ENRICO PASTORE | Lo scorso sabato 4 maggio, in una Bari che si preparava a festeggiare San Nicola, il Teatro delle Bambole ha celebrato i suoi vent’anni di attività debuttando in prima nazionale al Teatro Kismet con Bestia da stile di Pier Paolo Pasolini.
La scelta di Andrea Cramarossa, regista della compagnia, è coraggiosa: benché nato per la scena, questo testo del poeta bolognese risulta ostico alla rappresentazione. La parola è onnivora, quasi prepotente nella sua ricchezza, per le profondissime riflessioni filosofiche, storiche, politiche, per le sovrapposizioni tra l’autobiografia e la vicenda del giovane Jan Palach, immolatosi in un rogo suicida a Praga per protesta contro l’occupazione sovietica.
In Bestia da stile Pasolini si identifica con Jan Palach tanto che gli episodi della vita dell’uno, come in una sorta di portale dimensionale, vengono a sovrapporsi con quelli dell’altro. Così l’invasione delle Cecoslovacchia da parte dei nazisti fa emergere la resistenza antifascista e la morte dell’amato fratello Guido, partigiano della Brigata Osoppo ucciso dai titini jugoslavi a Cividale del Friuli. E le bandiere rosse della rivoluzione, dello stesso colore dell’armata sovietica, si trasformano nei rossi sudari posti sui cadaveri dei caduti nell’eccidio di Porzus. Ed è per questi motivi che Bestia da stile ha necessitato una revisione lunga un decennio (dal 1965 al 1974). È un bilancio di una vita e di una lotta sotto la maschera di un giovane poeta martire della libertà.
Pasolini aggredisce lo spettatore con un testo estremamente complesso, ricco di riferimenti storici e letterari, oggi purtroppo difficili da cogliere: è considerato da Carmelo Alberti una sorta di teatro totale, ma sarei più propenso a definirlo una poesia totale con cui bisogna lottare come Giacobbe con l’angelo per potergli dare una forma scenica. L’azione teatrale per essere efficace non deve infatti soggiacere illustrando o commentando la parola già di per sé strabordante, ma agire in contrappunto creando immagini sottili e potenti, capaci di inserirsi negli interstizi, nei silenzi, e darvi luce e colore.
Un’azione non estetica ma critica benché poetica. Questa è stata la scelta operata da Andrea Cramarossa capace di guidare con sicurezza i suoi attori in questa intricata selva di parole.
Ma un testo così ostico, che ricordo sia stato messo in scena da Latella ormai venti anni fa, non allontana il pubblico con le sue spinose difficoltà? La risposta la fornisce lo stesso Pasolini in un’intervista il cui passaggio è stato inserito nell’opera di Cramarossa. Il giornalista chiede a Pasolini quale sia il suo rapporto con lo spettatore e questi risponde che rispetto ai suoi primi esordi cinematografici in cui si era illuso, con Accattone e La ricotta, di produrre opere dirette al popolo, in senso gramsciano, in opposizione alla cultura di massa dittatoriale e tirannica, si è accorto di aver intrapreso un percorso di apparente elitismo, ma proprio questo aspetto diventava l’arma per opporsi alla facile degustazione di una semplicità banalizzante.
Si potrebbero versare fiumi di inchiostro nel discutere questa opposizione binaria tra superficialità del consumo e opacità dell’opera d’arte, laddove sappiamo oggi esistere più strade intermedie per svincolarsi dall’oppressione della banalità, ma questo è stato lo spirito con cui Pasolini ha affrontato la stesura di Bestia da stile. Andrea Cramarossa ha rispettato questa intenzione proponendo una versione non semplificata, prorompente nella sua spinosità poetica.
L’azione scenica ha seguito questo solco di rispetto dell’arte pasoliniana, nella semplicità disadorna degli oggetti e dei costumi, negli uomini in canottiera e passamontagna, nella corona dorata in cartone, nelle croci di legno. I movimenti ritmati, in una coreografia di azioni quotidiane, ripetute fino all’ossessione, le sigarette fumate e spente sotto il tacco, il dito puntato verso il pubblico, quasi atto d’accusa, i genitali stretti in pugno.
Ma a questa semplicità francescana e operaia si accostano le immagini poetiche e pittoriche care allo stesso Pasolini, allievo del grande storico dell’arte Roberto Longhi. E così abbiamo le deposizioni dei primitivi, le pietà in quelle madri che sorreggono il corpo morto del figlio, il campeggiare de La Liberté di Gericault, dove le folle armate in rivolta, con gli occhi allucinati, seguono una discinta libertà con il tricolore in pugno, e davanti a lei i cadaveri di coloro che hanno combattuto su entrambi i fronti.
Tra le scene più efficaci, il ballo-orgia con uomini e donne con calzoni e gonne abbassate ostentanti sessi di gomma finti, quasi immagine strappata a Salò o le centoventi giornate di Sodoma; il monologo della madre incoronata, madonnina dolente di fronte agli strazi della storia; e infine il dialogo di chiusura tra Capitale e Rivoluzione sul cadavere di Jan Palach. Proprio nell’impossibile risoluzione del conflitto tra le due anime della Storia contemporanea risiede il significato di quest’opera di grande profondità e altissima poesia umana e civile. Sia Rivoluzione che Capitale si basano sulla necessità di coniugare mito e pragma con la realtà, ma laddove Rivoluzione è perennemente lanciata al di là di se stessa, incompleta per necessità per non diventare conservazione, ed è attratta inevitabilmente dalla volontà di concretizzarsi col pericolo di divenire tirannia, Capitale può permettersi l’incarnazione perché ha il potere onnivoro di ingoiare i moti di rivolta facendoli propri, rinnovandosi di continuo. Tra queste due realtà sta il cadavere di chi si immola per un’idea, perennemente tradito dal pragma dei due concetti, in grado di contenere in sé solo il cadavere del martire e non il suo corpo vivo in azione.
Il Teatro delle Bambole e Andrea Cramarossa sono riusciti, dopo due anni di furiosa e forsennata ricerca, a dare una forma poetica a un testo estremo, duro come una noce, quasi crudele verso chi vi si accosta. E il merito più evidente risiede nell’aver rifuggito le strade facili come il procedere a specchio del testo limitandosi alla mera messa in scena. Il teatro, rifuggendo la rappresentazione, si accosta alla poesia rafforzandola, concedendole spiragli di luce e ombra inattesi.
Il pubblico barese sembra aver compreso l’intento poetico e ha accolto l’opera con calore sincero. Si ha la tendenza oggi a sottovalutare il pubblico e la sua capacità di entrare in relazione con opere di non facile fruizione. Lo spettatore rifugge la freddezza dell’intellettualismo fine a se stesso, mai il calore sprigionante dalla poesia e dalla sincerità d’azione. È un aspetto su cui si dovrebbe riflettere più profondamente.
Per concludere una piccola nota sul Teatro Kismet di Bari, uno spazio a sua volta accogliente, fruibile dal pubblico sia prima che dopo lo spettacolo, un luogo dove gli spettatori possono non solo consumare lo spettacolo ma vivere momenti di vita condivisa come comunità non solo teatrale. In Italia non sono molti i luoghi di spettacolo istituzionali in cui si possa fruire il luogo teatro oltre al prodotto teatro, e questo, tra i tanti, è un vulnus della nostra realtà culturale ed è bello riscontrare come il Sud, ogni tanto, superi molte realtà del Nord Italia.
BESTIA DA STILE
Canto della Parola: Pier Paolo Pasolini.
Progetto di ricerca: Nella Terra di Mezzo – IV approdo. Le parole di Pasolini.
Canto del Popolo: Emilia Brescia, Giovanni Di Lonardo, Rossella Giugliano, Federico Gobbi, Caterina Orlando, Domenico Piscopo, Ilaria Ricci, Maurizio Sarni.
Canto delle Vesti: Silvia Cramarossa.
Mascheratopia: Federico Gobbi.
Canto della Messa in Scena: Andrea Cramarossa.
Casa Madre: Teatro delle Bambole.
In collaborazione con OTSE – Officine Theatrikés Salento Ellàda