MATTEO BRIGHENTI | Il nome della violenza è l’indicibile delle sue atrocità. Abusi, minacce, sevizie: null’altro che un gioco, uno scherzo. A chi fa il male pare di non fare niente di male. La colpa, semmai, è del debole se è debole. Il mostro, dal canto suo, gli impone solo la costrizione della propria realtà: stare a regole, istruzioni, ordini giusti e, per lui, anche terribilmente divertenti. Una contraddizione in termini brutali, un ossimoro di libertà e ricatto indagato, sul piano privato e morale, da Circeo, il massacro diretto da Filippo Renda, e, su quello politico e sociale, da Gli sposiromanian tragedy di Frosini / Timpano. Due spettacoli visti di recente, ingegnosi e feroci, in bilico spasmodico fra cronaca e Storia, tragedia e farsa.

Circeo, il massacro - Filippo Renda - foto Sara Meliti
Circeo, il massacro foto Sara Meliti

La scena di Circeo, il massacro, in prima nazionale al Teatro Manzoni di Calenzano, Firenze, è un asettico interno, tipo anni ’70. Un divano e una poltrona bianchi, un tavolino con un telefono, sono la casa al mare dei genitori di Carolina (Arianna Primavera) a San Felice Circeo, in provincia di Latina: qui intende passare le vacanze con il suo Leandro (Luca Mammoli).
L’atmosfera è sospesa, la tenda-fondale in PVC trasparente dà alle quattro mura un tono da esperimento in laboratorio. L’orologio, d’altronde, non scorre fra il 29 e il 30 settembre 1975: asseconda l’immaginazione di Donatella Colasanti. Avendole negato il diritto all’oblio, l’unica sopravvissuta al rapimento e alle torture di Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira cerca, come può, di difendersi dal peso assillante del ricordo, dall’obbligo morboso della memoria. L’intenzione sottesa al lavoro, spiega Elisa Casseri, autrice con Renda del testo, è «raccontare come la violenza arrivi nella vita, nel corpo e nella testa di tutti noi, anche quando neghiamo a noi stessi che stia succedendo o che sia successo. E la violenza arriva, sottile, nutrendosi dei ricordi e dei particolari del massacro, perché è Colasanti che la sta immaginando, cercando di camuffarla da altro».

Inaspettati, bussano alla porta Luciano (Michele Di Giacomo) e Matilde (Alice Spisa). Una coppia che è l’opposto della prima: tra Leandro e Carolina è lei ad avere l’ultima parola, tra Luciano e Matilde, invece, è lui. Si presenta come un amico d’infanzia, ma Carolina non lo rammenta. Tuttavia, non può averlo dimenticato, non le è permesso, in un certo senso, come non lo è stato nemmeno per Donatella Colasanti.
Luciano insinua il ricordo nelle frasi della donna e il dubbio nelle orecchie degli spettatori. Sempre accomodante, mellifluo, lascia parlare l’interlocutrice, altrimenti indica eventi qualunque, circostanze generiche, ammantate ugualmente di affetto, leggerezza, sensibilità. Ogni cosa sembra vera, o almeno plausibile, perché Di Giacomo parla con tutta la naturalezza del mondo. E se chiede, non lo fa perché non conosce la risposta, ma perché intende richiamare e rinnovare la concretezza della memoria. L’effetto è il medesimo dell’intervista con Colasanti di Enzo Biagi, riproposta in audio con le sole domande del giornalista.
Circeo-il-massacro-2Le linee prospettiche di Circeo, il massacro convergono tutte su Luciano e, in parte, su Matilde, che ne è quasi la controfigura, dipendendo da lui a tal punto da aver fatto propri anche i ricordi del marito. La tensione è continua, ma ancora sottile, monta sotto traccia, aiutata dal fatto che si capisce subito che Leandro e Carolina non hanno gran modo di difendersi. Non tanto perché sono di un’altra estrazione sociale, istruzione e quant’altro (al pari di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez nei confronti di Guido, Izzo e Ghira), ma soprattutto perché sono una coppia incrinata dalla frustrazione. Una breccia che diventa frana quando i due venuti da fuori propongono di giocare a Caedem, il loro “gioco di società”. Consiste nel mandare a segno più “attacchi” possibili, ossia far fare all’avversario ciò che non vuole, senza che se ne accorga. La “difesa” scatta se si riesce a prevedere chi e come attaccherà. La vittoria regala un punto, la sconfitta una punizione.
È a questo punto che Renda e Casseri inchiodano le dinamiche di branco a una sconvolgente, asfissiante partitura psicologica. Una volta entrati, non se ne esce più. ‘Caedes’ in latino sta per ‘massacro’. ‘Caedem’ è l’accusativo, il caso che rappresenta il rapporto diretto dell’azione da chi la compie a chi la subisce. L’obiettivo da massacrare è chi, in un dato momento, è inerme. Lo si colpisce ridicolizzando le sue fragilità, lasciandolo solo e infine distruggendone l’immagine agli occhi del gruppo, che detiene il vero potere: assegnare torti e ragioni.
L’attacco è fatto quindi per piacere agli altri e per il piacere degli altri. Non è percepito affatto come un atto violento. Anzi, come una naturale conseguenza dell’alto rispetto delle regole in campo. Anche se il massacro, per chi (sta con chi) vince è comunque un gioco.

Gli Sposi - Frosini, Timpano_ foto Franco Rabino
Gli Sposi foto Franco Rabino

È altrettanto giocherellone il Nicolae Ceaușescu di Daniele Timpano ne Gli sposi scritto da David Lescot: un bambinone, un burlone, fondamentalmente un buffone. Il carattere, il temperamento, il valore del politico e dittatore rumeno dal 1974 al 1989, finiscono tutti in -one. L’incremento peggiorativo, l’alterazione di Ceaușescu, sono rappresentati dall’ideologia comunista e, in particolare, dalla sete di riconoscimenti della moglie, Elena Petrescu, impersonata da Elvira Frosini.
Sul palco deserto del Teatro delle Arti di Lastra a Signa, Firenze, con soltanto due sedie e due microfoni (scene e costumi di Alessandro Ratti), i Frosini / Timpano danno corpo e voce, amore e rovina, a una specie di satirico e satanico Discorso del re.
A differenza del film di Tom Hooper, Giorgio VI qui è una barzelletta di leader autoincoronatosi Conducător (Condottiero) e Geniul din Carpați (Genio dei Carpazi), mentre il logopedista Lionel Logue è, piuttosto, una Lady Macbeth maligna e inacidita.
Sono quasi sempre frontali al pubblico, come in una foto di regime. Si prendono per mano, si baciano, quando si sposano, quando hanno i figli, ma per il resto rimangono su piani distinti: lui, vuota marionetta, in proscenio, lei, burattinaia calcolatrice, sul fondo. Entrambi al rispettivo microfono, l’uno rivolto alla pancia del popolo, l’altro alla mente del capo.
È un “ticket dell’orrore” che, da vicino, non si incontra quasi mai, se non nelle parole, nei racconti. L’ascesa e il precipizio sono il loro discorso sul potere, allo specchio deformante e rivelatore della scena. Il teatro è una sorta di biografia dall’Ade, in cui Daniele Timpano ed Elvira Frosini, sposi per la vita della morte almeno sin da Zombitudine, incontrano i fantasmi della Storia. Ovvero, le nostre ombre.

Nicolae è una nullità e, difatti, si diverte con nulla. Non ha contezza del peso delle sue decisioni, manca poco che non sappia neppure perché mette un piede avanti all’altro. Per parte sua, Elena sa esattamente cosa fare, ciononostante sconta l’avvilimento di dover ricorrere a quell’«utile idiota» per fare carriera. È una donna e anche il comunismo, che pur professa l’uguaglianza, è affare da uomini.

Tanti sono i nomi, le date e i dati nel copione di Lescot. Il suo non-tempo è la continuità cronologica di episodi sulla scacchiera della banalità e stupidità del male. Lo sguardo è interno, la visione è delle e sulle vicende dei coniugi Ceaușescu. Manca lo scatto critico in avanti tipico dei testi di Frosini / Timpano, la presa di posizione sul passato rispetto al presente, e viceversa. Solamente nelle disarmanti, ultime sequenze, forma e contenuto de Gli sposi vanno oltre i limiti scenici e i confini narrativi. Arrivando sparati a noi in sala.

Gli Sposi - Frosini, Timpano - foto DIANE_ilariascarpa_lucatelleschi
foto DIANE | Ilaria Scarpa | Luca Telleschi

Finora grande assente, eccezion fatta per le urla di incitamento di Elena al marito, il popolo si risveglia dal suo torpore ideologico con uno sparo sulla folla. La voce comiziante di Nicolae risuona a vuoto (presto a morto), quanto le sue promesse di un radioso avvenire, che non ascolta più nessuno. La fuga dei Ceaușescu, fumettistica e disastrosa, apre alla zampata d’ingegno per la messinscena del processo dell’esecuzione finale.
L’illuminazione calda, uniformante, si direbbe profondamente comunista, che abbatteva, annullava differenze e diversità, si ritorce contro di loro (disegno luci Omar Scala). I toni della bandiera rumena, il tricolore blu, giallo e rosso, scolora in un quasi neon da obitorio. Il dibattimento è riprodotto in audio, con la voce dell’accusa (Valerio Malorni) e le loro registrate, mentre Timpano e Frosini, seduti a fianco, guardano fissi il pubblico. Cioè, là dove sta avvenendo il giudizio, nel “tribunale volante” militare tenutosi in una scuola.
I due si limitano a descrivere i gesti che Nicolae ed Elena Ceaușescu devono aver fatto. Sono rassegnati e, insieme, un poco increduli, come se chiedessero: abbiamo/hanno fatto tutto per voi e voi adesso ci/li ripagate così? Il dittatore, adesso, vale quanto l’attore, la folla quanto gli spettatori, di fronte allo “show” di una camera di consiglio di appena 55 minuti, che li condannò a morte per fucilazione il 25 dicembre, con l’accusa principale di genocidio per la strage di Timișoara (poi rivelatasi un falso).
Cadono a terra, ma il video proiettato alle loro spalle racconta una fine diversa dal riscatto nazionale auspicato dalla diffusione del processo e delle foto dei cadaveri, trasmessi da allora sulla televisione rumena ogni Santo Natale. La musica è cambiata, ora ci sono gli O-Zone, quelli di Dragostea din tei. Non si traducono più le canzoni straniere, come si faceva con Cuore matto di Little Tony oppure Tanti Auguri di Raffaella Carrà. Nondimeno, si vedono le strade di Bucarest invase dai medesimi brand che hanno trasformato le nostre città in un unico, sconfinato shopping center.
Il capitalismo globalizzato ha messo il marchio di Conducător, Geniul din Carpați, su tutto quello che vogliamo o possiamo comprare. Perfino il popolo, un giorno in rivolta per la sua identità, non ha avuto scampo.

 

CIRCEO, IL MASSACRO

di Filippo Renda, Elisa Casseri
regia Filippo Renda
assistente alla regia Matteo Gatta
con Michele Di Giacomo, Alice Spisa, Arianna Primavera, Luca Mammoli
disegno e allestimento luci Andrea Narese
produzione Il Teatro delle Donne, Idiot Savant
in collaborazione con Riccione Teatro, Associazione DIG, Rete degli archivi per non dimenticare, Corte Ospitale, Alchemico Tre

Teatro Manzoni, Calenzano, Firenze
9 marzo 2019

 

GLI SPOSI
romanian tragedy

regia, interpretazione e riduzione Elvira Frosini e Daniele Timpano
testo David Lescot
traduzione Attilio Scarpellini
disegno luci Omar Scala
scene e costumi Alessandro Ratti
collaborazione artistica Lorenzo Letizia
assistente alla regia Camilla Fraticelli
voce off Valerio Malorni
progetto grafico Valentina Pastorino
uno spettacolo di Frosini / Timpano
produzione Gli Scarti, accademia degli artefatti, Kataklisma teatro
con il sostegno di Armunia, Spazio ZUT!, Teatro di Roma, Asti teatro
nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

Teatro delle Arti, Lastra a Signa, Firenze
15 marzo 2019