sentire da Lui, i quotidiana.com hanno deciso di salire direttamente in cielo. Roberto De Sarno, Pietro Piva, Roberto Scappin (suo il progetto scenico), Antonella Spina, Paola Vannoni, sono 5 angioletti scalzi, canottiera e pantaloni bianchi, che rimbalzano su altrettante palle da ginnastica contro gli Episodi di assenza 1 – Scienza VS Religione, declinati per Terreni Creativi nei capitoli [precipitevolissimevolmente], [spara], [l’apparenza inganna: l’apparizione anche].
Dunque, le nuvole di questo Paradiso d’irriverenza e giochi di parole a raffica sono gli strumenti usati solitamente nelle palestre per fare yoga o pilates. Quest’oggi a “lezione” si misura la resistenza fisica della Scienza e della Religione, portate avanti per affermare la superiorità e la veridicità ora dell’una ora dell’altra. Le 5 figure, o meglio la stessa figura riverberata in 5 profili differenti, si fronteggiano con la schizofrenia del corpo e la sgraziosità del pensiero. Ballettini disco pop si alternano a battute raggelanti: “Dio, donaci un assegno della tua presenza”, “Quanto costavano le mele al tempo di Adamo ed Eva? L’ira di Dio!”, “Se vedi tutto rose e fiori allora sei al cimitero…”. Del resto, tutto è cominciato storpiando Stasera mi butto di Rocky Roberts in Stasera mi putto.
La riflessione sui dogmatismi della Scienza come sulla tolleranza della Religione, cioè quel “sentimento del contrario” proprio del palcoscenico per oltrepassare la superficie rassicurante delle cose, pare scivolare via dietro maschere fisse votate a parole immobili. L’assenza, qui, non è pienezza d’intenti come ne L’anitra all’arancia di Federica Santoro e Luca Tilli vista ad Altofest, è piuttosto, a nostro avviso, assenza e basta, trama di suoni che riecheggiano nel vuoto del più cantilenante non senso.
Comunque, va dato atto ai quotidiana.com di aver messo qua e là le mani ironicamente avanti: “Queste coreografie sono pallose, chi le ha fatte non sa come si fa” oppure “Dio si lamenta di questa drammaturgia”.
Il Paradiso di Babilonia Teatri non ha alcuna intenzione di far ridere né tantomeno sdrammatizzare la contemporanea intolleranza verso gli altri da noi, i diversi, gli stranieri. Amer Ben Henia, Joyce Dogbe, Josephine Edu, urlano a pieni polmoni quello che è il loro Paradiso negato dal razzismo, dalla violenza, dalla cattiveria. Lo stigma, il peccato originale di questi ragazzi, che vivono in una comunità per minori in affido ai servizi sociali, agli occhi accecati degli estremisti è il fatto stesso di essere nati, la loro natura, il colore della pelle. Difatti, in scena sono chiamati con il nome del Paese di provenienza: Tunisia, Togo, Nigeria.
Terzo capitolo di una personale trilogia dedicata alla Divina Commedia di Dante Alighieri (Inferno è del 2015, Purgatorio del 2016), questo “teatro delle condizioni differenti” trova però nella reiterata denuncia lo scacco alla sua rappresentazione. Prima che a immaginarie croci, Ben Henia, Dogbe, Edu, sono inchiodati da Enrico Castellani, in scena con anche l’angelo down di Daniele Balocchi, proprio alle loro differenze. Non sono, semplicemente, diversi, sono, esistono sul palcoscenico in quanto diversi.
Paradiso, secondo noi, assume allora le sembianze di un ring su cui restituire il male subito o, peggio, di una sfilata del dolore, ammaestrato dall’autore/dio Castellani, che dà e toglie il microfono e quindi la parola, sorveglia modi, tempi, condotte. Il Vangelo dei migranti di Pippo Delbono, il film documentario proiettato al festival alla sua presenza, ha il medesimo vizio di forma, che è poi sostanza, cioè l’eterodirezione. Nell’occhio autoritario della macchina da presa, che non concede al pubblico altra visione possibile se non la propria, i rifugiati del Centro di Villa Quaglina di Asti si mostrano come senza libertà né volontà indipendente, burattini per quel Vangelo che la madre, in punto di morte, ha chiesto all’attore e regista di mettere in scena.
“Loro – sostiene Delbono – hanno più presente di noi il senso sacro della vita”. Forse, più che suscitare la compassione, come Vangelo, o la rabbia dello spettatore, come Paradiso, ma anche, di recente, I Veryferici di Shebbab Met Project, bisognerebbe chiedersi perché bambini, donne, uomini, ragazzi e ragazze come Amer Ben Henia, Joyce Dogbe, Josephine Edu, fanno tanta paura da scegliere di maltrattarli. Qualcuno c’è di sbagliato: noi. Lo specchio, dunque, va spostato dal palco alla platea. Soltanto così il teatro smette di rassicurare e comincia a incidere davvero.
Roberta cade in trappola / the space between
di e con Roberta Bosetti e Renato Cuocolo
coproduzione Il Funaro, IRAA Theatre, Teatro di Dioniso
Farsi silenzio
progetto e interpretazione Marco Cacciola
drammaturgia Tindaro Granata
suono Marco Mantovani
produzione Elsinor Centro di produzione Teatrale
con il sostegno di Armunia – Festival Inequilibrio
Episodi di assenza1 – Scienza VS Religion
[precipitevolissimevolmente] [spara] [l’apparenza inganna: l’apparizione anche]
con Roberto De Sarno, Pietro Piva, Roberto Scappin, Antonella Spina, Paola Vannoni
drammaturgia quotidiana.com
progetto scenico Roberto Scappin
produzione quotidiana.com, Kronoteatro, Armunia Festival Inequilibrio
con il sostegno di Regione Emilia Romagna, Kilowatt Festival, Santarcangelo dei Teatri Residenze artistiche, PIMOff Progetto residenze, Cantiere Moline (ERT -Emilia Romagna Teatro Fondazione, ATER)
Paradiso
regia Babilonia Teatri
con Enrico Castellani, Daniele Balocchi, Amer Ben Henia, Joice Dogbe, Josephine Ogechi Eiddhom
collaborazione artistica Stefano Masotti
musiche Marco Sciammarella, Claudio Damiano, Carlo Pensa (Allegro Moderato)
luci / audio Babilonia Teatri / Luca Scotton
direzione di scena Luca Scotton
produzione Babilonia Teatri, La Piccionaia centro di produzione teatrale
coproduzione Mittelfest
col sostegno di Fondazione Alta Mane Italia
residenza artistica La Corte Ospitale, Orizzonti Festiva
un progetto di Babilonia Teatri e ZeroFavole
organizzazione Alice Castellani
scene Babilonia Teatri
costumi Franca Piccoli
Vangelo
con Pippo Delbono, Safi Zakria, Nosa Ugiagbe, i rifugiati del Centro di Villa Quaglina di Asti
e con Bobò, Petra Magoni e gli attori della Compagnia Pippo Delbono
regia, soggetto e sceneggiatura Pippo Delbono
fotografia Fabrice Aragno e Pippo Delbono
montaggio Fabrice Aragno, Francesca Catricalà, Leonardo Ottaviani
musiche Piero Corso, Antoine Bataille, Enzo Avitabile, Petra Magoni, Ilaria Fantin, Nicola Toscano
una produzione Stemal Entertainment con Rai Cinema – Ventura Film, Snaporazverein, Les Films du Fleuve
Film riconosciuto di interesse culturale con il contributo economico del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Direzione Generale Cinema – in associazione con Arte France – La Lucarne
in collaborazione con Do Consulting & Production
con la partecipazione di Alce Nero
vendite estere Doc & Film