MATTEO BRIGHENTI | La caparbietà è la forza di esserci rimanendo se stessi. Nonostante tutto: l’oscurità, la crisi, la malattia. La danza di Alexandre Fandard e di Marco Chenevier è un atto di resistenza artistica al cadere e ricadere quotidiano nella freddezza dell’indifferenza.
Sul palcoscenico del Teatro Cantiere Florida di Firenze, all’interno del Festival Fabbrica Europa 2019, Quelques-uns le demeurent e Quintetto si fanno carico di risollevarci dal sentire dentro il vuoto imperante del fuori. Attraversano lo specchio perverso che dice è così perché deve essere così e in nessun altro modo: il corpo, quando si apre all’incontro, svela la diversa ricchezza che c’è in ognuno di noi.
Un bagliore intermittente diffonde una figura di spalle, la testa appena di tre quarti. Poi, attorno a un tavolo, la luce scopre un braccio dopo l’altro. Fandard parla un urlo trattenuto, mentre con le mani cerca di asciugare le lacrime della notte che gli nascondono la pelle. Non ha un volto: ha una maschera di buio, che appare e scompare. Vive, per adesso, ancora di vita riflessa, quella che s’infrange contro l’arredo di una specie di interrogatorio muto da polizia dell’anima.
Qualcuno lo rimane recita il titolo della prima opera coreografica del giovane francese, danzatore autodidatta di hip-hop free style. Viene da una citazione di Samuel Beckett: «Tutti siamo nati pazzi. Qualcuno lo rimane». Nello spessore dell’oscurità, al confine tra ragione e follia, questa presenza d’uomo prende le parole e le rimanda nei suoni e nei gesti di una lotta di sopravvivenza, che unisce la danza e la performance per mezzo del teatro fisico. È una prigione senza sbarre, claustrofobica, asfissiante. La foggia è il pensiero tagliente di Michel Foucault, il documentario verità di Mario Ruspoli Sguardo sulla follia, La festa prigioniera, i dipinti contrastati e contrastanti di Caravaggio, di Francis Bacon, il cinema perturbante di David Lynch.
Inquieta vedere Alexandre Fandard su una sedia qualsiasi e capire che non sa dove si trovi, né perché sia lì. Proprio lui. Da solo. A chiedere spazio alla tenebra ed esserne ricacciato indietro, tale e quale a un’ombra viva che si cancella. Sembra incarnare l’artista oppure qualunque altro “diverso” di fronte alla norma, alla Legge della società. In questo senso, allora, Quelques-uns le demeurent assume le sembianze di un ritratto radicale e allucinato del fare arte e di qualsivoglia “pazzia” come spinta di un processo creativo contrario all’isolamento, al confinamento della “diversità”. È lo scontro personale di uno, certo, ma è per la dignità di tutti. O, almeno, di tutti quelli che non intendono scomparire prima del tempo.
Nel pluripremiato Quintetto il buio, la prigione senza sbarre, sono i tagli alla cultura, alla ricerca e lo sfruttamento, non soltanto economico, accettato come normale nel mondo dello spettacolo. Chenevier si presenta, anche lui, solo sul palco. L’intenzione di dare un nuovo corso a un lavoro del 2008, un certo Montalcini Tanz, dedicato alle donne, alla scienza, e alla compianta Rita Levi Montalcini, deve fare i conti con la misera realtà degli attuali finanziamenti alla danza. È da solo, infatti, perché non è venuto nessuno della sua compagnia, a parte il tecnico, perché «gli italiani – scherza serio – sono abituati a non essere pagati».
L’ironia del coreografo, danzatore, regista e attore gioca subito sul filo del paradosso: per via della crisi non è possibile replicare quel presunto quintetto originario nato proprio in risposta alla crisi e alle maldestre decisioni della politica, all’epoca del Governo Berlusconi IV, come i tagli all’European Brain Research Institute, l’istituto di ricerca fondato dalla Premio Nobel per la medicina. Siamo il Paese dell’eterno ritorno dei problemi irrisolti: a distanza di decenni le cose non cambiano affatto (a quanto pare nemmeno per l’EBRI).
La povertà di mezzi non intacca, però, la solidità della motivazione. Un modo per “salvare” Quintetto esiste: coinvolgere attivamente il pubblico, facendolo diventare un co-protagonista, mettendolo alle luci, alle musiche e pure nella coreografia. Marco Chenevier ha un aplomb molto british nel dettare tempi e istruzioni, è inflessibile, ma con garbo; l’eleganza ne addolcisce il rigore. Si procede per tentativi, fallimenti, incomprensioni e non può essere diversamente: la messa in scena, adesso, è la sua stessa messa in prova.
Gli spettatori coinvolti e, attraverso di loro, tutti noi altri, toccano dunque con mano quanto l’impegno in palcoscenico sia complicato e faticoso. Lo scarto, che il lavoro sottolinea magistralmente, è che in una simile condizione critica il senso di ogni gesto, di ogni passo, di ogni scelta, viene percepito come un non-senso. Ridiamo e pure tanto, ma è un riso amaro, a pensarci bene. Perché qualcuno, al di sopra e al di fuori di queste pareti, ci ha privato di vedere e quindi conoscere la verità: non sapremo mai come doveva essere per davvero Quintetto, questo è solamente un esperimento ricostruito ad arte, una copia approssimata all’attuale “teatro povero”. È un ultimo, labile respiro dell’idea creativa.
Provarlo, comunque, non è come farlo, e viceversa. Quando la dimostrazione lascia il palco allo spettacolo “vero e proprio”, Chenevier danza, eccome se danza nei panni di Rita Levi Montalcini, mentre lascia nell’aria una scia di Borotalco, usato per farsi i capelli del colore di quelli della neurologa. Il gesto coreografico, prima scisso dal suo significato, viene riportato all’unità. E di quanto detto finora prende corpo e ritmo specialmente ciò che Chenevier non ha detto. Cioè, i suoi assoli, il vero nodo “originale” della partitura.
L’albatro di Charles Baudelaire ritrova l’ebbrezza del volo: l’immaginazione dell’artista è irriducibile nel momento in cui la sua arte si rivela nell’immediatezza del momento, del fatidico qui e adesso. In quegli istanti non interviene nient’altro, neppure uno spazio gestito da maestranze improvvisate, comicamente fuori controllo. Nient’altro che l’essere in ascolto di se stesso e in dialogo con la scena e per la scena. Tutte le cose, allora, vanno al loro posto, quasi per via di un pensiero magico.
L’esito di Quintetto, in definitiva, è la prova felice e intelligente che la necessità più importante di cui fare virtù è il sudore versato per la pienezza del rispetto delle proprie idee, della propria persona. E non si trova nella borsa o sulla scrivania di alcun politico. Per questo, non lo si può nemmeno tagliare.
QUELQUES-UNS LE DEMEURENT
messa in scena, coreografia e interpretazione Alexandre Fandard
sguardo esterno, assistenza alla messa in scena Mélina Lakehal
creazione luci Alexandre Fandard, Mélina Lakehal
creazione suono Noël Rasendrason & Alexandre Fandard
costumi Gwendolyn Boudon
sostegno e coproduzione Laboratoire des Cultures Urbaines et Espace Public du CENTQUATRE-Parigi
con il supporto di DRAC Ile-de-France vincitore di FoRTE 2018 (Région Ile-de-France), Étoile Du Nord (Parigi), Café de Las Artes (Spagna), Tremplin – Danse à tous les étages (scène de territoire danse)
QUINTETTO
Spettacolo vincitore del Be Festival – Birmingham 2015 | Inserito nella “Top 10 Comedy 2016” del quotidiano inglese “The Guardian” | Secondo premio del pubblico al Mess Festival – Sarajevo 2015 | Primo premio per la danza contemporanea al Sarajevo Winter festival – 2013 | Secondo classificato al Next Generation festival – Padova 2013
di e con Marco Chenevier
produzione Aldes e Tida (2013, con il sostegno di Mibact e Regione Autonoma Valle d’Aosta)
con il sostegno di MiBAC / Direzione Generale Spettacolo dal vivo, Regione Toscana / Sistema Regionale dello Spettacolo
Teatro Cantiere Florida, Firenze
24 maggio 2019