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venerdì, Dicembre 27, 2024
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Se il carcere è umano, insegna a rialzarsi: teatro e carcere a Roma

ilmurofotoLAURA NOVELLI | “La vita in prigione è dura/ Carcerati senza scrupoli e senza paura/ Il coraggio per primo e poi amico ti stimo / Tra le sbarre si sente il calore / Poi si passa all’orrore / L’orrore che uccide /L’orrore che decide / L’orrore che graffia la vita che passa/ Penso alla mia vita / Una vita sprecata / La giustizia ingannata / Una vita dannata /Per salvare l’onore / Seminare il terrore /Ma il mio tempo è finito / E mi sono pentito / Voglio ricominciare / Voglio dimenticare/ Far capire al mondo / di non sbagliare / di seguire esempi giusti […]”. Non sono parole tratte da opere di intellettuali e scrittori celebri bensì – più semplicemente – le parole di un rap sul tema carcerario che, circa due anni fa, hanno scritto alcuni ragazzi di dodici/tredici anni, oggi miei ex-allievi, in occasione del concorso “Conoscere il carcere” promosso nelle scuole medie inferiori e superiori della Penisola dal Ministero della Giustizia, in sinergia con il MIUR. Concorso tra l’altro vinto, ex-equo con un liceo romano, proprio dalla mia ex classe con questo testo “Voglio ricominciare” e con un altro rap, “Oltre le sbarre”, anch’esso sugellato da una chiosa significativa (“nel futuro io ci credo/ se chiuso gli occhi lo vedo/ la cosa più importante/ da pensare è che/ nella vita si può sbagliare”), entrambi musicati artigianalmente e cantati dai ragazzi stessi.
Perché ne parlo? Mi sono tornati in mente in questi giorni dopo aver assistito a due lavori teatrali a loro modo connessi: “Una Bella Prigione (il Mondo)” che il  hanno presentato il 28 luglio all’interno della rassegna “I solisti del teatro” e lo spettacolo “Il muro”, scritto e diretto da Angelo Longoni, che dopo il debutto proprio a Rebibbia per un pubblico di detenuti e i consensi raccolti durante le repliche romane al teatro Lo Spazio è stato proposto al Fontanone del Gianicolo e sarà ripreso durante la prossima stagione.
Credo che la sensibilità ancora acerba ma evidentemente permeabile al mondo dei miei giovani alunni abbia intercettato con luminosa puntualità il senso di queste due operazioni teatrali. Ovverosia: la necessità di interrogarsi sulle ricadute umane di un’esperienza drammatica come la detenzione leggendola come un passaggio verso una seconda vita, una seconda possibilità, un cambiamento, una rinascita.
La pièce di Teatro Libero aveva un sottotitolo emblematico, “Un Talk Show su Bellezza e Giustizia”, e attori storici della compagnia come Sasà Striano (lo ricordiamo in “Gomorra “ e nei panni di Bruto in “Casare deve morire”), Fabio Rizzuto e Giovanni Arcuri (Cesare nel medesimo film dei fratelli Taviani, Orso d’Oro al Festival di Berlino del 2012), accompagnati al piano da Franco Moretti e coordinati da Fabio Cavalli, hanno passeggiato tra le pagine di Shakespeare e Genet, virando simpaticamente verso canzoni popolari come “Il barcarolo” e verso una spontaneità cabarettistica carica di autoironia, per raccontare con partecipato entusiasmo un carcere che sia aperto alla cultura, al teatro, ai libri; un carcere che non si imponga di “rieducare” ma piuttosto insegni ad essere diversi, a capire angoli sconosciuti di mondo, a comprendere meglio se stessi; un carcere che permetta di mantenere la propria dignità, che abbia cura dell’umanità di ciascuno, che offra un’opportunità concreta di rinserimento sociale. C’è stato un momento di forte commozione, quando Striano ha recitato un monologo tratto da “L’enfant criminel” di Genet, e c’è stato un tempo lungo di riflessione, di dibattito e confronto con il pubblico quando, a fine lavoro, il costituzionalista Marco Ruotolo ha ribadito i punti caldi della questione e, Cesare Beccaria alla mano, ha parlato di “umanizzazione” del carcere: Poesia e Legge possono camminare, dunque, su un unico binario.
E possono farlo anche quando in ballo c’è l’esperienza di una coppia messa a dura prova da una carcerazione improvvisa che rompe la felicità di un matrimonio e fa vacillare ogni sicurezza personale e familiare: quanto racconta Longoni ne “Il muro”, piccola ore rock ispirata alle musiche dei Pynk Floyd egregiamente eseguite dal vivo dal gruppo soundEclipse, ha il sapore agrodolce di una favola sentimentale usata a pretesto di un moderno pamphlet filosofico su tutti quei muri che, al di qua e al di là del carcere, delimitano le nostre vite, le nostre emozioni, la nostra realizzazione umana e sociale. Se il riferimento a “The Wall” è ovviamente esplicito, ben più simbolico vuole essere la costruzione di un testo scandito in diversi quadri e intervallato da numerosi inserti musicali (arricchiti da uno splendido montaggio di immagini) che fotografa l’incontro casuale tra un uomo (Ettore Bassi) e una donna (Eleonora Ivone), la crescente consapevolezza di un amore che si trasforma in progetto comune e poi la caduta, il ribaltamento, la galera per un brutto affare di tangenti e di corruzione. Questo muro cancella d’un tratto il senso stesso dell’identità, annulla il passato, annebbia il futuro. Fin quando il protagonista capisce che – appunto – dopo si può ricominciare, riprendere a sognare e a costruire. Pensare addirittura ad un figlio. Tra flash-back e monologhi paralleli, le scene si avvicendano l’una dopo l’altra, con un ritmo a tratti forse troppo lento e un linguaggio che passa volentieri dal quotidiano al lirico, lasciando intendere il dipanarsi di un tempo che è soprattutto, come sempre, una dimensione interiore. L’energia più spontanea passa attraverso la musica e – davvero bravi i cinque musicisti in scena – ci trasporta in un tumulto di emozioni e ricordi collettivi. Alla fine viene voglia di ballare: il muro diventa inno, bandiera, liberazione.

Le risate dei Maniaci: video intervista ai Maniaci d’Amore

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ph: Andrea Macchia

GIULIA MURONI | Delle sagome di legno, figure di mostri nella mai sepolta psiche infantile, fanno da sfondo al duo che sulla scena entra e esce da una parete in tulle, confine del luogo schizofrenico di dialogo terapeutico e liti simil-amorose. Troni in legno il cui schienale è una ghigliottina aiutano a comporre uno scenario dalle più facce, dove luci e ombre convivono e, nel loro alternarsi, mostrano e celano la paradossale e schiettamente ridicola compresenza dei numerosi aspetti del reale.

Interrogandosi a partire da “Il libro sul riso e sull’oblio” di Kundera sulla portata del riso, come latore di senso o al contrario distruttore dello stesso, Maniaci d’Amore, guidati dalla regia di Filippo Renda nella trasposizione di una drammaturgia di loro pugno, propone “Morsi a vuoto”. Prima assoluta all’interno del cartellone del Festival delle Colline Torinesi, lo spettacolo vede in scena i due autori-attori, Francesco Maniaci e Luciana d’Amore, che intavolano un dialogo fittissimo intorno ai dubbi, le paranoie e le incontrollabili risate di lei. Mentre lui impersona tre personaggi differenti, i cui confini talvolta si dilatano e assottigliano, perché in fondo siamo tutti un po’ di tutto, lei invece è sempre sé stessa, immersa nella vischiosa coltre di insicurezze di chi non riesce mai a prendersi sul serio. Simona, la protagonista, infatti ride sempre perché non ha niente da ridere: così recita il comunicato stampa e in questa frase è racchiusa la tragicità della perdita di senso, della reazione che non corrisponde a nessuna azione, ma vaga in un indistinto senza colore in cui non c’è più bene e male, giusto o sbagliato e il rischio è di affogare, di sentire la testa che gira e non focalizzare una strada. Altrimenti, come fa Simona, si può ridere della morte di Dio, della caduta di qualsivoglia orizzonte di senso, e procedere navigando a vista, in superficie, sghignazzando delle proprie e delle altrui miserie.

I personaggi ritratti sono creature irrimediabilmente moderne, nate da uno sguardo attento e ironico sulle peculiari deformità dei giorni nostri. Qualche lungaggine e un esplicito rimando a una performance di Marina Abramovic che tende a sbiadire il finale, sono elementi di difficoltà all’interno di un quadro brillante, amaro e pungente che conferma la compagnia come giovane fucina creativa.

Abbiamo chiacchierato con loro dopo la seconda replica di “Morsi a Vuoto”. Di seguito il link al nostro video reportage

http://www.youtube.com/watch?v=SuwTINB_xWo

Archivio Zeta, la cura per la ferita di Volterra lascia di sasso

La Ferita / Logos – Rapsodia per Volterra @ M. Brighenti

MATTEO BRIGHENTI | La città franata risorge pietra su pietra. Il cuore di Volterra batte in Piazza dei Priori al suono di sassi bianchi e levigati, passi di un distacco che si colma di speranza: affrontare la tragedia dei crolli delle mura medievali rendendo visibile, umano, sanabile lo squarcio dentro lo sguardo di ognuno. La XXVIII edizione di VolterraTeatro ha riflettuto sull’idea di “Ferita” e il progetto di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta, La Ferita / Logos – Rapsodia per Volterra, ha tracciato geometrie di rinascita annodando i luoghi-simbolo del borgo con 20 chilometri di nastro rosso.

Sassi contro la terra, sassi contro altri sassi. Lasciano tracce, polvere sulle mani, detriti. La caduta è una miriade di frammenti. Per questo, scelgo di seguire l’azione stando su una piattaforma multi-mediale: il cellulare per tweettare e fotografare, la radio per collegarmi al Radio Walk Show (Urban Experience) di Carlo Infante, una conversazione itinerante che moltiplica viste e visioni. Insieme a me altri colleghi di Rete critica raccolgono la sfida di farsi causa ed effetto, di stare dentro e intorno, tra lo spazio de La Ferita e quello evocato in cuffia da Infante. Le righe tra cui state leggendo sono il triplo salto verbale che ricompone tutto questo nel dopo, solitario e freddo, dello schermo di un computer.

Il filo rosso comincia a dipanarsi dal Carcere al termine di Santo Genet della Compagnia della Fortezza. Intanto, in Piazza dei Priori una Babele di legami, un coro di stoffa, una trama di separazioni condivise ci unisce per le mani e le gambe. Dal Palazzo del Comune scende un lungo ritaglio rosso che incrocia la ragnatela giù, tra la gente, e poi su, tra le finestre di fronte. Un drone telecomandato sorveglia dall’alto ogni più piccolo movimento. Arriva il corteo, riunito in un sol battito dei sassi. Silenzio. Risuonano le parole di Giordano Bruno, il frate renitente all’abiura degli infiniti mondi possibili. Siamo nel rogo, perché siamo fiamme, il rosso della stoffa è il sangue versato dalle pietre che hanno scolpita tutta la sapienza di questa rocca umana. Il nodo è stretto. La ferita è un passato che rimane, resta addosso. Per proseguire, allora, bisogna tagliare, separare, spartire. L’unione è nella forza delle braccia, non nella lunghezza della stoffa.

Il nastro a brandelli ci lega al cammino in direzione di Piazza dei Fornelli, là dove il maltempo si è abbattuto quest’inverno, aprendosi un varco di 30 metri nell’esistenza, fino ad allora sicura, di Volterra. La ferita è sotto i piedi, intrecciata nei fili lasciati a terra, e davanti agli occhi, sul muro dove deponiamo i sassi bianchi come uova di una covata cittadina che schiuda nuova solidità. Sullo sfondo, la gru della ricostruzione, che qui ti segue ovunque, come l’orizzonte, come il respiro.
Uno squillo di trombe omaggia il sole e introduce il pensiero di Leonardo Da Vinci. Non piove. No. Oggi cadono solo parole forti come pietre. Ogni frase è come se fosse la più importante e quella che segue non si sapesse o non esistesse proprio: conta solo il momento presente, l’istante, ora, prima e poi non esistono.

La Ferita, quindi, non è semplicemente teatro itinerante, performance, o visita drammatizzata, è un rito sacro, è trasmissione, salvaguardia, è mantenere accesa una testimonianza che se si spegne è persa, come il fuoco prima della scoperta delle pietre focaie. Lo spettacolo diventa tutto, Gianluca Guidotti, Enrica Sangiovanni, i cittadini del laboratorio teatrale, il cielo, le case, le strade e i nomi che si portano dietro mute, il pubblico che si fa pagina bianca su cui scrivere e riscrivere ancora. Siamo quello che abbiamo dimostrato di essere, come gli attori-detenuti della Compagnia della Fortezza quando, nel finale di Santo Genet, portano in processione le loro sagome di cartapesta: non abbiamo altro che noi stessi per rappresentare la nostra Storia.

La stazione ultima del progetto di Archivio Zeta è l’antico teatro romano. Può una rovina, una maceria, essere la base su cui ricostruire i legami tra le persone e i luoghi che abitano? Quando le pietre sono state vive lo rimangono, a dispetto del tempo, anche se mancano di più parti, in più punti, continuano a parlare l’alfabeto per intero. Soprattutto quelle di un teatro che hanno sorretto migliaia di storie, vere o presunte. Si leva alto l’avvertimento di Vincenzo Consolo: lo sfascio dei costumi non deve farci chinare il capo, deve darci forza. La ferita è là, negli occhi di ogni giorno. Dobbiamo cercarla, farla nostra, accoglierla. “Muro che crolla, muro che crolla.” Rullo di tamburi. Cade anche l’ultimo ostacolo, la quarta parete tra il presente e il futuro. Adesso andiamo in scena. Sul palcoscenico della vita.

Per ripercorrere tutto il Festival qui il Visual Storytelling a cura di Simone Pacini / fattiditeatro.

Teatro a Corte e il confronto con la scuola scandinava del nouveau cirque

imageRENZO FRANCABANDERA | Arriva alle battute finali, ma anche quest’anno ha saputo guadagnarsi un seguito di pubblico, critica e riferimenti internazionali di primo piano. Parliamo di Teatro a Corte, festival piemontese con un suo specifico assai particolare, svolgendosi per gran parte nelle meravigliose ambientazioni delle dimore sabaude. Da anni la proposta di questa rassegna è un mélange di teatro-danza-arti performative e nouveau cinque che non ha eguali in Italia e che propone agli spettatori uno sguardo originalissimo sulle evoluzioni meno tradizionali dei linguaggi scenici. Lontano da roboanti tromboni della prosa, dai soliti nomi noti e dall’asfittico giro fatto dei soliti quattro-cinque registi-star internazionali che approdano in Italia, il Festival ogni anno stringe un legame con una nazione diversa e in una logica di valorizzazione reciproca del patrimonio di conoscenze e di proposte eterodosse, ospita il meglio delle nuove proposte dell’arte performativa.

Quest’anno è toccato alla penisola scandinava, una macro-regione che da alcuni anni sta portando avanti, con esperienze diverse e declinazioni peculiari, un ragionamento che potrebbe definirsi finanche d’avanguardia sulle forme del teatro-danza che si legano alla fisicità dell’arte circense.

Per molti il termine circo evoca ancora una forma spettacolare stereotipata e obsoleta, mentre per altri versi l’estrema spettacolarizzazione di esperimenti consolidati come Le Cirque du Soleil, hanno spinto il tutto verso una forma più commerciale e adatta a palcoscenici istituzionali, con un pubblico sempre più numeroso. Non è un caso se il Piccolo teatro di Milano da diversi anni ospita lo Slava Snow Show, o i lavori di Finzi Pasca siano sempre più presenti nei cartelloni.

Ma ancora non ci siamo. Perché Teatro a Corte non è niente di tutto questo. E’ un’intersezione assai raffinata, a suo modo esclusiva, di un linguaggio certamente non facile, molto di confine, e sul quale mancano forse anche adeguate competenze e conoscenze per la stampa che deve raccontarle: la nuova clownerie, l’acrobazia che si fa danza e intervento performativo nello spazio metropolitano, il physical theatre fra drammaturgia del corpo e linguaggio non verbale.

Come riuscire dunque a raccontare senza abdicare a quel germe di stupore quasi infantile che comunque questo codice deve mantenere e per certi versi finanche ricercare, e la necessità, almeno per chi scrive, che la proposta artistica mantenga una sua integrità formale che la renda assoluta, limpida, necessaria in ogni sua componente, senza fare troppo l’occhiolino allo spettatore, ovvero che sappia stupire con discrezione ed eleganza senza che il gesto fisico venga accompagnato dal classico rullo di tamburo che per anni ha raccontato la prodezza circense?

Alcune risposte è possibile averle ancora per qualche ora in Piemonte per gli ultimi appuntamenti della rassegna che chiude questo fine settimana, e che abbiamo incrociato nella prima delle tre settimane di festival.

Siamo passati, fra il 17 e il 18 luglio dal circo più coreografico dei francesi Bistaki (a Venaria), alle principali compagnie finlandesi, fino a quello più clownesco ma contemporaneo di Thomas Monckton, ma siamo rimasti colpiti anche e forse più dai video di circo contemporaneo realizzati da Circo Aereo, di cui uno coprodotto dal festival, ambientato a Torino e nei castelli. Colpiti perché raccontare il gesto circense in questa declinazione contemporanea non è affatto facile nella forma filmica, mentre i due video proiettati al Teatro Astra davvero segnano un passo discontinuo, riescono ad essere onirici e non insistiti, leggeri e mai ripetitivi, qualità che le due proposte spettacolari di Monckton alle quali fanno da intervallo per certi versi un po’ mancano.

Suggestiva anche la perfomance del danzatore finlandese Ima Iduozee, This is the title. Racconta un’idea della corporeità molto fotografica, che riporta agli occhi memorie da Mapplethorpe, fra esibizione e riflessione, ostentazione e respiro. Manca qui forse lo slancio verso l’ulteriore e lo spettacolo si chiude un po’ su se stesso.

Una sensazione che per certi versi lascia la proposta surreale e visionaria dei francesi Collectif G. Bistaki con Cooperatzia/Maison spettacolo di “circo coreografico di ricerca” in cui tegole dei tetti e borsette fanno da domino emotivo, attivando visioni e quadri viventi che, come la compagnia spiega a fine spettacolo, dovrebbero essere concepiti in una dimensione itinerante e non unitaria che qui invece, complice la coercizione scenica cui il palcoscenico allestito a Venaria Reale li forza, non può suggestionare il pubblico in forma più discontinua. E così lo spettatore cerca una sorta di unità drammaturgica, un senso logico di fondo che non arriva. Un intento forse voluto, ma che in realtà è a nostro avviso un vulnus anche ove la performance non avesse avuto quella unità spaziale, che invece esalta proprio per questo motivo l’esilità di alcuni passaggi.

E’ indubbio che altri siano di particolare lirismo e portino lo spettatore in quella dimensione sognante e particolarissima di cui abbiamo parlato, ma è una dimensione che a volte è possibile raggiungere con molto meno, con pochissimo, a volte con una cuffia auricolare e pochi oggetti di uso quotidiano. Lo dimostrano a Teatro a Corte da diversi anni i creativi bergamaschi de La Voce delle Cose, che accolgono gli spettatori fuori da Venaria con una proposta davvero originalissima di narrazione con oggetti semplici, in cui lo spettatore è artefice vero del mistero del teatro, e la fiaba diventa metafora dell’assenza e gioco di manipolazione. E’ questa una ricchezza indimenticabile che chiunque abbia provato anche solo una volta la proposta di questi notevolissimi artisti non può che voler riprovare. E’ possibile farlo ancora in questo week end, a margine degli spettacoli del festival ancora in programma, magari consultandolo su www.teatroacorte.it

È dalle ferite che nasce la bellezza del teatro: intervista ad Armando Punzo

immaginesantogenet-compagniadellafortezzaFRANCESCA GIULIANI | Il festival è appena finito. Volterra ancora una volta è stata incontro, apertura, reclusione, separazione. Le contraddizioni di un evento che ha luogo fra la città e il carcere, che coinvolge la cittadinanza (e gli appassionati che vengono sempre numerosi da fuori) e la parte della città separata dalle mura di cinta della vecchia fortezza, ora carcere; e Armando Punzo, combattivo trait-d’union fra il dentro e il fuori. Lo abbiamo intervistato alla fine della rassegna teatrale conclusasi in questi giorni. 

Partiamo da La Ferita. Com’è nata la collaborazione con Archivio Zeta e come ha risposto la cittadinanza alla chiamata per la performance La Ferita/Logos-Rapsodia per Volterra?
Dopo il crollo di una parte delle mura che cingono Volterra, avvenuto lo scorso inverno, si è parlato tanto della ferita inflitta a questa città. Il restare impassibili e il rimanere aggrappati solo alla negatività dell’evento era l’aspetto più temibile. Come accade per un artista la ferita può essere produttrice di bellezza e ho lavorato in questo senso, cercando di ragionare intorno alla ferita in maniera propositiva partendo proprio da quella che è un’esperienza d’artista. Abbiamo pensato di costruire un evento collettivo, sull’onda di quello che era stato, lo scorso anno, il lavoro Mercuzio non vuole morire. Ho riunito tutti i gruppi, le associazioni, le persone di Volterra che sono impegnate nel mondo della cultura e anche i semplici cittadini che avevano voglia di impegnarsi in un progetto e ho chiesto se avevano intenzione e possibilità di collaborare a un nuovo progetto collettivo dopo Mercuzio. Una volta che mi sono assicurato che una parte attiva di Volterra avrebbe partecipato, ho delegato la realizzazione del progetto alla compagnia Archivio Zeta, che ha suggerito il lavoro di Maria Lai, Legarsi alla montagna. Questa idea di comunità che si lega insieme attraverso il legame tra la città ferita, le mura e le persone è stata sostenuta positivamente da tutti i partecipanti che insieme hanno iniziato a lavorare in questa direzione.

In una lettera a Roger Blin Jean Genet scriveva Le pièce di solito dovrebbero avere un senso … non questa. È una festa composta di elementi eterogenei, che non celebra un bel niente. Di una festa io credo si sia trattato in Santo Genet, una festa dove non c’è uno spazio, non c’è un tempo, dove probabilmente la libertà (benché all’interno di un carcere) non è pensata ma agita, quel luogo dove anche i personaggi di Genet posso riprendere vita. Volevo chiederti se ti ritrovi in questa visione e perché hai scelto l’opera di Genet?
Siamo partiti da una riflessione interna alla compagnia per arrivare a Genet. Ci chiedevamo continuamente perché ci incontravamo da ventisei anni dentro quella cella-teatro. Ho chiesto alla compagnia e a me stesso se tutto questo fosse un niente o se lì accadeva qualcosa di diverso. E lì qualcosa accade, qualcosa che non può accadere al di fuori di quella stanza, qualcosa di straordinario, necessario, importante che non accade nelle altre attività all’interno del carcere e non accade normalmente nelle nostre vite. Questo è il teatro: permettere di essere in un tempo fuori dal tempo, in uno spazio altro. Questa esperienza è un’esperienza fondamentale. Da qui ho chiesto quale autore poteva comunicarci per ragionare intorno a questo tema e ho pensato a Jean Genet. Il drammaturgo francese, anche lui proveniente dal carcere, dove ha vissuto gran parte della sua vita, mi ha colpito, come mi aveva colpito già nel 1996 quando facemmo I Negri, per questo essere perfetto alchimista nel trasformare quella che sembra una materia vile in oro. Qui sta il sublime, nell’averci consegnato questa materia vile trasformata in oro. Quindi mi sembrava l’autore giusto da affrontare. Lo scorso anno siamo approdati a Genet con uno studio parziale su una parte dell’opera, mentre quest’anno l’abbiamo attraversata integralmente. La forma finale non la vedo come una festa che non riconduce a nulla. Credo invece che ci sia il senso del teatro, quel morire a se stessi cercando altre possibilità dentro di noi. Io ho lavorato veramente sul suggerimento artistico-estetico che ha dato Genet, su questa capacità di morire a se stessi e di trasformarsi in qualcun altro dentro di noi: noi siamo qualcosa, pensiamo di essere qualcosa invece siamo e possiamo essere altro, negando quello che è il nostro essere quotidiano. Uccidere se stessi per far emergere altro da noi stessi. Questo credo sia il teatro e questo è quello che volevamo raccontare.

Com’è avvenuta la scrittura scenica di Santo Genet?
Tutto il lavoro nasce con gli attori. Io porto delle idee, delle suggestioni, degli spunti di partenza, ma poi tutto si realizza con gli attori e attraverso gli attori. Io non so mai prima quello che sarà, ho una visione ma non significa nulla, è un punto di partenza.

Da uno spazio eterotopo all’altro: carcere, specchi, nave, cimitero… teatro. Come hai lavorato alla trasformazione del carcere in teatro, passando da uno spazio all’altro in previsione anche dello spettatore che avrebbe varcato quelle soglie?
La trasformazione degli spazi è necessaria perché la presenza del carcere può essere invasiva e totalizzante. Non ci interessa il carcere. Io e la compagnia abbiamo bisogno di altro, di uno spazio altro, di un tempo altro, di visioni altre. Come la strada, come la fabbrica il carcere è un luogo banale del reale, ha la stessa valenza di un luogo del quotidiano, di noi stessi, del nostro essere e va superato. Non c’è fascinazione, non c’è necessità di mostrare il carcere. La presenza di quel luogo rimane, comunque, fissata nella mente dello spettatore. Noi lavoriamo per sconfiggere questa presenza, per annientare questa idea, queste immagini che lo spettatore si porta dentro facendo si che venga traghettato in un altrove. Quando poi si esce in tournée, com’è successo il 26 luglio, quel teatro esce fuori. Tutto quello che si è visto all’interno del carcere, lo spazio bianco e lo spazio interno al braccio, è stato adattato in uno spazio all’italiana. La nuova dimensione e le nuove dinamiche attivate trasformano lo spettacolo che mantiene sempre la fedeltà a ciò che è stato detto all’interno del carcere. Cambia la forma, cambia la prospettiva, ma lo spettatore, seppur seduto, rimane partecipe di alcune scene come avveniva nel carcere.

Ripensando al mio ruolo di spettatrice all’interno del carcere ho avuto dei dubbi sulla ricercata seduzione di un certo spettatore “teatrale”, fatta attraverso la costruzione dello spazio (dal bianco accecante ai semibui corridoi dove era difficile orientarsi e seguire per la troppa calca) e dagli immaginari filmici e teatrali che richiamano gli attori. È voluta questa sorta di disorientamento dello spettatore verso un’alterità che c’è ma sembra “forzata”?
Questo dipende dal tuo imaginario, che è sicuramente diverso dal mio.

Perché hai scelto di portare il rito teatrale all’interno del carcere e da ventisei anni a oggi lavori con detenuti spesso condannati all’ergastolo, per tenare una redenzione, per concedergli una vita migliore, o perché è qui, nella solitudine e nell’abbandono che hai trovato più verità e nuova linfa e forza per l’arte?
Il carcere non c’entra nulla, è una cosa che dico sempre. Il detenuto è una persona con la quale lavoro. Non c’è dentro e fuori nel mio lavoro. Al teatro non interessa se sei un detenuto, pensa all’uomo. Io ho scelto di lavorare nel carcere per una sorta di auto-reclusione. Io mi preoccupo del mio ergastolo, non del loro ergastolo. Il carcere e i detenuti sono metafora di qualcos’altro, di qualcosa di molto più filosofico di quella che si può trovare in una porzione di realtà, forse anche meno interessante. Non c’è niente di esaltante per me nel carcere. Ciò che mi affascina è la metafora, il fatto di pensare al mio essere detenuto, nonostante mi senta libero. Il carcere e i detenuti mi sono serviti per arrivare alla metafora e non all’aspetto reale. Il carcere potrebbe essere anche un monastero. È un luogo dell’espiazione della pena nella realtà quotidiana ma può restituire anche altre suggestioni. Le celle le posso immaginare come i rifugi dei monaci che si appartano per riflettere, per pensare e non perché sono colpevoli. I filosofi si appartano in mezzo alle persone, e da questo punto di vista, anche se vivono in una comunità, sono persone che si recludono per interrogarsi. È questo che mi affascina, questo che mi ha interessato del carcere, la dualità di sentimento: alcune persone possono vedere il carcere in quanto carcere, i detenuti in quanto detenuti, quindi affascinarsi o schifarsi; ad altri interessa la metafora.

Per chiudere sul Teatro Stabile. A che punto siete arrivati e che ostacoli pongono le istituzioni?
Se penso al festival, agli spettacoli all’interno del carcere, al nostro lavoro artistico io credo che idealmente sia già realizzato. Non ci manca niente per esserlo e probabilmente abbiamo anche qualcosa in più rispetto a chi si dichiara Teatro Stabile nel nostro paese. Il problema è che da una parte siamo sicuri che già stiamo realizzando questo già con il festival che avviene all’interno del carcere, un evento unico al mondo, dall’altra sappiamo che ci manca qualcosa. Ciò che ci manca è la costruzione di un teatro, un prefabbricato all’interno del carcere, che ci consenta di svolgere il nostro lavoro al meglio. Ci sono resistenze, ci sono opposizioni, ci sono letture deformate della vicenda ma sono ottimista e penso che prima o poi riusciremo ad ottenerlo.

Chi ama brucia, intervista ad Alice Conti

Alice Conti_PACANDREA CIOMMIENTO | Abbiamo seguito l’ultima fase di studio di “Chi ama brucia – Discorsi al limite della frontiera”, il progetto di Alice Conti e il gruppo Ortika selezionato da Scenica Frammenti in occasione di “Anteprima”, la vetrina per giovani compagnie under 30 che offre ai vincitori l’ospitalità a Collinarea Festival. Lo spettacolo tratta il tema dei CIE – Centri di Identificazione ed Espulsione; in scena c’è Croce la giovane crocerossina in veste bianca che abita il suo ufficio d’accoglienza preparandosi all’arrivo degli Ospiti in un agire operativo e alienante.

Alice, lo studio sui CIE come nasce?
Nasce da un materiale che avevo raccolto due anni prima, in sostanza erano le interviste che andavano a comporre la mia tesi di antropologia ed erano materiale che sentivo la necessità e l’obbligo di rendere pubblici e riutilizzare. Era un materiale che sentivo feroce, era importante che qualcun altro ascoltasse.

Abbiamo visto l’ultimo studio ora in fase di chiusura…
Sì, alla fine comparirà anche un altro personaggio oltre la crocerossina: la garante dei diritti e delle libertà, di tutte quelle persone private dei loro diritti. È una sorta di personaggio majorette. È una signorina buonasera con un vestito bianco gigantesco che dopo la rivolta mette la polvere sotto il vestito suonando il can can così rimettendo tutto in discussione. Una sorta di personaggio con il massimo candore e simpatia della domenica che ci fa dimenticare tutto quanto e ci fa tornare alle nostre vite normali.

Cosa è stato Anteprima per voi?
Sono stati tre giorni in cui abbiamo vissuto una condizione di grazia nel senso che eravamo ospitati vicino al teatro con le altre compagnie che erano lì a presentare i loro lavori. Si è creata una sorta di miniresidenza. C’era davvero un clima produttivo, di reale scambio tra artisti. C’è un’aria qui che ci mette nella via della grazia, nella possibilità di uno scambio genuino.

Il canto di Ulisse, intervista scritta e video a Kirtan Romagnoli

Kirtan_CollinareaANDREA CIOMMIENTO | Il viaggio allarga la mente e ne dà forma, e il canto delle isole di Ulisse è la mappatura che Roberto Kirtan Romagnoli dona al pubblico nel suo spettacolo diretto da Loris Seghizzi (Scenica Frammenti) in debutto nazionale a Collinarea Festival in una sala strapiena che deborda di umanità.

Kirtan fa il suo viaggio e lo fa per noi, impara le lingue di tutti i popoli in un vero e proprio atto d’amore nei confronti della grecità da cui proveniamo e del teatro come arte dell’incontro. Ogni isola raccontata è l’occasione per “trasfigurarsi” gustosamente in tutti i personaggi dell’Odissea in un gioco scenico di maschere senza maschera. Un lavoro teatrale da preservare come piccolo scrigno che rivela il nostro antico legame con il mondo greco.

Come nasce il lavoro sull’Odissea?
Loris Seghizzi mi dice che è innamorato dell’Odissea da tempo. Quando gli porto a gennaio il lavoro c’è un canovaccio e una struttura. All’inizio delle prove lo spettacolo era molto più didattico. C’erano tante parti didascaliche, tutta la ricerca e la critica letteraria veniva fuori. Allora Loris mi dice: “sì, bello ma il viaggio dov’è?”.

La risposta che si è manifestata in te sembra essere il viaggio che Kirtan ha fatto dentro le pagine di Omero…
Esatto. La bellezza di questo spettacolo è che mi dà la possibilità come narratore di essere sempre vivo e di sentire e poter fare quello che sento. Vengo dalla commedia dell’arte, per me è veramente difficile. Non sono un attore di prosa. Non che io non abbia memoria, ne ho tanta da tenere insieme ma non sono un attore di prosa per cui mi trovo bene con i canoni della commedia dell’arte e lavorando così la commedia dell’arte è viva.

Ogni isola è l’esperienza della “possessione” da parte dei personaggi…
Hai ragione, questo spettacolo greco ha a che fare con Dioniso e la possessione. È il corpo ancora prima della mia mente. Io so la storia ma è come se il mio corpo la sapesse meglio di me. Per cui il fatto che io renda ogni isola e ogni personaggio in una maniera così personale penso sia dovuta alla possessione del corpo come in una sorta di catarsi. Mi sento come se fossi guidato. La guida dall’alto mi dice di fare così: guida vuol dire sentire, ascoltare la percezione del qui e ora, del Kairos, della cosa giusta al momento giusto.

Cosa porti come crescita personale?
Quando ho letto l’Odissea mi rendevo conto della profondità e della poesia. L’Odissea è lo specchio e la lente di ingrandimento della nostra società e della nostra maniera di essere. Siamo greci in tutto e per tutto. Gli insegnamenti di Apollo, Ermes e Atena sono il pensiero alto, noi siamo questa cosa qua. Se non avessimo questo non saremmo quel che siamo. Se sai da dove vieni sai chi sei e sai dove puoi andare perché conoscere vuol dire libertà.

I greci cosa avevano capito?
Avevano capito come stare in perfetta armonia con la natura. Ci siamo distanziati da questo modello. Quando Omero parla dei Proci parla di una società che sta dividendo gli antichi legami e la giusta relazione con la natura. Omero lo ha detto, noi sedevamo nei concili con gli Dei e ora non vediamo più il divino che è intorno a noi in una sorta di rifiuto a priori.

La tua narrazione si contraddistingue dalla presenza di mille voci interpretate in dialetti e altrettante sfumature meticce. Grazie al tuo sguardo Ulisse si fa attraversare dal canto di tutti i popoli…
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia di falegnami dove si parlava in dialetto. Ritengo i dialetti una lingua perché sono veri, forti e sanguigni. Con i dialetti basta una parola per entrare in un mondo meraviglioso. I dialetti danno questa opportunità, il piacere di sentire le musiche e il piacere di capirne la forza. Questa è poesia e mi è venuto spontaneo per Ulisse, l’uomo dalle mille forme, colui che tutto lega e che non è imprigionabile e legabile, colui che può parlare mille lingue.

Estratto video dall’intervista a Roberto Kirtan Romagnoli (Scenica Frammenti):

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Santo Genet a Volterra: un postribolo patibolare

Genet-compagnia-della-Fortezza-Stefano-Vaja13ELENA SCOLARI | E chi se l’aspettava? Che una criticona ancora si commovesse? Mi rincuoro nel trovarmi ancora sentimentale (almeno dietro le sbarre). Credete che non mi sia accorta dei trucchi di Punzo? Della sua sapiente agopuntura del cuore? Sentimentale sì, rimbambita no. Me ne sono accorta eccome, ma sapete una cosa? Me ne sono fregata. Perché era giusto lasciarsi andare, era giusto lasciarsi travolgere dal vortice. Un vortice in cattività, e per questo di potenza decuplicata.

Vedere “Santo Genet” dentro al carcere di Volterra è un’esperienza, e uso questa parola nel suo senso etimologico: conoscenza di cose particolari acquisita tramite l’osservazione e la partecipazione intensiva. Si esperiscono molte cose particolari: dalla perquisizione all’ingresso all’abbandono del cellulare (si sopravvive, si sopravvive), dalla lettura delle norme sui cibi da introdurre nella casa di reclusione (formaggi solo a pasta morbida e pani rigorosamente affettati) alla coda davanti all’alta cancellata, dal clangore del metallo all’occlusione visiva delle mura tutto intorno.

Entrati nel bel cortile (ci sono pure dei pruni, anche questo ci sorprende) sentiamo una musica lenta e diffusa, facciamo silenzio e una geisha maschio ci accoglie e ci fa strada verso la prima stazione dello spettacolo, alla quale accediamo passando attraverso un corridoio di detenuti marinaretti, due colonne di uomini su piedistalli, in maglietta a righe e pantaloni bianchi, occhi bistrati e pomelli rossi, labbra pitturate, muscoli e tatuaggi che più prevedibili non si può. Una visione a metà tra Dolce & Gabbana e Querelle de Brest. Attraversiamo piano questa galleria umana, e osserviamo, osserviamo molto, visi con un trucco pesante che rende più pesante la loro verità. Siamo ancora un po’ guardinghi ma l’impatto estetico con il grande rettangolo bianco, accecante, nel quale arriviamo continua l’opera di stordimento. Edicole e tempietti di polistirolo, colonne e scalette, ruderi stilizzati di un bianco abbacinante, ruderi di persone. Gli attori sono lì, immobili, in costumi sgargianti e tamarri che ricordano il Tano da morire di Roberta Torre. Qui Armando Punzo sorride sexy e materno, padrone di casa, in abito lungo, l’unico nero, elegante nella figura sottile, ornato di rose rosse, dispone il pubblico davanti a queste rovine, a questo scavo di sentimenti. E qui arriva anche Genet, i detenuti recitano alcuni monologhi, dei quali confessiamo di aver colto una percentuale parziale, lo stordimento sta crescendo e i sensi non permettono la concentrazione dell’ascolto. Ricordiamo però molto bene la dichiarazione d’intenti nella parte di Aniello Arena (la star della Compagnia della Fortezza): “Vi sedurremo dai piedi fino alla punta delle orecchie, stasera vi vogliamo far divertire”. Ed è esattamente quello che accade da questo punto in avanti, entriamo in una parte chiusa, in un budello di celle, tutte celate da specchi, stucchi, cornici barocche, drappi, ori e velluti, rose nauseanti che sanno di vaniglia, un postribolo dove gli spettatori sono clienti e assistono consenzienti alle esibizioni di figure e personaggi estremizzati, che si presentano raccontando la loro storia, il loro pezzo di vita letteraria, tra scaricatori di porto e maitresses, sospesi tra regno dei vivi e regno dei morti, tra scena e realtà perché “la scena è il luogo più prossimo alla morte, questo è il sepolcro dove vivremo per i prossimi duecento anni”.

In questo spazio dell’incubo, in quest’aria afosa e costretta, Punzo e le sue marionette, l’assassino Genet tra altri assassini (perché qui il più buono ha ucciso la madre, bisogna ricordarlo, non è gente che ha rubato le mele al mercato), ha corso il turbamento vero, l’emozione più perturbante: una componente erotica innegabile spinge alla curiosità verso uomini che si sanno colpevoli di delitti ingiustificabili, ci si domanda di quale crimine si saranno macchiati mentre costoro interpretano falsi colpevoli, un corto circuito etico che costringe a riflettere, con difficoltà. Un papa nero, spose tutt’altro che bianche, regine di boudoir ti girano intorno affermando di essere “soltanto una dignità rappresentata dal mio costume”. E all’improvviso, interrompendo il carosello criminale, parte un walzer, galeotti travolgono dame innocenti in una danza attorcigliata mentre Punzo si dichiara tenutaria del bordello e declama al microfono una nenia funebre assai vitale, la fortuna di morire magnificando la fine col dolore.
La colonna sonora di Querelle de Brest “…each man kills the thing he loves…” ci guida finalmente tutti fuori, nel bianco, nell’aria libera, nella luce del giorno che rimette i ruoli in ordine, una fantastica parata di statue di cartapesta, modelli dei galeotti stessi, vengono alzate in corsa dagli attori, aprono la strada al saluto finale con assolutorio lancio di fiori. Siamo tutti detenuti? Questo è il pericolo della furbizia di Punzo, che fa operazione artistica nel sociale, che confonde bene e male, vestendo il crimine di uno scintillio poetico, gli specchi che raddoppiano non ingannino: se alla fine dell’ubriacatura noi possiamo uscire un motivo c’è.

Pinocchio è stato schiacciato, intervista scritta e video ai Babilonia Teatri

Enrico_BabiloniaANDREA CIOMMIENTO | I Babilonia Teatri aprono ufficialmente la nuova edizione del festival Collinarea di Lari (PI) con Pinocchio allestito insieme agli Amici di Luca, compagnia composta da persone che hanno vissuto l’esperienza del coma. Abbiamo incontrato Enrico Castellani per farci raccontare il processo di creazione che ha portato alla realizzazione di questo laboratorio/spettacolo a vocazione sociale.

Enrico, come nasce la collaborazione con gli Amici di Luca?
Ci ha messo in contatto tra noi Cristina Valenti che conosceva sia il nostro lavoro che l’esperienza della compagnia degli Amici di Luca. Loro avevano fatto già tutta una serie di spettacoli per la regia di Antonio Viganò e Enzo Toma, e di Stefano Masotti che ha condotto il laboratorio per molti anni lì. Cercavano una realtà nuova con cui condividere un’esperienza e noi siamo stati contattati. Siamo andati lì senza sapere dove ci recavamo.

Cosa avete trovato?
Siamo entrati all’interno di un luogo che di fatto era un ospedale, per quanto speciale. Alla Casa dei Risvegli di Bologna ci sono dieci appartamenti in cui le persone uscite dal coma possono vivere insieme ai famigliari, a diretto contatto con una grande umanità, con i voci e i profumi. Questo per loro è fondamentale. È un tema che ci è molto caro ovvero il fatto di trovare un’umanità in quei luoghi.

Cosa vi ha colpito?
Il loro desiderio di fare teatro nel senso che quando li abbiamo incontrati abbiamo chiesto loro come mai facessero teatro e loro ci hanno risposto che dopo aver vissuto il trauma del coma la società li ha messi da una parte e fare teatro è forse l’unica possibilità che hanno per rimettere un piede dentro la società.

Com’è nato il lavoro su Pinocchio?
Dopo The end, il nostro spettacolo precedente che parlava di morte e del fatto che sia un tabù ancora oggi, volevamo continuare a raccontare la vita e le sue età. Volevamo partire dall’infanzia e da una dedica sull’infanzia come Pinocchio ma era un involucro ancora vuoto. Quando abbiamo conosciuto loro questo involucro si è riempito mano a mano. Non è stato subito chiaro come, per molto tempo ci siamo chiesti quanto la favola di Pinocchio dovesse essere raccontata.

Poi cosa è successo?
I loro vissuti sono stati così forti e importanti che Pinocchio è stato schiacciato e messo da parte. È stata la spalla che ha permesso allo spettacolo di andare avanti permettendo di parlare di loro spostandoci su piani altri.

Qual era il vostro desiderio?
Utilizzare una storia nota davvero a tutti per cui fosse possibile anche soltanto citare personaggi e luoghi di quella storia senza la necessità di entrare approfonditamente nella storia.

Sei con loro in scena?
Più o meno. Lo spettacolo lo facciamo insieme. È una condivisione dell’incontro tra di noi. Portiamo sul palcoscenico questo incontro che c’è stato e che ci andava di condividere. In realtà non sono sulla scena, ci sono loro soli. Questa è stata una sfida da percorrere: portare loro sulla scena diversamente dal solito. Generalmente gli operatori teatrali lavorano sul palco. Noi eravamo determinati nel fatto che stessero da soli sul palco.

Quale soluzione è stata presa?
È nata questa forma di dialogo a distanza in cui io sono una voce fuori campo che lavora live insieme a loro attraverso un canovaccio che ha dei punti di arrivo e dei contenuti che vogliamo consegnare ma non un copione dato.

Prima del vostro Made in Italy avete vissuto esperienze laboratoriali nel carcere di Verona. Cosa significa partire da progetti teatrali di inclusione sociale e ritornarci a distanza di anni?
Qualcuno dice che i Babilonia hanno provato a fare qualcosa di diverso. In realtà è significato tornare da dove siamo partiti come accenni tu. Nel senso che il lavoro con il non-attore è qualcosa che ci è interessato fin dall’inizio e che quando siamo partiti ci ha permesso di scardinare e di porci le domande rispetto a una forma da trovare per stare noi sul palco. Nel prossimo spettacolo torneremo noi sul palco. Sono filoni che procedono paralleli. Ci interessa un’autenticità da portare sul palcoscenico. Per noi questo lavoro ha significato molto perché il tipo di autenticità che loro riescono a portare sul palcoscenico e il tipo di risposta che suscitano nel pubblico aprono a domande rispetto a cosa serve fare a teatro. Domande molto grandi rispetto alle quali non abbiamo delle risposte.

Estratto video dell’intervista a Enrico Castellani (Babilonia Teatri) da Collinarea:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=62Qf6xnEv4o&w=560&h=315]

In anteprima, intervista a Loris Seghizzi

AdobePhotoshopExpress_2014_07_27_14:34:14ANDREA CIOMMIENTO | Venerdì 25 e sabato 26 luglio Collinarea apre in anteprima la sua nuova edizione con il concerto di Bobo Rondelli insieme all’Ottavo padiglione in un gustoso accorpamento di festeggiamenti, dai vent’anni dalla nascita della band all’inizio del festival di Lari.

Loris, cosa significa aprire con Bobo Rondelli?
Aprire con Bobo significa aprire con un amico. L’anteprima del festival vede il concerto di Rondelli a Crespina e Bustric con lo spettacolo “Illusioni” a Ponsacco. Il ventennale dell’Ottavo padiglione con Rondelli è quindi un momento importante di ritrovo per loro e di apertura per noi. Da lunedì si partirà ufficialmente con tutta la programmazione del teatro insieme ai Babilonia Teatri.

Il programma si compone di artisti che non replicano solamente il loro spettacolo ma abitano le vie di Lari per diversi giorni…
Quest’anno è stata fatta una scelta precisa: non ospitare l’artista solo nelle sue singole repliche. Ci piace stare più tempo insieme agli altri e proprio per questo abbiamo aperto anche nuove sezioni.

Quali?
Ci siamo divertiti a dare i nomi: “Dinamica” sarà la sezione dei sette laboratori, cinque dei quali confluiranno nella serata conclusiva in un grande spettacolo chiamato “In volo” con decine di persone capitanate da Carrozzeria Orfeo, Teatro dei Venti, Masella, Perinelli, le Vie dei Fool, Civilleri/Lo Sicco e gli altri.

Ci saranno occasioni d’incontro pubblico con gli artisti?
Tra le nuove sezioni abbiamo programmato anche “Empatica”, curata da Andrea Cramarossa, che consisterà nell’incontro degli artisti a tavola. È un tentativo per mettere a nudo l’artista e la persona che c’è dietro alla figura dell’artista. Si parla di artisti che hanno sempre sostenuto e aiutato il progetto Collinarea e altri nuovi che si sono aggiunti portando i loro lavori in scena da noi.

Dove si svolgeranno?
Gli incontri saranno nella zona “Collinarea Restaurant” durante la cena dopo le rappresentazioni che poi è un’altra novità del festival. Ci metteremo tutti intorno a un tavolo per cenare e in modo confidenziale parleremo.

Di cosa si parlerà?
Partiremo dagli spettacoli ma magari non solo dello spettacolo appena visto, cercheremo di parlare della persona comprendendo quale è stata la scelta di vita che ha portato a fare questo mestiere. Chiederemo: “come fai a vivere di teatro oggi?”. Una domanda importante in questo momento storico.

 

Il programma di lunedì 28 luglio 2014:

ore 19.15, Lari, Castello – prima regionale
Babilonia Teatri
PINOCCHIO
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, Luca Scotton
Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli Amici di Luca

ore 20.30, Lari, Castello
Scenica Frammenti
NOI E LORO
Esito del progetto teatrale realizzato con la Scuola Elementare di Lari
Condotto da Loris Seghizzi, Dimitri Galli Rohl e Camilla Del Freo

ore 21.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Roberto Kirtan Romagnoli
ULISSE
Indagine su un uomo al di sopra di ogni sospetto
di e con Roberto Kirtan Romagnoli
regia Loris Seghizzi
produzione Scenica Frammenti

ore 22.15, Lari, Piazza del Teatro – prima regionale
Savino Paparella
AL FORESTÉR
vita accidentale di un anarchico
di Matteo Bacchini
regia e interpretazione Savino Paparella