FRANCO ACQUAVIVA | In che modo l’atto dello scrivere si innesta nella disciplina di un gruppo teatrale? Sappiamo quanto l’autore sia sempre una sorta di terzo incomodo alle prove. Un caso esemplare è quello raccontato in Romanzo teatrale di Bulgakov, che ci consente di entrare in pieno nell’universo frustrante (per l’autore), ma non meno sconcertante per gli attori e il regista (in questo caso gli attori del Teatro d’Arte e il demiurgo Stanislavskij), delle prove di un testo in vista dello spettacolo. È un reticolo di incomprensioni che nel caso di Bulgakov si trasforma via via in vera e propria – neanche troppo celata – ostilità. Ma Bulgakov non era un poeta di compagnia. La figura del poeta di compagnia o del drammaturgo organico in qualche modo dovrebbe scavalcare i problemi posti dalla divaricazione tra testo letterario e spettacolo e dunque tra autore e teatro materiale. Per drammaturgo organico alla fine s’intende uno che faccia parte del gruppo e della sua vita quotidiana.
Come tutto questo ha a che fare con il lavoro del Teatro delle Albe? Nel libro di Maria Dolores Pesce dedicato al drammaturgo Marco Martinelli – Marco Martinelli. Un drammaturgo corsaro, Editoria & Spettacolo, 2018 – veniamo istradati in una storia teatrale che è di già Storia del Teatro, italiano e non solo – a giudicare anche dai recenti riconoscimenti tributati a Martinelli e a Ermanna Montanari negli Stati Uniti – sulle tracce di una vocazione che si manifesta in modi e luoghi alieni da ogni accademismo formale.
Modi: la storia delle Albe, almeno agli inizi, che la Pesce molto bene ripercorre, è la storia di una coppia e di un destino comune che affratella da subito i due artisti di punta della compagnia ravennate, in un rapporto inestricabile di arte/vita che poi andrà coinvolgendo l’altro polo di questo magnete artistico di inesauribile carica: Gigio Dadina e Marcella Nonni. Luoghi: la storia delle Albe, pur con la sua fase universitaria tutta bolognese, comincia e prosegue in provincia, tra Bagnacavallo e Ravenna.
Ma una delle domande che percorre il libro, per riprendere dal nostro incipit, va proprio a indagare il particolarissimo rapporto che la scrittura di Martinelli intrattiene con la pratica artistica della compagnia. Compagnia che nasce con quella carica di utopia caratteristica di fine anni Settanta primi Ottanta del XX secolo, e che pure si distingue dalle tendenze dominanti all’epoca per la propensione a un teatro dove il testo rimane un elemento fondante – anche se nei primi spettacoli, in specie nella trilogia dedicata a Philip K. Dick «la scena è dunque ancora il baricentro della creazione, una scena cui il testo è per così dire “tributario”» – mentre proprio di quegli anni era la tendenza a praticare e teorizzare un “teatro-che-fa-a-meno-dei-testi”.
Tuttavia, da quei primi tre lavori prende vita «una gemmazione di esperienze che vedono, a lato dell’attività registica, crescere l’esigenza, già in nuce, di fermare e consolidare l’esperienza creativa nel ‘testo’».
Ma questa specificità delle prime Albe prende poi forme inconsuete. Partendo dalla distinzione canonica che vede il drammaturgo in posizione in qualche modo antagonistica rispetto al regista – che nella tradizione italiana di matrice crociana si accentua poi nel dissidio tra autore e spettacolo o tra intuizione artistica del poeta inverata nel testo e sua traduzione, e per forza di cose tradimento, nella materialità concreta della messa in scena – la Pesce introduce nella sua trattazione il concetto di Dramaturg. Il Dramaturg, presente specialmente nella tradizione teatrale europea, soprattutto tedesca e anglosassone, nella quale è una figura istituzionale, è colui che s’incarica di mediare tra autore e regista, facendosi garante delle esigenze di entrambi. Il cortocircuito qui è dato dal fatto che Martinelli sembra proprio riunire nella propria prassi le tre figure autorali. Egli è sia inventore di testi, sia adattatore degli stessi per la scena, sia regista dei suo spettacoli. Ma tutto questo accade come all’inverso: qui la direzione della progressione non è dal testo alla scena, ma dalla scena al testo. Cioè la drammaturgia di Martinelli, sia quando è originale che quando è costruita a partire da opere di altri autori, è una triangolazione che parte dal rapporto con la materialità della scena che tutta la compagnia incarna: attori, tecnici, costumisti, scenografi, tutti uniti a formare un articolato tessuto di stimoli-risposta da cui la creatività del drammaturgo si muove per la scrittura.
Processo questo che può conoscere una singolare forma di intensificazione e dunque di irradiazione nel tempo perché si attua nel contesto di un gruppo dove il nucleo artistico è rimasto grosso modo stabile nel tempo: se si parla di compagnia, qui si parla in fondo anche di micro-società degli attori (espressione tuttavia non utilizzata dalla studiosa, che introduciamo qui per spiegarci meglio). Un gruppo i cui membri non sono cambiati nel corso dei lunghi anni di vita del teatro, così da creare un sistema complesso dove l’etica comunitaria del lavoro (per esempio le paghe uguali per tutti a prescindere dal ruolo), il comune orizzonte progettuale, la condivisione di una prospettiva anche esistenziale, hanno creato uno straordinario e complesso organismo vivente. È a partire dalla vita di questo tipo di gruppo, dalle dinamiche ideative autorali che si incarnano in una prassi attoriale dove le biografie stesse degli attori “storici” (Montanari, Dadina) fanno come da reagente alchemico nella costruzione dei ruoli, che Martinelli si muove per dare vita alle sue drammaturgie: «è quindi una scrittura che distilla una presenza scenica […], una presenza in cui si stratificano le storie esistenziali di ciascuno ed emergono i ricordi, anche quelli persi per strada, e le aspettative, anche quelle più segrete».
Il testo così costruito, sarà il frutto di una «scrittura, tra l’altro, in grado anche di capitalizzare, dal punto di vista letterario, il plus-valore prodotto dal lavoro di tutti», e sarà scritto in «una lingua che deve essere detta in scena, ove trova il luogo della sua potenza, ma insieme diventa una lingua letteraria che può essere ripetuta e capita nel silenzio della lettura».
Del resto, sia detto per inciso, a latere delle argomentazioni della studiosa, alla prova dei fatti è innegabile la forza intrinseca dei testi di Martinelli anche alla lettura su pagina. Ben percepibile per esempio nell’ultima pubblicazione del drammaturgo: il testo dello spettacolo Va pensiero, edito qualche mese fa da Cue Press, (qui la recensione PAC) dove la forza di un teatro-cronaca poetico ed epico si appoggia al tratto grottesco dei suoi personaggi, ispirati ai protagonisti di un fatto di cronaca esemplare di una certa collusione tra politica territoriale e criminalità organizzata
(un fatto di corruzione nella pubblica amministrazione di un paese della Romagna ad opera della mafia calabrese), in una scrittura che prevede la scena, i movimenti di servizio, le luci, le musiche, l’intervento del coro operistico senza mai perdere di tensione drammatica, inoltre manifestando al suo interno, per lampi, per immagini, come una dimensione lirica di cupa profezia, di fato implacabile, di hybris.
La seconda parte del libro della Pesce comprende un excursus sugli spettacoli delle Albe visti sempre dalla particolare angolazione della drammaturgia di Martinelli, sia in relazione al lavoro del gruppo che al contesto o, meglio, ai contesti a esso esterni cui di volta in volta il gruppo si apre. C’è il confronto con gli attori africani, nello spettacolo Ruh. Romagna più Africa uguale, ri-scoperta di un’antica radice teatrale («valori arlecchineschi primitivi, finalmente originari» così Meldolesi, ivi citato) compiuta a partire da un’ironica provocazione su base scientifica, che consiste nella scoperta, dimostrata, di una parentela geologica tra terra di Romagna e terra d’Africa, esemplificata però teatralmente dall’apporto degli attori senegalesi incontrati sulle strade, o meglio sulle spiagge della riviera – i cosiddetti vu cumprà. Un’operazione che incarna un’idea di teatro aperto all’altro, in questo caso all’altro da sé radicalmente diverso per cultura ed etnia, in un confronto vero e vissuto, che diventa poi l’avvio di un lungo sodalizio successivo. Ci, poi, sono il lavoro della non-scuola con gli studenti degli istituti superiori e quello con i giovani attori dello spettacolo I polacchi; ma anche quello con la stessa città, Ravenna, sede dei teatri (l’Alighieri e il Rasi) che il gruppo, fondendosi con la compagnia Drammatico Vegetale, gestirà a partire dal 1991.
Tutte aperture coraggiose queste, vissute a partire da una coerente prassi di gruppo intesa anche come «una difesa e uno scudo, per impedire che l’accesso a nuovi luoghi e a nuovi orizzonti modificasse quella sincera coscienza, quell’ingenuità molieriana, quella autenticità dionisiaca che quei luoghi e quegli orizzonti aveva consentito di aprire, ma che offrivano, come sirene, l’ozio di una globalizzazione passiva, senza radici e dunque senza responsabilità». Perché «stare con l’altro significa per le Albe soprattutto consolidare la propria coscienza singola e collettivamente vissuta così che condividere il proprio sguardo non sia un tradimento ma, all’opposto, la costruzione di un legame più solido e più elevato».
Per giungere, infine, al contemporaneo declinarsi di questa dialettica interno/esterno in un rinnovato rapporto con la propria città, quella Ravenna che per la prima parte della trilogia tratta dal poema dantesco, di recentissima realizzazione, ha visto e vedrà, per le due successive fasi, tutto il tessuto urbano interessato alla messa in scena itinerante, preparata da una “chiamata pubblica” rivolta ai cittadini: «ritorna infatti l’assillo delle Albe per lo stato della comunità in cui sono immersi, per una polis, nel senso complesso e completo che per loro ha questo termine, che è sempre più difficile identificare e rintracciare».
Il libro della Pesce percorre un iter complesso e articolato senza mai perdere di vista il punto focale della drammaturgia di Martinelli in seno alle Albe, e impregna la minuziosa ricostruzione e riflessione con una contagiosa passione per l’oggetto della sua ricerca. È un «teatro della ‘Felicità’» quello delle Albe, sostiene la studiosa, un teatro che ha la «capacità di germogliare nella e attraverso la relazione con l’altro» e «di fecondare vecchie e nuove situazioni». Un teatro da Martinelli e Montanari stessi definito «come una messa in vita, cioè come la capacità di far di nuovo germogliare, dopo l’inverno dell’abbandono e del tradimento in nome del mercato e del museo, le radici della rappresentazione, alimentandoli con il loro essere, oggi come allora, asini» (inteso nel senso di Giordano Bruno, vero genio ispiratore del lavoro del gruppo ndr), fastidiosi ma illuminanti e capaci di riscattarci».
Qui una retrospettiva di PAC sui vent’anni di attività del Teatro delle Albe.