ELENA SCOLARI | La realtà è più forte dell’invenzione? E riprodurre la realtà nel luogo della finzione?
Per cominciare una riflessione su questi temi accostiamo due spettacoli visti in tempi ravvicinati al Teatro LaCucina/Olinda di Milano (grazie al meritorio lavoro di Zona K) e al LAC di Lugano, istituzione per cui Carmelo Rifici è direttore di LuganoInScena: l’uno perché affronta fatti storici realmente accaduti e l’altro perché ricostruisce minuziosamente un fatto di cronaca inventato ma del tutto verosimile.
Ci riferiamo a Hate radio di Milo Rau, sul genocidio della minoranza Tutsi per opera degli Hutu in Ruanda nel 1994 e a Terror di Ferdinand von Scirach per la regia di Kami Manns, su un ipotetico dirottamento aereo da parte di un terrorista.

Il lavoro del regista belga Rau (in francese e kiniyarwanda con sopratitoli) mette la scena tra due tribune, gli spettatori vedono prima un video, proiettato su una specie di grande tenda veneziana: quattro testimoni sopravvissuti al dramma raccontano il loro ricordo di quella terrificante esperienza.
Non elenchiamo l’amplissima gamma di nequizie perpetrate, ma c’è chi ha visto uccidere e fare a pezzi i familiari sotto i propri occhi, chi è scappato appena in tempo, chi ha finto di essere morto tra decine di cadaveri per scamparla. Quattro grandi figurine viventi che descrivono il massacro precisamente e senza retorica.
Per chi non ricorda, non sa, ha rimosso, è uno scossone violento. Nel giro di sei settimane furono uccise 800.000 persone, il 75% dei tutsi ruandesi e l’11% della popolazione complessiva.

La superficie di proiezione viene poi sollevata e il pubblico osserva gli attori in un ambiente/acquario ricostruito come un diorama: una scatola di vetro che riproduce lo studio radiofonico di RTLM/Radio-Télévision Libre des Mille Collines, l’emittente che ebbe un ruolo importante nel “montare” gli estremisti contro i Tutsi. Gli omicidi di massa furono inizialmente commessi dall’esercito Hutu che presto però cominciò a organizzare con grande efficienza anche la popolazione civile, che fu armata e incitata anche via radio, appunto, al massacro degli “scarafaggi”.
Come si legge in Collasso – come le società decidono di morire o vivere di Jared Diamond, l’autore di Armi, acciaio e malattie (ed. Einaudi, 2005), la radio esortava i tutsi a radunarsi in luoghi definiti “sicuri” dove in realtà gli hutu li aspettavano per ammazzarli, ad esempio.
La seconda tribuna si intravvede al di là della scatola di vetro, di fronte a noi stanno – come un doppio – altri spettatori, che sono anche specchio di una metà che potrebbe muoversi contro la nostra metà, metafora fisica dell’antagonismo, non immediata e per questo non banale: il rapporto maggioranza/minoranza che c’era in Ruanda qui non c’è ma l’espediente è sufficiente per muovere la sensazione.
Ognuno di noi è fornito di cuffie per ascoltare la puntata della trasmissione di RTLM che costituisce lo spettacolo, questo particolare aspetto di aderenza al reale ci è sembrato francamente inutile; per problemi tecnici la frequenza era fragilissima e ha costretto a continue acrobazie sul filo per non perdere il collegamento, ma anche se il segnale fosse stato saldo l’elemento cuffie non “spiega” meglio il mezzo radiofonico, chiarissimo anche ascoltando il sonoro dalle casse. Noi non siamo dentro lo studio, lo osserviamo anzi da fuori.

Colpisce molto che un manipolo di fanatici – sostenuto certo dall’esterno – sia riuscito ad aizzare, a parole, via etere, una grande parte di ruandesi contro la minoranza tutsi. Lascia anzi increduli. Talmente increduli che ci si domanda se è davvero tutta colpa della radio, come sembra affermare lo spettacolo. E infatti non fu proprio così; non possiamo entrare qui in un’approfondita analisi delle cause del genocidio in Ruanda (per questo ho citato il libro di Diamond, interessantissimo), il fatto è che non lo fa nemmeno Rau, limitandosi a concentrare – semplificando – l’attenzione sulla questione della comunicazione che alimenta e rinfocola l’odio (Hate Radio), trascurando un contesto politico, sociale, economico, molto complesso nel quale la radio ha potuto diventare strumento di incitamento al conflitto. Laddove pare invece che un’intera nazione si sia lasciata suggestionare solo ascoltando canzoni contro-tutsi e discorsi esaltati. Cose che servono ma non  bastano.

Teatralmente parlando la ricostruzione dello studio radiofonico è l’unica invenzione, e perde di mordente lungo i 110 minuti totali. Qui i tre speaker e il dj – e il suo sorriso reggae che crea un bel contrasto a corredo delle parole belliche degli altri – confezionano la trasmissione. Nonostante l’eccitazione evidente nei bravissimi attori che impersonano i conduttori, il fluire è un po’ monotono; del resto come si può riassumere l’impeto distruttivo dell’uomo contro l’uomo? Questa sfida di Milo Rau è ambiziosa ma riesce a dare solo una porzione della realtà e della Storia. Non sufficiente a spiegare il disastro che fu.
Un sopravvissuto ruandese dichiarò «I padri dei bambini che dovevano andare a scuola scalzi uccisero i padri che potevano permettersi di comprare scarpe per i loro figli».
E artisticamente, se in Five easy pieces la ricostruzione teatrale degli omicidi di Marc Dutroux creava un tripla lettura dei fatti grazie a un geniale triplo salto di senso – un fatto accaduto, la sua rappresentazione, la dichiarazione palese della simulazione – in Hate Radio si prende solo un fotogramma di un fatto molto più ampio e non nascono altri piani, ne’ fisici ne’ intellettuali; gli attori recitano la verità degli speaker, punto.

Ferdinand von Schirach

Quello che invece vediamo in Terror è la ricostruzione di un processo. Un aereo con 164 persone a bordo, viene dirottato da terroristi e punta contro lo stadio di Monaco di Baviera dove 70.000 tifosi stanno assistendo a una partita. Su un secondo aereo, un caccia, il maggiore Koch deve decidere se abbattere l’aereo dirottato sacrificando i passeggeri oppure non intervenire e rischiare la vita della moltitudine che si trova nello stadio.

Non vediamo l’aula di tribunale ma pubblico ministero e avvocato difensore portano la toga, il giudice ci introduce alle manovre, noi siamo la giuria. Dovremo ascoltare attentamente le deposizioni e le requisitorie per prendere poi una decisione di condanna o assoluzione. L’imputato è ovviamente il maggiore Koch, abbattendo l’aereo ha deciso di andare contro gli ordini del suo superiore a terra che non diede l’ordine di lanciare il missile contro il velivolo civile.
La questione è tutta morale. Al di là delle opinioni di ciascuno, ciò che si indaga è, filosoficamente parlando, la dialettica che sostiene o distrugge una tesi, la capacità retorica di supportare un pensiero trovando una prospettiva inaspettata e deviando l’asse dove più è opportuno.
Il realismo del testo di von Schirach (scrittore e avvocato) è indubbio, tanto da risultare pedissequo, non ci viene risparmiata nessuna delle lungaggini rituali di un vero processo: declinazione ripetuta delle generalità, pause per un bicchier d’acqua, reiterazione delle risposte perché risultino inequivocabili, ecc.
Ora, va bene la realtà, ma, santo cielo (e di aerei parliamo), qui ci si dimentica che siamo a teatro!


Importa poco che il fatto sia frutto d’invenzione, lo si tratta come vero, e vero potrebbe essere. Quello che manca è però il tormento della responsabilità, manca soprattutto negli attori, a dire il vero, tutti irrigiditi in una recitazione accademica ma soprattutto senza mordente; loro sì che risultano poco credibili. Non un cedimento da parte del pilota, totalmente incredibile la vedova che arriva a testimoniare al processo contro il responsabile della morte del marito in uno sgargiante abitino verde a fiori, per nulla addolorata.
Assistiamo a una replica alla quale partecipano anche numerosi studenti, che discutono animatamente al momento di dover prendere posizione per la sentenza. Sì perché al pubblico si chiede di depositare nei cesti un sasso bianco per la colpevolezza o un sasso nero per l’innocenza (avreste detto il contrario? È l’unica cosa che sorprende un poco, in effetti). La cosa più viva sono proprio i dialoghi di questi ragazzi che ascoltiamo in platea, come argomentano per sostenere la propria idea.
A Lugano il pubblico assolve, curioso sapere che in Cina invece vinse l’accusa.

La regia della tedesca Kami Manns, modesta, sceglie di far interpretate la difesa a un uomo e l’accusa a una donna. Personalmente anche questo mi è parso banale e anche un tantino ideologico: il maschio razionale e un po’ guerrafondaio, militarista, a favore dell’esercito e della soluzione cinica (in realtà la più sensata) e la donna madre che è per il valore della vita a tutti i costi (costi ímpari, in questo caso) e che quindi sostiene non si debba uccidere mai, mai con un gesto attivo, almeno. I due svestono la toga per l’arringa, il perché non si sa, la difesa è in discreto abito maron, l’accusa in tailleur rosso fiammante.
Questo tipo di realismo, scolastico, è del genere che cerca di ravvivarsi con immagini su un grande schermo, qui a dir poco incongrue (mosche su carta moschicida, prati, fiori ingranditi), ma non arriva a  un risultato teatrale valevole, pur avendo per le mani una bomba, diciamo così. Si poteva affondare molto nell’interrogativo scomodo, si poteva insistere sulla coscienza dei singoli, anche in maniera sgradevole, come no, si poteva spingere sul concetto di responsabilità di chi giudica, non solo per gioco (come avviene bel bel documentario La convocazione di Enrico Maisto, in cui vediamo una giuria popolare convocata per l’ultimo processo sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia).

Insomma, col realismo o con l’artificio bisogna indurre le persone a pensare, anche faticando, con grande crudezza o con profonda sottigliezza.

HATE RADIO

una produzione THE INTERNATIONAL INSTITUTE OF POLITICAL MURDER – IIPM
testo e regia Milo Rau
drammaturgia e ideazione Jens Dietrich
scene e costumi Anton Lukas
video Marcel Bächtiger
suono Jens Baudisch  con (live) Afazali Dewaele, Sébastien Foucault, Diogène Ntarindwa, Bwanga Pilipili; (video) Estelle Marion, Nancy Nkusi
assistente alla regia Mascha Euchner-Martinez
assistente alla produzione esecutiva e drammaturgia Milena Kipfmüller
public-relation Yven Augustin
collaborazione alla documentazione Eva-Maria Bertschy
corporate design Nina Wolters
web design Jonas Weissbrodt
academic counselling Marie-Soleil Frère, Assumpta Mugiraneza & Simone Schlindwein
Casting Bruxells/Ginevra: Sebastiâo Tadzio Casting Kigali: Didacienne Nibagwire

 

TERROR

di Ferdinand von Schirach
regia Kami Manns
con Antonella Attili, Paolo Musio, Andrea Dolente, Giampaolo Gotti, Pietro Faiella, Margherita Coldesina
video e multimedia Nicolas Joray
scene Alfons Flores
coreografia Darrel Toulon
luci Susanne Aufermann