MATTEO BRIGHENTI | Un funambolo su un filo di parole si bilancia dritto avanti a sé. Il filo è sottile, ma resistente, l’ha scritto Italo Calvino ne Le città invisibili: “Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”. La prospettiva lo inquadra dal basso verso l’alto, lo sguardo si stacca dalla norma al racconto, dalla regola alla fantasia.
È un cammino di ritrovata e rinnovata leggerezza l’immagine scelta per la quinta edizione di Trasparenze Festival, che Stefano Tè e la compagnia Teatro dei Venti si sono ritagliati e inventati dentro la forma e l’architettura di Modena. Trasparenze e (è) la città invisibile di spettacoli, incontri, performance, concerti, che si è vista dal 10 al 14 maggio, con l’extra il 20 maggio di un vero funambolo, Andrea Loreni.
Le arti della scena qui vanno incontro al pubblico tanto da essere meta di gite scolastiche, da Roma e dalla II E del Liceo Teatrale ‘Vittoria Colonna’ di Arezzo con il progetto Spettatori Erranti della Rete Teatrale Aretina; il teatro bussa alla porta e non chiede di assistere, ma di partecipare.
Ci stringiamo la mano, ci presentiamo, siamo nel salotto di casa di Anni e Massimiliano, tra i cd degli Iron Maiden e un quadro con Dylan Dog: il Discorso sul mito di Vittorio Continelli è come l’invito a cena di un amico. L’accoglienza, l’ospitalità della ‘festa’ è il fondamento di ‘festival’, un’origine di profonda condivisione e comunione gioiosa che Continelli celebra con la storia delle storie, la mitologia. In particolare, racconta la nascita di Dioniso, il dio del vino, dei misteri, dell’ambiguità, e quindi anche del teatro.
Il rito è l’appartato ritrovo di un focolare domestico. L’attore prende una coppa di vino rosso e ci canta dentro Il vino di Piero Ciampi, con la voce, il fiato, appanna i bordi, ed è già adesso, così, un darsi al dio, al calore in cui può succedere (di) tutto, festeggiando fino all’anima.
Sembra che si sia appena alzato da tavola per fare un brindisi. Il bicchiere passa da una mano all’altra e le parole piovono dal cielo alla terra, dagli dei ai mortali. Vittorio Continelli riserva grande pietà alle sfortune degli uomini e comprensione per i loro amori avvolti nelle fiamme del caso o della vendetta divina. Amori che sono dappertutto, hanno dato i loro nomi ai mari, alle montagne e alle stelle: una sorta di Creazione che Discorso sul mito disegna con passione e furore.
La realtà è come ce la raccontiamo, è il mito in cui conserviamo atomi di divinità, una natura a cui brindiamo ogni volta che alziamo i calici. Seguendo il filo del discorso che Continelli porta da tre anni di casa in casa: chi non festeggia non è astemio, è ateo.
Trasparenze interpreta il mondo visibile con quello invisibile, contrario a ogni regola e logica, segnato dal valore della leggerezza. Tale leggerezza, d’altronde, “si associa con la precisione e la determinazione, non vaghezza e l’abbandono al caso”, scrive ancora Calvino nelle Lezioni americane. Sceglierla non esclude, anzi, implica rispetto per il suo contrario, il peso: senza l’arcata non c’è il ponte, ma senza le pietre non c’è l’arcata.
Il Festival, allora, si è anche fatto carico delle ferite e delle paure del nostro tempo, il funambolo Trasparenze ha camminato in “equilibrio sul teatro sociale”, per dirla con Sergio Lo Gatto su Teatro e Critica.
Footloose è l’esito del laboratorio di TeatrInGestAzione con i richiedenti asilo del progetto Mare Nostrum. Condotti da Giovanni Trono, con Anna Gesualdi come ansa e sponda, dieci ragazzi attraversano le strade di Modena, alle scarpe mattoni rossi, farfalle alle dita, sulle guance, sulla fronte.
Da piazza Roma, queste onde silenziose tra lo shopping e lo struscio prefestivo raggiungono piazza Mazzini, dove spiegano le mani al volo e le gambe alla danza, leggeri e aerei, con profonde radici e un orizzonte sempre avanti. Spaccano a terra i mattoni e un nuovo viaggio di libertà si schiude dai loro passi.
“Let’s dance!” (Balliamo!) è l’invocazione libera tutti, la piazza si accende con la celebre canzone Footloose dell’omonimo film del 1984, abbattendo confini e differenze tra pubblico e scena, cittadini e richiedenti asilo.
Il ballo pare l’unica forma di conoscenza, relazione e resistenza ancora possibile, l’ultimo brandello di verità e salvezza, anche se pensiamo a Lo único que necesita una gran actriz, es una gran obra y las ganas de triunfar (L’unica cosa di cui una grande attrice ha bisogno è una grande opera e la volontà di trionfare) della compagnia messicana Vaca 35 Teatro en Grupo. In prima nazionale, lo spettacolo diretto da Damiàn Cervantes è ispirato a Le Serve di Genet.
Diana Magallòn illustra e prepara un’autentica torta all’uovo su un fornellino elettrico, intanto che Mariacarmen Ruìz accenna un flamenco nascosto e segreto. Quei movimenti evocano le principesse della fiaba di riscatto sociale che Ruìz sussurrerà all’orecchio di Magallòn prima di addormentarsi.
Pezzi di legno, travi, aste, una delle teste di Simurgh al muro, il palcoscenico de Lo único que necesita una gran actriz… è il magazzino del Teatro dei Venti. Lo spazio dell’azione è delimitato da alcuni panni stesi, un angolo con un lavandino, un secchio, una tinozza, uno stereo, il fornellino, due lampadine a vista e qualche lumino sotto l’effige di una Madonna.
Diana Magallòn è piccola e minuta, Mariacarmen Ruìz è grande e giunonica. Sono due opposti che sembrano passare il tempo a offendersi e sputarsi contro. La violenza del mostrarsi informi, a bocca piena e aperta, quasi sfigurate, è però un trucco, una recita dolorosa quanto necessaria per allontanare il limite della solitudine, sempre più scuro ogni giorno che passa. Lo si capisce dal bacio sulle labbra, il pianto e poi il momento più sincero e toccante incontrato a Trasparenze, la lavanda dei due corpi.
Entrano nude nella tinozza e l’una lava l’altra, prima Ruìz e dopo Magallòn, gesti poveri, antichi, l’acqua sgocciolata sulle braccia e le gambe, sugli occhi e i pensieri. È un bagno per placare le lacrime, prendersi cura a vicenda e ripetersi che in due, unite, ce la possono fare a venirne fuori, nonostante l’oscurità sia ormai calata e debbano rimandare di nuovo a domani.
I lumini sono ancora accesi per la preghiera finale, il segno della croce, ma il vero sollievo lo dà il sonno e con esso il sogno di queste due Cenerentole in ciabatte e sottoveste che, in attesa dell’amore che cambia la vita, sopravvivono tra stenti e solidarietà.
Una sofferta intimità che non ritroviamo in Duet – Quanti siamo davvero quando siamo noi due? – WERNER SCHWAB di Dante Antonelli/Collettivo SCHLAB, nelle quattro ‘stazioni emotive’ di una stessa coppia impersonata con vigore e determinazione da Valentina Beotti ed Enrico Roccaforte al Teatro dei Segni.
Su un palcoscenico vuoto, luci geometriche e musica elettrica dal vivo, La guerra dei Roses di una donna del nord e un uomo del sud arriva presto dalle parole alle mani. Lo scontro della convivenza trasla nell’insignificanza politica dell’Europa, poi torna indietro all’idillio dei primi approcci, fino a finire entrambi divorati dal vuoto, dai “come stai?” senza risposta e da abbracci glaciali che sono peggio del niente che avevano prima.
Duet sporca, ma non ripulisce come Lo único que necesita una gran actriz…, cioè non mostra alcuna delle possibili conseguenze di questa specie di operazione a coppia aperta sul tavolo operatorio della cattiveria. Manca la vertigine del dopo, quella terra di nessuno del ritrovarsi sole di Diana Magallòn e Mariacarmen Ruìz, ognuna con se stessa, a spazzare i minuzzoli di pane per terra o lavare i panni.
In definitiva, viene da pensare che la continua violenza che fonda l’unione di Valentina, Enrico e tutti gli altri due, sia soltanto una trovata per impressionare per gli spettatori, alla stregua ora di mediatori familiari ora di invitati da matrimonio (per un approfondimento del testo e del processo produttivo rimandiamo agli articoli su Paper Street).
La scena del Teatro dei Segni è altrettanto vuota per la compagnia Frosini/Timpano: non sappiamo nulla del rapporto uomo-donna, figuriamoci se conosciamo l’Africa. La possiamo immaginare, come fece Emilio Salgari, e infatti non la vediamo certo rappresentata ora in Acqua di colonia, prima parte: Zibaldino africano (il lavoro completo l’ha recensito per PAC Elena Scolari).
Come due turisti del colonialismo, Elvira Frosini e Daniele Timpano osservano idealmente le steli e gli obelischi deportati a Roma, sfogliano guide imperiali del 1938 e cantano canzoni di un ‘Sanremo della razza’. Lo spettacolo si costruisce nel raccontare come lo farebbero e l’obiettivo è dimostrare che siamo tutti razzisti, anche se non pensiamo di esserlo o non vogliamo esserlo.
Il fine giustifica ogni mezzo e lo perseguono a testa bassa e pilota automatico. L’effetto è un po’ quello delle Cabine Telefoniche Letterarie di Teatro Magro, selezionate tramite la Chiamata per gli Spazi Urbani dalla Konsulta (il gruppo di under 25, incalzato quest’anno da Giulio Sonno, che partecipa all’organizzazione del Festival): il biglietto ti consente di ascoltare, invece di Morte a Venezia o Il vecchio e il mare, la ricerca che il duo ha fatto con la consulenza della scrittrice Igiaba Scego su cronaca, saggi, film e sketch tv sui ‘neri’.
Acqua di colonia si discosta dalle altre creazioni dei Frosini/Timpano, è un testo sostanzialmente a tesi, che canzona, forte del ‘senno di poi’, la cultura bassa come la alta: il barista e Kant risultano fatti della stessa ottusità integralista, come se si potesse incolpare il filosofo tedesco o chi per lui di opinioni che il tempo, non la sua o nostra volontà, ha reso inconciliabili con l’oggi. Secondo noi è sbagliato analizzare il passato con sistemi di pensiero, concetti o ideologie che non sono proprie dell’epoca di cui si parla.
Tutt’al più serve a far a ridere, intento dichiarato fin dal titolo, che gioca sull’omonimia tra la colonia/profumo e la colonia/territorio. Quest’ironia, però, è ‘acqua fresca’, e invece di sfidare, far riflettere il pubblico, paradossalmente lo mette comodo nel pensiero più autoassolutorio che c’è: se tutti sono razzisti allora nessuno è razzista.