MICHELA MASTROIANNI e RENZO FRANCABANDERA | MM: È con un sentimento di dolente gratitudine, come di fronte a un medico onesto che ci spieghi da che male antico siamo afflitti e, più che i sintomi, gli effetti e la cura, ce ne illustri le cause, che si esce dalla sala dopo aver visto Afghanistan: Il grande gioco ed Enduring freedom. I due blocchi di spettacoli, messi in scena da Bruni e De Capitani, sono una selezione di dieci dei diciannove episodi che costituiscono il progetto più ampio, The great game. Part I; Part II; Part III, commissionato nel 2010 da Nicolas Kent, storico direttore artistico del Tricycle Theatre, a tredici drammaturghi angloamericani.
RF: Si tratta di una grande saga, un progetto importante, che fa tornare alla mente Angels in America, seppure con tutte le ovvie differenze del caso. Lì si trattava di un corpus letterario monolitico, di un’unica penna, di un’orchestrazione verbale a suo modo centralizzata e con uno sguardo dall’interno del ciclone. Qui invece l’idea è l’esatto opposto: chiedere ad una serie di drammaturghi di focalizzare l’attenzione su pezzi di storia di questa nazione dalle vicende così tormentate; l’Afghanistan ha conosciuto splendori incredibili, prossimità alla cultura occidentale, così come distanze siderali e affermazioni di radicalità violente, anche da parte dell’Occidente stesso, che ha poi preteso di “esportare” lì una democrazia di fatto estranea alla realtà tribale.
Descrivere, dunque, il tornado da fuori, raccogliendo magari qualche scoria fatta volare, per capire cosa resta. Ciò che non vediamo.
Che un teatro occidentale illuminato abbia varato un progetto così interessante è degno senz’altro di nota, e non poteva accadere in nessun altro luogo che a Londra. È proprio con l’arrivo degli inglesi in Afghanistan che si apriva Il grande gioco.
MM: Il Tricycle, da poco ristrutturato e ribattezzato con il nome di Kiln dal nuovo direttore artistico, la giovane Indhu Rubasingham, si è sempre contraddistinto nel panorama dell’offerta teatrale londinese per la sua attenzione alla nuova drammaturgia, operazione commercialmente rischiosa, ma estremamente efficace nell’intercettare ciò che alla gente interessa, ciò di cui discute e su cui è sensibile. E nel 2010 l’Occidente, militarmente impegnato da ormai quasi un decennio in Afghanistan, si interrogava di certo sul senso della sua presenza armata in un conflitto, narrato come un’epica lotta tra le forze della libertà e quelle del terrore, ma che si stava trasformando sempre di più in un buco nero che divorava vite umane e assorbiva grandi quantità di risorse economiche senza aver ancora mostrato una prospettiva di conclusione.
Nicolas Kent, in un’intervista rilasciata nel 2013, in occasione della tournée statunitense di The great game, dichiarava di aver sempre considerato il teatro come uno straordinario mezzo di comunicazione, che dà l’opportunità privilegiata, e allo stesso tempo la responsabilità, di prendere posizione contro gli aspetti della società che non piacciono e di prospettare possibilità di cambiamento. Per questa ragione il Trycicle sotto la sua direzione ha messo in scena drammi politici, citazioni e trascrizioni di discorsi o interventi istituzionali, scene giudiziarie, inchieste basate su testimonianze e dichiarazioni. Occuparsi di questioni di attualità politica o giudiziaria probabilmente espone il lavoro drammaturgico a una rapida obsolescenza, ma, contemporaneamente, ha la capacità di intercettare emozioni autentiche, preoccupazioni ed interessi reali, urgenze concrete. E questo permette al teatro, nella visione di Kent, di essere un efficace strumento pedagogico, forse, di trasformazione sociale. Ancora oggi, come nell’antica Grecia, «attraverso il dolore la conoscenza»: è questa la dura legge data da Zeus ai mortali secondo Eschilo (Agamennone), che (prima di Kent) ha attribuito all’esperienza teatrale un ruolo educativo fondamentale, perché il male e la sofferenza, messi in scena e trasformati in caratteri ben definiti e in azioni tragiche, possono guidare gli uomini nel loro rapporto con il divino e con la società, con il valore della giustizia umana e trascendente, e infine condurli ad una conoscenza più autentica di se stessi.
RF: ‘Educativo’ mi pare un concetto centrale per questo tipo di teatro. Ne avevamo già parlato in una riflessione nella quale battezzavi questo genere di visioni come sintetico-estensive. È di certo qualcosa che ha a che fare con il modo in cui apprendiamo o pretendiamo di apprendere nell’era contemporanea, in cui il tempo dell’approfondimento è lasciato a un’accademia a volte troppo distante dalla gente comune. Invece, pur nella sua robusta densità, nella sua tenacia fruitiva, Afghanistan, nelle sue due parti, è un’operazione che da un lato sintetizza un secolo e mezzo di storia, e dall’altro ambisce a rendere estensiva e più ampia l’esperienza della conoscenza, con Il grande gioco ed Enduring freedom.
Gli spettatori escono dalla sala e iniziano forse a spiegarsi qualcosa, o a farsi delle domande. Si afferra ciò che il vortice della cronaca non ci permette di fermare: una visione sinottica sui fatti, addizionata di elementi di conoscenza del passato, mescolata alla potenza poetico-rivelatrice del teatro. Lo stesso dolore de I Persiani in fondo. Capire il presente leggendo le sconfitte, gli errori, guardando la tragedia per riflettere assieme, uscendo dal vortice delle immagini dei mass media, che finiscono per ostacolare più che favorire la camprensione.
MM: Dunque da questa esigenza di offrire una cognizione del dolore di un paese, misterioso e fiabesco, fiero e resistente, indomabile ed aspro, al centro di una serie quasi ininterrotta di conflitti negli ultimi due secoli, scaturisce il progetto complessivo di The great game, che nella proposta dell’Elfo racconta in Afghanistan: Il grande gioco episodi storici del periodo 1842 – 1996, mentre in Afghanistan: Enduring freedom affronta gli anni fino al 2010.
Ciò che ha indirizzato la scelta di Bruni e De Capitani (di suo figlio Lucio la traduzione dei testi) verso la articolata struttura didattico-narrativa di The great game è il desiderio di comprendere un Afghanistan che non è più remoto e distante, ma che «ci riguarda molto da vicino» e di utilizzare la comunicazione teatrale come strumento «per sapere, per capire, per poter leggere la disperazione e la speranza negli occhi di chi è partito dalla valle del Panjshir per sedersi al nostro fianco in metropolitana».
Cinque episodi vengono proposti come nuclei narrativi e tematici intorno a cui costruire un percorso di comprensione e di senso della storia afghana: Trombe alle porte di Jalalabad, La linea di Durand e Questo è il momento affrontano gli anni dall’invasione all’indipendenza dall’autorità britannica (1842-1930); Legna per il fuoco e Minigonne a Kabul conducono invece dall’occupazione sovietica alla resistenza dei Mujahidin, con il sostegno degli USA e l’ambigua e opportunistica mediazione dei servizi segreti pakistani, fino all’occupazione di Kabul da parte dei talebani, che segna la fine del sogno di modernizzazione del paese portato avanti da Najibullah, ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan (1979-1996).
Tutti gli episodi sono introdotti da un video, dalla chiara finalità didattica, che contestualizza fatti e personaggi in un sistema di avvenimenti storici, di relazioni geopolitiche, di questioni economiche. «Assume I know nothing; this is just a briefing”» viene detto nel testo originale da Kite al professor Khan (l’episodio non è tra quelli scelti per la versione italiana del progetto), permettendogli così nella finzione scenica di parlare a tutti quelli che davvero di Afghanistan sanno poco o niente o che hanno conoscenze confuse e approssimative o che, pur sapendo, non hanno mai compreso la complessità degli interessi e delle relazioni in gioco. A questo punto la lezione del professor Khan, e nella versione italiana i video introduttivi che la rielaborano, sintetici ed incisivi allo stesso tempo, insieme agli episodi messi in scena, funzionano come un corso di storia dell’Asia Centrale, alla fine del quale ci sembra di aver imparato e capito più di quanto avremmo potuto fare a scuola.
Nato dopo un lungo triplice conflitto con gli Inglesi nel corso dell’Ottocento, e sotto la spinta della potenza occidentale, l’Afghanistan è stato spesso definito una nazione senza Stato, a causa del continuo prevalere degli interessi di consorterie tribali su quelli statali. Già nel XVII secolo il poeta pashtun Khushal Khan scriveva nella poesia La patria
Arroganza e discordia raggelano
tutta la gioia di essere venuti al mondo in questo aspro paese.
E Abdur Rahman Khan, che regnò sull’Afghanistan all’inizio del XX secolo, consapevole delle insanabili rivalità tribali tra le diverse etnie, (pashtun, tagiki, hazara, uzbeki, kirghizi, turkmeni, baluci, nur, aimaq) chiamava il paese Yaghista, “la nobile terra dei ribelli”. Ci hanno provato gli Inglesi a fare di questa terra uno Stato, ma con gli stessi tragici effetti e le stesse contraddizioni con cui gli USA hanno tentato di esportarvi la “democrazia”; quella che, nella sua variante occidentale, si connota come liberale per l’attenzione alla libertà individuale e ai diritti ad essa connessi, concetti ancora nuovi e non completamente accettati in Afghanistan e spesso in contrasto rispetto ai valori tradizionali delle etnie afghane in cui l’individuo ha valore e senso in quanto parte del più complesso sistema familiare, consortile, tribale, etnico.
RF: Mi pare sia proprio questo il passaggio fra la prima e la seconda parte, legate da un filo che sempre scorre, e che riguarda l’Afghanistan tanto quanto ogni altra comunità-stato: le diversità fra la comunità per come la vorrebbero gli altri da fuori e quella per come la vorrebbe chi la compone; il sistema aperto che è il mondo, e la maniera in cui la globalizzazione influisce sulle comunità, piccole o grandi che siano, che hanno la pretesa di chiudersi su se stesse.
A ben guardare è quello che sta succedendo anche nella nostra Europa, con le diverse nazioni che dopo aver aperto una via a un continente più aperto e condiviso, ora, in seguito al crollo del muro di Berlino e degli altri muri con il grande mondo asiatico, vedono le loro certezze, le loro ricchezze, non difese a sufficienza da un governo europeo, quindi sovra-nazionale, che nessuno sente come proprio (etichettato come “quello dei tecnocrati”).
Il dramma è che le piccole comunità componenti, sempre più frazionate – recente il caso del conflitto intra-nazionale ispanico-catalano –, hanno l’illusione che possa essere il livello nazionale, se non addirittura quello macroregionale, a consentire la tutela dei loro diritti. A difenderli dalla povertà sotto il falso vessillo dell’identità. Stiamo tornando ad una tribalità generalizzata, estremo tentativo di resistere alla desertificazione del globale, interconnesso ma spersonalizzante.
MM: Nell’episodio Il leone di Kabul – il primo di Enduring Freedom – un Mullah sostiene che gli uomini non hanno diritti come individui,
hanno diritti solo in quanto membri della comunità. Che cosa è un individuo? Un individuo è una foglia nel vento. La comunità è l’albero e può resistere alla tempesta.
E ancora in Dalla parte degli angeli, episodio centrale, una cooperante impegnata in una ONG nel contrasto alla povertà dichiara che
i diritti sono concetti individualistici e l’unica cosa che l’Afghanistan non ha, e non ha mai avuto, sono gli individui… tutti gli Afghani appartengono ad una famiglia, poi ad una tribù, e infine all’Islam.
Con lo spirito di chi vuole sapere di più sulle cause e gli eventi dell’ultimo conflitto che in Afghanistan ha visto l’intervento delle truppe USA, a capo del contingente militare NATO, contro i gruppi armati dei talebani, si assiste anche ai 5 episodi di Enduring freedom (Il leone di Kabul, Miele, Dalla parte degli angeli, Volta stellata, Come se quel freddo) che offrono uno spaccato del periodo tra il 1996 e il 2010. La reale differenza tra i due blocchi narrativi è che in Enduring freedom nessuno sa come andranno a finire le cose, tanto la vicenda era viva, pulsante e attuale nel 2010 – quando le drammaturgie sono state composte – così come purtroppo lo è ancora oggi.
RF: In questa seconda parte della saga, Alessandro Lussiana e Giulia Viana si aggiungono alla squadra dell’anno passato, composta da Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, che rinnovano un senso corale assai intenso, con il quale le singole interpretazioni si mettono al servizio di un affresco in cui non esiste l’istrione, ma parti di una polifonia della quale si ricordano, sì, le singole buone interpretazioni, ma ancor più prevale il senso complessivo della Storia.
Ecco, la cosa più interessante è che questi attori, mi pare, che prima ancora che al servizio della regia si mettano quasi al servizio della Storia, della riflessione, del punto di vista, cercando quello degli afghani nel primo gruppo di drammaturgie, e forse quello più esterno, occidentale in questo secondo. Cercando di non esprimere giudizi. Questa mi sembra anche la scelta dei drammaturghi. Che ne pensi?
MM: Non c’è certezza, si diceva, sui fatti, né soprattutto sui giudizi morali e politici dei fatti e delle loro conseguenze possibili. C’è, invece, un punto di vista narrativo molto netto ed evidente in tutti gli episodi di questa seconda parte, ed è il punto di vista degli Occidentali: che siano militari avvezzi alle missioni internazionali o soldati alla prima esperienza fuori dall’Europa o dagli USA, agenti dei servizi segreti o uomini e donne occupati nelle ONG, è sempre la loro visione del mondo a risultare centrale e dirimente.
Forse è proprio questo l’unico limite di una struttura drammaturgica tanto complessa e coraggiosa: nel suo rendere l’arte un servizio pubblico e nel suo favorire la conoscenza, essa sceglie di offrirci un punto di vista sull’Afghanistan, ma non è in grado di darci quello dell’Afghanistan. Il ricercatore svedese e traduttore di letteratura afghana, Anders Widmark, a questo proposito evidenzia che «ancora oggi, molto di ciò che viene detto e scritto sull’Afghanistan in Occidente è viziato da una prospettiva esterna sulla situazione, una storia che continua a ripetere e riformulare vecchi malintesi e generalizzazioni».
Eppure secondo Nushin Arbabzadah, curatore del volume Afghanistan in Ink: Literatures between Diaspora and Nation, l’enorme investimento degli USA e degli alleati in Afghanistan, sia in termini di dispiegamento di truppe che di assistenza economica, rende necessaria una comprensione più profonda del Paese. Ma «in Afghanistan è sempre difficile stabilire quale sia la verità… (ad esempio) oggi molti afghani considerano le forze di pace americane, canadesi, inglesi e di altre nazioni come un vero e proprio esercito di occupazione», scrive Christina Lamb, giornalista corrispondente agli affari esteri del Sunday times, autrice di The Sewing Circles of Herat: My Afghan Years.
Così nei testi che strutturano la drammaturgia di Enduring freedom non emerge abbastanza chiaramente la rabbia crescente della popolazione afghana nei confronti della comunità internazionale, la presenza della quale nel paese è simboleggiata dai Landcruiser, diventati bersaglio degli attacchi di Mullah e politici, né viene dato conto delle posizioni di quanti ritengono che le ONG internazionali sono solo «mucche che bevono il proprio latte» (prov. afghano), parassiti inutili, se non dannosi, che dovrebbero andarsene dal paese. Gli USA e i loro alleati hanno generato con le loro ricche elargizioni un’economia aleatoria senza un radicamento profondo nel territorio. Insieme alla democrazia i paesi occidentali hanno esportato il loro modello consumistico che ha subito attratto la popolazione giovane dell’Afghanistan, quasi sedotta – alcuni dicono “corrotta” – dagli elementi simbolo del nostro progresso tecnologico, primi fra tutti Internet e gli smartphone.
Gli Afghani non stimano gli Occidentali, né desiderano continuare a vedere la presenza delle potenze occidentali nel loro paese. Anche se quello che accade in Afghanistan non è più mainstream nella comunicazione globale, la guerra continua, e continua a fare morti, soprattutto civili, come nel massacro dei bimbi per il bombardamento USA all’ospedale di Kunduz; masse di sfollati e profughi continuano ogni giorno ad abbandonare la propria terra. La povertà e l’ignoranza dilagano. Aumentano le proteste contro la NATO e le truppe di occupazione tra la popolazione che è sempre più ostile alla presenza degli stranieri, gli Occidentali, considerati responsabili dell’aumento della produzione e del commercio dell’oppio, quando avrebbero dovuto sostenere la conversione delle colture agricole, o responsabili delle morti di civili inermi che avrebbero invece dovuto difendere.
RF: Ovviamente che il teatro racconti tutto questo è impresa impossibile – oltre che probabilmente inutile – da realizzare, anche perché questo è proprio quello che succede ai giorni nostri, mentre Enduring freedom si è fermato comunque alle vicende di dieci anni fa, anche se si poteva essere facili profeti su quello che sarebbe stato l’oggi. E comunque il teatro deve prendere spunto dalla storia per rileggerla attraverso lo sguardo profetico dell’arte.
E proprio forti dell’inveramento della facile profezia su quello che sarebbe successo – e che si è immancabilmente verificato –, i due registi cercano un codice che relega il tentativo di una verità umana solo ai momenti privati, affidati alle piccole pedine, lasciando invece tutti i personaggi nella loro dimensione “pubblica”, nel loro ruolo sociale, in preda a una doppiezza criminale, quale che sia la parte in causa.
Nessuno si salva da questo grande “doppio gioco” che è la Storia. Solo il microcosmo rivela le fragilità umane, l’inarrivabile solitudine degli individui, anche degli Occidentali finiti nel “videogame”, che sono poi i figli dell’America diseguale, quelli che accettano il rischio di andare al fronte per mettere qualche soldo da parte, non necessariamente poveri o della comunità nera, e che rimangono poi prigionieri dello spara-spara da cui non riescono più ad uscire.
Negli USA i militari vengono per la maggior parte dal Sud, che offre il 44% dei giovani, pur avendo il 36% della popolazione complessiva fra i 18 e i 24 anni. La differenza fra Nord e Sud si vede a occhio nudo da questo grafico tratto da uno studio di businessinsider.com.
La sindrome del soldato incapace di ritornare alla vita normale, nel centrale e drammatico episodio potentemente interpretato da Diana e Curcurù, racconta di come la guerra sia un elemento di disturbo delle menti, sconvolgente non solo per gli Afghani, ma anche per i soldati occidentali. Una recente strage compiuta da un reduce delle guerre nell’Asia islamica ha riacceso la luce della cronaca sui disturbi psico-traumatici dei reduci. Parliamo ormai di quasi 25 milioni di cittadini americani, il 7% della popolazione complessiva, che è stato coinvolto in qualche conflitto. Per molti di loro il presente è traumatico, il reinserimento nella società un miraggio.
Ben due episodi di questo secondo viaggio nell’Afghanistan di oggi si concentrano sul tema dei militari, su quello che sono al fronte e su quello che sono una volta tornati a casa. L’idea che la guerra porti tutti in una no man’s land attraversa lo spettacolo. La guerra è disumanizzante, i suoi interpreti perdono progressivamente la loro cifra identitaria. Sono foglie che comunque si staccano dall’albero.
E questa mi pare sia anche la scelta della regia, ma anche delle belle scene, in fin dei conti volutamente artefatte, finte, in stile Truman Show, create da Carlo Sala e illuminate con sapienza da Nando Frigerio: cercare di far emergere le tracce profonde del conflitto, arrivando a trarne un assoluto che vale ovunque, fino all’ultimo episodio – volutamente slegato dal resto –, in cui la disumanizzazione arriva a compimento, varcando la soglia fra la vita e la morte. La rivelazione delle ferite ineluttabili.
MM: La storia presente e futura dell’Afghanistan è ancora da scrivere, ma ha già tracce profonde che la rendono quasi prevedibile, ineluttabile, come una maledizione o un segno marchiato a fuoco sulla pelle, uno stigma trasmesso di generazione in generazione. Perciò l’immagine simbolo del progetto Afghanistan di Bruni-De Capitani, in una generale ed intenzionale umiltà di segni scenici, è forse proprio il volto di ragazza che compare nel video iniziale: un volto coperto di scritte in caratteri arabi, come nei lavori di Shirin Neshat, la performer, video artista e attivista iraniana, che in molte sue opere ci presenta volti di donna completamente ricoperti di versi in farsi di poetesse femministe; oltre la superficie si cela una realtà contraddittoria e complessa, dietro l’apparente calma si intuisce, o si spera, la rivoluzione.
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
assistente scene e costumi Roberta Monopoli
in collaborazione con Napoli Teatro Festival
con il sostegno di Fondazione Cariplo
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
assistente scene e costumi Roberta Monopoli
in collaborazione con Napoli Teatro Festival
con il sostegno di Fondazione Cariplo