GILDA TENTORIO | Per il nome della compagnia hanno scelto “Stivalaccio”, a ricordare le origini modeste dei teatranti di un tempo, che calcavano scene rabberciate alla bell’e meglio nelle piazze, armati di passione ed estro inventivo. Ma c’è anche l’ironico riferimento allo Stivale italico, un’Italietta provinciale: le cose potrebbero andare meglio ma in fondo ci piace anche così.
L’avventura inizia nel 2012, a partire dalla condivisione di entusiasmo e anni di studio sulla Commedia dell’Arte, il teatro di strada e l’improvvisazione. Le energie creative alla base del progetto sono del vicentino Marco Zoppello (autore, attore e regista) e del toscano Michele Mori, a cui si affianca la quota rosa (Anna De Franceschi e Sara Allevi).
Come amano ripetere, portano in giro per l’Italia una “poetica teatrale” che mira a ridare vita all’anima forse un po’ dimenticata della Commedia dell’Arte, un ritorno alle origini che resta però ben ancorato nella contemporaneità. Non solo per i continui ammiccamenti all’oggi, ma anche per le sfumature del comico: trovi il cialtrone dei film all’italiana, l’effervescenza di Dario Fo, la delicatezza malinconica di Troisi, le gag alla Stanlio e Ollio. La coppia, antitetica ma non troppo, funziona: il veneto ha buon senso e aderenza alla realtà contingente; il toscano invece – con la sua leggerezza – spesso i guai li crea ma anche li risolve, con soluzioni sempre improbabili ma travolgenti.
Distanti dalla comicità sguaiata da cabaret che parla “alla pancia”, gli Stivalacci sfruttano un’ampia fenomenologia del riso: l’equivoco, l’iterazione, l’ironia, l’iperbole, il paradosso, il gioco linguistico e il plurilinguismo, la mimica, in un amalgama irresistibile e contagioso, senza mai scadere nel volgare.
Ma soprattutto riescono a coniugare due elementi in apparenza inconciliabili: improvvisazione (la caratteristica fondamentale degli spettacoli di strada) e un sapiente gioco metateatrale.
Don Chisciotte, Giulietta e Romeo e Il malato immaginario sono le opere della Trilogia di classici affrontata dalla compagnia, i protagonisti sono due figure di teatranti realmente esistiti nel XVI secolo, tali Girolamo Salimbeni di Firenze (interpretato da Mori) e il padovano Giulio Pasquati (Zoppello). Nelle mani dell’autore (Zoppello) diventano personaggi che cavalcano secoli e capolavori letterari: a fornire l’intelaiatura del canovaccio sono i numi tutelari Cervantes, Shakespeare e Molière. Non si fa parodia, ma, in tutti e tre i casi, si entra ed esce dal testo, frammentato, interrotto, irradiato in allusioni intertestuali, riflesso nella contemporaneità e infine sospeso. Perché il testo si fa pre-testo per un’altra operazione: mostrare il teatro mentre si fa, secondo un’intelligente cifra metateatrale, frutto di calibrature ed equilibri. Siamo lontani dai cerebrali espedienti pirandelliani: qui tutto ha una grazia leggera e popolare immediata e un’allegria inventiva che conquistano.
Infatti è impossibile non voler bene a questi affabulatori che cercano di sbarcare il lunario o addirittura, come in Don Chisciotte, di salvarsi la pelle (ne abbiamo parlato anche qui).
Catturata la simpatia, scatta un rapporto privilegiato di complicità con il pubblico che diventa in Don Chisciotte attore chiamato a recitare come destriero e garante del teatro e della sua salvezza perché l’applauso salva la vita dei due eroi; “le roi” nel Malato immaginario; oppure regista che dà istruzioni per la scena (con la proposta di cinque parole per imbastire una parte della commedia – e gli esiti sono sempre esilaranti).
Nella Trilogia si osserva una gradualità verso un maggior grado di sofisticazione. Il primo episodio, Don Chisciotte, muove da un messaggio profondo (il teatro salva la vita, l’utopia è vincente) e mostra i mezzi essenziali e potenti della comicità inventiva. In Romeo e Giulietta la costruzione narrativa è più curata nei dettagli, con l’innesto di un nuovo personaggio (la carismatica e incontenibile Anna De Franceschi nel ruolo di Giulietta), in un carosello sfrenato di trovate comiche. Meno frizzante è Il malato immaginario, che propone per i nostri eroi un balzo in avanti di un secolo, ingaggiati addirittura nella compagnia di Molière.
Il prologo (forse troppo prolisso) dispiega le premesse disperanti e la necessità del guizzo inventivo per sciogliere la nuova catena di guai: defezione della compagnia, incasso andato in fumo (causa scommessa sui combattimenti fra galline), assenza del re in platea e rifiuto di Molière di recitare.
Noi pubblico seduto in platea siamo spettatori perché assistiamo a sipario aperto al caos del dietro le quinte, ma diventiamo presto anche complici e co-attori, chiamati a “recitare” il pubblico del 1673, che scalpita e attende di vedere il Maestro; e la soluzione verrà proprio dal pubblico: se il re non è in sala, qualcuno “farà” il re! Basta prendere uno spettatore con il giusto aplomb, intabarrarlo in un mantello di finto ermellino, calcargli in testa una corona di cartone, istruirlo a dovere su un solenne dettato di francese maccheronico, e voilà, tutto risolto: lo spettacolo se commènc.
Vediamo quindi stralci della commedia di Molière, con una forte accentuazione dei tratti caricaturali: Argante ipocondriaco, il dottor Purgone e dottor Diarroichus, gretti corvi del malaugurio, la mogliettina tutta moine e lusinghe interessata solo alla firma del testamento; e poi l’astuta serva Tonina che si fa deus ex machina per sciogliere le derive tragiche; Cleante giovane fatuo, un promesso sposo inetto che il padre manipola come un automa.
È una giostra divertita di travestimenti e doppi ruoli. Il tutto si complica per la sovrapposizione fra le vicende personali di Molière (Stefano Rota) e figlia (nella pièce e anche nella realtà, Sara Allevi), piombata dal convento per votarsi alla vita sulle scene.
La trama del capolavoro si smaglia, si inarca in imprevisti comici, si interrompe. L’intimità del cuore finisce per accavallarsi e parlare sopra o attraverso il testo. Alla fine Molière muore in scena e si riconcilia con la figlia, in una sorta di passaggio di testimone, a dimostrazione che il re del teatro è morto, ma il teatro continua a vivere e a divertire.
In questo capitolo finale si ride meno, le tonalità sono a volte plumbee, le tirate di Molière-Argante sulle fatiche del teatrante e l’ipocrisia del mondo del teatro sono aspre; cupa la malinconia di Belinda-Veronica sulla vecchiaia delle attrici, e il tableau vivant sul cadavere di Molière fissa l’attenzione sulla fine – bellissima per poesia – di un uomo di teatro in un teatro, dove era stato davvero vivo.
Ma dopo gli applausi, con il solito brio gli attori ci invitano al rituale saluto: «Viva il teatro, viva la commedia!».
Forse Zoppello rallenta il ritmo e alleggerisce lievemente il contorno comico (ad esempio manca la sfida dell’improvvisazione) perché porta a compimento una riflessione: il pubblico deve essere partecipe, complice, perfino salvatore dell’arte drammatica. Eppure non basta. Se interpretiamo in un’ottica grammaticale rovesciata il titolo dell’opera di Molière, forse il messaggio è che dobbiamo curare il nostro “immaginario malato”. Al di là delle ipocrisie sociali, delle becere derisioni a sfondo sessuale o razzista, e anche della malattia che indebolisce l’attuale teatro, occorre un bagno di autenticità, per riscoprire gli ingredienti base: il riso liberatorio, la forza dell’empatia, la potenza della mimica e della parola.
IL MALATO IMMAGINARIO (L’ULTIMO VIAGGIO)
soggetto originale e regia Marco Zoppello
con Sara Allevi, Anna De Franceshi, Michele Mori, Stefano Rota, Marco Zoppello
produzione Stivalaccio Teatro, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
realizzato con il sostegno di Conversazioni 2017 (70° Ciclo di Spettacoli Classici)