ILENA AMBROSIO | «Chill’ è iss» (Quello è lui, è proprio lui). Così Ettore Petrolini definì Eduardo De Filippo, a volerne rimarcare l’assoluta unicità e autenticità. E questa è per Massimiliano Civica la «definizione definitiva» che sovrasta e cancella, nella sua icastica completezza, tutte le etichette affibbiate a Eduardo. Da questa definizione parte il racconto di Parole imbrogliate, la lezione-spettacolo – ospitata al Teatro Civico 14 – con la quale, tra storia, aneddoti, ma anche impressioni e vicende personali, Civica restituisce un ritratto poetico e insieme vividamente concreto di quell’uomo che, prima di ogni altra cosa, fu teatrante, fu il teatro stesso. E in questo racconto, epico e didattico al contempo, il teatro non solo si narra ma si fa. Perché, benché non ci siano attori (ci tiene a precisarlo Civica di non esserlo), scene, effetti luce, il teatro prende vita nella sua dimensione essenziale: quella di rituale di incontro e condivisione.
Un momento che, in questo suo senso, si lega quasi senza soluzione di continuità all’incontro svoltosi prima dello spettacolo – il quinto del ciclo Ascolti organizzato dal Civico 14 e dal Pickwick – che ha visto Massimiliano Civica raccontarsi come artista e non solo, e anche al laboratorio da lui tenuto presso lo Spazio X.
Una catena di incontri alla quale abbiamo voluto aggiungere un anello con questa chiacchierata.
Da cosa è scaturita la volontà di parlare di Eduardo De Filippo e di farlo nella forma di una lezione spettacolo? Una forma che veicola un’idea di teatro come concreto dialogo e momento di condivisione con il pubblico.
Queste cose nascono fondamentalmente dal piacere, da un istinto edonistico. Per me Eduardo è uno dei grandi scienziati del teatro europeo del Novecento, per la sua sapienza tecnica nella costruzione dei testi, per la creazione di spazi che è frutto di una profonda ricerca drammaturgica; la sua idea di teatro, la sua disciplina al servizio della realizzazione di questa idea mi entusiasmavano ed emozionavano. Una tale competenza e dedizione a un fine sono cose che vanno conservate come esempio.
Quindi tutto è nato dal piacere e dall’emozione di scoprire il grande mondo di Eduardo e la sua visione del mondo. Dopodiché è nata la voglia di condividere questa scoperta con gli spettatori tentando si realizzare un intrattenimento intelligente, di buon livello, incentrato su un discorso serio.
A proposito di disciplina, una parte importante della lezione ricorda proprio l’immagine di un Eduardo “cattivo” mettendo, però, bene in evidenza come la sua cattiveria corrispondesse, in realtà, a un estremo rigore e a un rispetto verso la pratica teatrale (incentivato, di certo, anche dall’investimento materiale del capo comico nel teatro). Quanto questo rigore può essere da esempio nella pratica teatrale odierna?
Non so se può essere un esempio, di certo è una pietra di paragone. Eduardo, al di là del talento, ha avuto un’abnegazione e una disciplina grazie alle quali è riuscito a raggiungere dei risultati incredibili. Ora, dato per scontato il talento, è importante essere coscienti che occorre un certo sacrificio per raggiungere dei risultati. Non è detto che tutti abbiano voglia di affrontare questi sacrifici e soprattutto non è detto che tutti abbiano voglia di perdersi certe cose per fare un teatro alla maniera di Eduardo. In varie interviste lui ha affermato di aver sacrificato tutto al teatro: figli, famiglia, amicizie, divertimento. Quindi, senza alcun giudizio parziale, si tenta di porre Eduardo come termine di paragone per ciò che si vuol fare; lui è un esempio di ciò che si può ottenere sacrificando molto, ma non è detto che sia giusto sacrificare così tanto.
E come si pone Massimiliano Civica rispetto a questa pietra di paragone?
Di certo non ho la sua forza di volontà e non ho questa totale abnegazione per il taetro. Il teatro è importante nella mia vita, è gran parte della mia vita ma non gli sacrificherei tutto. Se dovessi scegliere, sceglierei gli affetti; non credo che per avere una vita piena e migliorare come essere umano sia necessario far teatro in quel modo. Il teatro è il lavoro che ho scelto, ha tutta la bellezza di un lavoro che si è scelto ma resta pur sempre un lavoro.
Eduardo è certamente comicità ma di una tinta, via via, sempre più amara e dolente. Parlando di Belve, hai affermato che il comico, paradossalmente a differenza del tragico, rappresenta la strada drammaturgica di chi non ha più fiducia nell’umano e quindi, in quella sofferenza, ne ride.
Sì, questa è una linea di pensiero abbastanza presente nel teatro. Probabilmente Aristofane aveva una visione dell’uomo più disperata rispetto a un tragediografo, soffriva di più per l’umanità che lo circondava. Per cui dietro un grande comico c’è sempre il rischio o il coraggio di un nichilismo assoluto. Un massimo esempo è quello di Petrolini che ha avuto il coraggio di negare il senso delle cose e dei rapporti fino alle estreme conseguenze. Come disse uno studioso, Petrolini ha avuto il coraggio di essere totalmente “imbecille”. Una cosa è quando si scherza a far ridere, un’altra quando si gioca a far ridere, nel senso che, se il comico non include anche se stesso nel non senso delle cose, allora fa parodia, è come se stesse strizzando l’occhiolino dicendo al pubblico: io vi rappresento un deficiente ma io e voi siamo intelligenti e lo sappiamo. Quando c’è questo scarto la comicità è di basso livello. Con Petrolini, Aristofane, con i tutti i grandi del comico, c’è una visione totalizzante delle cose e non la presa in giro da parte di chi si ritiene intelligente ai danni di qualcuno che lo è meno.
Nel tuo teatro non si può individuare un vero “modus” che si ripete nel tempo ma si ritrovano un tipo di lavoro drammaturgico e quindi un approccio alla scena che variano del tempo. Questo mi pare coerente con una tua, diciamo così, dichiarazione di poetica: fare teatro per dire ciò che ti importa a qualcuno di cui ti importa. Come si coniuga, allora, questa necessità comunicativa alla pratica creativa?
È giusto quello che hai detto. In realtà i miei spettacoli cambiano non tanto perché cambiano gli stilemi della messa in scena o il mio stile, ma, appunto, perché mutano i contenuti. Io ho molta fiducia nei contenuti. Credo che se facessi più spettacoli per commissione, cioè senza poter dire ciò che mi importa a chi mi importa, si noterebbe molto di più una ripetizione. Cambiando il contenuto, avendo altre cose da dire, la forma diventa meno visibile.
Se si creano spettacoli perché lo si deve fare – e non è una modalità criticabile – allora gli stilemi vengono fuori di più perché c’è meno contenuto. Penso allora che non bisogni usurarsi facendo troppo spettacoli, ma aspettare che i tempi siano maturi, che un argomento ci cresca dentro. Bisogna gestire la propria sorgente emotiva.
A questo proposito, durante l’incontro prima dello spettacolo, è emerso che gli argomenti, le storie quasi ti incontrano, che non sono propriamente scelti. Persino il testo di Un quaderno per l’inverno è stato recuperato circa sette anni dopo la prima lettura. Come avviene questa “epifania”?
Quando fai uno spettacolo perché devi inizi a pensare a quale testo mettere in scena e ti trovi di fronte a innumerevoli possibilità, privo di un criterio di discernimento; non riesci a capire perché un testo potrebbe essere meglio di un altro. Quando io mi ritrovo in quella condizione, perché ho voglia di far spettacolo e basta, inizio a pensare ai testi che ho letto, a tutte le storie che potrebbero essere raccontate; allora capisco che proprio quello è il momento di fermarsi perché non ho un criterio di scelta se non, appunto, la mera voglia di fare spettacolo.
A volte invece, ti accade qualcosa, magari attraversi tappe particolari della tua storia umana, e questo ti fa ricordare di un testo preciso, di un libro, un racconto che sarà proprio quello giusto. Per cui tendo molto ad aspettare, ad aspettare che si verifichi questo fenomeno.
Se invece voglio fare uno spettacolo per puro desiderio, come spesso accade con i miei amici I Sacchi di Sabbia, allora mi dedico al comico perché la risata si autogiustifica. Sono lavori che facciamo in grande letizia – questa è la parola giusta – solo con il desiderio di far star bene il pubblico e farlo ridere.
Attualmente c’è in cantiere Antigone di Sofocle che debutterà a Prato nel prossimo autunno. Qual è stato l’elemento che ti ha “connesso” a questo testo ?
Ammetto che non lo so. È stranissimo perché non è nemmeno uno dei miei “testi-mito”. Eppure, a un certo punto, ho sentito la necessità impellente di farlo. E poi capita che leggendo e traducendo, trovi in ciò che il testo dice le conferme a quella tua intuizione iniziale. Diciamo che il teatro è sempre in anticipo sulla tua comprensione delle cose e di te stesso. Dopo un po’ che hai realizzato uno spettacolo, dici: ecco perché l’ho fatto, perché in quel momento rispondeva a qualcosa. Ma non c’è nulla di mistico, è un meccanismo profondamente umano.
Sono, quelle connessioni per le quali la realtà esterna risponde in qualche modo a delle tue domande o esigenze che sono ancora latenti.
Esatto. Se c’è una tecnica è quella di aspettare, di guardarsi attorno e lasciare che le cose accadano. Naturalmente questo implica che devi affrontare il tuo lavoro in una certa maniera, perché conquistarsi il privilegio di non fare uno spettacolo all’anno significa doversi dedicare ad altro per guadagnare.
E infatti ti dedichi molto a laboratori e all’insegnamento. Come vivi queste attività collaterali? Potremmo parlare di insegnamento come missione?
Assolutamente no, è un lavoro. Credo che, se avessi le risorse economiche per vivere senza insegnare, non insegnerei. Poi siccome sono una persona con un senso della professionalità molto alto quando insegno tento di farlo al massimo delle mie possibilità, ma per me non è una missione. E credo che sia anche sbagliato essere così egocentrici da pensare che ci sia bisogno del tuo insegnamento. È un lavoro.
Anche nella pratica registica, però, c’è qualcosa che ha a che fare, se non con l’insegnamento, con la funzione di guida. Come ti rapporti ai tuoi attori?
Penso che il mio compito non sia di insegnare loro a recitare – se non sapessero farlo verrebbe da chiedermi perché li ho scelti – ma di togliergli resistenze e blocchi, di farli sentire tranquilli, trasmettergli una sensazione di fiducia; e poi di crescere con loro. È un lavoro con gli esseri umani, ha i tempi degli esseri umani.
Ognuno di noi vuole incontrare persone che lo facciano crescere, che gli insegnino qualcosa e quindi io chiedo anche questo ai miei attori.
Anche questo un incontro.
Bellissimo articolo e intervista. Amo Eduardo De Filippo, per me il più grande di tutti da sempre.
Come non essere d’accordo! Grazie per il feedback!