GILDA TENTORIO | Domenica 9 settembre si è conclusa la XXI edizione del Festival L’ultima luna d’estate. Appuntamento al tramonto per La signorina Felicita ovvero la Felicità (Produzione Teatro della Caduta), presso la Cascina Bagaggera (La Valletta Brianza), dove ci sarà servito anche uno squisito aperitivo bio. Fra abeti e colline verdi, un cielo striato di porpora, la luce cade come un pulviscolo dorato e poi si allunga in ombre più cariche. Una tavolozza che sembra fatta apposta per la poesia “crepuscolare” di Guido Gozzano.
Un intreccio di suggestioni e citazioni dai testi gozzaniani, ricamato su un tessuto di sommessa malinconia, complice l’impeccabile recitazione di Lorena Senestro, che è anche autrice del testo, e sa restituire la musicalità dei versi semplici e raffinati, intercalati dal dialetto torinese (cfr. intervista). L’atmosfera d’antan è sottolineata dal pianoforte del baffuto Andrea Gattico, che canta in falsetto motivi da varietà e suona marcette d’altri tempi, temi da carillon o valzer.
Tutti ricordiamo il poemetto di Gozzano trapunto di ironia dedicato a Felicita, fanciulla incolta, acqua e sapone, perla genuina di un mondo provinciale lontano dal gretto materialismo di città, che rovina gli ideali e la poesia. Guido, intellettuale malato nel corpo e nell’anima, vede in lei un approdo di pace, un miraggio di felicità inattingibile.
“Il grande imbalsamatore” Gozzano imprigiona, come in una fotografia seppiata, un passato sovraccarico di ninnoli e suppellettili (le “piccole cose di pessimo gusto”), rivelandone il palpito estetico di malinconia. Vill’Amarena, «odore d’ombra! Odore di passato! / Odore d’abbandono desolato!», è la grande casa polverosa dove Felicita è per così dire intrappolata, nella vana attesa del ritorno di Guido.
La creatura di inchiostro rivendica ora un ruolo da protagonista, sismografo emozionale di quel mondo del tempo che fu, sintesi dell’intera poetica di Gozzano. Per indicare il senso di oppressione i mobili di scena sono un tavolino tondo e una sedia “fuori scala”, altissimi. C’è poi una cornice vuota, che diventa il quadro della Marchesa e l’ovale dell’abbaino da cui si guarda il Mondo, «quella cosa tutta piena di quei ‘cosi’ / con due gambe». Ma appunto, è vuota, e inquadra cioè l’assenza. Infatti il monologo è rivolto a un Guido assente. Felicita rievoca il passato, le visite dei notabili al padre, quando lei da brava figlia offriva tè e liquori, un gesto reiterato all’infinito, la gentilezza si rovescia in affettazione, insofferenza, trattenuta ripulsa, frenesia, ed ecco tazze, cucchiaini, bicchieri, rovinare a terra.
Felicita sa anche essere civettuola, una malizia subito cancellata dall’ironia, che mostra lo stridore e il grottesco. Con levità e un trapasso raffinato, Felicita, personaggio di carta e quindi “finto”, mentre svela la simulazione del proprio candore («fingo per piacere a te»), rivendica la propria capacità mitopoietica: «sono io che ti ho dato le parole». Il vortice dei pensieri continua, in un andirivieni di ricordi, momenti rivissuti e pause meditative. Sola, assediata dal vuoto e dall’assenza, Felicita chiede un ultimo bacio e conclude: «ecco la morte e la felicità», un ossimoro aggraziato e greve di malinconia. «Una commozione deliziosa», sintetizza una signora accanto a me.
Trasferimento a Casatenovo, presso la Cascina Rancate. Anche qui il pubblico si sente come abbracciato dalle mura rustiche, in mezzo a una campagna strappata all’oblio e ai rovi per scommettere sull’agricoltura bio. In questo scenario abbiamo visto in anteprima un lavoro che sarà presentato in forma definitiva a Milano (Teatro della Cooperativa) il prossimo novembre: Bartleby, regia di Renato Sarti e interprete principale Luca Radaelli, che è anche il “papà” del Festival Ultima Luna. Dunque, per ora non vi daremo troppe anticipazioni, ma vi consigliamo di non perderlo.
Una prova d’attore intensa per Radaelli, capace di catturare per più di un’ora la platea con la variabilità di accenti e tonalità. Interpreta l’avvocato che è narratore dello splendido racconto di Melville: contegno compassato da gentleman, redingote, cappello, bastone da passeggio. È un uomo stimato e di successo, con l’ufficio in Wall Street, ma ha l’urgenza di raccontare la storia dello scrivano che gli ha sconvolto la vita. Il narratore tenta di restare nei confini della misura, dell’equilibrio e del buon senso, ma al di là di questo perimetro razionale tutto è grossolano, eccessivo, a tratti comico, anche se necessario per oliare il meccanismo della macchina burocratica: grazie alla modulazione della voce o a marcature gestuali, Radaelli anima con perizia la giostra di figurine minori.
La lingua (la traduzione è di Radaelli) è un segnale: scorre in articolate volute che cercano di tenere insieme un ordine faticosamente raggiunto, ma a poco a poco le strutture si sfrangiano e si spezzano, per l’ingresso di un elemento stridente, la strana figura di Bartleby (Gabriele Vollaro): dedito al suo lavoro con zelo e precisione, quieto ma irriducibile nella sua testarda ossessione, riassunta dal celeberrimo «Preferirei di no». Complesso è il percorso emotivo dell’avvocato, la cui rabbia si stempera in un senso di disagio e quasi di soggezione verso la «pallida alterigia» dello scrivano, e poi la pietà si trasforma gradualmente in repulsione: «quando si scopre che la compassione non può portare soccorso, allora il buon senso se ne sbarazza», ci spiega, e sembra rivolgersi ai nostri tempi difficili. Si mostra paziente e amichevole, ma Bartleby il solitario non si smuove dai suoi propositi e la sua ribellione scivola in un’ermetica apatia, incomprensibile a tutti. Il narratore, divorato dal senso di colpa, non ha il coraggio di prendere decisioni definitive e lascia agli altri il compito di internare il povero Bartleby. Cercherà di capire la sua «pallida disperazione» quando ormai è troppo tardi. Una parabola attualissima sulla forza del dire no, ma anche sull’ipocrisia, l’indifferenza, il senso dell’umanità.
Tempo di chiusura e tempo di bilanci per il Festival. Il trend è molto positivo e i numeri parlano chiaro: circa 3500 biglietti venduti, presenze in crescita per singolo evento. I dati confermano una “fame” di teatro che non ti aspetti: lo spettatore non cerca solo l’occasione per immergersi in una bella cornice paesaggistica, ma segue la programmazione con interesse e ne apprezza le scelte. Accanto ai sold out per i grandi nomi (Ascanio Celestini, Bebo Storti, Debora Villa), riscuotono successo le iniziative dedicate ai piccoli e alle famiglie, e stupisce l’affluenza a spettacoli serali di compagnie provenienti spesso da altre regioni e quindi poco note sul territorio. Un esempio fra tutti: 180 irriducibili sono accorsi al Chiostro San Giovanni di Perego per Il Controllore degli Omini, di lunedì, dopo una giornata fredda e piovosa che non invogliava certo a uscire.
Chi sono i frequentatori di questa XXI edizione? C’è il curioso attirato dalla novità, l’affezionato che ritorna, l’ “esperto” che si è documentato. Ma c’è anche una categoria di “conquistati” dalla diversità e unicità dell’evento, come quel signore che mi confessava: «Mi sento più a mio agio qui sotto le stelle, che sulle poltrone di velluto, in un teatro chiuso. E poi, gli attori sono più vicini». Da un lato quindi la familiarità di un luogo dove ad esempio il gatto della corte viene a strusciarsi tra le gambe degli spettatori, e dove ci si può fermare a chiacchierare con i teatranti. C’è inoltre la consapevolezza dell’unicità dell’evento, come sottolineano anche attori e registi: la scenografia naturale regala libertà ma pone vincoli, e dunque occorre adattare lo spettacolo, dargli un “abito” nuovo.
Non a caso in esergo al programma di quest’anno si leggeva una bella frase dello scrittore vicentino Luigi Meneghello: «Il piano inferiore del mondo ha un orlo di monti celesti ed è colmo di paesi». La Provincia, con le sue piccole grandi storie, è terreno fertile per seminare un modo diverso di fare cultura. Arrivederci alla XXII edizione!