DAVIDE NOTARANTONIO | “… vediamoci al Siciliano, lo dovresti vedere, è lì vicino alla metro di Numidio Quadrato”.
Avrei dovuto raggiungere la Compagnia Garofoli/Nexus al CSOA Spartaco, zona Quadraro di Roma, ma Laura Garofoli telefonandomi mi invita a pranzare in compagnia sua, di Nexus (Giuseppe Gatti) e di Nedzad Husovic, così li aspetto. Arrivano dopo aver concluso le prove di Rautalampi, spettacolo in preparazione di cui porteranno uno studio per Panorama Roma, all’Angelo Mai, lunedì 15 aprile.
Li incontro dopo averli conosciuti a Napoli, per la tournée di Giorgio conclusasi all’Ex OPG Occupato Je so’ pazzo, uno spettacolo potremmo dire “pensato” per i centri sociali. Ma più in generale per spazi intimi: Nexus, da solo in scena, racconta in una performance la sua vita, l’infanzia e l’adolescenza a Terni e il rapporto con il padre, venuto a mancare prematuramente a causa di un tumore. In Giorgio convivono codici diversi – materiale multimediale, riprodotto su di un televisore a tubo catodico, musiche e registrazioni, danza e recitazione – amalgamati in un continuum lineare: un registro stilistico che accompagna tutti i lavori della compagnia, assieme alla loro missione artistica e politica.
Per fare una citazione al contrario, se «prima avevano la mia attenzione, ora hanno la mia curiosità». E così ci siamo incontrati a Roma, dove vivono e lavorano, per conoscerci e parlare di cosa, secondo loro, dovrebbe essere il teatro.
Nel 2012 c’è stato il vostro primo incontro, nel 2013 il primo spettacolo, L’Ombra, e nel 2017 il vostro primo premio con Giorgio. Quali sono gli “antefatti”, individuali e condivisi, di questo percorso artistico?
NX: A 14 anni, a Terni, ho iniziato a fare break dance e poi a studiare teorie del cinema a Scienze della formazione. Trasferitomi a Roma ho proseguito entrambi i percorsi, come street dancer e come teorico del cinema iscrivendomi alla magistrale del DAMS di RomaTre. In quel periodo ho conosciuto Laura ed abbiamo iniziato a lavorare insieme quasi fin da subito.
LG: Io mi sono approcciata al teatro quando avevo 14 anni, a scuola, e ho proseguito dopo il liceo all’accademia Ribalte di Enzo Carinei prima, poi all’accademia Corrado Pani, integrando la mia formazione con vari seminari (ricordo soprattutto quelli di Jean Paul Denizon, Maurizio Ferrini, Roberto Latini). Ho lavorato per cinque anni con la Compagnia Mauri Sturno, ma dentro di me c’è sempre stata la voglia di lavorare più per ciò che per me è l’essenziale, l’urgente.
Quando poi ho conosciuto Giuseppe abbiamo deciso di unire i due background: già dai primi lavori abbiamo iniziato a cercare di capire come potevamo coniugare parola, corpo, video all’interno di uno stesso spettacolo, non segmentandoli in tre momenti diversi ma intersecandoli all’interno di un unico racconto che avesse continuità.
NX: Poi dal 2016 ci siamo costituiti come associazione e abbiamo avviato diversi percorsi. Quello che ha raccontato Laura è quello più prettamente artistico e di produzione; poi c’è quello di ricerca: i nostri lavori partono sempre da fonti teoriche, di tipo filosofico, di tipo cognitivo e cerchiamo come compagnia e come associazione di promuovere situazioni in cui si possa fare ricerca, come momenti di training o analisi di spettacoli.
Infine c’è la formazione, svolgiamo dei laboratori di teatro sia nelle scuole sia per adulti amatori, e dall’anno scorso abbiamo avviato un training per performer in cui ci si addestra alle abilità che secondo noi dovrebbe avere un performer. E ci si chiede anche che cos’è un performer.
Una domanda quanto mai attuale, nel nostro teatro, in cui, oramai i concetti di ‘attore’, ‘interprete’, ‘performer’ son quanto mai fluidi e, spesso, fraintesi.
NX: Per noi il performer è colui che ha la capacità di lavorare in un ambiente drammaturgico con il corpo, con la voce e con la sua presenza: il performer è colui che offre la sua presenza in modo globale. Poi ci sono diverse declinazioni; un performer come Antonio Rezza è diverso da uno come Jan Fabre, ed è diverso dal lavoro che abbiamo fatto noi in Giorgio.
La particolarità di Giorgio è di essere un lavoro pensato per essere rappresentato nei centri sociali, così come quasi tutte le vostre attività. Vi sono motivazioni politiche o sociali che vi spingono a muovervi per questi contesti?
LG: I centri sociali sono i primi luoghi che ci hanno accolto: cinque anni fa cercavamo uno spazio per fare le prove e qualcuno che potesse sostenere il nostro progetto, e abbiamo incontrato i ragazzi dello Spartaco di Roma.
Poi c’è, ovvimente, un motivo politico-culturale legato al nostro concetto di teatro: qualcosa che possa essere accessibile a tutti, come forma di resistenza, come luogo di formazione di un’ideologia politica. Con i ragazzi di Spartaco abbiamo iniziato a organizzare rassegne di teatro indipendente, in cui teniamo anche dei laboratori teatrali per adulti professionisti.
NX: Sempre nel periodo in cui ci siamo conosciuti abbiamo lavorato per il Collettivo Communia, a San Lorenzo (quartiere di Roma, n.d.r.), abbiamo avviato i primi esperimenti di performance all’interno di azioni politiche e manifestazioni, e i primi laboratori teatrali.
Volevamo ragionare fuori dalle logiche di mercato e avvicinarci a quel tipo di sperimentazione dura che ha visto molto attivi i centri sociali di Roma negli anni passati. Ci siamo accorti che una formula vincente è un teatro che sia popolare, nell’accesso, ma che allo stesso tempo sia creativo e sperimentale. Deve parlare al popolo, non con un linguaggio basso ma favorendo una media al rialzo. E deve essere, poi, un luogo di attraversamenti, incursioni, quindi flessibile, educativo.
Di certo questa declinazione del teatro sembra essere la più adatta al tempo presente, eppure non è scontato che un teatro di questo tipo sia praticato. Quali feedback, tra pubblico e artisti, riscontrate? E come vivete questo essere “fuori” il mainstream?
NX: Il pubblico sì, perché quando vede la cura, la qualità, qualcosa di diverso rispetto al mainstream e a tutto ciò che sono abituati a fruire, risponde positivamente.
Per quanto riguarda gli artisti, il discorso è più complesso. La storia dimostra che grandi esperienze di lotta o di rivendicazione politica da parte di artisti o di collettivi in Italia sono fallite. Siamo tutti all’interno del mondo del mercato, per cui riuscire a coinvolgere delle compagnie in un processo che va un po’ contro o vuole minare determinate logiche è molto difficile.
Per quanto riguarda il rapporto con il mainstream abbiamo cercato di coniugare i due aspetti: nel periodo storico in cui viviamo slegarsi da qualsiasi logica di profitto o di mercato, andare nella nicchia, schiacciare le forme dell’arte sull’azione politica secondo me è inefficace. Inoltre, per realizzare molti dei progetti che abbiamo in mente, ci serve un sostegno. Vorremmo cercare di compiere il “salto” e passare a un circuito più nazionale ma senza perdere il contatto con il territorio e con la nostra natura “politica”.
Oggi portiamo spettacoli in teatri indipendenti e facciamo laboratori per un centro sociale, magari domani andremo in scena in un teatro istituzionale. Di forma e codici cambieranno in ogni contesto, ma come affermano i Wu Ming – un collettivo di scrittori che nasce dall’esperienza delle autogestioni, dei centri sociali e della sinistra radicale, ma che è riuscito a pubblicare con Einaudi – «è sempre per uno scopo giusto e serio». La forma non è mai un vezzo che tu ti dai per lanciare il marchio, ma qualcosa che se in quel contesto è efficace, in un altro contesto non può esserlo. E io devo essere consapevole, come performer e drammaturgo, con quale pubblico vado a parlare di volta in volta.
Giorgio è sicuramente efficace nel suo contesto, ma si avvicina molto a una tendenza che ho notato essere in crescita sia nelle produzioni che nel gusto degli spettatori: lo spettacolo “autobiografico”. Sembra che, negli ultimi tempi, il pubblico sia più affascinato a storie di vita vera nel teatro contemporaneo – basti pensare al successo di Albania Casa Mia, di Aleksandros Memetaj, o di Amleto Take Away che, seppur non totalmente autobiografico vira fortemente in questa direzione. Come vi spiegate questa tendenza?
LG: Rispondo da spettatrice. In questi spettacoli, diciamo così, “autobiografici” si trova un’urgenza che purtroppo si è persa negli spettacoli più canonici. Quando una storia coinvolge realmente il performer ti rendi conto di quanto sia urgente il racconto che ti sta proponendo, quindi anche il tuo coinvolgimento è maggiore.
Non deve trattarsi necessariamente di autobiografia; nel momento in cui un performer, attore sceglie di abbracciare un tema, una lotta, un racconto, e lo sceglie in quanto autore, in quanto produttore dello spettacolo, la differenza si percepisce.
NX: Io ti do una spiegazione più filosofica. Secondo me perché il cosiddetto “spettacolo autobiografico” e il teatro performativo rimettono in mostra al pubblico la cosiddetta aura, quella di cui parlava Benjamin: la qualità del hit et nunc, qui e ora. Ma non è tanto l’oggetto in sé ad avere l’aura, quanto l’esposizione che tu ne fai. Quando, in Giorgio, passano i filmini di mio padre sul tubo catodico tu senti la sua presenza perché emana un’aura unica, così che anche gli spezzoni dei film mainstream – i film della mia infanzia, legati dal rapporto con mio padre – assumono un altro senso; non solo, ma anche i suoi vestiti – usati nella messinscena – e il mio stesso corpo hanno un’aura per il solo fatto di essere presenti lì, assieme allo spettatore.
La qualità della presenza è fondamentale per uno spettacolo autobiografico, perché rende la presenza stessa la vera performance.
Rautalampi non è una storia autobiografica, pur essendo tratto da storie di vita vera. Quale tipo di approccio drammaturgico e scenico avete avuto per questo lavoro?
NX: Rautalampi nasce da un’esperienza reali. Racconta l’infanzia ai margini attraverso la storia inventata di una bambina rom, Licia, che inizia a fare pugilato. Per raccontarla c’è Pio (Nedzad Husovic), le cui memorie – vere – del campo rom di Salone, qui a Roma, sono state fondamentali per la scrittura scenica. E poi c’è Laura, che oltre a essere attrice è anche una boxer amatoriale, a interpretare la protagonista. Raccontiamo anche la storia dello spettacolo stesso, come lo abbiamo costruito, quali sono state le fonti: e queste fonti poi le esponiamo, prendendole dall’archivio che abbiamo creato durante la lavorazione dello spettacolo.
LG: È uno spettacolo che è nato l’anno scorso per Scenario Infanzia e con cui siamo arrivati in finale. Tutto il lavoro di raccolta materiali, di ricerca, di laboratori è continuato in quest’anno, per cui abbiamo tanto adesso da cui attingere e mostrare. Abbiamo tenuto un laboratorio molto interessante con delle adolescenti rom che frequentano un centro diurno a Roma, il che e mi ha aiutato come attrice per ridare voce al personaggio. Sono ragazze che vengono viste solo e soltanto in un modo, io voglio cercare di mostrare invece quanta diversità ci sia all’interno di una stessa cultura.
Quindi uno spettacolo che non è mai definitivo?
LG: Per adesso sicuramente non lo è.
NX: La vorremmo conservare questa dimensione aperta, con la possibilità poi di costruire dei finali alternativi con altre classi di ragazzi o ragazze con cui lavorare. Mettiamo in scena la problematica di creare uno spettacolo sull’infanzia ai margini, ci avvaliamo quindi di un linguaggio post-drammatico e non puntiamo a una presa di posizione sull’argomento. Deve essere un dispositivo che permetta a questi ragazzi di incontrarsi e di esprimersi attraverso una drammaturgia.
Dopo questo studio per Panorama, in cosa sarà coinvolta la Compagnia Garofoli/Nexus?
LG: Nell’allestimento di tutta Rautalampi, vorremmo allestirlo a luglio per averlo pronto il prossimo anno.
NX: Poi stiamo continuando – è già iniziato ma ci terrà impegnati per tre anni – un progetto di laboratorio di teatro nelle scuole materne ed elementari nella periferia di Roma, a Rebibbia. Infine, stiamo preparando una performance che si chiama L’arco della perdita, in cui scerchiamo di inserire la dimensione della performance più nel linguaggio della danza e un po’ meno in quello della parola.